Copertina
Autore Ben Goldacre
Titolo La cattiva scienza
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2009, Presente storico , pag. 298, cop.fle., dim. 15,5x23x2 cm , Isbn 978-88-6159-303-9
OriginaleBad Science [2008]
TraduttoreRoberta Zuppet
LettoreCorrado Leonardo, 2009
Classe media , scienze improbabili , medicina , salute
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Indice


  1  Introduzione

  7  1. L'argomento

 19  2. Brain Gym

 27  3. Il complesso Progenium XY

 35  4. L'omeopatia

 69  5. L'effetto placebo

 93  6. L'assurdità del momento

119  7. «Scoperta la pillola capace di risolvere
        un complesso problema sociale»

145  8. La medicina tradizionale è malvagia?

171  9. Come i media favoriscono la disinformazione scientifica

189 10. Perché le persone intelligenti credono alle cose stupide

203 11. Le cattive statistiche

225 12. Gli allarmismi sanitari

237 13. La bufala mediatica del vaccino trivalente

281 Un'altra cosa

289 Bibliografia e ringraziamenti

291 Note


 

 

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Pagina 1

Introduzione


Lasciatemi spiegare la gravità della situazione. I bambini si sentono ripetere ogni giorno — dai propri insegnanti, in migliaia di scuole statali, per esempio in Gran Bretagna — che, muovendo la testa su e giù, è possibile stimolare l'afflusso di sangue al lobo frontale e dunque migliorare la concentrazione; che strofinare le dita tra loro in un certo modo aumenta il "flusso di energia" nel corpo; che gli alimenti trattati non contengono acqua; che tenere un sorso d'acqua sulla lingua è utile per idratare il cervello direttamente attraverso il palato. Tutto ciò avviene nel contesto di uno speciale programma di esercizi detto "Brain Gym" [ginnastica cerebrale], cui dedicheremo un po' di tempo, soffermandoci soprattutto sugli idioti che ne sono fautori all'interno del sistema scolastico pubblico.

Questo libro non è tuttavia una raccolta di banali assurdità. Segue un crescendo naturale, dalla stupidità dei ciarlatani alla fiducia che i media più popolari accordano loro, passando per gli stratagemmi adottati dalle aziende produttrici di integratori alimentari (un business da oltre trentuno miliardi di euro), per i danni causati dalle case farmaceutiche (un settore che vale più di trecentotredici miliardi di euro) e per la tragedia dell'informazione scientifica, giù fino a coloro che hanno perso la libertà, la reputazione o addirittura la vita semplicemente a causa dell'errata interpretazione di prove e dati statistici che dilaga nella nostra società.

Cinquant'anni fa, all'epoca della famosa conferenza di C.P. Snow sulle "due culture" , i laureati in discipline umanistiche si limitavano a ignorare gli scienziati e i medici; questi ultimi si ritrovano oggi sbaragliati da un folto esercito di individui che si sentono in diritto di esprimere giudizi sulle prove di efficacia — un'aspirazione di per sé ammirevole — senza prendersi il disturbo di comprendere almeno i termini fondamentali dei problemi.

A scuola si sarà sentito parlare di sostanze chimiche e provette, di equazioni per descrivere il moto e forse anche della fotosintesi — su cui torneremo più avanti —, ma con molta probabilità nessuno avrà detto nulla della morte, del rischio, delle statistiche e del fondamento scientifico di ciò che può uccidere o guarire. La lacuna nella nostra cultira è enorme: la medicina basata sulle prove di efficacia o evidenze — quella che all'esperienza clinica associa lo studio delle prove derivanti dalla ricerca clinica —, il non plus ultra della scienza applicata, vanta alcune delle idee più brillanti degli ultimi due secoli e ha salvato milioni di vite, ma i musei della scienza non le hanno mai dedicato una mostra.

Ciò non dipende da uno scarso interesse, visto che siamo ossessionati dalla salute — metà dei servizi scientifici proposti dai media è di argomento medico — e veniamo bombardati senza sosta da notizie e messaggi di carattere scientifico. Eppure, come vedremo in seguito, traiamo quelle informazioni dalle stesse persone che hanno dato ripetutamente prova della loro incapacità di leggere, interpretare e riferire in modo attendibile dati scientifici sperimentali.

È opportuno innanzi tutto circoscrivere il territorio della nostra indagine.

Cominceremo con il capire che cosa significa condurre un esperimento, vederne i risultati con i nostri occhi e stabilire se tali risultati confermino una determinata teoria oppure se esista un'alternativa più convincente. Si potrà obiettare a questo modo di procedere iniziale ritenendolo infantile o paternalistico; gli esempi che forniamo sono certamente assurdi, ma sono stati avvalorati con credulità e grande sicurezza dai media più popolari. Esamineremo la forza di persuasione delle fandonie pseudoscientifiche sul nostro fisico e la confusione che possono generare.

Passeremo quindi all'omeopatia, non perché sia importante o pericolosa — non lo è —, bensì perché è il modello perfetto per illustrare la medicina basata sulle prove di efficacia: le compresse omeopatiche non sono che innocue pilloline a base di zucchero, dall'efficacia apparente, e dunque riassumono tutto ciò che occorre sapere sui "test obiettivi" cui dev'essere sottoposta una terapia e su come si è indotti a credere che un dato intervento sia più valido di quanto non sia in realtà. Si imparerà come eseguire correttamente un esperimento e come riconoscerne uno scorretto. Sullo sfondo si nasconde l'effetto placebo, forse l'aspetto più affascinante e incompreso della medicina umana, che va ben oltre una semplice pillola di zucchero: è bizzarro, è controintuitivo, è la vera storia del rapporto di reciproca dipendenza tra mente e corpo ed è assai più interessante di qualsiasi fandonia sulle presunte virtù terapeutiche dell'energia quantistica. Una volta considerate le prove della sua efficacia, non sarà difficile trarre le debite conclusioni.

Ci occuperemo infine delle questioni fondamentali. I nutrizionisti sono terapeuti alternativi, ma in qualche modo sono riusciti a spacciarsi per uomini e donne di scienza. I loro errori sono molto più interessanti di quelli degli omeopati, perché contengono un fondo di verità scientifica, e ciò li rende anche più deleteri, poiché la vera minaccia rappresentata da questi mistificatori non è tanto la possibilità che i loro clienti muoiano (può succedere, ma non è il caso di battere su questo tasto), quanto la volontà sistematica di impedire al pubblico di comprendere la reale natura delle prove.

Ci concentreremo sui trucchi retorici e sugli spropositi da dilettanti che ci hanno inondati di informazioni sbagliate sul cibo e sull'alimentazione, osservando sia il modo in cui questa nuova industria ci distrae dai veri fattori di rischio per la salute, sia il suo influsso (più impercettibile ma altrettanto allarmante) sulla visione di noi stessi e del nostro corpo, influsso dovuto per lo più al diffuso tentativo di medicalizzare i problemi sociali e politici, riducendoli al contesto biomedico e proponendo contro di essi improbabili soluzioni commerciali, soprattutto sotto forma di pillole e diete strambe. Dimostrerò come, accanto ad autentiche ricerche accademiche sulla nutrizione, nelle università britanniche si stia insinuando un'avanguardia di sorprendente incompetenza. Applicheremo poi i medesimi strumenti alla medicina vera e propria, e studieremo le astuzie usate dal settore farmaceutico per gettare fumo negli occhi di medici e pazienti.

Osserveremo quindi come i media favoriscano la mancata comprensione della scienza da parte del pubblico, esaminandone la profonda ignoranza circa i dati sperimentali e le statistiche e l'autentica passione per le non-notizie prive di fondamento, esattamente il contrario degli elementi che stanno alla base del fare scienza: non lasciarsi fuorviare dai pregiudizi e dalle esperienze frammentarie. Infine, nella parte del libro che considero più preoccupante, vedremo come individui in posizioni di grande potere, persone che non dovrebbero essere così sprovvedute, commettano ancora sbagli madornali dalle conseguenze gravissime; vedremo inoltre come, in due casi specifici, il travisamento cinico e allarmistico dei dati sperimentali da parte dei media sia sfociato in estremi pericolosi e, francamente, grotteschi. Man mano che procederemo, i lettori saranno invitati a notare quanto siano numerosi gli episodi di questo tipo, ma anche a domandarsi che cosa fare per contrastarli.

È impossibile usare argomenti razionali per convincere qualcuno dell'infondatezza di una posizione che non abbia assunto a partire da basi razionali. Completata la lettura, tuttavia, si saranno acquisiti tutti gli strumenti necessari per sostenere con successo – o almeno comprendendone i reali termini – qualunque discussione si decida di intavolare, che riguardi cure miracolose, il vaccino trivalente, i danni provocati dalle multinazionali farmaceutiche, la probabilità che un dato ortaggio prevenga il cancro, lo scadimento culturale dell'informazione scientifica, gli allarmismi inutili in materia di salute, i meriti delle prove aneddotiche, il rapporto tra corpo e mente, la scienza dell'irrazionalità, la medicalizzazione della vita quotidiana e via discorrendo. Si saranno passate in rassegna le prove di alcuni raggiri molto frequenti, ma nel frattempo si saranno anche apprese molte preziose nozioni sulla ricerca, sui vari livelli di dati sperimentali, sulla distorsione dei dati, sulle statistiche (nulla di preoccupante), nonché sulla storia della scienza, dei movimenti antiscientifici e della ciarlataneria, lasciandosi affascinare da alcune delle storie più straordinarie che le scienze naturali possano raccontarci sul mondo.

Non sarà per nulla difficile, perché questa è l'unica lezione di scienze in cui posso garantire che a fare gli errori più stupidi non saranno i lettori. E se alla fine non mi si potrà ancora dare ragione, si avrà almeno la consolazione di continuare ad avere torto con molto più stile ed eleganza di prima.

Ben Goldacre, luglio 2008

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Se non è scienza, che cos'è?


Scoprite se bere urina, restare in equilibrio sulle cenge di una montagna e sollevare pesi con i genitali ha davvero cambiato la loro vita per sempre.

Extreme Celebrity Detox, Channel 4


Questi sono gli estremi più assurdi dei programmi di disintossicazione, ma parlano del mercato in generale, delle pillole antiossidanti, dei beveroni, dei libri, dei centrifugati, dei "programmi" in cinque giorni, dei tubi infilati nel sedere e di noiose trasmissioni televisive: tutti aspetti che stroncheremo in seguito, per lo più nel capitolo sul nutrizionismo. Nel caso della disintossicazione, tuttavia, è all'opera un altro fattore importante, che non credo sia possibile liquidare con un "tutte stupidaggini".

Il fenomeno della disintossicazione è interessante perché è una delle più grandiose innovazioni proposte da esperti di marketing, guru del lifestyle e dispensatori di terapie alternative: l'invenzione di un processo fisiologico completamente nuovo. In termini di biochimica umana fondamentale, la disintossicazione è un concetto privo di senso, che non rivela i segreti della natura. I manuali di medicina non dicono nulla dell'"apparato disintossicante". Che la birra e gli hamburger possano avere effetti negativi sull'organismo è sicuramente vero, per varie ragioni, ma l'idea secondo cui lasciano un residuo specifico, che può essere espulso grazie a un processo specifico, grazie a un apparato fisiologico con funzioni disintossicanti, è una trovata del marketing.

Se si guarda un diagramma di flusso del metabolismo – uno di quei giganteschi grafici di tutte le molecole del corpo umano, che spiegano come il cibo viene scisso nei suoi componenti, come questi componenti vengono trasformati uno nell'altro e come quei nuovi mattoni vengono assemblati per costruire muscoli, ossa, lingua, bile, sudore, caccole, capelli, pelle, sperma, cervello e tutto ciò che rende tale un individuo – è difficile distinguere qualcosa che si possa denominare "apparato disintossicante".

Essendo priva di significato scientifico, la disintossicazione è molto più semplice da comprendere come prodotto culturale. Come tutte le migliori invenzioni pseudoscientifiche, mescola volutamente utili principi di buonsenso con una serie di strambe fantasie medicalizzate. Per certi versi, la misura in cui la si sottoscrive indica quanto si sia inclini a drammatizzare la propria situazione o, in termini meno drastici, quanto si apprezzino i rituali nella vita quotidiana. Quando sono reduce da un periodo di gozzoviglie, feste, cibi pronti e privazione del sonno, di solito, alla fine, decido di concedermi un po' di riposo. Così rimango a casa per qualche sera, leggo un buon libro e mangio più insalata del consueto. Invece, le modelle e le celebrità "si disintossicano".

Occorre essere molto chiari su un punto, perché si tratta di un motivo ricorrente in tutto il mondo della cattiva scienza. Non c'è nulla di male nel seguire una dieta sana ed evitare fattori di rischio come l'abuso di alcol, ma la disintossicazione non ha nulla a che vedere con tutto questo: propone infatti rimedi provvisori, nati come soluzioni a breve termine, mentre i fattori di rischio per la salute si ripercuotono su tutta la vita. Sono tuttavia disposto ad ammettere che alcuni individui possono seguire un programma di disintossicazione in cinque giorni e ricordare (o persino imparare) quanto sia importante mangiare la verdura, e su questo non ho nulla da ridire.

L'errore è fingere che quei rituali abbiano una base scientifica, o addirittura che siano nuovi. Quasi tutte le religioni e le culture hanno un rituale di purificazione o astinenza, con digiuni, cambiamenti di dieta, abluzioni o altri tipi di comportamenti, per lo più intrisi di superstizione. Questi elementi non vengono presentati come scienza, perché derivano da un'epoca precedente all'ingresso dei termini scientifici nel lessico, ma lo Yom Kippur ebraico, il Ramadan islamico e altre consuetudini analoghe nel cristianesimo, nell'induismo, nella fede baha'i, nel buddismo e nel giainismo sono tutti imperniati (tra l'altro) sull'astinenza e sulla purificazione. Quei rituali, come i regimi disintossicanti, si contraddistinguono per una severità palese e – anche secondo alcuni credenti, ne sono certo – eccessiva. Se osservati con rigore, i digiuni induisti, per esempio, durano dal tramonto del giorno precedente a quarantotto minuti dopo l'alba del successivo.

La purificazione e la redenzione sono motivi così frequenti perché il loro bisogno è innegabile e onnipresente: tutti compiamo azioni riprovevoli a causa delle circostanze, e spesso inventiamo nuovi rituali in risposta a nuove circostanze. In Angola e in Mozambico le cerimonie di purificazione sono nate per i bambini colpiti dalla guerra, in particolare per gli ex bambini soldato. Sono cerimonie di risanamento, durante le quali il bambino viene purgato e purificato dal peccato e dalla colpa, dalla "contaminazione" della guerra e della morte (per ovvie ragioni, la contaminazione è una metafora diffusa in tutte le culture); il bambino viene anche protetto dalle conseguenze della sua condotta precedente, cioè dalle possibili ritorsioni degli spiriti vendicatori di coloro che ha ucciso.

Questi rituali di purificazione per i bambini soldato ricordano quelli che gli antropologi chiamano riti di passaggio. In altre parole, il bambino subisce un cambiamento simbolico di stato, trasformandosi da individuo che è esistito in una realtà sanzionata di violazione o sospensione delle norme (cioè l'omicidio e la guerra) in individuo che ora deve vivere in una realtà di comportamento pacifico e norme sociali, conformandosi a esse.


Non credo di essermi spinto più in là del dovuto. Nel cosiddetto mondo occidentale sviluppato cerchiamo la redenzione e la purificazione dai nostri stravizi materiali estremi: ci imbottiamo di farmaci, alcolici, pessimo cibo e altre porcherie, sappiamo che è sbagliato e cerchiamo una protezione ritualistica dalle conseguenze, un "rito di passaggio" pubblico che celebri il nostro ritorno a norme comportamentali più sane.

Questi rituali e queste diete di purificazione sono sempre stati un prodotto del loro tempo e del loro luogo e, ora che la scienza è il contesto esplicativo prevalente per il mondo naturale e morale, per il bene e il male, non c'è da stupirsi se applichiamo alla nostra redenzione un'imbastardita giustificazione pseudoscientifica. Come tante assurdità della cattiva scienza, la pseudoscienza della "disintossicazione" non è qualcosa che si subisce a opera di estranei avidi e pronti a sfruttarci, bensì un prodotto culturale, un motivo ricorrente, che si fa a se stessi.

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Pagina 35

4. L'omeopatia


Prima di addentrarci nell'argomento più scottante è necessario chiarire un punto: nonostante le apparenze, non subisco il fascino della cosiddetta medicina complementare e alternativa (una riformulazione linguistica già di per sé discutibile). Mi interessano il ruolo della medicina, le nostre convinzioni riguardo il corpo e il processo di guarigione, e — nella mia pratica quotidiana — mi appassiona la complessità dei modi in cui si possono raccogliere dati sui rischi e sui benefici di un determinato approccio.

In tutto questo l'omeopatia non sarà altro che lo strumento di cui ci serviremo.

Affrontiamo ora una delle questioni più importanti in ambito scientifico: come si fa a sapere se un metodo funziona? Che si tratti di una crema per il viso, di una cura disintossicante, di una compressa vitaminica, di un programma di sostegno ai genitori, di un medicinale contro l'infarto o di un esercizio da eseguire a scuola, le capacità messe in campo per valutare un intervento sono sempre le stesse. C'è un semplice motivo per cui l'omeopatia è l'espediente didattico più valido per la medicina basata sulle prove di efficacia: gli omeopati distribuiscono pilloline di zucchero, e le pillole sono l'oggetto di studio più facile al mondo.

Alla fine di questo capitolo si sarà acquisita una conoscenza della medicina basata sulle prove di efficacia e della progettazione degli esperimenti più approfondita di quella di cui dispone mediamente un medico. Scopriremo che i test possono andare male e dare esiti falsamente positivi, capiremo come funziona l'effetto placebo e perché si tende a sopravvalutare l'efficacia delle pillole. E, ancora più importante, vedremo anche come l'industria della medicina alternativa crea, alimenta e tiene in vita un mito legato alla salute, usando con il grande pubblico gli stessi trucchi che le multinazionali farmaceutiche adoperano con i medici. Ci occuperemo dunque di un tema molto più vasto della semplice omeopatia.


Che cos'è l'omeopatia?

L'omeopatia è forse l'esempio paradigmatico di che cosa sia una terapia alternativa: vanta un antico retaggio storico, ma è pronta a riscrivere la sua storia in base alle esigenze di immagine di volta in volta diverse del mercato contemporaneo; pur avvalendosi di un'elaborata cornice dall'aura scientifica per descrivere il proprio funzionamento, non dispone di prove scientifiche che ne dimostrino la veridicità; i suoi fautori sono pronti ad assicurare che le pillole fanno stare meglio, quando, invece, sono state oggetto di innumerevoli, scrupolosi studi sperimentali, senza mai dare risultati migliori di un placebo.

L'omeopatia deve la propria origine al medico tedesco Samuel Hahnemann (1755-1843). In un'epoca in cui la medicina faceva quasi esclusivamente ricorso a purghe, salassi e altri interventi inefficaci e pericolosi, e le nuove cure erano inventate da personaggi di arbitraria autorità che si definivano "medici" — spesso privi del sostegno di dati oggettivi —, probabilmente l'omeopatia non sarà apparsa del tutto insensata.

Le teorie di Hahnemann si distinsero da quelle dei contemporanei perché un giorno decise — e qui non si saprebbe proprio quale altra parola usare — che se avesse trovato una sostanza in grado di indurre i sintomi di una malattia in un individuo sano, allora avrebbe potuto utilizzarla per curare gli stessi sintomi in un malato. Il suo primo rimedio omeopatico fu la corteccia di Cinchona, proposta come trattamento antimalarico. Hahnemann ne assunse una dose considerevole e osservò sintomi che giudicò simili a quelli della malaria:

I piedi e le punte delle dita mi si raffreddarono all'improvviso; mi sentii fiacco e insonnolito; il cuore cominciò a palpitarmi; il polso si fece forte e rapido; fui assalito dal tremore e da un'ansia intollerabile [...] prostrazione [...] pulsazioni alla testa, arrossamento alle guance e un'arsura insopportabile [...] febbre intermittente [...] torpore [...] rigidità [...].

Hahnemann diede per scontato che chiunque assumesse la Cinchona avrebbe riscontrato quei sintomi (anche se forse la sua non fu che una reazione idiosincratica) e, soprattutto, decise che se avesse somministrato una minuscola quantità di corteccia a un individuo affetto da malaria il rimedio avrebbe contrastato i disturbi anziché causarli. La teoria secondo cui «il simile cura il simile» che Hahnemann enunciò quel giorno è, in sostanza, il primo principio dell'omeopatia.

Prescrivere erbe e preparati chimici non è esente da rischi, perché queste sostanze possono avere effetti concreti sull'organismo (inducono i sintomi, come aveva intuito Hahnemann). Il medico risolse tuttavia il problema con la sua seconda grande ispirazione, e con quella che oggi moltissimi considererebbero la principale caratteristica dell'omeopatia: decise — ancora una volta, questa è l'unica parola che definisce il suo operato — che, diluendo una sostanza, se ne «dinamizzava» la capacità di curare i sintomi, «sviluppando» le sue «energie terapeutiche [...] e quasi spirituali», e nello stesso tempo, con un pizzico di fortuna, se ne riducevano anche gli effetti collaterali. Anzi, si spinse fino ad affermare che più si diluiva una sostanza, più quest'ultima diventava efficace nel contrastare i sintomi che altrimenti avrebbe provocato.

Non erano tuttavia sufficienti semplici diluizioni. Hahnemann stabilì che il processo andava eseguito in un modo assolutamente speciale, con un certo riguardo per l'identità della marca, o una certa consapevolezza del rituale e delle circostanze: inventò allora un procedimento che definì «succussione». A ogni diluizione occorreva agitare il recipiente di vetro contenente il rimedio, sbattendolo con vigore per dieci volte contro «un oggetto duro ma elastico». A questo scopo Hahnemann si fece fare da un sellaio un'apposita tavoletta di legno, imbottita di crine di cavallo e rivestita di cuoio su un lato. I produttori di pasticche omeopatiche adottano tuttora l'accorgimento dei dieci colpi, affidandolo talvolta a complessi robot appositamente progettati.

Nel corso degli anni gli omeopati hanno sviluppato una vasta gamma di rimedi, e questo processo ha assunto il nome, piuttosto ambizioso, di "sperimentazione" (dal tedesco Prüfung). Un gruppo di volontari, variabile per composizione da una sola persona a una ventina di individui, si riunisce e prende sei dosi del rimedio da "sperimentare", in diverse diluizioni, nell'arco di due giorni, tenendo un diario delle proprie sensazioni fisiche, mentali ed emotive, compresi i sogni. Alla fine il "maestro sperimentatore" raduna le informazioni raccolte, e questo lungo elenco di sogni e manifestazioni privo di sistematicità, frutto dell'esperienza di un modesto numero di soggetti, diventa il "quadro sintomatico" del rimedio, scritto in un librone e venerato, in alcuni casi, per l'eternità. Quando si va da un omeopata, quest'ultimo cerca di abbinare i disturbi del paziente a quelli causati da un rimedio durante una sperimentazione.

Questo sistema presenta alcuni problemi evidenti. Tanto per cominciare, non si può sapere con certezza se le esperienze vissute dagli "sperimentatori" siano riconducibili alla sostanza assunta o a fattori del tutto estranei. Potrebbe in realtà trattarsi di un effetto "nocebo", il contrario del placebo, in cui le persone stanno male perché se lo aspettano (c'è da scommettere che in questo preciso istante a qualcuno verrebbe la nausea se gli rivelassi alcune sgradevoli verità su come è stato preparato l'ultimo piatto pronto che ha consumato); potrebbe trattarsi di una forma di isteria collettiva (come quando qualcuno suggerisce: «Ci sono pulci su questo divano?»); un soggetto potrebbe essere stato colpito da un mal di pancia che gli sarebbe venuto indipendentemente dalla sostanza assunta; oppure i membri del gruppo potrebbero essersi buscati tutti lo stesso lieve raffreddore e via discorrendo.

Gli omeopati, tuttavia, sono stati molto abili nel commercializzare queste "sperimentazioni" come indagini scientifiche inconfutabili. Se si visitano i siti delle varie associazioni che si occupano di omeopatia si legge, insieme ad altre astruserie sui rimedi omeopatici, che le sperimentazioni di Hahnemann vengono spacciate per "test clinici". Com'è ormai noto, non si possono considerare tali, anche se questi travisamenti sono tutt'altro che isolati.

Hahnemann professava, anzi raccomandava, un'assoluta ignoranza dei processi fisiologici in atto nell'organismo: trattava il corpo come un oggetto avvolto nel mistero, con farmaci che vi entravano ed effetti che ne uscivano, e propagandava solo i dati empirici, l'azione del farmaco sui sintomi («Soltanto i sintomi nella loro totalità [...] devono costituire l'essenziale [...] e rappresentare l'unico momento che può determinare la scelta del rimedio più adatto», afferma).

Questa concezione è agli antipodi della retorica abbracciata dai moderni terapisti alternativi, secondo cui «la medicina cura solo i sintomi, mentre noi ne individuiamo e ne curiamo la causa». Oggi che furoreggia lo slogan "naturale è bello", può essere interessante notare che Hahnemann non si espresse sulla "naturalità" dell'omeopatia e teneva alla sua reputazione di uomo di scienza.

Ai suoi tempi la medicina convenzionale era ossessionata dalla teoria ed era estremamente orgogliosa di aver fondato la propria pratica su una conoscenza "razionale" dell'anatomia e dei meccanismi fisiologici. I medici del XVIII secolo schernivano gli omeopati accusandoli di «mero empirismo», di eccessiva fiducia nelle testimonianze dei pazienti guariti. Oggi la situazione pare essersi capovolta: la professione medica è spesso felice di ignorare il meccanismo del funzionamento nei minimi particolari, purché i dati dei test dimostrino l'efficacia dei trattamenti (la tendenza è infatti ad abbandonare le terapie inutili), mentre gli omeopati si basano esclusivamente su teorie strampalate e trascurano le innumerevoli prove empiriche che ne negano la validità.

Forse si tratta di un fenomeno secondario, ma questi sottili cambiamenti di accenti e gerarchie d'importanza possono essere rivelatori.


Il problema della diluizione

Prima di addentrarsi oltre nell'argomento e di stabilire se l'omeopatia funzioni oppure no, occorre risolvere un problema fondamentale.

Come ormai è risaputo, i rimedi omeopatici vengono diluiti a tal punto che la dose da assumere non contiene più alcuna molecola attiva. La diluizione consueta è 30C, cioè la sostanza originale è allungata di una goccia su cento, per trenta volte.

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Si prenda dunque il gruppo di soggetti usciti da un ambulatorio di omeopatia, si scambino metà delle pillole con placebo e si misurino i miglioramenti. Quello appena descritto è l'iter di uno studio sperimentale controllato con placebo sulle pillole omeopatiche, e non una discussione ipotetica: l'omeopatia è stata sottoposta a test di questo genere, e sembra che nel complesso non sia più efficace del placebo.

Sarà tuttavia capitato di sentir parlare gli omeopati dell'esistenza di studi positivi, magari accompagnati da qualche citazione. Che cosa significa? La risposta è affascinante e ci conduce diritti al cuore della medicina basata sulle prove di efficacia. Esistono in realtà alcuni studi sperimentali da cui è risultato che l'omeopatia è più valida del placebo, ma solo alcuni, e in generale sono test che presentano "vizi metodologici". Sembra un'espressione tecnica, ma vuole dire soltanto che ci sono difetti nel modo in cui sono stati condotti gli studi, difetti così grossolani da pregiudicarne l'obiettività.

La letteratura sulle terapie alternative è sicuramente costellata di errori grossolani, ma i vizi metodologici degli studi sperimentali sono molto comuni in medicina. Anzi, sarebbe giusto dire che tutte le ricerche hanno qualche "vizio", perché ciascuna si fonda su un compromesso tra ciò che è ideale e ciò che è fattibile o economico (a distinguere la letteratura sulla medicina complementare e alternativa è, per certi versi, l'interpretazione: qualche volta i medici sono consapevoli di citare studi privi di valore e ne evidenziano i difetti, mentre gli omeopati sono portati a smarrire il senso critico di fronte a qualsiasi risultato positivo).

Ecco perché è fondamentale che gli studi vengano sempre pubblicati integralmente, e che offrano la possibilità di indagarne metodi e risultati. Si tratta di un motivo ricorrente in queste pagine, ed è importante, perché, quando qualcuno fa affermazioni basate sulle proprie ricerche, occorre che tutti gli altri siano in grado di valutare in piena autonomia l'entità dei "vizi metodologici" e decidere se gli esiti siano affidabili e se il test sia stato obiettivo. Una volta che si impara a individuarli, gli elementi che compromettono l'obiettività di uno studio sperimentale sono di un'ovvietà disarmante.


Il protocollo in doppio cieco

Un requisito indispensabile di un buono studio sperimentale è che né lo sperimentatore né i partecipanti sappiano chi ha ingerito la pillola di zucchero omeopatica e chi il semplice zuccherino placebo, perché l'obiettivo è essere certi che le differenze misurate siano conseguenza della diversità tra le pillole, e non delle aspettative o dei preconcetti individuali. Se i ricercatori sapessero quali dei loro amati pazienti hanno assunto la vera medicina e quali il placebo, potrebbero, in maniera conscia o inconscia, tradirsi — oppure esserne condizionati nella valutazione del soggetto.

Supponiamo che un medico stia conducendo uno studio su un farmaco orale contro l'ipertensione arteriosa. Sa quali partecipanti prendono questa nuova e costosissima pillola e quali il placebo. Visita un membro del primo gruppo e, quando gli misura la pressione, rileva un valore anomalo, assai più alto di quanto si sarebbe aspettato, soprattutto perché il paziente fa uso di quel farmaco rivoluzionario. Allora ripete la misurazione, «tanto per essere sicuro di non aver commesso errori». Il secondo dato è più normale, così annota quello e ignora il primo.

Le misurazioni della pressione arteriosa sono una tecnica imprecisa, come l'interpretazione dell'elettrocardiogramma, la lettura delle radiografie, le scale del dolore e molti altri metodi spesso utilizzati negli esami clinici. Così il medico va tranquillamente a pranzo, del tutto ignaro di aver inquinato i dati, di aver rovinato lo studio, di aver prodotto prove inesatte e pertanto, a lungo andare, di aver ucciso delle persone (lo sbaglio peggiore sarebbe infatti dimenticare che i dati servono a prendere decisioni serie nel mondo reale e che le informazioni errate causano sofferenza e morte).

Di recente si sono verificati casi inequivocabili in cui la mancanza di un adeguato "protocollo in doppio cieco", come viene chiamato, ha indotto in errore l'intera comunità medica. Per esempio, non abbiamo avuto modo di appurare se la chirurgia laparoscopica fosse migliore della chirurgia a cielo aperto finché un'équipe di Sheffield ha condotto un esperimento molto teatrale, utilizzando bende e schizzi di sangue finto per far sì che nessuno sapesse a quale tipo di intervento fossero stati sottoposti i pazienti.

Alcuni illustri rappresentanti della medicina basata sulle prove di efficacia si sono riuniti e hanno preso in esame il protocollo in doppio cieco utilizzato negli studi sperimentali relativi a terapie di ogni genere, riscontrando che gli studi con un protocollo in doppio cieco inadeguato esagerano del 17% i benefici dei trattamenti esaminati. Il protocollo in doppio cieco non è dunque una pignoleria astrusa, alla quale i pedanti come me fanno ricorso per attaccare le terapie alternative.

In un ambito più vicino a quello dell'omeopatia, secondo una revisione dei test sull'efficacia dell'agopuntura contro il mal di schiena, gli studi condotti in base a un accurato protocollo in doppio cieco indicano un modestissimo vantaggio a favore di questa terapia, di così scarsa entità da non essere «statisticamente significativo» (torneremo più avanti su questa espressione). Gli esperimenti senza protocollo in doppio cieco — quelli in cui i pazienti sono a conoscenza del proprio gruppo di appartenenza — evidenziano invece un vantaggio enorme e statisticamente significativo a favore dell'agopuntura (in questo caso il gruppo di controllo placebo è una finta agopuntura, con aghi fasulli o inseriti nei punti "sbagliati", ma è divertente osservare come talvolta i punti di inserimento falsi indicati da una scuola di agopuntori sono i punti autentici di un'altra).

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5. L'effetto placebo


Fra tutte le insidie della medicina complementare e alternativa, penso che la più pericolosa sia il modo in cui essa distorce la conoscenza del nostro corpo. Come la teoria del Big Bang è assai più interessante del racconto della creazione contenuto nella Genesi, così quello che la scienza è in grado di dirci sul mondo naturale è assai più interessante di qualsiasi storiella su pasticche magiche inventate da un terapista alternativo.

Per ripristinare l'equilibrio, niente di meglio che un viaggio in uno degli ambiti più bizzarri e illuminanti della ricerca medica: il rapporto tra il corpo e la mente , il ruolo del significato in medicina e, in particolare, l'"effetto placebo".

Come la ciarlataneria, i placebo furono accantonati quando il modello biomedico cominciò a produrre risultati tangibili. Fu un editoriale del 1890 a suonare la campana a morte, riportando il caso di un medico che aveva iniettato a una paziente acqua anziché morfina: la donna era guarita perfettamente, ma poi, scoperto l'inganno, aveva impugnato la parcella in tribunale e vinto la causa. L'articolo aveva un tono indignato, perché, dacché esiste la medicina, i dottori sanno che il garbo e le rassicurazioni possono essere molto efficaci. «È proprio finito il tempo in cui [il placebo] potrà esercitare i suoi mirabili effetti psicologici con la stessa efficacia dei suoi omologhi più tossici?», si domandava la "Medical Press".

Per fortuna l'uso dell'effetto placebo è sopravvissuto. In tutta la storia umana, esso è infatti ampiamente documentato, soprattutto nel campo del dolore, a proposito del quale si narrano episodi davvero sorprendenti. In un ospedale da campo della seconda guerra mondiale, l'anestesista americano Henry Beecher riporta il caso di un'operazione condotta su un soldato orrendamente ferito utilizzando acqua e sale perché la morfina era esaurita: con sua grande meraviglia il paziente non sembrò soffrirne.

A metà del XIX secolo Peter Parker, missionario americano, sottopose una cinese a un intervento chirurgico senza anestesia; dopo l'operazione la paziente «saltò giù», si inchinò e uscì dalla stanza come se niente fosse.

Negli anni novanta dell'Ottocento, a Berna, Theodor Kocher effettuò milleseicento tiroidectomie senza anestesia: non rimane che inchinarsi dinanzi a un uomo capace di concludere complessi interventi al collo su pazienti svegli. All'inizio del XX secolo Mitchel eseguiva amputazioni e mastectomie completamente senza narcosi, e i chirurghi vissuti prima dell'invenzione degli anestetici descrivono spesso casi di pazienti in grado di sopportare l'impiego del bisturi sui muscoli e della sega sulle ossa senza nemmeno stringere i denti. Tutte dimostrazioni del fatto che si può resistere più di quanto si immagini.

Questo è un contesto interessante in cui citare due bufale televisive del 2006. La prima è un'operazione "sotto ipnosi", piuttosto melodrammatica, mandata in onda da Channel 4: «Vogliamo avviare un dibattito su questo importante tema medico», ha spiegato una famosa società di produzione. L'intervento, una banale riduzione dell'ernia, è stato effettuato con farmaci in dose ridotta e presentato come se fosse un miracolo della medicina.

La seconda ha avuto luogo durante una trasmissione non molto imparziale proposta dalla BBC e condotta da Kathy Sykes ("docente di comunicazione della scienza"). Il programma, oggetto di numerose proteste ai massimi livelli, è stato accusato di fuorviare gli spettatori. Questi ultimi credevano infatti di aver visto un paziente sottoposto a un intervento al torace dopo essere stata anestetizzato mediante la sola agopuntura: in realtà non era vero e, ancora una volta, il soggetto aveva assunto una serie di farmaci tradizionali.

Se si confrontano questi episodi ingannevoli con la realtà — con il fatto che spesso le operazioni sono state eseguite senza anestetici, senza placebo, senza terapie alternative, senza ipnotizzatori e senza produttori televisivi —, queste trasmissioni vi sembreranno all'improvviso molto meno sensazionali.

Queste, tuttavia, sono solo baggianate, e il plurale di "aneddoto" non è "dati". Tutti conoscono il potere della mente — che si tratti di madri disposte a sopportare un dolore straziante pur di evitare di rovesciare una pentola d'acqua bollente sul loro bambino o di uomini che, come l'Incredibile Hulk, sollevano l'auto sotto cui è rimasta intrappolata la loro ragazza —, ma ideare un esperimento che separi i benefici psicologici e culturali di un trattamento dai suoi effetti biomedici è più arduo di quanto si creda. Dopo tutto, con che cosa si può confrontare un placebo? Con un altro placebo? Oppure con niente?


Il placebo sotto processo

Quasi nessuno studio prevede l'uso di un gruppo "senza trattamento" per comparare il placebo con il farmaco, e questo per un'ottima ragione etica: se i pazienti sono malati, non è possibile privarli della terapia solo per un morboso interesse nei confronti dell'effetto placebo. Anzi, oggi si considera quasi sempre sbagliato utilizzare i placebo negli esperimenti: quando è possibile, si dovrebbe mettere a confronto il nuovo trattamento con la migliore cura preesistente.

Questa regola non viene adottata solo per motivi morali (sebbene sia sancita dalla Dichiarazione di Helsinki, la bibbia internazionale in fatto di etica). Gli studi controllati con placebo non sono visti di buon occhio nemmeno dalla comunità della medicina basata sulle prove di efficacia, perché è risaputo che è facile falsificare i dati e ottenere risultati positivi a sostegno del nuovo e impegnativo investimento di una determinata azienda. Nella realtà della pratica clinica, i pazienti e i medici non sono interessati tanto a sapere se un nuovo farmaco funzioni meglio di niente, quanto se funzioni meglio del miglior trattamento già disponibile.

Nella storia della medicina ci sono stati casi in cui i ricercatori non si sono fatti troppi scrupoli. Il Tuskegee Syphilis Study, per esempio, è uno dei più vergognosi scandali americani, se un'affermazione come questa ha ancora un senso: nel 1932 il Servizio sanitario statunitense reclutò trecentonovantanove contadini afroamericani per uno studio osservativo della sifilide e della sua evoluzione in assenza di cure. È sorprendente che il test sia proseguito fino al 1972. Nel 1949 venne introdotta la penicillina come trattamento efficace contro la malattia, ma a quegli uomini non fu prescritta, né ebbero accesso al Salvarsan, farmaco specifico per la cura della sifilide, e nessuno chiese loro scusa fino al 1997, quando a farlo fu Bill Clinton.

Non volendo condurre esperimenti scientifici incuranti dell'etica che prevedano gruppi di malati "senza trattamento", come si può determinare l'entità dell'effetto placebo sulle patologie moderne? Innanzi tutto, e in modo molto ingegnoso, è possibile confrontare un placebo con un altro.

Il primo studio in questo campo è stata una meta-analisi di Daniel Moerman, un antropologo specializzato nell'effetto placebo. Moerman ha preso in esame i risultati di alcuni esperimenti controllati con placebo sui farmaci contro l'ulcera gastrica. Quella fu la sua prima mossa azzeccata, perché l'ulcera gastrica è un eccellente oggetto di esame: la sua presenza o assenza si rileva infatti in maniera obiettiva, attraverso una gastroscopia che fuga qualsiasi dubbio.

Moerman ha considerato solo i dati del placebo e quindi (seconda mossa brillante) da tutti i test condotti su vari medicinali, con dosaggi diversi, ha estrapolato la percentuale di guarigione dell'ulcera negli esperimenti in cui il trattamento "placebo" consisteva in due pillole di zucchero al giorno, e li ha comparati con la percentuale di guarigione registrata negli esperimenti in cui la terapia placebo consisteva in quattro pillole di zucchero al giorno. Per quanto possa sembrare sbalorditivo, ha scoperto che quattro pasticche sono meglio di due (chi è interessato alla replicabilità di importanti esiti clinici, può esaminare questi risultati riprodotti in un diverso set di dati).

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6. L'assurdità del momento


È ora di alzare il tiro. Che l'alimentazione sia diventata un'ossessione nel mondo occidentale è un fatto innegabile. Quotidiani e riviste a larga diffusione hanno avviato un bizzarro progetto ontologico, passando scrupolosamente al setaccio tutti gli oggetti inanimati dell'universo per etichettarli alternativamente come cause del cancro o come cure contro questa malattia. Alla base di queste iniziative ci sono alcune fandonie molto diffuse, profonde distorsioni dei dati sperimentali che ricorrono con frequenza sconcertante.

Sebbene in molti casi i responsabili di questi crimini siano anche i giornalisti, ci occuperemo di loro in un secondo tempo. Per ora ci concentreremo sui "nutrizionisti", i rappresentanti di una nuova professione che devono crearsi uno spazio commerciale per giustificare la propria esistenza. Per farlo, devono mistificare la scienza dell'alimentazione e renderla più oscura di quanto non sia in realtà, rafforzando così la nostra dipendenza dalle loro conoscenze. Il loro lavoro si basa su una serie di errori lampanti nell'interpretazione della letteratura scientifica: estrapolano "dati sperimentali" a casaccio per fare affermazioni sugli esseri umani; estrapolano "dati osservativi" per fare "dichiarazioni di intervento"; selezionano accuratamente i dati che fanno loro comodo trascurando tutti gli altri e, infine, citano dati sperimentali inesistenti sostenendo di averli tratti da ricerche scientifiche pubblicate.

Vale la pena esaminare questi travisamenti dei dati sperimentali soprattutto perché sono affascinanti esempi di come si possano distorcere le informazioni, ma anche perché lo scopo di questo libro è rendere il lettore immune alle nuove varianti di stupidaggini che si possono presentare in futuro. Occorre essere molto chiari su un paio di punti. Innanzi tutto, mi avvarrò di esempi che sono sì specifici, ma certo tutt'altro che isolati; avrei potuto sceglierne molti altri. Non mi scaglierò contro nessuno in particolare, e non si dovrà credere che qualcuno dei personaggi menzionati si distingua tra la folla dei nutrizionisti, anche se sono sicuro che quasi nessuno degli esperti citati in queste pagine si renderà conto dei propri errori.

In secondo luogo, non intendo screditare i consigli alimentari sani, semplici e intelligenti. Una dieta sana, associata ad altre abitudini salutari (molte delle quali, probabilmente più importanti dell'alimentazione, non si apprendono dai giornali), è fondamentale. I nutrizionisti dei media si spingono tuttavia oltre i dati sperimentali: spesso il loro intento è vendere una pillola, una moda alimentare o una nuova diagnosi, oppure rafforzare la dipendenza dei consumatori, ma sono sempre spinti dal desiderio di crearsi un mercato in cui loro sono gli esperti e gli altri così ignoranti da lasciarsi abbindolare.

Prepariamoci a uno scambio di ruoli.


I quattro errori fondamentali

Esistono i dati?

Questa è forse la frottola più eclatante di tutte, e ricorre con frequenza sorprendente, anche in ambienti molto autorevoli. Uno dei suoi fautori è Michael van Straten, che è intervenuto a una trasmissione della BBC, per "dire le cose come stanno". Chi non mi crede sulla parola quando dico che la sua esposizione è seria, convinta e forse persino leggermente snob, può guardare il filmato online.

«Quando Michael van Straten ha iniziato a scrivere delle straordinarie virtù terapeutiche dei succhi di frutta, tutti l'hanno preso per pazzo», esordisce il conduttore. «Ora, invece, viene considerato l'inventore di una moda» (in un mondo in cui i giornalisti sembrano combattere contro la scienza, occorre notare che trasmissione contrappone "pazzo" a "moda", ma ne parleremo in un altro capitolo). Van Straten porge al giornalista un bicchiere di succo di frutta. «Bevendolo, allungherà di due anni la sua aspettativa di vita!», ridacchia. Poi torna serio: «Be', di sei mesi, a essere sincero». Una correzione. «Un recente studio, pubblicato in America la scorsa settimana, dimostra che mangiare melegrane e berne il succo contrasta l'invecchiamento e previene le rughe», dichiara.

Sentendo queste parole, lo spettatore conclude che in America è appena stato pubblicato uno studio secondo cui le melegrane contrastano l'invecchiamento. Verificando su Medline, il sito di ricerca standard per gli articoli accademici di argomento medico, si scopre tuttavia che non esistono studi di questo tipo, o almeno io non sono riuscito a trovarli. Forse i coltivatori di melegrane hanno messo in circolazione un opuscolo. «Negli Stati Uniti un gruppo di chirurghi plastici ha condotto uno studio chiedendo ad alcune donne di mangiare melegrane e di berne il succo, prima e dopo gli interventi. Hanno osservato che le pazienti guariscono in metà del tempo, con metà delle complicanze, e senza rughe visibili!», continua Van Straten. Si tratta ancora una volta di un'affermazione molto precisa — uno studio sperimentale condotto sugli esseri umani e riguardante le melegrane e la chirurgia — e, ancora una volta, nel database di Medline non c'è nulla.

Si è dunque autorizzati a etichettare queste affermazioni come "menzogne"? Assolutamente no. A difesa di quasi tutti i nutrizionisti, direi che questi personaggi non hanno l'esperienza accademica, la malafede e forse nemmeno la prontezza intellettuale necessarie per essere bollati come bugiardi. Il filosofo Harry Frankfurt, docente all'università di Princeton, discute approfonditamente di questo tema nel suo classico saggio Stronzate del 2005. Secondo il suo modello, le "stronzate" sono una forma di falsità diversa dalla menzogna: il bugiardo conosce la verità e la considera importante; il sincero conosce la verità e cerca di diffonderla; il divulgatore di stronzate, invece, non dà peso alla verità e tenta semplicemente di fare colpo sui suoi ascoltatori:

È impossibile mentire a meno che non si pensi di conoscere la verità. Inventare stronzate non richiede questa convinzione [...]. Se chi parla è onesto, dice solo ciò che ritiene vero; nel caso del bugiardo, invece, è indispensabile che consideri false le proprie affermazioni. Per il divulgatore di stronzate, tuttavia, queste possibilità decadono: egli non è dalla parte del vero né da quella del falso. A differenza dell'uomo onesto e del bugiardo, non prende in considerazione i fatti, se non nella misura in cui possono aiutarlo a confermare le sue affermazioni. Non gli importa che le sue parole forniscano una descrizione corretta della realtà. Le sceglie, o le inventa, solo per raggiungere il suo scopo.

Colloco Van Straten, e molti degli altri sedicenti esperti citati in questo libro, nel campo dei "divulgatori di stronzate". Scegliendo lui, sono forse stato ingiusto? Può darsi. In biologia, durante il lavoro sul campo, si butta per terra a casaccio un cosiddetto "quadrato" metallico e poi si esaminano le specie che sono capitate al suo interno. È questo l'approccio che ho adottato con i nutrizionisti e, finché non avrò una facoltà di Studi pseudoscientifici con un esercito di dottorandi incaricati di raccogliere dati quantitativi per stabilire chi sia il peggiore di questa categoria, non avremo mai alcuna certezza. Van Straten sembra una persona cordiale e simpatica, ma dovevamo pur cominciare da qualche parte.

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Dietro l'idea secondo cui gli antiossidanti sono benefici si nasconde la "teoria dell'invecchiamento basata sui radicali liberi". Questi ultimi sono, come molte sostanze del corpo umano, altamente reattivi sul piano chimico, e questa reattività si rivela spesso utilissima. Per esempio, se si ha un'infezione e nell'organismo sono presenti batteri dannosi, un fagocito del sistema immunitario identifica i batteri come ospiti sgraditi, costruisce un robusto muro intorno a tutti quelli che riesce a trovare e li demolisce con i distruttivi radicali liberi. Questi ultimi sono molto simili alla candeggina, e l'intero processo assomiglia molto al gesto di versare la candeggina nel water. Ancora una volta, il corpo umano è il più intelligente di tutti.

Nei posti sbagliati, tuttavia, i radicali possono danneggiare i componenti utili delle cellule, per esempio il rivestimento delle arterie e il DNA, e un DNA danneggiato conduce all'invecchiamento o al cancro. Per questo motivo si è detto che i radicali liberi sono responsabili dell'invecchiamento e di varie malattie. Si tratta di una teoria, che può essere corretta oppure no.

Gli antiossidanti sono composti che possono "inglobare" – e inglobano – i radicali liberi reagendo con loro. Se si guardano gli enormi diagrammi di flusso concatenati che mostrano come tutte le molecole del corpo umano vengano metabolizzate da una forma all'altra, ci si rende conto che questo processo ha luogo in tutto l'organismo.

La teoria sugli effetti benefici degli antiossidanti è distinta da quella sugli effetti nocivi dei radicali liberi, ma si fonda su di essa. Se i radicali liberi sono pericolosi, affermano i sostenitori di questa tesi, e gli antiossidanti riprodotti sui grafici sono coinvolti nella loro neutralizzazione, un maggiore consumo di antiossidanti non potrà che essere salutare e servirà sia a contrastare o rallentare l'invecchiamento sia a prevenire le malattie.

Questa teoria presenta alcuni problemi. Prima di tutto, è legittimo affermare che i radicali liberi siano sempre dannosi? Se si decide di ragionare partendo solo dalla teoria e dai grafici, si possono collegare tra loro elementi di ogni tipo e si può dare l'impressione di dire cose sensate. Come ho detto, i radicali liberi sono indispensabili perché il corpo possa uccidere i batteri mediante i fagociti: chi sarebbe dunque disposto a lanciare sul mercato una dieta priva di antiossidanti per gli individui affetti da infezioni batteriche?

In secondo luogo, il semplice fatto che gli antiossidanti facciano qualcosa di buono significa forse necessariamente che occorra consumarne di più per rendere più efficace il processo? So che a prima vista sembra logico, ma lo stesso si potrebbe dire di molte altre cose, ed è proprio questo l'aspetto interessante della scienza (e di questo argomento in particolare): talvolta i risultati sono molto diversi da quelli che ci si aspettava. Forse gli antiossidanti in eccesso vengono semplicemente espulsi, o trasformati in qualcos'altro. Forse se ne restano semplicemente inattivi, perché non sono necessari. Dopo tutto, mezzo serbatoio di benzina permette di attraversare la città esattamente come un serbatoio pieno. O forse, se nell'organismo gli antiossidanti superflui sono in enorme quantità, non è vero che non fanno nulla. Forse fanno qualcosa di veramente nocivo. Questo sì che sarebbe un colpo di scena, giusto?

C'è un altro paio di ragioni per cui vent'anni fa la teoria sugli antiossidanti sembrava fondata. Innanzi tutto, se si scatta una fotografia statica della società, gli individui che mangiano molta frutta e verdura fresche tendono a vivere più a lungo e a soffrire meno di cancro e malattie cardiovascolari; la frutta e la verdura contengono molti antiossidanti (sebbene contengano anche altre sostanze e malgrado ci siano, è legittimo supporlo, altri elementi salutari nella vita di chi mangia molta frutta e verdura fresche, per esempio un lavoro qualificato e gratificante, un modesto consumo di alcol ecc.).

Analogamente, se si scatta un'istantanea dei soggetti che assumono integratori di antiossidanti, si scopre spesso che sono più sani o più longevi. Ancora una volta, tuttavia, e benché i nutrizionisti siano inclini a ignorare questo fatto, questi sono semplicemente studi condotti su persone che avevano già deciso di prendere compresse vitaminiche. Si tratta di individui che tengono maggiormente alla propria salute e che sono diversi dalla normale popolazione per molti altri motivi oltre che per l'assunzione delle vitamine: può darsi che facciano più esercizio fisico, che abbiano un maggiore sostegno sociale, che fumino meno, che bevano meno e via discorrendo.

Ciò nonostante i primi dati sperimentali a favore degli antiossidanti erano davvero convincenti e andavano ben al di là dei semplici dati osservativi sull'alimentazione e sulla salute: c'erano anche analisi del sangue con risultati molto promettenti. Nel 1981 Richard Peto, uno dei più famosi epidemiologi del mondo, cui va almeno in parte il merito di aver scoperto che il fumo causa il 95% dei casi di cancro del polmone, pubblicò un importante articolo in "Nature", recensendo alcuni studi che parevano indicare una relazione positiva tra la presenza di un'alta quantità di beta-carotene (un antiossidante contenuto in numerosi alimenti) nell'organismo e un ridotto rischio di cancro.

Quei dati sperimentali comprendevano "studi caso-controllo" in cui pazienti con varie forme di cancro erano confrontati con soggetti senza cancro (ma abbinati in base all'età, al ceto sociale, al sesso e così via), ed emerse che gli individui sani avevano livelli più alti di carotene nel plasma. C'erano anche "studi di coorte prospettici" in cui le persone venivano classificate a seconda del livello di carotene nel plasma rilevato all'inizio della ricerca, prima che sviluppassero il cancro, e poi tenute sotto osservazione per molti anni. Quegli studi riscontrarono un numero doppio di cancri del polmone nel gruppo con il minor livello di carotene rispetto a quello con il livello più elevato. Sembrava dunque che avere una maggiore quantità di quell'antiossidante fosse molto vantaggioso.

Studi analoghi dimostravano che livelli elevati di vitamina E – un altro antiossidante – nel plasma erano associati a una minore incidenza delle malattie cardiovascolari. Qualcuno sosteneva che la quantità di vitamina E spiegava molte delle differenze tra le percentuali di malattie ischemiche del cuore in diversi paesi europei, differenze che non si sarebbero potute giustificare facendo riferimento a differenti livelli di colesterolo nel plasma o a diversi valori di pressione arteriosa.

Il redattore di "Nature" fu tuttavia cauto e introdusse nell'articolo di Peto questa nota a piè di pagina:

I lettori sprovveduti (se mai ne esistono) non devono giungere alla conclusione che il consumo di grandi quantità di carote (o altre fonti alimentari di beta-carotene) sia necessariamente efficace nella prevenzione del cancro.

Nota davvero molto preveggente.

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