Copertina
Autore Giovanni Gurisatti
Titolo Dizionario fisiognomico
SottotitoloIl volto, le forme, l'espressione
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2006, Studio , pag. 550, cop.fle., dim. 140x215x30 mm , Isbn 978-88-7462-142-2
LettoreFlo Bertelli, 2006
Classe filosofia , teoria dell'arte , psicologia , semiotica
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Indice

 11 Prefazione

    Introduzione. Il paradigma fisiognomico

 21 1. Scienza, semiotica ed ermeneutica del volto
 25 2. L'interpretazione fisiognomica del volto
 33 3. Gli elementi dell'interpretazione
 39 4. Per un'ermeneutica del visibile


    Parte prima. Il volto


    I. Zoognomica

 47 1. Il volto organico
 50 2. Il volto animale
 55 3. Il volto allegorico
 61 4. Il volto geometrico

    II. Fisiognomica

 69 1. Il volto individuale
 74 2. La svolta ermeneutica
 80 3. La «Bildung» dello sguardo
 85 4. Il volto statico

    III. Patognomica

 91 1. Lichtenberg anti-fisionomo
 98 2. Il volto dinamico
104 3. Lichtenberg-Hogarth: patognomica integrale
107 4. L'uomo camaleonte

    IV. Morfologia

113 1. Goethe e Lavater
118 2. Morfologia e fisiognomica
125 3. Morfologia e monadologia
128 4. Urphδnomen e volto

    V. Carattere

133 1. Fisiognomica, caratterologia e metafisica
136 2. Carattere e volontà
142 3. Carattere e corpo
151 4. Fisiognomica del macroantropo

    VI. Gesto

157 1. Klages e Schopenhauer
163 2. Carattere e movimento
168 3. Azione, espressione, rappresentazione
173 4. Origine e comprensione del movimento espressivo

    VII. Volto

183 1. I paradossi del volto
187 2. Essere e apparire
191 3. Fisiognomica e interpretazione
198 4. Estetica e mistica del volto

    VIII. Maschera

205 1. Aristocrazia della maschera
214 2. Trivialità della maschera
219 3. L'annichilimento del volto
223 4. Maschera e metropoli


    Parte seconda. Le forme


    IX. Ritratto

235 1. Immagine e volto
238 2. Pittura e fisiognomica
244 3. Morfologia del ritratto
248 4. Ritratto e individualità

    X. Caricatura

255 1. Il ritratto comico
260 2. Tipi di caricatura
268 3. Estetica del brutto
273 4. Magia dell'immagine

    XI. Attore

279 1. L'arte della rappresentazione
283 2. L'immagine scenica dell'uomo
286 3. Il paradosso dell'attore
295 4. L'impossibilità dell'attore

    XII. Parola

301 1. Il volto della lingua
307 2. «Ritratto sonoro» e «gesto fonetico»
313 3. Le parole e le cose
321 4. Benjamin fisionomo del linguaggio

    XIII. Scrittura

327 1. Il volto della scrittura
332 2. Scrittura, gesto, immagine
337 3. Scrittura e storia
344 4. Micrologia della scrittura

    XIV. Opera

351 1. Il volto dell'opera
355 2. Opera, carattere, inconscio
362 3. Morfologia fisiognomica
362 4. Filologia fisiognomica

    IX. Ritratto

377 1. Il volto della storia
382 2. Storia come espressione
387 3. Morfologia della civiltà
394 4. Fisiognomica e temporalità

    XVI. Metropoli

403 1. Il volto della città
409 2. Metropoli e maschera
412 3. Metropoli senz'aura
418 4. La città virtuale

    Conclusione. Tramonto dell'espressione e
    crisi di un paradigma

429 1. Dall'in-differenza all'indifferenza
431 2. Il tramonto dell'espressione
438 3. Il volto virtuale
441 4. In-attualità di un paradigma

447 Note
513 Bibliografia
537 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 11

Prefazione


Quando, vent'anni fa, consegnai agli atti la mia (felicemente archiviata) tesi di laurea sul Passagen-Werk di Walter Benjamin, una cosa mi fu chiara: ciò che andava approfondito, di quel lavoro studentesco, era il significato di un termine metodologico che avevo usato spesso per descrivere l'approccio benjaminiano ai fenomeni della letteratura (anzitutto nel Dramma barocco tedesco) e della storia (nel lavoro incompiuto sulla «Parigi del XIX secolo», appunto), la cui genealogia, il cui significato estetico-gnoseologico e il cui senso ermeneutico avevo sì intuito, ma ero allora ben lungi dal comprendere in modo approfondito: il termine «fisiognomica». Al tempo stesso, fu questa la mia fortuna: iniziare a occuparmi di fisiognomica dalla fine della sua storia e, si potrebbe dire, dal di fuori della sua impostazione antropologica tradizionale, ossia a partire dal contesto di un'opera, quella di Benjamin – a mio avviso il massimo fisionomo moderno delle forme – in cui essa appare in tutto il fulgore della sua applicazione paradigmatica in ambiti in cui il «volto» non è necessariamente quello dell'uomo, bensì quello della lingua, della scrittura, delle opere d'arte, della città e della storia. Qui – lontano dal fascino un po' kitsch delle figurine, delle vignette e delle faccette che solitamente affollano gli studi sull'argomento – il «paradigma fisiognomico», depurato dai suoi aspetti più dozzinali, appariva in tutta la limpidezza gnoseologica della sua potenzialità ermeneutica e della sua efficacia estetologica, peraltro comprovate dall'intensa riflessione di Benjamin sul carattere essenzialmente micrologico, monadologico, musivo e asistematico dell'indagine filosofica delle opere d'arte e dei fenomeni storici.

Nondimeno, si rendeva necessaria una presa più diretta sull'argomento. E anche qui fui fortunato: la prima opera fisiognomica con cui ebbi in concreto a che fare furono proprio i Frammenti fisiognomici di Johann Caspar Lavater, nella monumentale ristampa anastatica in quattro volumi dell'edizione originale del 1775-1778, da me consultata presso l'Istituto di Germanistica dell'Università di Heidelberg. Non esito ad attribuire a questo incontro il valore di una illuminazione. Evidente, infatti, mi apparve subito la profonda, inequivocabile affinità metodologica e gnoseologica che lega fin nei minimi particolari i «frammenti» di Lavater ai «frammenti» del Passagen-Werk, giacché l'aura ermeneutica che emanava da due opere in apparenza così distanti era esattamente la stessa: tante immagini, tante «citazioni», tanti «estremi» micrologici tratti dal mondo dell'uomo, dell'arte e della storia, tenuti assieme da una scrittura aperta, discontinua, meditativa e formativa, nonché da una conoscenza intuitiva totalmente votata all'interpretazione del «visibile».

Inoltre presto ebbi modo di constatare la differenza che intercorre fra l'impostazione di Lavater e quella delle fisiognomiche precedenti, ad esempio di Aristotele, Della Porta, Le Brun, e mi resi conto della vera e propria «svolta» da lui operata nello sviluppo della disciplina.

A ben vedere, quindi, tanto il filologo Benjamin mi si presentava come fisionomo della storia, quanto il fisionomo Lavater mi appariva come un filologo del volto, sicché entrambi potevano dirsi «ermeneuti» delle forme. Se è vero che — lo dice Benjamin — l'immagine della dialettica storica è quella in cui «il passato si unisce fulmineamente con l'ora in una costellazione», allora questa è l'immagine storica, la costellazione originaria su cui si regge il presente lavoro: il «passato» di Lavater e l'«ora» di Benjamin.

Tuttavia una costellazione non si compone di due soli astri. Il passaggio dalle forme del volto alle forme della storia necessitava di un catalizzatore «morfologico», e questi non poteva che essere il Goethe della Teoria dei colori e degli scritti sulla morfologia delle piante e degli animali. Benjamin non nasconde il debito profondo che la sua ermeneutica delle forme ha nei confronti della morfologia goethiana. Ma non tardai a scoprire che prima di elaborare la sua zarte Empirie, cioè il suo modello «estetico» di interpretazione delle forme naturali, Goethe conobbe e frequentò con assiduità Lavater, praticò la fisiognomica e collaborò alla stesura dei Fragmente, sicché non sembrava affatto azzardato ipotizzare che, alla base della sua filosofia naturale, vi fosse — almeno dal punto di vista metodologico — la fisiognomica, tanto che la sua morfologia potrebbe essere definita una «fisiognomica del volto della natura». A fare da anello di congiunzione tra la fisiognomica dell'uomo di Lavater e la fisiognomica della storia di Benjamin si poneva quindi la fisiognomica della natura di Goethe. Tra i Fragmente e il Passagen-Werk si inserivano la Farbenlehre e la Metamorphose der Pflanzen. Fisiognomica, morfologia, filologia; Lavater, Goethe, Benjamin: è questo l'asse principale del «paradigma fisiognomico» che è a tema nel mio Dizionario.

Θ vero peraltro che un paradigma non si regge se non contiene al proprio interno un elemento di resistenza, di contrasto, di lucida confutazione. E quale «obiezione» più lucida, disincantata e sottile di quella sollevata nei confronti della fisiognomica di Lavater da parte del suo più acerrimo nemico Lichtenberg? Leggendo il suo libello Sulla fisiognomica; contro i fisionomi, pubblicato nel 1778 e rivolto contro «l'orda di cavallette» sorta al seguito di Lavater, capii fino a che punto queste dense pagine dell'arguto scienziato di Gottinga contenessero puntuali osservazioni critiche circa la pratica — non la teoria — fisiognomica, e acquistassero il loro vero valore non (come si è detto sbrigativamente fin troppo spesso) nel decretarne l'inattendibilità scientifica, quanto piuttosto nell'evidenziarne i problemi di interpretazione, problemi intrinseci alla comprensione del volto, quindi attinenti al metodo fisiognomico e alla sua rigorosa applicazione. Anche Lichtenberg dunque — con buona pace dei vecchi e nuovi detrattori della fisiognomica — rientra a pieno titolo nel paradigma fisiognomico.

Nacque così in me l'idea — poi realizzatasi nel 1991 — di rendere accessibile al pubblico italiano il «dibattito settecentesco» fra Lavater e Lichtenberg, pro e contro la fisiognomica. Prendendo le mosse da questo snodo iniziai a organizzare la storia della materia, prima, dopo e oltre Lavater, nella ricca produzione che va dall'antica Grecia (ma c'è chi parte addirittura da Adamo) all'Ottocento positivista e, poi, al Novecento — senza smettere di meravigliarmi di fronte alla vastità e alla complessità dei suoi territori. Scopersi, ad esempio, l'ambito immenso — e pressoché ignoto in Italia — della teoria, o psicologia dell'espressione in terra tedesca, che a partire dagli anni '30 ebbe un enorme sviluppo, conquistando un posto di diritto persino in ambito accademico e universitario. Il che mi confortava dal timore di avere infilato, nelle mie ricerche estetologiche, un vicolo cieco sostanzialmente privo di riscontri teoretici e di sperimentazioni empiriche.

[...]

Si spiega così l'architettura simmetrica, in due parti, del mio lavoro, che, come si può intuire, pur presentandosi per lemmi ha ben poco del dizionario nel senso corrente del termine. La prima parte, centrata sul tema del «volto» umano, riunisce i termini chiave del problema (zoognomica, fisiognomica, patognomica, morfologia, carattere, gesto, volto, maschera), rispettivamente identificati con nomi già noti alle storie della fisiognomica (Aristotele, Della Porta, Le Brun, Lavater, Lichtenberg), ma anche con nomi che in esse solitamente non compaiono (Goethe, Schopenhauer, Nietzsche, Klages, Kassner). Le otto voci sono organizzate in senso cronologico, a compiere una parabola che va dall'origine «greca» del problema del volto e del suo paradigma cognitivo, passando attraverso la «svolta» epistemologica effettuata da Lavater, per giungere alla loro crisi nell'universo metropolitano della maschera, da me sintetizzata sotto il nome di Nietzsche.

La seconda parte, centrata sul tema delle «forme» e complementare alla prima, traccia anch'essa una parabola in otto voci che, partendo dall'immagine estetica del volto e del corpo (ritratto, caricatura, attore), attraversa gli ambiti della lingua (parola, scrittura), dell'arte (opera) e della storia (storia, metropoli), all'interno dei quali la nozione di volto appare declinata «al genitivo», in quanto volto della lingua, della scrittura, e così via, rivelandosi come chiave ermeneutica privilegiata per accedere al carattere di espressione di tali oggetti, dunque alla loro verità. Anche qui la disposizione delle voci è cronologica: prende le mosse dalla massima emergenza del rapporto volto-forma nella forma artistica del ritratto – che si dà nell'Umanesimo e nel Rinascimento – passando attraverso l'applicazione del modello-ritratto a vari contesti morfologici (lingua, arte, storia), per giungere, come nella prima parte, alla crisi di tale modello nell'universo formale della metropoli moderna e postmoderna.

Chi volesse sintetizzare con uno slogan suggestivo – da cui personalmente prendo le distanze, giacché per ottemperare alle sue esigenze ci sarebbero voluti ben altro spazio e ben altro tempo – le due parabole descritte dal mio Dizionario, potrebbe dire: si tratta di un percorso estetico, ermeneutico, metodologico e gnoseologico attraverso il volto, le forme e l'espressione, che tenta di identificare la metamorfosi cronologica del paradigma fisiognomico «da Aristotele al postmoderno».

E che di metamorfosi critica, cioè altamente problematica, si tratti, lo dimostrano i due pilastri che reggono le due arcate del mio edificio scritrurale In sede introduttiva, anticipando cio che nel testo è dimostrato analiticamente, fornisco una silhouette terminologica e, nei limiti del possibile, etimologica dei principali elementi costitutivi del paradigma fisiognomico-ermeneutico. Eppure alle luci dell'introduzione fanno da pendant le ombre della conclusione, poiché il mio Dizionario non sfocia, come forse ci si aspetterebbe, in un'apologia del paradigma fisiognomico, bensì nella consapevolezza del suo declino epocale in un mondo che, determinando il «tramonto» del volto, delle forme e dell'espressione, decreta al tempo stesso la crisi di quel sapere che se ne fa interprete – sicché l'attualità stessa del paradigma diventa, oggi, un problema.

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Pagina 21

Introduzione

Il paradigma fisiognomico


1. Scienza, semiotica ed ermeneutica del volto

Il volto umano è un oggetto di difficile definizione, anzi proprio in quanto non può essere catalogato semplicemente come «oggetto», esso si sottrae sia alla presa scientifica che alla spiegazione concettuale. Schopenhauer, il quale, pur essendo filosofo e metafisico, si intendeva di fisiognomica, avverte che il volto, il gesto e il sapere che se ne occupa non appartengono all'ambito della scienza e del concetto, bensì a quello dell'arte e dell'intuizione. A sua volta Rudolf Kassner, uno dei più acuti interpreti del volto nel Novecento, afferma che la fisiognomica non è, non ha bisogno di essere, né può essere una scienza; all'opposto, la maggior parte di ciò che essa ha di falso deriverebbe precisamente dalla sua aspirazione all'esattezza scientifica. Benché nel corso della sua vicenda plurimillenaria si sprechino i tentativi di legittimarla come scienza, inserendola nel contesto gnoseologico della medicina, anatomia, fisiologia, neurologia, biologia, antropologia e criminologia, non v'è dubbio che il luogo dell'autentica valorizzazione della fisiognomica siano piuttosto l'estetica, l'arte, la letteratura, la psicologia, la caratterologia, la lingua e la storia – un luogo prettamente «ermeneutico» dunque. Se il volto è oggetto, lo è solo in quanto oggetto di interpretazione.

Ciò che lo sguardo obbiettivo, analitico, neutro, distaccato – si potrebbe dire «fotografico» – dello scienziato (ad esempio il medico) si trova di fronte non sono un volto e un corpo, bensì una faccia e un organismo, un soma il cui contenuto significativo (funzioni, processi, stati fisio-patologici) egli cerca di spiegare, dimostrare, verificare, misurare, quantificare. Il volto, in tal caso, è la facies hyppocratica, la faccia intesa come insieme di sintomi, indizi, tracce che la semeiotica medica indaga con l'obiettivo di risalire geneticamente alla loro causa, dunque alla eventuale disfunzione e malattia, che va diagnosticata e curata. I movimenti del volto, qui, sono riflessi, contrazioni, spasmi, meccanismi; i suoi tratti sono macchie, colorazioni e stati dell'epidermide, eruzioni cutanee, enfiagioni e infossamenti dei tessuti molli, pieghe, venature. Il senso fisico-fisiologico della facies è già dato «dentro» di essa, sicché la sua superficie ne è solo il mezzo di estrinsecazione: fra esterno e interno, segno e designato corre qui un rapporto statico-locale causale (duale, successivo), dove il sintomo, lo spasmo, il colore altro non sono che l'effetto esteriore, l'esteriorizzazione di una causa interiore, cui essi rinviano secondo uno schema gerarchico stabile e rigorosamente determinato. Se così non fosse, l'ipotesi di definire un quadro sintomatico «tipico» di una malattia cadrebbe nel vuoto: gli indizi vanno ricondotti a uniformità, regolarità, conformità a leggi e a norme, poiché solo così la faccia della malattia (cui la persona del portatore individuale è indifferente) può essere classificata, dunque spiegata. Al fondo di ogni indagine medico-scientifica sta la tendenza tipizzante, quindi astraente e generalizzante, alla costituzione di una grammatica, un lessico, una enciclopedia della faccia, che consenta una «identificazione» certa e univoca di ciò che, dall'interno, ne determina l'aspetto esterno.

Per quanto possano essere state storicamente contigue – ad esempio nell'antica dottrina degli umori e dei temperamenti – la semeiotica medica (la scienza della faccia), e la fisiognomica caratterologica (l'interpretazione del volto), rispondono a paradigmi conoscitivi differenti: al metodo esplicativo dell'una si oppone la tensione comprendente dell'altra. Ciò che lo sguardo intuitivo, geniale, divinatorio – si potrebbe dire artistico e «ritrattistico» – del fisionomo (non medico e scienziato, ma psicologo e Menschenkenner, conoscitore d'uomini) si trova di fronte non è la facies generica di uno stato funzionale o di una malattia che, per così dire, abitano l'organismo fisico-fisiologico di un soggetto impersonale, bensì il volto individuale, unico e irripetibile, dunque irriducibile a legge e a norma, di una singola personalità concreta, il cui contenuto significativo (l'anima, il carattere, l'indole, il temperamento) egli cerca di esperire (nel senso dell' erleben, cioè del vissuto individuale), dunque di comprendere e interpretare in termini qualitativi, individualizzanti, non classificatori. Non si dà misura del volto, ma soltanto suo abile approfondimento ermeneutico, che non dispone di alcun lessico e di alcuna grammatica, né mira a costituirli.

Il volto non è un luogo semeiotico, ma simbolico.

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Pagina 69

II.

Fisiognomica

(Lavater)


1. Il volto individuale

I Frammenti fisiognomici per promuovere la conoscenza dell'uomo e la filantropia, usciti in quattro volumi tra il 1775 e il 1778, e redatti dal teologo, scrittore e filosofo svizzero Johann Caspar Lavater (1741-1801) hanno un solo scopo: «Dimostrare che la fisionomia è verità, cioè l'espressione visibile di qualità interiori in sé invisibili». Benché tale affermazione sembri limitarsi a riformulare una vecchia questione, essa prelude in realtà a un'autentica rivoluzione in campo fisiognomico. Nell'ambito della tradizione naturalistica, infatti, i volti da noi definiti «organico», «animale», «allegorico» e «geometrico», pur nelle loro differenze, rinviano tutti all'idea dello schema, del codice, del tipo, ed è in ossequio al principio di tipicità che i vari approcci medico, umorale, zoognomico, mimico al volto avanzano una presunzione di «scientificità», ossia di verità intesa come spiegazione delle leggi che regolano la costituzione dei tipi, dunque la realtà che a essi viene assoggettata. Per una fisiognomica dominata dalla tendenza alla tipizzazione e all'omologazione il tipo è tutto, l'individuo è nulla: ciò che va identificato, riconosciuto, classificato è un volto tipico, non il volto individuale.

Ora, la fisionomia, l'espressione e la verità di cui parla Lavater rispondono a un principio opposto, il principio di individualità, che egli definisce «il primo, il più profondo, sicuro e indistruttibile principio fondamentale della fisiognomica». La sua fisiognomica – benché non senza contraddizioni – è dominata da una tendenza all'individuazione e alla differenziazione, basata su distinzioni e particolarità, che viene comunque prima di ogni tipizzazione e omologazione, basata su analogie e somiglianze. A dispetto di qualsiasi analogia tipologica, per Lavater ogni figura umana è un microcosmo a sé stante, e «come non esistono due facce completamente uguali, così non è neppure possibile trovare due caratteri perfettamente identici». Il volto e il carattere sono dunque individuali, unici, irripetibili, complessi, e a tale dimensione individuale-complessa deve sapersi aprire una scienza non esplicativa e non classificatoria, che ha sì le sue regole, suscettibili di essere apprese e trasmesse, ma che tuttavia «si deve affidare moltissimo al genio e al sentimento», proprio come l'arte (pittorica), che è «la madre e la figlia della fisiognomica». Dove l'individuo è tutto, ed è ineffabile, non ci sono leggi, classificazioni o spiegazioni che tengano, poiché per individuare bisogna comprendere e interpretare. Θ questa la solida «roccia» idiografica su cui Lavater inizia a costruire il «palazzo massiccio» del nuovo paradigma.

Non può stupire quindi se egli sottopone i modelli del passato a un drastico ridimensionamento, attribuendo alle sue considerazioni il sapore della svolta epocale. Nell'impostazione generale, sia nello scritto programmatico Von der Physiognomik (1772) che nel primo volume dei Fragmente (1775), il ruolo attribuito alle conoscenze fisiche, fisiologiche, anatomiche, temperamentali, mediche è importante e propedeutico, ma rimarrà di fatto quasi del tutto al margine della concreta prassi interpretativa. Il giudizio di Lavater su semeiotica medica e dottrina degli umori (volto «organico») è chiaro: egli auspica lo sviluppo di una «semeiotica fisiognomica e patognomica» attuata da un medico e Menschenkenner in grado di prognosticare le malattie possibili o probabili di un individuo sano in base alla sua tipologia fisiologica e morfologica, ma si dichiara anche del tutto incompetente in materia, né mai i Fragmente fanno riferimento a sintomi, segni e indizi di tipo fisiopatologico. Medicina e fisiognomica sono e restano discipline distinte. Meno rigido è invece il parere sulla teoria dei temperamenti, di cui Lavater riconosce l'importanza per la conoscenza dell'uomo. Nondimeno anche in questo caso egli non solo rinuncia a una trattazione esauriente dell'argomento – esigendone una rielaborazione completamente nuova –, ma ammette sia la propria incompetenza sia la propria «troppo debole disposizione per un'indagine chimico-fisiologica». Le sue osservazioni si limitano quindi al metodo, ma sono caratterologicamente decisive, poiché criticano proprio l'approccio tipizzante, semplificatorio, semiotico del paradigma umorale: è un errore, afferma, definire solo quattro temperamenti per poi identificarne uno con un tipo umano, e ciò perché i quattro ingredienti principali (umidità, aridità, focosità, freddezza) «si possono modificare e spostare in infiniti modi, sicché ne derivano innumerevoli temperamenti, tanto che spesso non si riesce a individuare il principio dominante». Come dire: il risultato della mescolanza degli elementi di base è un temperamento che eccede di volta in volta l'effetto della loro mera combinazione, dimostrandosi così irriducibile alla somma delle sue componenti elementari. Inoltre, tali componenti sono per Lavater assai più numerose delle quattro ipotizzate dalla teoria classica, il che complica ulteriormente il modello interpretativo: «Quante nuove classificazioni dei principali temperamenti si possono dare? E le infinite combinazioni subordinate si moltiplicano!». Siamo di fronte a un'autentica apologia dell'individualità, dove il concetto tipico (fisiologico) di temperamento della tradizione si trasforma nel concetto individuale (psicologico) di carattere, unico, irripetibile e complesso in quanto sia irriconducibile alla sommatoria di componenti fisico-chimiche di base, sia irriducibile alla combinazione di pochi temperamenti psico-fisiologici elementari. In realtà, la teoria dei temperamenti non svolge alcuna funzione ermeneutica effettiva nei Fragmente, e anche quando Lavater, cursoriamente, dedica un paragrafo alla «caratteristica fisiognomica dei quattro temperamenti comuni», non solo non ne offre un quadro tipologico, ma si limita all'analisi di alcuni volti «individuali» in base ai loro tratti puramente morfologici, trascurando in toto sintomi e indizi fisiologici e psicosomatici. Nulla di propriamente «scientifico» dunque: l'esame avviene secondo un paradigma fenomenologico differente da quello semeiotico della tradizione medica e umorale.

Non altrimenti stanno le cose riguardo alla zoognomica, cioè al volto «animale» e al volto «allegorico». Θ vero che Lavater, in un frammento dedicato a «uomini e animali», difende il principio di continuità nella natura, secondo cui è ovunque la stessa forza a esprimersi nello stesso involucro, sicché «più una figura assomiglia all'altra, più sarà simile anche la forza», e ciò varrebbe anche per la somiglianza fra figure umane e figure animali, le loro nature e forze (i caratteri); ma è anche vero che tale principio non si traduce mai, nei Fragmente, in una reale operatività interpretativa del codice zoognomico, di cui Lavater contesta piuttosto il maldestro impiego sia in Aristotele che in Della Porta. Commentando alcune incisioni di quest'ultimo egli rileva sia l'irrealtà morfologica dei singoli volti e musi, sia l'inattendibilità delle somiglianze individuate, denunciando il perverso interscambio semantico fra falsi tipi umani e falsi tipi animali. Ciò che più importa, infatti, è che in Lavater il principio di continuità della natura non opera nel senso della tipizzazione, bensì dell'individuazione, non cerca l'omologazione, bensì la differenziazione. Mentre per Aristotele e Della Porta si dà analogia solo fra tipi e caratteri tipici (umani e animali), per Lavater può darsi affinità o somiglianza solo fra individui e caratteri individuali, ed è per questo che i suoi animali (ad es. scimmie, cavalli, e addirittura api), non sono tipi astratti, caricature o schemi allegorici, bensì appunto individui, volti concreti, simboli espressivi di cui il conoscitore arriva a cogliere non solo il carattere della specie (tipologico), ma anche il carattere individuale (fisiognomico). Laddove Aristotele, Della Porta, Le Brun e la zoognomica perseguono la tipicità (animale) anche nell'uomo, finendo per allegorizzarne le fattezze, Lavater persegue l'individualità (umana) anche nell'animale, restituendogli i suoi diritti simbolici ed espressivi peculiari, giacché «non esiste anguilla identica a un'altra anguilla, leone a un altro leone, aquila a un'altra aquila». Solo in base a tale presupposto ha senso parlare di continuità (nella differenza: in-differenza) fra le varie forze e le varie forme della natura, per cogliere la quale, tuttavia, c'è bisogno di ben altro sguardo da quello omologante, nomotetico e classificatorio della scienza.

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3. Il volto virtuale

Eppure, ancora per lungo tempo la fisiognomica, di fronte a questi sviluppi, avrebbe potuto obiettare che fintanto che le trasformazioni indotte sul volto non ne intaccano la struttura fissa, la forma innata – per quanto sovraccarica di elementi estranei-acquisiti e degradata da interazioni negative con l'interno e con l'esterno dell'uomo –, parlare di «perdita del volto» e di «tramonto dell'espressione» mantiene sì un altissimo valore allegorico, metaforico, metafisico, nella misura in cui identifica processi storico-epocali in atto, ma non ha un autentico riscontro empirico, giacché il volto, nella sua concreta effettualità, rimane sempre tale. Altrimenti detto: la maschera è senz'altro l'emblema del moderno; ma nell'idea di maschera resta comunque implicita l'idea del travestire, coprire, occultare, celare artificialmente qualcosa che essa dissimula, un volto naturale, autentico, dunque, che resta pur sempre uguale a se stesso al di là della maschera, e che quindi può tendenzialmente essere raggiunto in virtù di un'attenta ermeneutica di smascheramento e di svelamento dei suoi tratti posticci. Θ questa la legge della permanenza dell'«origine» in Lavater, che egli contrappone al camaleontismo arbitrario di Lichtenberg: «Perché mai la forma originaria dell'uomo non dovrebbe potersi mostrare sempre, anche attraverso una stratificazione di elementi casuali?». Legge che può essere applicata anche alla grafia, così come a ogni altra opera umana che rechi impresse tracce originarie, magari insignificanti, del suo creatore.

Ciò significa che per quanto in termini negativi, la logica della maschera rimane, in fondo, quella della in-differenza: la maschera indifferente è in ogni caso qualcosa di artificiale, di finto, di applicato – dunque di differente – che c'è potenzialmente per essere tolto, penetrato, dissolto. Ed è questo, appunto, il compito della fisiognomica, da Lavater a Kassner: i tratti fissi non mentono, non possono mentire, poiché sono e restano «anatomicamente» originari. Sono essi il supremo garante della verità della fisiognomica. Fintanto che vi saranno menti, fronti, zigomi, orbite, bocche, nasi, parlare di maschera avrà, di fatto, soltanto un senso metaforico, anche nell'uomo metropolitano. Non per nulla Lavater elegge il naso, cioè il tratto fisso indissimulabile per eccellenza, a chiave di volta dell'intero volto, e Carus lo definisce «ciò che identifica nel modo più certo il carattere del volto umano». Ed è solo ragionando per absurdum, con un paradosso bizzarro, che Lichtenberg si chiede se modificando il naso di un individuo se ne modificherà anche il carattere. Il paradosso sta nel fatto che anche per il grande nemico della fisiognomica il naso è l'immodificabile, l' argumentum inconcussum del fisionomo, su cui sono destinate a infrangersi le fantasmagorie apocalittiche circa la perdita del volto. Da questo punto di vista empirico la fisiognomica sembra davvero poter sopravvivere alla sua decretata inattualità epocale e «metafisica».

Ma che cosa accade allora quando – come in effetti già avviene nel mondo postmoderno – con l'ausilio della chirurgia plastica, della chimica, della genetica, dell'elettronica gli stessi tratti fissi del volto diventano realmente niente più che episodi modificabili, montabili, scomponibili, commutabili, intercambiabili? Che cosa accade quando la ri-producibilità tecnica del volto non riguarda più solo la sua immagine, e non è più un'allegoria fantasmagorica della sua perdita d'aura, ma tocca in concreto la sua carne, le sue ossa, i suoi tessuti, le sue cartilagini, la sua forma vivente, e ciò non in sporadici casi terapeutici o traumatologici, ma potenzialmente a livello di massa, proprio come avviene per le mode, il vestiario, le scarpe, l'acconciatura? Che cosa accade quando si può scegliere ad arbitrio il proprio mento, la propria bocca, i propri zigomi, il proprio naso, traendoli da un catalogo (digitale) ispirato allo star system in voga, o ai nuovi miti metropolitani, oppure organizzato per tipologie fisiognomiche e caratterologiche «personalizzate» prét à porter, intese a dare al volto i tratti fisici desiderati in base a cliché indotti di autorappresentazione somatica? Qui il volto non è più se stesso, ma nemmeno si nasconde sotto una maschera, né può dirsi solo metaforicamente maschera, poiché esso è maschera, anzi, più che maschera è protesi organica, plastica fisiologica, simulacro biologico, finzione iperreale, artificio naturale di carne e sangue, organismo cibernetico, clone – volto virtuale.

Trattando della metropoli si è detto che ciò che distingue la città-maschera moderna dalla città virtuale postmoderna è il recupero, da parte di quest'ultima, di valori di espressione in apparenza «individualizzanti», che tuttavia vengono mutuati in modo surrettizio da una memoria collettiva il cui statuto è quello meramente simulatorio dello spot pubblicitario, del set cinematografico, del cartoon e del videogame. E in tal modo che la città postmoderna cerca di riattribuire al proprio volto una personality virtuale, dato che quella reale si è dissolta. Città come puzzle di simulacri assoluti, quindi refrattaria a ogni autentica interpretazione fisiognomica.

Analogamente, ciò che distingue il volto-maschera moderno dal volto virtuale postmoderno è la propensione, da parte dell'uomo contemporaneo, a ri-generare artificialmente, iper-tecnologicamente la propria personality, il proprio look somatico, dunque il proprio «carattere- persona», anche in tal caso mutuando però tutto ciò da un immaginario collettivo indotto e governato dal vigente sistema massmediologico. Quando, negli anni '40, Adorno osservava che le facce delle giovani americane «somigliano già al naturale ai modelli arrivati secondo i quali sarebbero classificate a Hollywood», nella misura in cui il volto diventa un «prodotto sociale brevettato» derivante dalla pubblicità e dalla bellezza di consumo, la sua profezia suonava ancora fantasmagorica. Oggi è di fatto possibile ri-farsi un volto (un corpo) adottando arbitrariamente «pacchetti» di segni rispondenti a tipi, schemi, codici fisiognomici preconfezionati in base ai trend del momento – ovviamente determinati al computer. Già esistono programmi e macchine in grado di prefigurare, per ciascuno di noi, le modifiche e le combinazioni di segni che renderebbero il nostro volto – ma anche il nostro corpo, la nostra grafia, la nostra voce, la nostra immagine – un volto come «noi» lo vogliamo, a seconda dei modelli di vita e delle strategie di affermazione personale che intendiamo praticare, dato che nella civiltà dell'immagine tutto dipende dall'apparire. Ma, soprattutto, diversamente che in passato esistono oggi tecnologie sempre più raffinate in grado di realizzare in concreto i nostri desiderata fisiognomici – tecnologie che Lichtenberg (e forse anche Adorno) nemmeno poteva immaginare, e rispetto alle quali i sosia, gli automi, le maschere, le bambole meccaniche, i ròbot e i vari «mostri» fisiognomici partoriti dall'immaginario moderno appaiono nient'altro che goffe parodie archeologiche.

Di fronte al processo in atto di camaleontizzazione iperreale dei volti, processo che è il rovescio della dissoluzione del carattere, dell'interiorità, dell'individualità – e che, è bene ribadirlo, nell'epoca postmoderna acquisisce un carattere di massa, poiché è potenzialmente accessibile a chiunque – la fisiognomica cede le armi. E, come nel caso della metropoli, le cede alla semiotica, la sua grande nemica. Si è detto che, nella misura in cui si fa puro segno e gioco simulatorio di segni, il volto della città virtuale diventa oggetto non di un'ermeneutica delle sue forme espressive visibili, volta a individuarne il carattere, bensì di una semiotica finalizzata a decifrare i suoi messaggi, a decostruire i suoi codici, a identificare le sue regole, i suoi schemi, le sue strategie comunicative. Così la semiotica, che contribuisce ab origine a creare i segni della città postmoderna, non ha poi difficoltà nel «riconoscerne» empaticamente le genealogie. Analogamente, nel caso del volto virtuale, in cui ogni in-differenza psico-fisica originaria si è dissolta nella pura superficie simulatoria del segno, la semiotica non fatica a riconoscere tipi, codici, schemi pseudo-fisiognomici, poiché è essa stessa a organizzare ab origine le strategie «personalizzanti» e «caratterizzanti» di un uomo contrassegnato anch'esso – come le sue città – da «un nuovo genere di piattezza o mancanza di profondità»: un uomo-superficie il cui volto rimanda solo ad altre superfici preconfezionate, sicché anch'esso appare niente più che «una pellicola lucida, un'illusione stereoscopica, un flusso di immagini filmiche senza spessore». Di questo visibile si dà sì semiotica, ma non ermeneutica, poiché questa superficie finzionale-simulatoria non ha alcuno spessore, alcuna profondità, alcun carattere.


4. In-attualità di un paradigma

Alle soglie del secolo metropolitano – siamo nel 1899 – James Ensor, in un suo celebre dipinto visionario, raffigurò una fiumana di volti, pigiati l'uno addosso all'altro, che sembra procedere a stento, mentre altri volti, sullo sfondo, spingono per entrare in scena. L'inquadratura lascia presagire che quella qui rappresentata sia solo la sezione minima, colta in primissimo piano, di un assembramento immane e compatto, che ondeggia pesantemente in un'unica direzione, senza che nessuno, al suo interno, goda di movimento proprio, o tantomeno della libertà di andarsene. La folla procede, ma al tempo stesso è come bloccata, soffocata dalla sua stessa densità. Si ha l'impressione che la sensazione di asfissia che sembra serpeggiare stia per mutarsi in panico collettivo. A ben guardare, tuttavia, quelli che sembrano volti non lo sono: si tratta piuttosto di facce disumane stravolte da smorfie grottesche, orbite vuote, occhi sbarrati, maschere dai tratti clauneschi, demoniaci, ghignanti, bocche spalancate, teste esoticamente addobbate, musi ferini o negroidi, animali, mummie e teschi. Tutte queste teste senza corpo si accalcano, si sovrappongono, si schiacciano l'una contro l'altra come tanti gusci svuotati, tutte rivolte in avanti, tutte con la medesima espressione, tutte prive di sguardo.

Tutte meno una. Al centro del quadro spicca un volto dalla fisionomia – questa sì – netta e riconoscibile, la cui linea, la pienezza e l'armonia dei tratti, l'unità della figura, l'eloquenza dello sguardo non lasciano dubbi: lo riconosciamo subito per un ritratto, quello dell'artista. Il contrasto fra questo volto e le altre figure non potrebbe essere più stridente, e lo diventa ancor più quando ci si accorge che l'artista è di spalle, sta cioè cercando di aprirsi un varco tra la folla in senso contrario al suo movimento, sicché quello che sembra avanzare con gli altri è, invece, il volto di un uomo che si è girato per un solo istante ed è nell'atto di allontanarsi. Lo confermano la torsione del collo e lo sguardo di traverso, proprio di colui che sbircia sopra la spalla in senso contrario alla sua direzione di marcia, nonché la posizione della figura, leggermente spostata verso l'alto del quadro, come se volesse uscire di scena. E deve farlo senz'altro, se non vuole tramutarsi anch'egli in maschera: già la piuma del suo cappello fa da zazzera a una faccia che incalza, e il suo stesso corpo è in procinto di essere cancellato dalla marea. La profondità di questo volto sta per essere risucchiata dalla superficie delle maschere.

Il Ritratto dell'artista circondato da maschere è l'allegoria profetica di un congedo: il congedo del corpo nell'universo fantasmatico della grande massificazione, il congedo della profonda superficie del volto e del ritratto nel cosmo assolutamente superficiale dell'umanità chimerica della città (post)moderna. Qui il volto e il ritratto abbandonano il proprio centro e svaniscono dalla folla mascherata, che da questo momento rimane l'unica protagonista della metropoli, della sua arte e delle sue forme. Nello sguardo disincantato, forse solo un po' ironico, con cui l'artista fissa l'osservatore, nella compostezza della mimica e dell'atteggiamento – che non hanno nulla del dispetto e della rabbia impotente di un Baudelaire –, appaiono la sobrietà, il distacco, la Gelassenheit con cui egli affronta l'ineluttabilità di un destino: tutto ciò che per secoli ha occupato il centro dell'umano, il suo volto e la sua immagine, il suo linguaggio e la sua storia, le sue forme e la sua espressione, insomma tutto ciò che costituisce la profondità insondabile della sua superficie, cede il passo alla superficie pura, al simulacro assoluto, che riempie di sé ogni spazio, contaminandolo con la sua essenziale vuotezza. Del resto, la folla indifferente, distratta, non sembra curarsi di tale evento: il volto è dimenticato, e questa stessa dimenticanza è già caduta nell'oblio.

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