Copertina
Autore Stephen Jay Gould
Titolo L'equilibrio punteggiato
EdizioneCodice, Torino, 2008 , pag. XLII+414, ill., cop.fle., dim. 14x21,5x2,8 cm , Isbn 978-88-7578-102-6
OriginalePunctuated Equilibrium [2007]
PrefazioneTelmo Pievani
TraduttoreGiorgio Panini, Andrea Cardini, Marco Ferraguti
LettoreCorrado Leonardo, 2008
Classe evoluzione
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Indice


 IX Introduzione
XXV Introduzione all'edizione italiana

    Capitolo 1
  3 Quel che ogni paleontologo conosce

    Capitolo 2
 33 I fondamenti della teoria dell'equilibrio punteggiato

    Capitolo 3
 61 Il dibattito scientifico sull'equilibrio punteggiato:
    domande e risposte

    Capitolo 4
117 Fonti di dati per la verifica dell'equilibrio punteggiato

    Capitolo 5
191 Le conseguenze più generali dell'equilibrio
    punteggiato sulla teoria evolutiva e sulle conoscenze
    generali del cambiamento

    Capitolo 6
329 Appendice: storia largamente sociologica (e del tutto
    partigiana) dell'impatto e della critica dell'equilibrio
    punteggiato

399 Bibliografia


 

 

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Pagina IX

Introduzione


Teoria

Ammiro incondizionatamente il mio amico Oliver Sacks come scrittore e non credo di poterlo eguagliare nella sua capacità, profusa ovunque, di porsi in sintonia con l'umanità. Una volta disse qualcosa che mi toccò profondamente, malgrado il mio continuo e netto disaccordo rispetto a quanto sosteneva (devo tuttavia riconoscere la validità dell'affermazione a proposito del contesto presente). Oliver disse che mi invidiava perché, pur avendo entrambi circoscritto soggetti vasti e inesauribili per i nostri scritti (la mente umana nel suo caso; l'evoluzione nel mio), io avevo avuto il privilegio di inventare e sviluppare una teoria generale che mi aveva permesso di coordinare tutto il mio lavoro in un corpus coerente e ben definito, mentre a lui era stato possibile soltanto scrivere raccontando fatti e senza uno scopo preciso (pur proponendo qualche ipotesi intuitiva), perché non esiste un analogo centro focale alla base del suo lavoro. Replicai sostenendo che aveva di certo tenuto in scarsa considerazione se stesso, perché era stato ingannato dal convenzionale modo di considerare la natura e i limiti di ciò che legittimamente può essere indicato come teoria centrale della scienza: era infatti chiaro che si atteneva a un tale concetto in grado di organizzare il lavoro nel suo tentativo di riproporre il venerabile "metodo per lo studio dei casi" con il rispetto e l'attenzione per le irriducibili peculiarità dei singoli pazienti nella pratica diagnostica e terapeutica in medicina. Così, immaginavo, Sacks si era sempre attenuto a una teoria centrale in relazione all'importanza dell'individualità e della contingenza nella teoria generale della medicina, proprio come abbiamo fatto io e altri sottolineando la centralità della contingenza storica in ogni analisi teorica e nel modo di intendere l'evoluzione e i risultati del processo.

Oliver vedeva la teoria degli equilibri punteggiati, che ho sviluppato insieme a Niles Eldredge e che è oggetto di una discussione eccezionalmente ampia in questo libro come il tassello centrale che coordina tutto il mio lavoro, e non mi sento di negare questa sua affermazione. Gli equilibri punteggiati rappresentano però un più vasto e coerente insieme di "cose" in cui è notevole la componente iconoclastica e mi sento in dovere di fornire qui alcuni elementi di autobiografia intellettuale per spiegarne i motivi e l'integrazione, come io stesso meglio li capisco. Da ciò deriva il mio furto del famoso titolo usato dal cardinale Newman per il più efficace esempio analogo mai realizzato, anche se i campi sono assolutamente diversi. Nell' Apologia Pro Vita Sua (1864 e 1865), Newman usa il termine, come faccio io nell'accezione positiva originale e non in quella, usuale in inglese, che ha valenza negativa, cioè (secondo il dizionario Webster): "Qualcosa detto o scritto per difendere o giustificare ciò che appare ad altri errato o che può essere soggetto di disapprovazione".

Per citare i miei due primi impegni in campo scientifico, dico che mi sono innamorato della paleontologia incontrando a cinque anni il Tyrannosaurus nel Museo di Storia Naturale di New York e dell'evoluzione a undici, leggendo, con grande eccitazione e minima capacità di comprensione, The Meaning of Evolution di George Gaylord Simpson [Il significato dell'evoluzione: storia della vita e del suo valore per l'uomo], perché i miei genitori, membri di un club del libro per gente con interessi intellettuali ma poche opportunità economiche o crediti non troppo consistenti, si erano dimenticati di rinviare la cedola "non vogliamo niente questo mese", ricevendo così il libro che altrimenti non avrebbero mai ordinato (ma che io pregai subito di tenere dopo aver visto le sagomine dei dinosauri sulla sovraccoperta). Dunque, fin dall'inizio, i miei interessi professionali, che si stavano sviluppando, unirono la paleontologia con l'evoluzione. Per qualche ragione che non mi è ancora ben chiara, ho sempre trovato la teoria sul "come" lavora l'evoluzione più affascinante della grande parata costituita dai relativi risultati paleontologici e sempre i miei interessi principali si sono concentrati sui principi della macroevoluzione.

E sono giunto a capire davvero il vago senso di insoddisfazione che (malgrado il tentativo compiuto da Simpson per risolverli in un modo ortodosso, incorporando la paleontologia nella Sintesi Moderna) alcuni paleontologi hanno sempre provato per le premesse darwiniane secondo cui i meccanismi microevolutivi possono mettere in piedi tutto il grande spettacolo dei viventi semplicemente accumulando risultati via via più consistenti nell'enormità dei tempi geologici.

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Pagina XXII

Quando mi interrogo su come tutti questi pensieri e temi disparati si siano fusi, nel libro, in un unico lungo ragionamento, posso soltanto rispondere chiamando in causa il mio amore (non so come dirlo altrimenti) per Darwin e per la forza del suo genio. Soltanto a lui era possibile offrire un'ossatura così feconda di una teoria completamente coerente, così radicale per la forma, così completa sul piano logico e così estensibile per le implicazioni. Nessuno degli altri pensatori che si sono occupati dell'evoluzione prima di lui aveva mai individuato ed elaborato un così ricco e comprensivo punto di partenza. Partendo da questo inizio, io dovevo soltanto dispiegare la versione originale nella sua interezza, sbrogliare gli intrecci degli elementi e degli assunti centrali, e discutere la vicenda successiva dei dibattiti e delle revisioni di queste caratteristiche essenziali, che hanno portato a una coerente riformulazione dell'intero corpus, condotta in modo utile e tale da lasciare le fondamenta darwiniane intatte pur costruendovi sopra un edificio più grande e di forma differente e perciò molto interessante. Va da sé che non rendo onore a Darwin con l'agiografia, se non altro perché simili ossequiosi tentativi farebbero sprofondare ogni onesto individuo (e farebbero di sicuro rivoltare Darwin nella tomba, disturbando così i turisti nell'abbazia di Westminster e le ossa di Isaac Newton non lontane). Rendo onore alle lotte sostenute da Darwin ma anche ai suoi successi, e mi concentro sui suoi pochi punti deboli, come possibili brecce per le revisioni necessarie: il suo noto insuccesso nel tentativo di risolvere il "problema della diversità", o la sua speciale arringa per il progresso senza alcuna chiara spiegazione logica del fenomeno in base al modo di operare del "suo" meccanismo centrale della selezione naturale.

Come ultimo commento, se questa sezione ha infranto le regole del discorso scientifico (almeno nel mondo attuale, anche se non l'avrebbe fatto nell'epoca di Darwin) con le libertà che mi sono preso illustrando alcune motivazioni personali, ma anche errori e correzioni, ho almeno dimostrato come tutti noi annaspiamo, tirandoci su da una fase iniziale di stupidità, e come non saremmo mai in grado di arrampicarci senza l'aiuto e la collaborazione di innumerevoli colleghi, tutti impegnati nell'impresa dai notevoli risvolti sociali che indichiamo come scienza moderna. Non ho mai vissuto un momento da eureka nello sviluppare il lungo ragionamento de La struttura della teoria dell'evoluzione. Ho forgiato la lunga catena, anello dopo anello, disponendo all'inizio di pochi elementi separati che neppure riuscivo ad apprezzare come parti di una lunga e unica catena o anche soltanto come maglie di una catena qualsiasi. Ho stabilito le connessioni una per una e spesso ho staccato alcuni segmenti, per poter ricostruire l'insieme in un ordine diverso. Sono così tante le persone che mi hanno aiutato lungo il cammino (dai predecessori, morti da tanto tempo, di cui apprezzavo le sagge parole, ai più giovani colleghi con le loro battute) da farmi considerare questo prodotto come il risultato di un'impresa sociale, anche se io, il più arrogante degli intellettuali, ho insistito nel voler scrivere da solo ogni parola. Posso forse esprimere nel migliore dei modi il mio sentito ringraziamento ai membri di una simile collettività di ingegni dichiarando, nel senso più letterale, che questo libro non sarebbe mai esistito senza il loro aiuto e la loro tolleranza. Gli studiosi litigano e si accapigliano come fanno tutti (e a fatica ho evitato di fornire, nel libro, una consistente documentazione in proposito). Ma noi siamo, in generale, un gruppo ragionevolmente rispettabile e davvero facciamo nostra la tendenza ad aiutarci a vicenda perché ci divertiamo sul serio nel cercare di capire i fenomeni e i procedimenti della natura: una gran parte di noi saprebbe perfino barattare un successo personale con l'obiettivo di apprendere più in fretta e più sicuramente. Malgrado tutte le tensioni e le infelicità di ogni vita, posso almeno dire, con tutto il cuore, che io ho scelto di lavorare nella migliore delle imprese nel migliore periodo possibile. Possa il nostro futuro contingente migliorare soltanto questa matrice per quelli che verranno dopo di me.

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Pagina XXV

Introduzione all'edizione italiana


La lunga e punteggiata storia dell'equilibrio punteggiato

A un secolo e mezzo dalla pubblicazione della prima edizione de L'origine delle specie di Charles Darwin, il dibattito sui ritmi e sulla velocità dei processi evolutivi non ha cessato di dividere la comunità degli scienziati impegnati a decifrare i meccanismi di trasformazione degli organismi viventi. Se l'opzione gradualista di Darwin sembrò prevalere nella maggioranza dei suoi epigoni, non mancò tuttavia chi mostrasse, come Thomas Henry Huxley, le sue vigorose perplessità su tale assunzione, ritenuta forse troppo vincolante. Gli episodi di cambiamento accelerato, d'improvvisa estinzione o di repentina proliferazione e sostituzione delle specie sui tempi lunghi della storia naturale, così come l'apparente stabilità di molti caratteri delle specie, erano infatti già noti ai paleontologi dell'epoca.

E pensare che nei "Taccuini della Trasmutazione", da poco editi anche in edizione italiana parziale, un Darwin non ancora trentenne - con ancora freschi in mente gli schemi osservativi intuiti durante il viaggio intorno al mondo - aveva esordito con una concezione addirittura "saltazionale" della trasmutazione dei viventi (in particolare nel Red Notebook). Se infatti le specie sono entità biologiche macroscopiche, isolate geograficamente, dotate di confini precisi che coincidono con le barriere riproduttive, la transizione dall'una all'altra non potrà avvenire se non in modo rapido e discreto - pensò allora il giovane naturalista - e non certo attraverso una lunga sequenza di cambiamenti impercettibili. Questa stupefacente "modernità" empirica iniziale della teoria svanirà presto, perché Darwin giungerà poco dopo a comprendere il meccanismo fondamentale della selezione naturale - la grande "legge" della "generazione", come comincerà a chiamarla - che lo indurrà a riportare lo sguardo sul livello inferiore della sopravvivenza differenziale fra organismi all'interno delle popolazioni e ad abbracciare una visione fortemente gradualista del cambiamento, compresa la nascita di nuove specie.

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Pagina 33

Capitolo 2

I fondamenti della teoria dell'equilibrio punteggiato


Osservazioni e definizioni

Innanzitutto, la teoria dell'equilibrio punteggiato vale a uno specifico livello di analisi strutturale legato a un contesto temporale ben definito. G.K. Chesterton (1874-1936), famoso scrittore e saggista inglese, scrisse che ogni forma d'arte esprime un limite, poiché l'essenza della pittura sta nel suo contesto. Lo stesso principio vale per la scienza, in cui affermazioni spropositate o di incerta applicabilità condannano sovente una buona idea a una languida indeterminatezza e alla conseguente inconsistenza.

L'equilibrio punteggiato non è una teoria sulle forme rapide di cambiamento biologico, a qualsivoglia livello e indipendentemente dalla scala temporale. L'equilibrio punteggiato tratta l'origine e le modalità di comparsa delle specie su tempi geologici. Modelli di cambiamento punteggiato si presentano anche in altri fenomeni e su differenti scale temporali (si veda il Capitolo 5 di questo libro) - estinzioni di massa scatenate da eventi catastrofici come lo scontro con meteoriti - e davvero i proponenti della teoria dell'equilibrio punteggiato sarebbero degli ottusi se non si interessassero ai differenti meccanismi alla base delle somiglianze nelle manifestazioni generali dell'immutabilità e del cambiamento nei vari regni della natura, visto che la scienza ha sempre cercato principi unificanti in questo tipo di astrazioni. Ma l'equilibrio punteggiato - una teoria puntuazionista sul cambiamento e l'immutabilità specifica per un fenomeno fondamentale dell'evoluzione - non spiega direttamente la storia potenzialmente coordinata delle faune o i limiti, compatibili con la vita, del tasso di mutazione da una generazione all'altra.

La teoria dell'equilibrio punteggiato prova a spiegare il ruolo macroevolutivo delle specie e della speciazione nel loro rivelarsi su una scala temporale geologica. Le considerazioni sulla rapidità del cambiamento o sull'immutabilità descrivono la storia delle specie come entità individuali, mentre quelle sulle velocità relative e sulle modalità con cui i cambiamenti si attuano inseriscono la storia di ciascuna specie nell'inconsueto contesto temporale della geologia - un tempo in cui la durata della vita umana trascorre del tutto inosservata e persino l'intera storia della civiltà umana sta all'evoluzione dei primati come un battito di ciglia alla vita di una persona. Le asserzioni della teoria dell'equilibrio punteggiato presuppongono l'attribuzione di proporzioni corrette ai processi macroevolutivi nell'immensa vastità del tempo geologico - un argomento cardine che sfuggì a Darwin quando, erroneamente, pensò che la "lentezza" del cambiamento negli animali domestici o nelle piante coltivate, misurato su una scala temporale umana (in cui tutta la nostra storia, e dunque numerose generazioni, è stata testimone dell'effettivo modificarsi delle popolazioni senza che comparissero nuove specie) si traducesse, su tempi geologici, nel lento e ininterrotto gradualismo filetico.

Una volta stabilito che le definizioni dei due concetti chiave di stasi e puntuazionismo descrivono "la storia delle specie come entità individuali su una scala temporale geologica", possiamo definire criteri pratici ragionevoli. La proposizione centrale dell'equilibrio punteggiato afferma che la grande maggioranza delle specie, così come ci sono presentate nella documentazione fossile attraverso la ricostruzione della loro variazione anatomica e geografica, compare in istanti geologici (punteggiature) e rimane poi immutata (stasi) durante tutta la propria lunga esistenza (Sepkoski, 1997, fornisce una stima per difetto di 4 milioni di anni per la durata media delle specie fossili; in realtà, i valori medi variano ampiamente tra i gruppi e i periodi geologici, con i vertebrati terrestri vicini al limite inferiore e moltissimi invertebrati marini prossimi all'intervallo di valori più elevato; comunque la si voglia vedere, la longevità geologica si misura fondamentalmente in milioni di anni, non in migliaia). Come conseguenza basilare a livello macroevolutivo di questo modello, le specie soddisfano tutti i criteri per essere trattate come individui darwiniani (si veda Gould, 2002, pp. 750-764) nel regno della macroevoluzione.

Questa proposizione fondamentale comprende tre concetti a cui si devono attribuire precisi significati operativi: stasi, punteggiature e dominanza nelle frequenze relative. (Non mi dimentico della spinosa questione legata alla definizione di specie fossili, in cui l'anatomia prevale come criterio principale da adottare, mentre l'isolamento riproduttivo non può quasi mai essere verificato direttamente - e lo stesso vale per l'ipotetica corrispondenza tra i "pacchetti" morfologici che i paleontologi chiamano specie e il concetto di specie in uso tra i neontologi che si occupano di popolazioni anfigoniche. Tratterò questi problemi alle pp. 61-78).

Stasi non vuol dire "immutabile come la roccia" ossia completa assenza di variazione nel tempo dei valori medi di tutti i tratti analizzati. Nel contesto macroevolutivo dell'equilibrio punteggiato dobbiamo sapere, per prima cosa, se il cambiamento morfologico tende o meno ad accumularsi nella vita geologica di una specie e, se ciò avviene, bisogna scoprire quale frazione delle differenze medie tra una specie ancestrale e la sua discendente possa essere attribuita all'accumularsi di variazioni durante la storia anagenetica della specie ancestrale. L'equilibrio punteggiato prende una posizione decisa affermando che nella maggior parte dei casi non si riscontra di fatto alcun accumulo di cambiamenti. Una specie subito prima di estinguersi non sembra presentare differenze sistematiche nella sua anatomia rispetto al momento in cui comparve nella documentazione fossile, in genere parecchi milioni di anni prima.

Ovviamente siamo consapevoli del fatto che nel tempo si verificano fluttuazioni dei valori medi. E, dopo tutto, le medie cambierebbero anche se i valori effettivi nella popolazione rimanessero del tutto costanti - cosa che non accade. Se poi si hanno abbastanza campioni in una serie di strati, alcuni includeranno medie (per qualche carattere) che finiscono al di fuori dell'intervallo di non significatività statistica se confrontati con la media del campione più vecchio. Simili fluttuazioni indicano anche che la popolazione finale non sarà del tutto identica a quella iniziale.

Dal punto di vista pratico, dobbiamo perciò stabilire dei criteri per identificare le fluttuazioni ammissibili dei valori medi al trascorrere del tempo. Si devono trovare soluzioni a due problemi: l'entità delle differenze trascurabili tra i campioni più vecchi e più giovani di una specie, e l'intervallo delle variazioni irrilevanti nel tempo. Poiché si vuole verificare un'ipotesi sull'assenza o modesta entità del cambiamento anagenetico nella storia evolutiva della maggior parte delle specie, e dato che non abbiamo valide ragioni, da un punto di vista statistico, per aspettarci che (in conformità con l'ipotesi ora formulata) i campioni più giovani siano uguali a quelli più vecchi, dovremmo formulare le seguenti previsioni: (i) le forme iniziali non saranno statisticamente diverse, secondo un criterio concordato, da quelle finali; (ii) i campioni più recenti non cadranno, in genere, al di fuori dell'intervallo di variazione osservato durante la storia evolutiva di una specie. (Se i campioni più giovani scivolano fuori da questo contenitore di fluttuazioni nella maggioranza delle specie, allora l'anagenesi è dimostrata).

Per stabilire l'intervallo di fluttuazione accettabile, noi dovremmo, idealmente, fare riferimento all'entità della variazione geografica tra popolazioni contemporanee di una specie o del suo più stretto parente attuale. Se l'ammontare della variazione nel tempo cade entro l'intervallo di variazione morfologica nello spazio, allora significa che la specie è rimasta in una condizione di stasi. È d'altra parte ovvio che non possiamo applicare questo criterio ottimale per gruppi estinti da lungo tempo, ma si dovrebbero ugualmente trovare molte possibili approssimazioni, tra cui il confronto tra la variazione nell'arco di vita della specie fossile e la variazione in un'altra specie, a lei strettamente imparentata, con ampio areale e abbondante documentazione. Studi della stasi in specie del Neogene possono spesso fornire la possibilità di applicare il criterio ottimale, visto che la specie in questione è ancora in vita o, almeno, lo sono i suoi parenti prossimi. Nella più elegante descrizione di stasi all'interno di un'intera fauna di molluschi, Stanley e Yang (1987) si servirono di questo criterio ideale per dimostrare che le fluttuazioni temporali non si erano discostate dai valori di variazione geografica per quelle stesse specie. Così, furono in grado di documentare la stasi nella maniera più convincente dal punto di vista biologico.

Se la stasi è un dato, mentre le punteggiature in genere sono al di fuori della nostra capacità di risoluzione delle transizioni, così come risulta dalla consueta osservazione dei fossili su scala temporale geologica, abbiamo bisogno di dare una definizione appropriata di velocità del cambiamento. (L'equilibrio punteggiato non dice nulla della possibilità di cambiamenti concreti a una velocità che sarebbe considerata elevata quando si usi la durata della vita umana come metro. E dunque davvero l'equilibrio punteggiato non va ad approfondire temi cari alla vecchia e dibattuta questione della speciazione saltazionista o per macromutazioni). In prima approssimazione, la durata di una stratificazione rappresenta il limite pratico della capacità di risoluzione su scala geologica. Qualunque evento di speciazione avvenuto nell'arco di tempo rappresentato nella maggior parte delle stratificazioni sarà raramente rilevabile poiché i dati dell'intera fase di transizione saranno schiacciati entro un singolo strato, ossia "in un istante geologico".

Nondimeno, i confini della risoluzione stratigrafica variano abbondantemente: le stratificazioni corrispondono ad anni o stagioni in pochi e straordinari esempi di varve, ma, per lo più, si estendono per migliaia di anni. È, perciò, impossibile formulare una definizione in cui una punteggiatura corrisponda a "stratificazioni simultanee". (Dopo tutto, una simile definizione precluderebbe, in modo quasi perverso, la "dissezione" di una punteggiatura nei pochi, ma preziosi, casi di sedimentazione così completa e rapida che l'evento speciativo non sia stato compresso, come tipico, in un singolo strato, ma si sia "propagato" attraverso un numero di intervalli stratigrafici sufficiente a consentire di documentare la sua rapida storia evolutiva).

Al contrario, le punteggiature devono essere definite rispetto alla permanenza in uno stato di stasi della specie che si è originata - e ciò poiché l'equilibrio punteggiato, una teoria di tempi relativi, sostiene che le specie sviluppino i loro tratti distintivi in modo completo "alla nascita", mantenendoli poi invariati in stasi durante la propria vita, la cui durata si misura su tempi geologici. (La relatività dei tempi evolutivi gioca un ruolo centrale nel riconoscere le specie come unità individuali darwiniane - si veda la discussione sui criteri "correnti" di definizione di nascita e morte, e di sufficiente stabilità per l'individuazione Gould, 2002, cap. 8, pp. 750-757).

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Pagina 48

L'equilibrio punteggiato adottò una strategia radicalmente diversa, riconoscendo l'impossibilità di risolvere il problema partendo da quei presupposti e negando la premessa empirica fondamentale che le nuove specie per lo più (se non addirittura spessissimo) compaiono per anagenesi. Al contrario, Eldredge e io sostenemmo che la stragrande maggioranza delle specie compare per cladogenesi e i tempi canonici della speciazione, espressi su scala geologica, comportano la formazione di nuove specie in un istante geologico, seguito poi da una lunga persistenza in stasi. In questa maniera, il classico e contorto "problema del concetto di specie in paleontologia" scompare perché le specie si comportano come unità individuali darwiniane, ben definite, e non più come arbitrarie suddivisioni di un continuo. Le specie divengono così definibili poiché si originano quasi sempre per speciazione (ossia per cladogenesi, cioè in seguito all'isolamento geografico di una popolazione figlia con conseguente divergenza genetica dalla popolazione ancestrale) e non per anagenesi (ovvero per trasformazione dell'intera popolazione ancestrale). Per avere davvero una nuova specie, si deve passare attraverso un breve periodo di ambiguità all'inizio del processo di divergenza dalla popolazione ancestrale, ma, nella corretta unità di misura temporale della macroevoluzione, questo periodo trascorre così rapidamente (quasi sempre nell'indivisibile istante geologico rappresentato da una singola stratificazione), che non c'è alcun pericolo per la definizione operativa di specie.

Ovviamente i gradualisti non negano che la speciazione si verifichi spesso per cladogenesi. Ma semplicemente non attribuiscono al processo di divergenza delle linee evolutive alcun ruolo creativo nell'accumularsi di mutamenti macroevolutivi, e ciò per tre ragioni. Primo, essi considerano la speciazione soltanto come un generatore di diversità e non come la condizione che rimodella la morfologia predominante entro un clade (fenomeno chiave delle tendenze macroevolutive — si vedano le citazioni di Huxley e Ayala, e la risposta di Mayr, in Gould, 2002, p. 703). Tali tendenze comparirebbero per anagenesi (si veda Fig. 6) e la speciazione si limiterebbe al ruolo sussidiario (se mai necessario) di replicare in molti taxa le variazioni vantaggiose, evolutesi, in origine, per anagenesi, fornendo così una barriera contro il rischio di estinzione.

Secondo, attribuiscono un peso quantitativamente modesto al ruolo della speciazione (cladogenesi opposta ad anagenesi) nella totalità del cambiamento evolutivo. In una famosa stima, divenuta un classico, Simpson (1944) affermò che circa il 10% delle modificazioni evolutive erano attribuibili alla speciazione e il restante 90% si doveva all'anagenesi.

Terzo, quando i gradualisti davano almeno una descrizione della speciazione (si veda Fig. 7), lo facevano trattando il fenomeno come il verificarsi di due eventi anagenetici che andavano avanti a velocità tipicamente lenta. Situazioni contingenti, sostenevano, portano alla suddivisione di una popolazione in due unità separate, che continuano poi il loro cammino evolutivo secondo la loro consueta traiettoria anagenetica. Al contrario, l'equilibrio punteggiato propone, su scala geologica, tempi radicalmente differenti per la speciazione e per l'anagenesi gradualista. (E non ci limitiamo a questo ma diciamo anche che questo tipo di anagenesi è rarissima!).

La teoria dell'equilibrio punteggiato nacque, perciò, come una sincera risposta all'incarico originariamente affidatoci da Schopf: quello di illustrare come le opinioni ricorrenti sulla speciazione nella macroevoluzione, allora poco note alla stragrande maggioranza dei paleontologi praticanti, potessero permettere, nel nostro mestiere, una più adeguata interpretazione della storia della vita. (Per dare ancor meglio un'idea della poca dimestichezza della maggior parte dei paleontologi con questi concetti, voglio far notare che i più di loro non sapevano neppure che vi fosse una distinzione concettuale e semantica tra "speciazione" intesa come cladogenesi e l'accumularsi per anagenesi di cambiamenti evolutivi sufficienti a suggerire l'utilità di un nuovo nome linneano per una singola popolazione priva di ramificazioni evolutive).

Ed è questo il motivo cruciale per cui la teoria dell'equilibrio punteggiato adotta una posizione molto conservativa. La teoria, infatti, non presenta nuovi modi o meccanismi di speciazione; l'equilibrio punteggiato si limita a fare loro un modello microevolutivo classico e ne chiarisce i modi di attuazione prevedibili quando si tenga correttamente conto dell'unità di tempo geologica. Questo cambiamento di unità di misura, tuttavia, porta a una drammatica reinterpretazione delle osservazioni paleontologiche — e ciò poiché noi sostenemmo che il vero e proprio aspetto della documentazione paleontologica, tradizionalmente congedato come artefatto causato dall'incompletezza dei dati a disposizione, può in realtà essere la prova dell'attuarsi dei meccanismi evolutivi, così come sono stati ricostruiti dai neontologi. Questo fu l'interruttore che diede energia ai paleontologi facendoli sperare che le loro osservazioni di base fossero complete e dotate di un elevato contenuto informativo, anziché disdicevolmente frammentare e necessariamente foriere di caos. La paleontologia poté così emergere dal sonno intellettuale generato dal vedersi precludere ogni possibilità di approfondimento teoretico per via dei pochi dati disponibili — questo torpore, prodotto dai paleontologi stessi, aveva relegato l'intero settore a un ruolo puramente descrittivo dei reali cammini della storia della vita. La paleontologia poteva ora occupare la posizione meritata e avere un ruolo attivo tra le scienze evoluzionistiche.

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Pagina 57

Tempi e significati della stasi

Per quanto concerne i tempi, l'equilibrio punteggiato capovolge il nostro modo fondamentale di vedere il problema. Dobbiamo lasciar cadere il concetto di cambiamento costante che opera all'interno di un intervallo ragionevole di velocità come la norma per un'entità in evoluzione. Bisogna invece riformulare la visione del cambiamento evolutivo come un insieme di avvenimenti rari, di breve durata rispetto ai periodi di stasi con cui si alternano. L'immutabilità diviene la condizione normale di una linea evolutiva, con rimodellamento e cambiamento come episodi straordinari e sporadici, che fanno della filogenesi una serie di eventi i cui effetti si sommano man mano che il tempo trascorre. Le conseguenze di quest'ottica radicalmente diversa arrivano lontano, fino a coinvolgere aspetti che vanno da quelli più strettamente pratici a quelli più profondamente filosofici (in quest'ultima categoria va inclusa un'interessante analogia con atomismo e quantizzazione chiamati in causa per definire un movimento intellettuale di ampio respiro chiamato "modernismo" - così come viene definito in settori lontanissimi tra loro come il divisionismo di Seurat nell'arte e lo stile seriale di Schönberg; linee di pensiero, queste, che si contrappongono alla graduale continuità favorita da precedenti interpretazioni della causalità). In un campo di più diretto interesse per la biologia, questo stesso cambiamento di prospettiva pone un'enfasi molto più marcata sulla casualità e l'accidentalità rispetto alla prevedibilità delle estrapolazioni - se la stasi è una condizione comune, diviene poco chiaro come e quando si verificherà la successiva punteggiatura; all'opposto, il carattere frattale del gradualismo suggerisce che le spiegazioni causali del cambiamento in qualunque istante storico saranno in grado, se estrapolate, di prevedere e chiarire come modificazioni più grandi si siano prodotte per accumulo su tempi più lunghi.

Dal punto di vista pratico, la definizione dei tempi evolutivi data dall'equilibrio punteggiato ha avvalorato lo studio della stasi - il modello prevalente nell'analisi paleontologica di una specie - come fonte di idee nell'indagine evoluzionistica e non più solo motivo di delusioni da dimenticare, perché unicamente segno di un'imbarazzante scarsità di dati. L'equilibrio punteggiato ha risolto il "dilemma di Cordelia" sull'opportunità di mantenere il silenzio riguardo all'imbarazzante "vacuità" della stasi e ha portato alla nascita di un rigoglioso settore della ricerca che mira a documentare la stabilità a svariati livelli. Nel cercare queste prove e nell'attribuire loro valore, gli scienziati si sentono spinti a postulare spiegazioni per l'incredibile frequenza di un fenomeno prima considerato "invisibile" - e sono anche stimolati a chiedersi "perché" la stasi abbia avuto tanto successo dopo che l'equilibrio punteggiato aveva dato il "la" (si vedano pp. 195-207 per una discussione più completa).


Modalità di attuazione dell'equilibrio punteggiato e speciazione come base della macroevoluzione

Per quel che riguarda le modalità, come trattato in questo capitolo, l'equilibrio punteggiato ha fatto della speciazione la base della macroevoluzione. L'equilibrio punteggiato dà forza alla teoria gerarchica della selezione naturale mediante i dati e le argomentazioni fondamentali che fornisce allo scopo di definire le specie come veri e propri individui darwiniani - ossia, unità di base per descrivere la macroevoluzione tramite variazioni darwiniane nel tasso di natalità e mortalità delle specie considerate come individui dotati di stabilità nel tempo, in perfetta analogia con il ruolo della nascita e della morte degli organismi nei meccanismi della microevoluzione. La teoria gerarchica della selezione naturale (si veda Gould, 2002, cap. 8) definisce la macroevoluzione come un fenomeno indipendente dotato di validità teoretica in sé (e non semplicemente come un campo in cui descrivere l'accumularsi di modificazioni microevolutive) e in questo modo preclude la spiegazione dell'evoluzione esclusivamente tramite l'estrapolazione di meccanismi microevolutivi a eventi di qualunque entità e indipendentemente dalla scala temporale.

In pratica, le conseguenze dell'equilibrio punteggiato sui modi di attuazione dei fenomeni evolutivi sono state drammatiche in due settori, prima quasi esclusivamente dominati dall'estrapolazione su larga scala delle teorie adattative a livello di popolazione: le tendenze evolutive all'interno dei cladi e il saliscendi della biodiversità al trascorrere del tempo entro ciascuno dei cladi presumibilmente in competizione. La teoria dell'equilibrio punteggiato propone spiegazioni nuove, e prettamente macroevolutive, per entrambi i fenomeni (si vedano pp. 207-252).

Infine, il ruolo dell'equilibrio punteggiato nell'istituire la macroevoluzione come un campo autonomo è definibile secondo due versioni, una moderata e una più radicale. La prima, di indiscutibile validità generale, "slega" la macro dalla microevoluzione per necessità descrittive, mentre non propone fattori causali indipendenti per la macroevoluzione. La seconda, più radicale, si occupa delle cause emergenti della macroevoluzione, ossia non riducibili ad altri livelli dell'evoluzione, e si applica sicuramente in molte circostanze, ma attende di essere confermata come evento comune.

La versione moderata, fondata sul "setaccio delle specie" piuttosto che sulla "selezione di specie" dice che l'evoluzione deve essere descritta come successo differenziale nella nascita e morte delle specie come entità stabili, ma tollera che le ragioni alla base del differente successo delle specie emergano dal classico livello darwiniano di organismi in lotta all'interno di popolazioni di successo - l'"ipotesi dell'effetto" di Vrba (si veda Gould, 2002, p. 820). In questa versione, dobbiamo tenere conto della macroevoluzione basata sulle specie come individui a scopo descrittivo, ma non in termini causali.

Tuttavia, nella versione radicale, che richiede una vera selezione di specie, il successo differenziale delle specie è conseguenza della fitness emergente definita dalle interazioni delle specie-individuo con il proprio ambiente. Il capitolo 8 di Gould, 2002, offre un'ampia trattazione di come la vera selezione di specie si possa attuare con un'elevata frequenza relativa e in maniera efficace. La conferma di questa argomentazione porterebbe alla nascita di un'autentica teoria emergente della causalità nella macroevoluzione. La soluzione di questo difficile problema è ancora lontana, ma rappresenta il potenziale più eccitante per dare impeto all'equilibrio punteggiato nella riformulazione della struttura della teoria evoluzionistica.

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PER CONCLUDERE: DUE ESEMPI, UN'AFFERMAZIONE GENERALE E UNA CODA. Due esempi per finire questo libro: due autori hanno recentemente usato gli equilibri punteggiati come principio organizzatore centrale di libri su argomenti di scale diverse, ma di grande importanza per la vita e la storia umane - Kilgour (1998) in The Evolution of the Book e Thurow (1996) in The Future of Capitalism. Più importante ancora è che gli autori usino l'equilibrio punteggiato non come una vaga metafora, ma come un modello specifico di cambiamento episodico, che offre casualmente degli spunti per identificare quelle omologie strutturali che abbiamo definito in questo capitolo.

Kilgour nota che il tema del miglioramento dell'efficienza segna la storia della produzione dei libri (e potrebbe essere male interpretato come una prova del gradualismo anagenetico, tanto quanto le tendenze nella storia evolutiva dei cladi sono state spesso male usate al posto di modelli puntuazionali definiti da ramificazioni discrete con plateau successivi). Egli scrive (p. 4): "A parte la forma, il maggior cambiamento nell'intera storia del libro è stato il continuo aumento della velocità di produzione: dai giorni, richiesti per scrivere a mano un'unica copia, ai minuti, per stampare a macchina migliaia di copie, ai secondi, per comporre e mostrare testi sugli schermi elettronici".

Tuttavia, come sa Kilgour, che ne fa il tema principale del suo libro, la forma non può essere considerata "a parte". Quando si cerca, attraverso questi progressivi miglioramenti delle funzioni, di trovare i fondamenti delle forme, la storia del libro diventa fortemente puntuazionale. Kilgour vede, riassumendo graficamente la sua tesi centrale (Fig. 36), l'evoluzione del libro - definito come "un deposito delle conoscenze umane atto a disseminarle, nella forma di un artefatto portatile, o almeno trasportabile, che contiene serie di segni che trasmettono informazioni" (p. 3) - come una sequenza di quattro grandi punteggiature: la tavoletta di argilla, il rotolo di papiro, il codice (libro moderno), e il "libro" elettronico (ancora privo di una forma canonica perché stiamo ora godendoci il raro privilegio di vivere all'interno di una punteggiatura, o scavandoci la nostra strada attraverso di essa), con tre punteggiature "sottospecifiche" all'interno del lungo dominio del codice (l'invenzione della stampa a caratteri mobili da parte di Gutenberg a metà del XV secolo, l'enorme aumento di produzione reso possibile prima dall'introduzione delle macchine a vapore all'inizio del XIX secolo, e poi dallo sviluppo della stampa offset a metà del XX secolo).


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Tavolette di argilla   Prima punteqqiatura   | 2500 a.C. |
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    Rotoli di papiro   Seconda punteggiatura | 2000 a.C. |
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              Codice   Terza punteggiatura   |  150 d.C. |
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              Stampa   Quarta punteggiatura  |   1450    |
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   Macchine a vapore   Quinta punteggiatura  |   1800    |
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       Stampa offset   Sesta punteggiatura   |   1970    |
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   Libri elettronici   Settima punteggiatura |   2000    |
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36. Kilgour, nel suo lavoro del 1998 sull'evoluzione del libro, presenta un modello puntuazionale dalle tavolette di argilla, ai rotoli di papiro, al codice, alla stampa, e avanti verso il futuro indeterminato del libro elettronico. Tutte le principali caratteristiche dei modelli biologici si applicano qui in isomorfismi adeguati per le cause, compresa la sopravvivenza degli antenati dopo la ramificazione dei discendenti.
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Come ho sottolineato in tutta questa discussione sui cambiamenti culturali e tecnologici, la natura lamarckiana di tali processi permette, in periodi di stasi generale delle strutture di base, una quantità di accumuli direzionali maggiore di quella che probabilmente mostrerebbe in tempi analoghi l'evoluzione biologica. Quindi, mentre il codice (il familiare "libro rilegato") ha goduto il suo millennio e mezzo di dominio in una forma fondamentalmente stabile, svariate innovazioni sia nel progetto (l'introduzione dell'impaginazione e degli indici) che nella pratica umana e nelle scoperte collaterali (l'invenzione degli occhiali alla fine del XIII secolo, e l'introduzione della pratica "stravagante" della lettura silenziosa nel XV secolo) hanno di molto ampliato l'uso di un prodotto che è rimasto sostanzialmente stabile nella forma. (Quando i libri erano rari, la gente li leggeva ad alta voce e, apparentemente, non immaginava neppure una possibilità che a noi pare ovvia, e cioè che si potesse leggere senza pronunciare le parole. Leggendo a voce alta, una copia può essere condivisa fra molti, mentre una lettura silenziosa richiede una copia a testa).

Per contro, i quattro grandi progetti (o almeno i tre che conosciamo, poiché il quarto non ha ancora trovato la sua stabilità) hanno sperimentato storie fortemente simili, in un modo ben più che vagamente metaforico, all'origine e persistenza delle specie biologiche trattate come individui singoli. Delle tre similitudini principali, la prima consiste nella persistenza di ognuna delle forme principali con strutture effettivamente immutate per lunghi periodi di tempo, secondo gli standard dell'innovazione tecnologica umana. Per giunta, ogni transizione introdusse un gran miglioramento risolvendo un grande problema strutturale insito nella struttura precedente. Quindi, la grande persistenza di ciascuna struttura illustra una ragione importante, più "ambientale" che strutturale, dell'esistenza della stasi nei sistemi naturali: il vantaggio della rendita di posizione. "L'estinzione delle tavolette di argilla", scrive Kilgour (1998, pp. 4-5), "è stata determinata dalla difficoltà di scrivere simboli alfabetici curvilinei sull'argilla"; mentre "il bisogno di reperire informazioni più in fretta possibile di quanto sia possibile in un rotolo di papiro, ha iniziato lo sviluppo del codice greco-romano nel II secolo d.C". Kilgour scrive, a proposito di questo predominio della stasi: "Periodi estremamente lunghi di stabilità caratterizzano le tre prime forme del libro; le tavolette di argilla e i libri a rotoli di papiro sono esistiti per 2500 anni, e i codici per quasi 2000 anni. Un egiziano del XX secolo a.C. avrebbe riconosciuto immediatamente, se lo avesse potuto vedere, un rotolo di papiro greco o romano dei tempi di Cristo; allo stesso modo, un greco o un romano del II secolo d.C., che si fosse familiarizzato con i nuovi codici manoscritti, non avrebbe problemi a riconoscere i nostri libri stampati dalle macchine del XX secolo".

Secondo punto: gli stadi successivi non sono segmenti di un flusso anagenetico (indipendentemente dal carattere puntuazionale di ogni nuova forma introdotta), ma piuttosto nascono come forme discrete in aree particolari - dunque seguendo il modello della speciazione ramificata, così vitale per la validazione dell'equilibrio punteggiato, e anche soddisfacendo il criterio operativo principale per distinguere equilibrio punteggiato da anagenesi punteggiate: la sopravvivenza delle forme ancestrali dopo l'origine delle nuove specie. Kilgour nota (p. 158) che "le tavolette di argilla e i rotoli di papiro convissero per 2000 anni, così come due specie biologiche possono vivere assieme nello stesso ambiente". Egli nota pure, con disappunto e nello stesso tempo con un po' di dolore, "che i libri sulla carta e sugli schermi elettronici, come le tavolette di argilla e i libri di papiro, probabilmente, coesisteranno per qualche tempo, ma per decadi piuttosto che per secoli" (p. 159).

Terzo, ogni forma - almeno prima che il miglioramento delle comunicazioni nei due ultimi secoli rendesse tali localizzazioni virtualmente inconcepibili — si originò in un particolare tempo in un particolare luogo, e in accordo alle caratteristiche dell'ambiente immediatamente circostante, un analogo significativo delle origini localmente adattative delle specie biologiche. Kilgour scrive che: "I sumeri inventarono la scrittura verso la fine del IV millennio a.C. e con l'argilla, che trovavano dappertutto, svilupparono le tavolette sulle quali scrivere. Gli egiziani poco dopo impararono a scrivere dai mesopotamici, e usarono la pianta del papiro, che cresce solo in Egitto, per sviluppare il rotolo di papiro su cui scrivere".

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Pagina 362

Come modello di eccellenza, anche di scrittura chiara e accurata, la trattazione dell'equilibrio punteggiato nel libro più popolare degli anni ottanta riassume le ragioni per le quali quel libro occupa, giustamente, un rango elevato. Helena Curtis era una autrice profonda, non una biologa professionista, ma padroneggiava la materia e poteva mangiarsi in un boccone tutti i concorrenti. (So, da comunicazioni personali, che all'inizio era abbastanza scettica sull'importanza dell'equilibrio punteggiato, sicché le sue generose considerazioni registrano il giudizio di un osservatore critico, non quello di un partigiano). Riproduco qui di seguito la maggior parte della sezione di Curtis e Barnes (1985, pp. 556-557) sugli "Equilibri punteggiati", l'argomento conclusivo del loro capitolo "evoluzione". Se gli autori fossero sempre così corretti e accurati, i libri di testo potrebbero raggiungere l'eccellenza nel genere e l'equilibrio punteggiato starebbe sicuro nel regno del comprensibile, dell'informativo e dell'interessante:

Sebbene i resti fossili documentino molti stadi importanti della storia evolutiva, vi sono numerose interruzioni [...]. Nel corso dei 100 anni dopo la morte di Darwin sono stati scoperti molti più fossili, tuttavia sono stati trovati meno esempi di cambiamenti graduali fra forme di quanti ci si aspettasse. Fino a tempi recenti, la discrepanza fra il modello del lento cambiamento filetico e la sua scarsa documentazione nella maggior parte dei resti fossili è stata attribuita all'imperfezione dei resti stessi. Circa dieci anni fa, due giovani scienziati, Niles Eldredge dell'American Museum of Natural History e Stephen Jay Gould dell'Università di Harvard azzardarono la proposta radicale che forse i resti fossili, dopo tutto, non siano così imperfetti. Sia Eldredge che Gould avevano una preparazione di geologi e paleontologi degli invertebrati, ed entrambi erano rimasti colpiti dal fatto che ci fossero ben poche prove di cambiamenti filetici nelle specie fossili che studiavano. Tipicamente una specie appare di colpo negli strati fossiliferi, dura fra i 5 e i 10 milioni di anni, e sparisce, apparentemente senza aver cambiato granché dal suo primo apparire. Un'altra specie, affine ma chiaramente diversa - "completamente formata" - prende il suo posto, persiste con pochi cambiamenti e sparisce allo stesso modo improvviso. Supponiamo, sostengono Eldredge e Gould, che questi lunghi periodi di non cambiamento (stasi è il termine che usano), punteggiati da interruzioni, non siano mancanza di resti fossili, bensì siano i resti fossili, le prove di ciò che è realmente accaduto.

Come potrebbe una nuova specie fare una comparsa così improvvisa? Essi trovano una risposta nel modello della speciazione allopatrica. Se le nuove specie si formano principalmente in piccole popolazioni ai margini dell'areale di una specie, se la speciazione avviene rapidamente (i paleontologi intendono con questa parola migliaia, non milioni di anni) e se le nuove specie entrano in competizione con le vecchie, prendendo il loro posto, la documentazione fossile che ne risulta sarebbe quella che si vede [...].

Il nuovo modello è stato molto sviluppato, in particolare da Steven M. Stanley della Johns Hopkins (anche lui un paleontologo) ed è divenuto più radicale. I suoi sostenitori ora affermano non solo che la cladegenesi è il modo principale del cambiamento evolutivo (come Mayr aveva affermato 30 anni fa) ma anche che la selezione naturale avviene tra le specie tanto quanto fra gli individui [...]. In questa nuova formulazione, le specie prendono il posto degli individui e la speciazione e l'estinzione quello delle nascite e delle morti. In breve, ci sono due meccanismi dell'evoluzione, secondo questa proposta: in uno la selezione naturale agisce sugli individui, nell'altro sulle specie.

Il modello dell'equilibrio punteggiato sarà assimilato dalla teoria sintetica? O sarà qualche meccanismo evolutivo radicalmente nuovo a diffondersi fra gli strati scientifici, vincendo in competizione le vecchie idee?

È troppo presto per dirlo mentre stiamo scrivendo. Tutto quello che si può dire è che questa proposta ha stimolato un vigoroso dibattito, un riesame dei meccanismi evolutivi comunemente accettati, e una riconsiderazione delle prove. Tutto ciò indica che la biologia evolutiva è viva e in buona salute e che gli scienziati stanno facendo ciò che si suppone che facciano — si pongono domande. Pensiamo che Darwin ne sarebbe stato deliziato.

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