Autore David Harvey
Titolo Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2014, Campi del sapere , pag. 334, cop.fle., dim. 14x22x2,3 cm , Isbn 978-88-07-10509-8
OriginaleSeventeen Contradictions and the End of Capitalism [2014]
TraduttoreVirginio B. Sala
LettoreGiorgia Pezzali, 2015
Classe economia , economia politica , economia finanziaria , storia economica , storia sociale , movimenti , inizio-fine












 

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Indice


  9 Prologo. La crisi del capitalismo, questa volta

 14 Introduzione. Sulla contraddizione


    Parte prima   -    Le contraddizioni dei fondamenti

 27 Contraddizione 1.  Valore d'uso e valore di scambio
 37 Contraddizione 2.  Il valore sociale del lavoro e la sua
                       rappresentazione mediante il denaro
 49 Contraddizione 3.  Proprietà privata e Stato capitalistico
 62 Contraddizione 4.  Appropriazione privata e ricchezza comune
 71 Contraddizione 5.  Capitale e lavoro
 78 Contraddizione 6.  Capitale come processo o come cosa?
 87 Contraddizione 7.  L'unità contraddittoria di produzione e
                       realizzazione

    Parte seconda  -   Le contraddizioni in movimento

 99 Contraddizione 8.  Tecnologia, lavoro e umanità a perdere
118 Contraddizione 9.  Divisioni del lavoro
136 Contraddizione 10. Monopolio e concorrenza:
                       centralizzazione e decentramento
150 Contraddizione 11. Sviluppi geografici disomogenei e
                       produzione dello spazio
167 Contraddizione 12. Disparità di reddito e di ricchezza
184 Contraddizione 13. Riproduzione sociale
200 Contraddizione 14. Libertà e dominio

    Parte terza   -    Le contraddizioni pericolose

222 Contraddizione 15. Crescita composta senza fine
245 Contraddizione 16. La relazione del capitale con la natura
262 Contraddizione 17. La rivolta della natura umana:
                       alienazione universale


279 Conclusione. Prospettive per un futuro felice ma contestato:
                 la promessa dell'umanesimo rivoluzionario

290 Epilogo. Idee per la prassi politica

295 Note
303 Bibliografia
309 Indice dei nomi e degli argomenti


 

 

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Pagina 9

Prologo

La crisi del capitalismo, questa volta


Le crisi sono essenziali per la riproduzione del capitalismo. Nel corso delle crisi le sue instabilità vengono affrontate, riplasmate e reingegnerizzate per creare una nuova versione di quel che è il capitalismo. Molto si abbatte e si distrugge per fare posto al nuovo. Paesaggi un tempo produttivi sono trasformati in deserti industriali, vecchi impianti industriali vengono demoliti o convertiti a nuovi usi, quartieri operai diventano quartieri signorili. Altrove piccole fattorie e cascine contadine vengono spazzate via dall'agricoltura industrializzata su grande scala o da nuove e luccicanti fabbriche. Centri direzionali, centri di Ricerca e Sviluppo, magazzini all'ingrosso e di distribuzione si moltiplicano sul territorio in mezzo a quartieri residenziali periferici, collegati tra loro da autostrade a quadrifoglio. Le città principali si fanno concorrenza per l'altezza e l'eleganza dei loro grattacieli d'uffici e i loro edifici culturali iconici, enormi centri commerciali proliferano nelle città come nelle periferie, alcuni addirittura svolgendo anche la funzione di aeroporti attraverso i quali passano senza tregua orde di turisti e di uomini d'affari, in un mondo diventato cosmopolita per default. I golf club e le comunità chiuse, nati negli Stati Uniti, ora si possono vedere anche in Cina, in Cile e India, a far da contrasto agli insediamenti abusivi e autocostruiti ufficialmente indicati con i nomi di slum, favelas o barrios pobres.

Ma quel che colpisce nelle crisi non è tanto la complessiva riconfigurazione dei paesaggi fisici, quanto i cambiamenti drastici nei modi di pensare e di comprendere, nelle istituzioni e nelle ideologie dominanti, la fedeltà e i processi politici, le soggettività politiche, le tecnologie e le forme organizzative, le relazioni sociali, le usanze culturali e i gusti che informano la vita quotidiana. Le crisi scuotono fino alle fondamenta le nostre concezioni del mondo e del posto che vi occupiamo. E noi, partecipanti irrequieti e abitanti di questo mondo nuovo che va emergendo, dobbiamo adattarci, volenti o nolenti, al nuovo stato di cose, nel momento stesso in cui, in virtù di quello che facciamo e di come pensiamo e ci comportiamo, diamo il nostro sia pur minimo contributo alle qualità confuse di questo mondo.

Nel mezzo di una crisi è difficile vedere dove possa stare la via di uscita. Le crisi non sono eventi singoli. Certamente hanno elementi di innesco ovvi, ma gli spostamenti tettonici che rappresentano richiedono parecchi anni per manifestarsi a pieno. La lunga crisi iniziata con il crollo del mercato azionario nel 1929 si è risolta solo negli anni cinquanta, dopo che il mondo era passato attraverso la Depressione degli anni trenta e la guerra globale del decennio successivo. Analogamente, la crisi, la cui esistenza è stata segnalata dalla turbolenza nei mercati valutari internazionali verso la fine degli anni sessanta e dai fatti del 1968 nelle strade di molte città (da Parigi e Chicago a Città del Messico e Bangkok), non si è risolta fino alla metà degli anni ottanta, dopo il passaggio nei primi anni settanta attraverso il collasso del sistema monetario internazionale di Bretton Woods definito nel 1949, un decennio turbolento di lotte sindacali nel corso degli anni settanta e l'ascesa e il consolidamento delle politiche neoliberiste di Reagan, Thatcher, Kohl, Pinochet e, infine, di Deng in Cina.

Con il senno di poi non è difficile individuare molti indizi dei problemi futuri in tempi di gran lunga antecedenti la chiara esplosione di una crisi. Le crescenti disparità di ricchezza e redditi, negli anni venti, e la bolla del mercato immobiliare scoppiata negli Stati Uniti nel 1928 facevano presagire il collasso del 1929, per esempio. In effetti, il modo in cui si esce da una crisi contiene in sé i semi delle crisi a venire. La finanziarizzazione globale, saturata dal debito e sempre più deregolata, iniziata negli anni ottanta come soluzione dei conflitti con i lavoratori attraverso la facilitazione della mobilità e della dispersione geografica, ha prodotto il suo scioglimento nella caduta della banca d'investimenti Lehman Brothers il 15 settembre 2008.

Nel momento in cui scrivo sono trascorsi più di cinque anni da quell'evento, che ha innescato a cascata la serie di collassi che ne sono seguiti. Se qualcosa possiamo ricavare dal passato, sarebbe vano aspettarsi a questo punto indicazioni chiare su come potrebbe essere un capitalismo rivitalizzato (sempre ammesso che sia possibile). Ma dovrebbero esserci diagnosi alternative di quello che non va e un proliferare di proposte per rimettere le cose a posto. Quello che stupisce è la scarsità di nuove idee o nuove politiche. Il mondo è largamente polarizzato fra una continuazione (come in Europa e negli Stati Uniti) se non un approfondimento di rimedi neoliberisti, sul fronte dell'offerta e monetaristici, per i quali l'austerità è la medicina giusta per curare i nostri mali; e la rinascita di alcune versioni, di solito annacquate, di una espansione dal lato della domanda e finanziata dal debito (come in Cina) che ignora quanto Keynes mettesse in risalto la redistribuzione del reddito verso le classi inferiori come una delle componenti chiave. Non importa quale sia la politica che viene seguita, il risultato è sempre a favore del club dei miliardari che ora costituisce una plutocrazia sempre più potente tanto all'interno dei singoli paesi quanto sulla scena del mondo intero (vedi il caso di Rupert Murdoch). Ovunque, i ricchi diventano più ricchi ogni minuto che passa. I 100 più ricchi al mondo (che arrivano da Cina, Russia, India, Messico e Indonesia oltre che dai centri tradizionali della ricchezza nel Nord America e in Europa) nel solo 2012 hanno aggiunto ai loro forzieri 240 miliardi di dollari (sufficienti, secondo i calcoli dell'Oxfam, a porre fine alla povertà nel mondo dalla sera alla mattina). Invece le condizioni delle masse nel migliore dei casi stagnano o, più facilmente, subiscono un degrado in costante aumento, se non catastrofico (come in Grecia e Spagna).

Questa volta la grande differenza istituzionale sembra essere il ruolo delle banche centrali, con la Federal Reserve degli Stati Uniti in un ruolo guida, se non dominante, sulla scena mondiale. Sin da quando sono nate (nel 1694, nel caso dell'Inghilterra), però, il ruolo delle banche centrali è stato quello di proteggere e togliere dai guai i banchieri, non quello di prendersi cura del benessere della popolazione in generale. Il fatto che gli Stati Uniti siano statisticamente usciti dalla crisi nell'estate del 2009 e che i mercati azionari quasi ovunque abbiano avuto modo di recuperare le loro perdite è dipeso soltanto dalle politiche della Federai Reserve. Questo prelude a un capitalismo globale gestito sotto la dittatura dei banchieri centrali del mondo, il cui compito fondamentale è proteggere il potere delle banche e dei plutocrati? Se così è, allora sembra non ci siano molte prospettive di una soluzione per i problemi attuali delle economie stagnanti e degli standard di vita in discesa libera per la massa della popolazione mondiale.

Si parla molto anche delle possibilità di un rimedio tecnologico all'attuale malessere economico. L'accoppiata di nuove tecnologie e nuove forme organizzative ha sempre avuto un ruolo importante nel facilitare un'uscita dalle crisi, ma non ne ha mai avuto uno determinante. La speranza in questi giorni si concentra su un capitalismo "basato sulla conoscenza" (con l'ingegneria biomedica e genetica e l'intelligenza artificiale in prima linea). Ma l'innovazione è sempre una spada a doppio taglio. Gli anni ottanta del secolo scorso, in fin dei conti, ci hanno consegnato una deindustrializzazione grazie all'automazione, così che le aziende come General Motors (che negli anni sessanta impiegava lavoratori sindacalizzati ben pagati) ora sono state soppiantate da aziende come Walmart (con la sua enorme forza lavoro non sindacalizzata e dalle basse retribuzioni) nella classifica dei maggiori datori di lavoro privati degli Stati Uniti. Se l'attuale raffica di innovazioni punta in una direzione, è quella di una diminuzione delle occasioni di impiego per i lavoratori e di una crescita dell'importanza delle rendite estratte dai diritti di proprietà intellettuale per il capitale. Ma se tutti cercano di vivere sulle rendite e nessuno investe nel costruire qualcosa, il capitalismo è chiaramente proiettato verso una crisi di un tipo del tutto diverso.

Non sono solo le élite capitaliste e i loro accoliti intellettuali e accademici che sembrano incapaci di produrre una rottura radicale con il loro passato o di definire un'uscita percorribile dalla crisi di crescita ridotta, stagnazione, elevata disoccupazione e perdita di sovranità statale a vantaggio del potere dei possessori di bond. Le forze della sinistra tradizionale (partiti politici e sindacati) sono palesemente incapaci di fare una opposizione solida al potere del capitale. Sono stati bastonate da trent'anni di assalti politici della destra, mentre il socialismo democratico è stato screditato. Il collasso stigmatizzato del comunismo oggi esistente e la "morte del marxismo" dopo il 1989 non hanno fatto che peggiorare le cose. Quello che rimane della sinistra radicale ora opera in gran parte al di fuori di tutti i canali istituzionali o di opposizione organizzata, nella speranza che azioni a piccola scala e l'attivismo locale alla fine possano sommarsi e dare qualche sorta di macroalternativa soddisfacente. Questa sinistra, che stranamente riecheggia un'etica libertaria e addirittura neoliberista di antistatalismo, è nutrita intellettualmente da pensatori come Michel Foucault e da tutti quelli che hanno rimesso in piedi i frammenti del postmoderno sotto la bandiera di un poststrutturalismo, in gran parte incomprensibile, che predilige le politiche dell'identità ed evita l'analisi di classe. Ovunque sono evidenti prospettive e azioni autonomiste, anarchiche e localiste. Ma mentre questa sinistra cerca di cambiare il mondo senza prendere il potere, una classe capitalista plutocratica sempre più consolidata resta senza sfidanti nella sua capacità di dominare il mondo senza vincoli. Questa nuova classe dominante ha l'aiuto di uno Stato di sicurezza e di sorveglianza che non ha alcun ritegno a usare i suoi poteri di polizia per mettere a tacere ogni forma di dissenso, nel nome della lotta al terrorismo.

Questo è il contesto in cui ho scritto questo libro. L'impostazione che ho adottato è in un certo senso non convenzionale, poiché segue il metodo di Marx ma non necessariamente le sue soluzioni e c'è da temere che per questo i lettori si lascino spaventare e non riprendano con rigore e regolarità le argomentazioni qui delineate. Ma in questi tempi di deserto intellettuale, se vogliamo sfuggire al vuoto del pensiero, delle politiche e della politica economica, è chiaramente necessario qualcosa di diverso, sul fronte dei metodi di indagine e delle concezioni mentali. In fin dei conti, il motore economico del capitalismo è palesemente in gravi difficoltà. Barcolla fra il semplice andare avanti sbuffando e la minaccia di bloccarsi o di esplodere episodicamente qua e là senza avvertimento. Abbondano i segnali di pericolo a ogni curva in mezzo alle prospettive di una vita agiata per tutti, in qualche punto più in là sulla strada. Nessuno sembra avere un'idea coerente di come (e lasciamo perdere del perché) il capitalismo sia così in difficoltà. Ma è sempre stato così. Le crisi mondiali, come ha detto una volta Marx, sono sempre state "la concentrazione reale e la compensazione violenta di tutte le contraddizioni dell'economia borghese". Far emergere queste contraddizioni dovrebbe rivelarci molto sui problemi economici che affliggono tutti noi. Di sicuro val la pena provarci seriamente.

Sembrava giusto abbozzare anche gli esiti probabili e le possibili conseguenze politiche che derivano dall'applicazione di questo modo peculiare di pensare a una comprensione dell'economia politica del capitalismo. Queste conseguenze, di primo acchito, potranno sembrare inverosimili, e ancor meno praticabili o politicamente attraenti. Ma è vitale esplorare quelle alternative, per quanto estranee possano sembrare e, se necessario, appropriarsene, se le condizioni lo dettano. In questo modo si può aprire una finestra su un nuovo campo di possibilità non sfruttate e mai prese in considerazione. Abbiamo bisogno di un forum aperto - un'assemblea globale, per così dire - che prenda in esame dove è il capitale, dove può andare e che cosa si può fare in proposito. Spero che questo libro, nella sua brevità, possa dare qualche contributo al dibattito.

New York City, Gennaio 2014

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Pagina 14

Introduzione

Sulla contraddizione


                                    Ci deve essere un modo di scannerizzare o di
                                    passare ai raggi X il tempo in cui si vive,
                                    al fine di rilevare al suo interno il futuro
                                    potenziale. Altrimenti, non si farà altro
                                    che rendere sterili i desideri delle
                                    persone...

                                    Terry Eagleton, Perché Marx aveva ragione,
                                    Armando, Roma 2013, p. 71


                                    Nelle crisi del mercato mondiale erompono le
                                    contraddizioni e le antitesi della
                                    produzione borghese. Ora, invece di indagare
                                    in che cosa consistono gli elementi in
                                    conflitto, che nella catastrofe giungono a
                                    esplosione, gli apologeti si accontentano di
                                    negare la catastrofe stessa e, di fronte
                                    alla loro regolare periodicità, si ostinano
                                    a ripetere che se la produzione si regolasse
                                    secondo i manuali, non si arriverebbe mai
                                    alla crisi.

                                    Karl Marx, Storia delle teorie economiche,
                                    Einaudi, Torino 1955, vol. 2, p. 552.



Esistono due modi fondamentali in cui si usa il concetto di contraddizione. Il più comune e il più ovvio deriva dalla logica aristotelica: due enunciati contrastano così completamente fra loro da non poter essere entrambi veri nello stesso momento. henunciato "Tutti i merli sono neri" contraddice l'enunciato "Alcuni merli sono bianchi". Se uno è vero, l'altro non lo è.

L'altro uso si incontra quando, in una particolare situazione, un ente, un processo o un evento, sono presenti simultaneamente due forze in apparenza opposte. Molti, per esempio, sperimentano una tensione fra quanto è richiesto dal lavoro in una certa occupazione e il costruirsi una vita personale soddisfacente a casa. Le donne in particolare sono continuamente bersagliate da consigli su come equilibrare meglio gli obiettivi di una carriera lavorativa con gli obblighi familiari. Siamo circondati da tensioni simili in ogni dove e per lo più le gestiamo giorno per giorno in modo da non esserne troppo stressati e angustiati. Possiamo anche sognare di eliminarle interiorizzandole. Nel caso di vita personale e lavoro, per esempio, possiamo collocare queste due attività in concorrenza nello stesso spazio e non segregarle nel tempo. Ma questo non è necessariamente d'aiuto, come deve presto ammettere chi è incollato allo schermo del computer e si danna per riuscire a rispettare una data di consegna mentre i suoi figli in cucina giocano con i fiammiferi (per questo spesso si rivela più facile separare chiaramente gli spazi e i tempi della vita personale e del lavoro).

Tensioni fra le esigenze, tra loro in competizione, della produzione organizzata e della riproduzione della vita quotidiana sono sempre esistite, ma spesso sono latenti anziché palesi e come tali restano inavvertite mentre la gente si dedica alle proprie faccende quotidiane. Le opposizioni, inoltre, non sempre sono nettamente definite: possono essere porose e infiltrarsi l'una nell'altra. La distinzione fra lavoro e vita privata, per esempio, spesso tende a offuscarsi (io vivo molto questo problema). Come la distinzione fra dentro e fuori si basa sull'esistenza di limiti e confini definiti, che però possono non esistere, ci sono molte situazioni in cui è difficile identificare opposizioni nette.

Si danno, però, casi in cui le contraddizioni diventano più ovvie. Si acuiscono e arrivano al punto in cui la tensione fra desideri opposti risulta intollerabile. Nel caso degli obiettivi di carriera e di una vita familiare soddisfacente, le circostanze esterne possono mutare e trasformare in una crisi quella che un tempo era una tensione gestibile: le esigenze del lavoro possono cambiare (per esempio uno spostamento di turno o di sede). Sul fronte domestico, le condizioni possono virare drasticamente (una malattia improvvisa, la suocera che teneva i bambini dopo la scuola va a godersi la pensione in Florida). Anche i sentimenti personali possono mutare: qualcuno ha un'epifania, ne conclude che "questa non è vita" e butta alle ortiche il suo lavoro con un moto di disgusto. L'abbracciare nuovi principi etici o religiosi può richiedere un modo diverso di essere nel mondo. Gruppi differenti all'interno di una popolazione (uomini e donne, per esempio) o individui diversi possono sentire e reagire in modi assai diversi a contraddizioni simili. Esiste un elemento soggettivo molto forte nella definizione e nella percezione del potere delle contraddizioni. Quello che per uno è ingestibile può non essere niente di speciale per un altro. Le ragioni possono variare e le condizioni possono essere differenti, ma contraddizioni latenti possono comunque rafforzarsi all'improvviso e dar luogo a crisi violente. Una volta risolte, poi, possono anche altrettanto rapidamente scomparire (anche se di rado senza lasciare qualche segno e talvolta qualche cicatrice). Il genio, per così dire, è temporaneamente rimesso nella bottiglia, di solito grazie a qualche compensazione radicale fra le forze opposte che sono alla radice della contraddizione.

Le contraddizioni non sono affatto tutte un male, e certo non voglio attribuire loro automaticamente una connotazione negativa. Possono essere una fonte feconda di cambiamento sia sul piano personale sia su quello sociale, da cui le persone escono in condizioni di gran lunga migliori di prima: non sempre soccombiamo o ci perdiamo nelle contraddizioni. Una via d'uscita da una contraddizione è l'innovazione. Possiamo adattare le nostre idee e le nostre pratiche a nuove circostanze e imparare da quell'esperienza a essere persone di gran lunga migliori e più tolleranti. Partner che si erano allontanati possono riscoprire i pregi l'uno dell'altro quando si riavvicinano per gestire una crisi fra lavoro e famiglia; oppure possono trovare una soluzione formando nuovi legami duraturi di reciproco sostegno e di cura con altre persone nel quartiere in cui vivono. Questo tipo di adattamento può verificarsi tanto su scala macroeconomica quanto a livello degli individui. L'Inghilterra, per esempio, si è trovata in una situazione contraddittoria agli inizi del diciassettesimo secolo. La terra era necessaria per i biocombustibili (carbone di legna in particolare) e per la produzione alimentare e, essendo a quel tempo limitata la possibilità di commerciare energia e prodotti alimentari a livello internazionale, lo sviluppo del capitalismo nel paese minacciava di incepparsi per l'intensificarsi della competizione fra i due impieghi della terra. La risposta stava nello scendere nel sottosuolo per estrarre carbone come fonte energetica, in modo che la terra potesse essere utilizzata solo per le coltivazioni alimentari. In seguito, l'invenzione della macchina a vapore ha contribuito a rivoluzionare il capitalismo, con una generalizzazione dell'uso delle fonti di combustibili fossili. Una contraddizione spesso può essere la "madre dell'invenzione". Ma osservate una cosa importante: il ricorso ai combustibili fossili ha attenuato una contraddizione tuttavia ora, a distanza di qualche secolo, è il punto d'attracco di un'altra contraddizione, quella fra uso dei combustibili fossili e cambiamento climatico. Le contraddizioni hanno la cattiva abitudine di non risolversi ma semplicemente di spostarsi. Annotatevi bene questo principio, perché ci ritorneremo molte volte nelle pagine che seguono.

Le contraddizioni del capitale spesso hanno prodotto innovazioni, molte delle quali hanno migliorato le qualità della vita quotidiana. Quando esplodono in una crisi del capitale, le contraddizioni generano momenti di "distruzione creatrice". Raramente accade che ciò che viene creato e ciò che viene distrutto siano predeterminati e raramente avviene che tutto ciò che viene creato sia male e tutto ciò che era buono venga distrutto. E raramente le contraddizioni vengono risolte totalmente. Le crisi sono momenti di trasformazione in cui il capitale reinventa se stesso e si tramuta in qualcos'altro, che può essere meglio o peggio per le persone, anche se stabilizza la riproduzione del capitale. Ma le crisi sono anche momenti di pericolo, quando la riproduzione del capitale è minacciata dalle contraddizioni sottostanti.

In questo studio mi baso sul concetto dialettico di contraddizione e non su quello logico di Aristotele. Con questo non voglio dire che la definizione aristotelica sia sbagliata: le due definizioni (apparentemente in contraddizione) sono autonome e compatibili. Semplicemente si riferiscono a circostanze molto diverse. Trovo che la concezione dialettica sia ricca di possibilità e che non sia poi così difficile utilizzarla.

Devo però aprire con quella che è forse la contraddizione più importante di tutte: quella fra realtà e apparenza, nel mondo in cui viviamo.

Si cita spesso il detto di Marx secondo cui il nostro compito deve essere trasformare il mondo, anziché comprenderlo; ma se guardo il corpus dei suoi scritti devo dire che lo stesso Marx ha trascorso una quantità enorme di tempo seduto nella biblioteca del British Museum a cercare di comprendere il mondo. E penso che l'abbia fatto per una ragione semplicissima, che si può cogliere al meglio attraverso il termine "feticismo". Con "feticismo", Marx voleva indicare le varie maschere, i travestimenti e le distorsioni di quello che accade realmente intorno a noi. "Se tutto fosse come appare superficialmente," scriveva, "non ci sarebbe bisogno della scienza." Dobbiamo andare oltre le apparenze superficiali, se vogliamo agire coerentemente nel mondo. Altrimenti, agire in risposta a segnali superficiali fuorvianti normalmente produce esiti disastrosi. Gli scienziati molto tempo fa ci hanno insegnato, per esempio, che il sole non gira realmente intorno alla terra, come sembrerebbe (anche se secondo un'indagine recente condotta negli Stati Uniti pare che il 20 per cento della popolazione lo creda ancora!). Anche quanti praticano la medicina sanno che esiste una grande differenza fra sintomi e cause sottostanti: facendo del loro meglio, hanno trasformato la comprensione delle differenze fra apparenza e realtà nell'arte raffinata della diagnosi medica. Avevo un forte dolore al petto ed ero convinto si trattasse di un problema cardiaco, ma si è scoperto che il dolore era trasmesso da un nervo compresso nel collo: un po' di attività fisica ha rimesso tutto a posto. Marx voleva ottenere lo stesso tipo di intuizioni e idee in merito alla circolazione e all'accumulazione del capitale. Esistono, sosteneva, apparenze superficiali che mascherano le realtà sottostanti. Che siamo o meno d'accordo con le sue diagnosi specifiche non è importante a questo punto (anche se sarebbe folle non tener conto delle sue scoperte). Quel che importa è che riconosciamo come in generale sia possibile incontrare i sintomi anziché le cause sottostanti e come sia necessario smascherare quello che succede veramente, al di sotto di una coltre di apparenze superficiali spesso mistificanti.

Facciamo qualche esempio. Deposito 100 euro in un conto di risparmio al tasso di interesse annuo composto del 3 per cento; dopo venti anni sono diventati 180,61 euro. Il denaro sembra avere il potere magico di aumentare a un tasso composto. Io non faccio nulla, ma i miei risparmi crescono. Il denaro sembra avere la capacità magica di deporre uova d'oro. Ma da dove arriva realmente quell'aumento del denaro (l'interesse)?

Questo non è l'unico tipo di feticcio in circolazione. Il supermercato è costellato di segni e travestimenti feticistici. Un chilo d'insalata costa la metà di un chilo di pomodori. Ma da dove sono arrivati l'insalata e i pomodori, e chi ha lavorato per produrli, chi li ha portati al supermercato? E perché una cosa costa così tanto più dell'altra? Poi, chi ha il diritto di appiccicare qualche segno cabalistico, come $, € o £ sugli oggetti in vendita e chi ci mette un numero, come $1 alla libbra o €2 al chilogrammo? Le merci appaiono magicamente nei supermercati con un cartellino del prezzo, in modo che i clienti possano soddisfare i loro desideri e i loro bisogni, in base a quanto denaro hanno in tasca. Siamo abituati a tutto questo, ma non badiamo al fatto di non sapere da dove arrivi la maggior parte delle cose, di come vengano prodotte, da chi e in quali condizioni o perché vengano scambiate in quei precisi rapporti e che cosa sia realmente il denaro che usiamo (in particolare quando leggiamo che la Federal Reserve ha appena creato un altro migliaio di miliardi di dollari con un semplice batter di ciglia!).

La contraddizione fra realtà e apparenza che tutto questo produce è di gran lunga la più generale e la più pervasiva fra quelle che dobbiamo affrontare per cercare di scoprire le contraddizioni del capitale più specifiche. Il feticcio, inteso in questo senso, non è una credenza folle, una mera illusione o una stanza degli specchi (anche se a volte sembra esserlo). È vero che si può usare il denaro per acquistare merci e che possiamo vivere la nostra vita senza preoccuparci di molto altro che della quantità di denaro che abbiamo e di quello che quel denaro ci permetterà di acquistare al supermercato. E il denaro nel mio conto di risparmio aumenta effettivamente. Ma ponete la domanda: "Che cos'è il denaro?" e la risposta di solito è un silenzio imbarazzato. Mistificazioni e mascheramenti ci circondano da ogni parte, anche se talvolta, ovviamente, restiamo sconvolti quando leggiamo che i mille o più lavoratori morti sotto il crollo di una fabbrica in Bangladesh producevano le magliette che indossiamo. Per lo più non sappiamo nulla delle persone che producono le merci che rendono possibile la nostra vita quotidiana.

Possiamo vivere benissimo in un mondo feticistico di segnali, segni e apparenze, tutti superficiali, senza bisogno di sapere un granché su come funziona (esattamente come possiamo premere un interruttore e accendere la luce senza sapere nulla sulla generazione dell'elettricità). Solo quando succede qualcosa di drammatico - gli scaffali del supermercato sono vuoti, i prezzi salgono alle stelle, il denaro nelle nostre tasche all'improvviso perde ogni valore (o la luce non si accende) - cominciamo a farci domande, più grandi e più ampie, relative al perché e al come succedono "là fuori", oltre le porte e i terminali di arrivo delle merci del supermercato, cose che possono influenzare così drasticamente la vita quotidiana e la nostra sussistenza.

In questo libro cercherò di andare oltre il feticismo e di identificare le forze contraddittorie che assediano il motore economico del capitalismo. Lo faccio perché credo che la maggior parte delle spiegazioni attualmente disponibili di quel che succede siano profondamente fuorvianti: replicano il feticismo e non fanno nulla per disperdere la nebbia dell'incomprensione.

Qui, però, pongo una distinzione netta fra capitalismo e capitale. Questa indagine si concentra sul capitale e non sul capitalismo. E che cosa comporta questa distinzione? Per "capitalismo" intendo qualsiasi formazione sociale in cui processi di circolazione e accumulazione di capitale siano egemonici e dominanti nel fornire e plasmare le basi materiali, sociali e intellettuali della vita sociale. Il capitalismo è tormentato da innumerevoli contraddizioni, molte delle quali, però, non hanno nulla a che fare, in particolare e direttamente, con l'accumulazione del capitale. Queste contraddizioni vanno al di là delle specificità delle formazioni sociali capitalistiche. Per esempio, le relazioni di genere come il patriarcato sottendono contraddizioni che si trovano nell'antica Grecia e a Roma, nell'antica Cina, nella Mongolia interna o nel Ruanda. Lo stesso vale per le distinzioni razziali, cioè per qualunque pretesa di superiorità biologica da parte di qualche sottogruppo rispetto al resto della popolazione (la razza, quindi, non è definita in funzione del fenotipo: le classi operaie e contadine nella Francia della metà del XIX secolo erano considerate apertamente e da molti come composte da esseri biologicamente inferiori - un'idea che si ritrova in molti romanzi di Zola). La razzializzazione e le discriminazioni di genere esistono da molto tempo e non c'è dubbio che la storia del capitalismo sia una storia intensamente curvata in senso razziale e di genere. A questo punto dunque sorge la domanda: perché non includo le contraddizioni di razza e genere (insieme con molte altre, per esempio quelle di nazionalismo, etnicità e religione) come fondamentali in questo studio delle contraddizioni del capitale?

La risposta breve è che le escludo perché, sebbene siano onnipresenti nel capitalismo, non sono specifiche della forma di circolazione e accumulazione che costituisce il motore economico del capitalismo. Questo non significa affatto che non abbiano alcun impatto sull'accumulazione del capitale o che l'accumulazione del capitale non le influenzi (le "infetti" sarebbe un verbo più giusto) o non ne faccia un uso attivo. Il capitalismo, in vari momenti e in vari luoghi, ha chiaramente portato, per esempio, all'estremo la razzializzazione (ivi compresi gli orrori dei genocidi e degli olocausti). Il capitalismo contemporaneo si nutre palesemente di discriminazioni e violenza di genere così come della frequente disumanizzazione delle persone di colore. Le intersezioni e le interazioni fra razzializzazione e accumulazione del capitale sono tanto visibili quanto potentemente presenti. Ma un esame di tutto questo non mi dice nulla di particolare su come funziona il motore economico del capitale, anche se identifica una fonte da cui attinge evidentemente la sua energia.

La risposta lunga richiede una migliore spiegazione del mio fine e del metodo che ho scelto di seguire. Come una biologa può isolare un ecosistema caratteristico la cui dinamica (e le cui contraddizioni!) debbono essere analizzate come se fosse isolato dal resto del mondo, cerco di isolare la circolazione e l'accumulazione del capitale da ogni altra cosa. Le tratto come un "sistema chiuso" per identificarne le principali contraddizioni interne. Utilizzo, in sintesi, la forza dell'astrazione per costruire un modello di come funziona il motore economico del capitalismo. Uso questo modello per esplorare il perché e il come si presentino periodicamente delle crisi e se, sul lungo periodo, esistano determinate contraddizioni che possano dimostrarsi fatali per il perpetuarsi del capitalismo come lo conosciamo oggi.

Come la biologa sarà pronta a riconoscere che forze ed eventi disastrosi esterni (uragani, riscaldamento globale e innalzamento del livello dei mari, inquinamento dell'aria o contaminazione delle acque) possono alterare la dinamica "normale" della riproduzione ecologica nell'area che ha isolato per il suo studio, lo stesso vale nel mio caso: guerre, nazionalismo, lotte geopolitiche, disastri di vario tipo entrano tutti nella dinamica del capitalismo, insieme con abbondanti dosi di razzismo o di odio e discriminazioni di genere, sessuali, religiose ed etniche. Solo un olocausto nucleare potrebbe porre fine a tutto prima che qualsiasi contraddizione interna del capitale, potenzialmente fatale, abbia fatto il suo lavoro.

Non dico, quindi, che tutto quello che succede sotto il capitalismo è alimentato dalle contraddizioni del capitale, ma voglio identificare quelle contraddizioni interne del capitale che hanno prodotto le crisi recenti e fatto sembrare che non ci sia modo di uscirne nettamente senza distruggere le vite e il sostentamento di milioni di persone in tutto il mondo.

Permettetemi di usare un'altra metafora per spiegare il mio metodo. Una grande nave da crociera che solchi l'oceano è un sito fisico particolare e complesso di attività, relazioni sociali e interazioni divergenti. Classi, generi, etnie e razze diverse interagiranno, talvolta in modo amichevole e talaltra in modi violentemente avversi, al procedere della crociera. L'equipaggio, dal capitano in giù, sarà organizzato gerarchicamente e il personale di certi livelli (per esempio, gli steward di cabina) può essere ai ferri corti sia con i superiori a cui deve rispondere, sia con le persone esigenti che deve servire. Potremmo ambire a descrivere dettagliatamente quello che succede sui ponti e nelle cabine della nave, e perché. Possono scoppiare rivoluzioni fra i ponti: gli ultraricchi potrebbero isolarsi sui ponti superiori e giocare all'infinito a poker ridistribuendo fra loro le loro ricchezze, non prestando alcuna attenzione a quello che succede nei ponti inferiori. Ma qui non sono interessato a entrare in tutti questi dettagli. Nel ventre della nave c'è un motore economico che sferraglia giorno e notte fornendole energia e spingendola sull'oceano. Tutto quello che succede sulla nave è dipendente dal funzionamento di questo motore. Se si rompe o scoppia, allora la nave non funziona più.

Chiaramente, il motore che abbiamo è andato avanti, negli ultimi tempi, a strattoni e sputacchiando. Sembra particolarmente vulnerabile. In questa ricerca cercherò di stabilire perché. Se si rompe e la nave rimane immobile e impotente in mezzo all'acqua, saremo tutti in gravi difficoltà. Il motore dovrà essere riparato o sostituito con un motore progettato in altro modo. Nel secondo caso, si apre la questione di come riprogettare il motore economico e secondo quali specifiche. Per farlo è utile sapere che cosa ha funzionato bene e che cosa no nel vecchio motore, in modo da poterne emulare le qualità positive senza replicarne i difetti.

Esistono tuttavia parecchi punti chiave in cui le contraddizioni del capitalismo influenzano il motore economico del capitale con una forza potenzialmente distruttrice. Se la sala macchine si allaga a causa di eventi esterni (come una guerra nucleare, una pandemia infettiva globale che blocca tutti i commerci, un movimento rivoluzionario dall'alto che attacca i tecnici della sala macchine o un capitano negligente che manda la nave a incagliarsi sugli scogli), evidentemente il motore del capitale si ferma per ragioni diverse dalle sue contraddizioni interne. In quello che segue farò diligentemente notare i punti principali in cui il motore dell'accumulazione del capitale può essere particolarmente vulnerabile a tali influenze esterne, ma non cercherò di seguirne le conseguenze nei particolari perché, ripeto, il mio obiettivo qui è isolare e analizzare le contraddizioni interne del capitale e non le contraddizioni del capitalismo preso come un tutto unico.

In certi ambienti è di moda scartare spregiativamente studi come questo in quanto "capitale-centrici". Non solo non vedo nulla di sbagliato in studi del genere, purché ovviamente le interpretazioni che ne derivano non siano spinte troppo in là e nella direzione sbagliata, ma penso anche che sia imperativo avere a disposizione studi capitale-centrici molto più raffinati e profondi per agevolare una migliore comprensione dei problemi recentemente incontrati dall'accumulazione del capitale. Come possiamo interpretare altrimenti i problemi persistenti di disoccupazione di massa, la spirale discendente dello sviluppo economico in Europa e Giappone, gli instabili salti in avanti di Cina, India e degli altri cosiddetti paesi BRIC? Senza una guida alle contraddizioni che sottendono tali fenomeni saremo persi. Certamente è miope, se non pericoloso e ridicolo, rifiutare come "capitale-centriche" interpretazioni e teorie di come il motore economico dell'accumulazione di capitale funziona in rapporto alla congiuntura attuale. Senza tali studi con tutta probabilità finiremmo per leggere e interpretare in modo errato gli eventi che si verificano intorno a noi. Interpretazioni erronee quasi sicuramente porteranno a politiche sbagliate, il cui esito probabile sarà rendere più profonde, anziché alleviare, le crisi di accumulazione e la miseria sociale che ne deriva. Questo, credo, è un problema serio in gran parte del mondo capitalistico contemporaneo: politiche sbagliate basate su una teorizzazione errata complicano le difficoltà economiche e non fanno che esacerbare il disordine e la miseria sociale che ne derivano. Per il sedicente movimento "anticapitalista" in via di formazione è ancora più cruciale non solo capire meglio a che cosa esattamente si può opporre, ma anche articolare un'analisi chiara del perché un movimento anticapitalista abbia senso nella nostra epoca e perché un tale movimento sia così necessario affinché la massa dell'umanità possa vivere una vita decente negli anni difficili a venire.

Quindi quello che cerco qui è una migliore comprensione delle contraddizioni del capitale, non del capitalismo. Voglio sapere come funziona il motore economico del capitalismo, e perché può andare a singhiozzo, incepparsi e a volte sembrare sull'orlo del collasso. Voglio anche mostrare perché questo motore economico deve essere sostituito e con che cosa.

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Qui dunque c'è un altro paradosso. Denaro che si suppone rappresenti il valore sociale del lavoro creativo assume una forma (capitale fittizio) che circola per riempire alla fine le tasche di uomini di finanza e possessori di bond attraverso l'estrazione di ricchezza da ogni genere di attività non produttive (che non producono valore). Se non ci credete, non dovete andare a cercare esempi molto lontano: basta la storia recente del mercato immobiliare per vedere esattamente di che cosa sto parlando. La speculazione sui valori delle abitazioni non è un'attività produttiva, eppure enormi quantità di capitale fittizio si sono riversate nel mercato immobiliare fino al 2007-2008, perché il tasso di ritorno sugli investimenti era elevato. Credito facile significava prezzi degli immobili in crescita e tassi elevati di rotazione significavano una valanga di opportunità di guadagnare parcelle e commissioni esorbitanti sulle transazioni immobiliari. Il cosiddetto bundling dei mutui (una forma di capitale fittizio) in obbligazioni di debito collateralizzate ha creato uno strumento di debito (una forma di capitale ancora più fittizia) che poteva essere commercializzato ovunque. Questi strumenti di capitale fittizio, molti dei quali si sono dimostrati privi di alcun valore, sono stati venduti a investitori in buona fede in tutto il mondo come se fossero investimenti certificati dalle agenzie di rating "sicuri come il mattone". Era capitale fittizio allo stato selvaggio, e stiamo ancora pagando il prezzo dei suoi eccessi.

Le contraddizioni che nascono intorno alla forma denaro sono, quindi, molteplici. Come abbiamo già notato, le rappresentazioni falsificano anche nel momento in cui rappresentano. Nel caso dell'oro e dell'argento come rappresentazioni del valore sociale, prendiamo le circostanze particolari della produzione di questi metalli preziosi come misura generale del valore congelato in tutte le merci. In effetti prendiamo un particolare valore d'uso (il metallo oro) e lo usiamo per rappresentare il valore di scambio in generale. Più di tutto, prendiamo qualcosa che è intrinsecamente sociale e lo rappresentiamo in modo tale che persone private possano appropriarsene come forma di potere sociale. Quest'ultima contraddizione ha conseguenze profonde, e per certi aspetti devastanti, per le contraddizioni del capitale.

Per cominciare, il fatto che il denaro permetta che singoli privati si approprino e utilizzino in modo esclusivo il potere sociale colloca il denaro al centro di un'ampia gamma di comportamenti umani deleteri - brama e avidità del potere del denaro inevitabilmente diventano caratteristiche centrali del corpo politico del capitalismo. Su questo sono centrate tutte le forme di comportamenti e convinzioni feticistiche. Il desiderio di denaro come forma di potere sociale diventa un fine in sé che distorce la corretta relazione domanda-offerta del denaro, che sarebbe necessaria semplicemente per agevolare lo scambio. Questo mette i bastoni tra le ruote della supposta razionalità dei mercati capitalistici.

Si può senza dubbio stare a discutere se l'avidità sia un comportamento umano innato o meno (Marx, per esempio, pensava di no); è certo però che l'ascesa della forma denaro e la capacità di appropriazione privata hanno creato uno spazio per la proliferazione di comportamenti umani che sono tutt'altro che virtuosi e nobili. Le accumulazioni di ricchezza e potere (che venivano dilapidate ritualmente nel famoso sistema del potlach nelle società precapitalistiche) sono state non solo tollerate ma apprezzate e trattate come qualcosa da ammirare. Questo ha portato l'economista inglese John Maynard Keynes , nel 1930, parlando di Possibilità economiche per i nostri nipoti , a sperare che:

Quando l'accumulazione di ricchezze non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione "denaro" il suo vero valore. L'amore per il denaro come possesso, e distinto dall'amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po' ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali.

Saremo, infine, liberi di lasciare cadere tutte quelle abitudini sociali e quelle pratiche economiche relative alla distribuzione della ricchezza, e alle ricompense e penalità economiche, che adesso conserviamo a tutti i costi, per quanto di per sé sgradevoli e ingiuste, per la loro incredibile utilità a sollecitare l'accumulazione del capitale.

E allora quale dovrebbe essere la risposta critica a tutto questo? Se la circolazione del capitale fittizio speculativo porta inevitabilmente a crolli che hanno un costo enorme per la società capitalistica in generale (e ancor più tragico per la parte più vulnerabile della popolazione), un assalto diretto agli eccessi speculativi e alle forme monetarie (in gran parte fittizie) evolute per promuoverli diventa necessariamente il punto centrale della lotta politica. Dato che queste forme speculative hanno costituito la base degli immensi aumenti della disuguaglianza sociale e della distribuzione di ricchezza e potere, tanto che un'oligarchia emergente - il famigerato 1 per cento (che in realtà è l'ancor più famigerato 0,1 per cento) - ora controlla di fatto le leve di tutta la ricchezza e di tutto il potere globali, questo definisce anche le linee ovvie della lotta di classe cruciale per il benessere futuro della massa dell'umanità.

Ma questa è solo la punta più ovvia dell'iceberg. Il denaro, val la pena ripeterlo, è inseparabile dal valore quanto il valore di scambio è inseparabile dal denaro. I legami fra i tre sono strettamente intrecciati. Se il valore di scambio diminuisce e alla fine scompare come strumento guida grazie al quale i valori d'uso sono prodotti e distribuiti nella società, scompariranno anche il bisogno di denaro e tutte le patologie dell'avidità associate con il suo uso (come capitale) e il suo possesso (come una fonte consumata di potere sociale). Mentre l'obiettivo utopistico di un ordine sociale senza valore di scambio e quindi senza denaro va articolato, diventa imperativo il passo intermedio di progettare forme di quasi-denaro che facilitino lo scambio ma impediscano l'accumulo privato di ricchezza e potere sociali. È una cosa in linea di principio fattibile. Keynes, nella sua Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta , per esempio, cita "lo strano e immeritatamente trascurato profeta Silvio Gesell," che molto tempo addietro propose la creazione di forme di quasi-denaro che si ossidano se non sono utilizzate. La disuguaglianza fondamentale fra merci (valori d'uso) che decadono e una forma di denaro (valore di scambio) che invece non decade, deve essere annullata. "Solo il denaro che diventa obsoleto come un quotidiano, marcisce come le patate, evapora come l'etere, è in grado di superare il collaudo come strumento di scambio di patate, giornali, ferro ed etere," scriveva Gesell. Con le monete elettroniche, questo oggi è realizzabile, in modi in precedenza impossibili. Una scadenza di ossidazione può essere scritta nei conti monetari in modo tale che il denaro non utilizzato (come le miglia delle carte fedeltà delle compagnie aeree) si dissolva dopo un certo periodo di tempo. Questo recide il legame tra denaro come mezzo di circolazione e denaro come misura e, ancora più significativamente, come riserva di valore (e quindi come mezzo primario per l'accumulazione di ricchezza e potere privati).

Ovviamente, mosse di questo genere richiederebbero riassestamenti ad ampio raggio di altri aspetti dell'economia. Se il denaro si ossida, sarebbe impossibile usare quel denaro per risparmiare in vista di esigenze future. I fondi pensione di investimento, per esempio, scomparirebbero. Non è però una prospettiva tanto sgradevole come potrebbe sembrare. Tanto per cominciare, i fondi pensione di investimento corrono il rischio di perdere valore comunque (a causa di sottofinanziamento, cattiva gestione, collasso dei valori dei mercati azionari o inflazione). Il valore dei fondi pensione con base monetaria è contingente e non sicuro, come stanno scoprendo molti pensionati. La Social Security, o la previdenza sociale, invece, è una forma di diritto alla pensione che in linea di principio non dipende dall'uso del denaro come risparmio per il futuro. I lavoratori di oggi provvedono a quanti li hanno preceduti. Di gran lunga meglio organizzare i redditi futuri con questi mezzi, invece di risparmiare e sperare che gli investimenti diano una remunerazione. Un reddito minimo garantito (o un accesso minimo a una riserva gestita collettivamente di valori d'uso) per tutti ovvierebbe completamente alla necessità di una forma di denaro che consenta i risparmi privati a garanzia di una sicurezza economica futura.

Ci si dovrebbe quindi concentrare su quello che è davvero importante, cioè la creazione continua di valori d'uso attraverso il lavoro sociale e lo sradicamento del valore di scambio come mezzo principale di organizzazione della produzione di valori d'uso. Marx, per parte sua, credeva che le riforme nel sistema monetario in sé non avrebbero garantito il dissolversi del potere del capitale e che fosse illusione credere che manipolare le forme monetarie potesse essere la punta di diamante del cambiamento rivoluzionario. Credo fosse nel giusto con questa sua supposizione. Ma quello che penso la sua analisi chiarisca, è anche che l'evoluzione di un'alternativa al capitale può richiedere, come condizione necessaria ma non sufficiente, una riconfigurazione radicale di come è organizzato lo scambio e il dissolvimento ultimo del potere del denaro non solo sulla vita sociale ma, come indica Keynes, sulle nostre concezioni mentali e morali del mondo. Immaginare un'economia senza denaro è un modo per avere una misura di come potrebbe essere un'alternativa al capitalismo. La possibilità di una cosa del genere, date le potenzialità delle monete elettroniche o anche di sostituti della moneta, può non essere tanto peregrina. La diffusione di nuove forme di cibervalute, come Bitcoin, fa pensare che il capitale stesso sia ora sul punto di inventare nuove forme monetarie. È opportuno e saggio, quindi, che la sinistra organizzi ambizioni politiche e pensiero politico intorno a questo obiettivo ultimo.

Una politica monetaria alternativa di questo genere diventa ancor più ineludibile se si considera un problema immediato, particolarmente pericoloso. La forma che oggi assume il denaro ha raggiunto lo stato di un doppio feticcio - una rappresentazione astratta (puri numeri memorizzati in un sistema informatico) di una rappresentazione concreta (come oro e argento) dell'immaterialità del lavoro sociale. Quando il denaro assume la forma di puri numeri, la sua quantità potenziale è illimitata. Questo permette che fiorisca l'illusione che la crescita senza limiti e infinita del capitale nella sua forma di denaro sia non solo possibile ma anche desiderabile. Di contro, anche un esame poco approfondito delle condizioni relative allo sviluppo del lavoro sociale e all'aumento del valore mostra che una crescita composta che continua all'infinito non è possibile. Questa opposizione, come vedremo più avanti, è alla radice di una delle tre contraddizioni più pericolose del capitale, cioè quella della crescita composta.

Quando la moneta era vincolata essendo, per quanto debolmente, ancorata alla disponibilità materiale e alla scarsità relativa di merci denaro fisiche, sussisteva un vincolo materiale alla creazione infinita di moneta. L'abbandono della base metallica delle riserve valutarie mondiali agli inizi degli anni settanta del secolo scorso ha creato un nuovo mondo di contraddizioni possibili. La moneta avrebbe potuto essere stampata ad infinitum da chiunque fosse autorizzato a farlo. La riserva valutaria sta nelle mani di istituti umani fallibili come le banche centrali. Il pericolo era l'accelerazione dell'inflazione. Non è un caso che dopo un breve periodo di inflazione montante, verso la fine degli anni settanta negli Stati Uniti in particolare, i banchieri centrali del mondo (guidati da Paul Volcker della US Federal Reserve) convergessero tutti su un'unica politica: contenere l'inflazione a ogni costo, trascurando in tal modo ogni responsabilità per l'occupazione e la disoccupazione. Quando è stata creata la Banca centrale europea per l'euro, il suo unico mandato era controllare l'inflazione, niente di più. Che questo abbia avuto un esito disastroso, quando le crisi dei debiti sovrani hanno colpito vari paesi europei dopo il 2012, testimonia una cronica incapacità, all'interno delle istituzioni stabilite dal capitale per regolare i suoi stessi eccessi, di capire la logica contraddittoria incorporata nella forma monetaria che il capitale oggi necessariamente assume. Perciò non sorprende che la crisi scoppiata negli anni 2007-2008 abbia assunto in primo luogo una forma finanziaria.

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Quale dunque deve essere la strategia politica in rapporto a questa contraddizione fra Stato e proprietà privata? Non può bastare la semplice idea di cercare di ristabilire l'equilibrio e rafforzare le libertà individuali (come molti sembrano chiedere oggi, sia dalla sinistra che dalla destra dello spettro politico), in parte perché l'equilibrio si è spostato così drasticamente verso il potere arbitrario dello Stato, ma anche perché la fede nello Stato come agente potenzialmente benevolo è in gran parte svanita. Il ritorno dello Stato a un puro ruolo di "guardiano notturno" non farà altro che togliere ulteriormente le briglie ai poteri di quello che è già un capitale in gran parte non regolato, così da poter fare tutto quello che vuole senza alcun freno sociale o di lungo termine.

L'unica strategia politica percorribile in alternativa è una strategia che dissolva la contraddizione esistente fra interessi privati e individuali da una parte e potere e interessi dello Stato dall'altra e la sostituisca con qualcos'altro. È in questo contesto che molto dell'interesse attuale della sinistra per il ristabilimento e il ricupero dei "commons" ha così tanto senso. L'assorbimento dei diritti di proprietà privata in un progetto ampio per la gestione collettiva dei beni comuni e la dissoluzione dei poteri assolutistici e dispositivi dello Stato in strutture di gestione collettive democratiche diventano gli unici validi obiettivi di lungo termine.

Questi obiettivi hanno un senso se applicati a denaro e credito. Il recupero di denaro e credito come forma di beni comuni regolati democraticamente è inevitabile per poter invertire la tendenza all'autocrazia e al dispotismo monetario. Separare le attività di creazione di moneta dall'apparato dello Stato diventa imperativo in nome del rafforzamento e della democratizzazione delle libertà collettive. Poiché il potere dello Stato capitalistico si basa in parte sui due pilastri di un monopolio sull'uso legittimo della violenza e di un potere monopolistico sulle questioni monetarie e la valuta, l'abbattimento di quest'ultimo monopolio comporterebbe in ultima istanza una dissoluzione (anziché la "frantumazione") del potere dello Stato capitalistico. Una volta privato del potere sulle sue risorse monetarie, anche la capacità dello Stato di ricorrere alla violenza militarizzata contro la sua popolazione insoddisfatta sarebbe annullata. Può sembrare un'idea peregrina, ma qualcosa del genere avviene già in parte in paesi come Grecia, Italia e Spagna, dove il potere dei possessori di bond viene usato per dettare le politiche dello Stato verso la propria popolazione. Sostituite il potere dei possessori di titoli con il potere del popolo e questa visibilissima tendenza potrebbe essere facilmente invertita.

Il potere dello Stato, come abbiamo già notato, è generico e non particolare. Quindi questa politica dovrebbe dissolvere tutte quelle istituzioni monetarie internazionali (come il Fondo monetario internazionale) che sono emerse a sostegno dell'imperialismo del dollaro degli Stati Uniti e che servono a mantenere la loro egemonia finanziaria nel sistema mondiale. L'apparato disciplinare che sta attualmente distruggendo la vita quotidiana del popolo greco, come le vite di molti altri che hanno dovuto patire gli interventi del Fmi (di solito spalleggiato da altri poteri statali multilaterali come, nel caso della Grecia, la Banca centrale europea e la Commissione europea), dovrebbe a sua volta venire dissolto per fare posto a pratiche e istituzioni di gestione collettiva della ricchezza comune delle popolazioni. Una soluzione del genere può sembrare astratta e utopica rispetto alle pratiche attuali, ma è vitale che la politica alternativa abbia in mente una visione di questo tipo e una simile ambizione di lungo termine. Si devono formulare agende radicali, rivoluzionarie o riformiste, per poter salvare la civiltà e non farla affogare nella contraddizione fra la proprietà privata spietata e non regolata e i poteri di uno Stato di polizia militarizzato, dedicati al sostegno del capitale anziché al benessere delle persone.

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Pagina 204

Chiaramente, qui sussiste una contraddizione enorme. Libertà e dominio vanno di pari passo. Non esiste una libertà di qualche genere che in qualche modo non debba sporcarsi le mani con le arti oscure del dominio. Il dominio sulle proprie paure di fronte a circostanze negative schiaccianti, sui cinici e i dubbiosi, per non dire dei nemici esterni, può essere necessario per aprire la strada a libertà più grandi. Questa unità di libertà e dominio è, come sempre, un'unità contraddittoria. Per perseguire una giusta causa possono essere necessari mezzi ingiusti.

I due termini polari di libertà e dominio stanno agli estremi di una contraddizione che assume molte forme sottili e sfumate, per non dire mascherate (il dominio può essere travestito da consenso o essere costituito attraverso la persuasione e la manipolazione ideologica). Ma preferisco continuare ad adottare un modo di esprimermi esplicito e irritante proprio perché ignorare le potenziali conseguenze è la radice della delusione di milioni di persone che hanno lottato fiduciosamente per la libertà, a volte a costo della vita, solo per vedere i loro discendenti costretti a nuotare nelle acque scure di un'altra forma di dominio. Qualsiasi lotta per la libertà e l'autonomia deve essere preparata ad affrontare subito all'inizio ciò che è preparata a dominare. Deve anche capire che il prezzo per conservare le sue libertà è una vigilanza ininterrotta contro il ritorno di vecchie o nuove forme di dominio.

Questo è il punto per il quale sono pertinenti John Locke e Adam Smith. Quello che l'economia politica liberale classica proponeva non era solo una sorta di modello utopico per un capitalismo universalizzato, ma una visione della libertà e dell'autonomia individuale che alla fine è arrivata a sottendere, come nota acutamente il filosofo francese Michel Foucault , una struttura autoregolativa di governo che poneva dei limiti all'arbitrio del potere statale e al tempo stesso conduceva i singoli a regolare la propria condotta (e li metteva in grado di farlo) in base alle norme di una società di mercato. Il dominio e la disciplina di sé sono stati interiorizzati nell'individuo: questo significa che le concezioni dominanti di libertà e autonomia erano e ancora sono profondamente incorporate nelle relazioni e nei codici sociali caratteristici dello scambio di mercato basato sulla proprietà privata e sui diritti individuali. Questi hanno definito il dominio della libertà e qualsiasi sfida a essi doveva essere debellata spietatamente. L'ordine sociale era costituito da quella che Herbert Marcuse chiamava "tolleranza repressiva": esistevano confini ben definiti al di là dei quali non ci si doveva avventurare, per quanto urgente fosse la causa dell'ampliamento di libertà e autonomia, e al contempo veniva messa in campo la retorica della tolleranza per farci tollerare l'intollerabile.

L'unica cosa sorprendente in tutto questo è che ci sorprendiamo quando notiamo questo fatto e ci fermiamo a pensarci. In fin dei conti, non è ovvio che la violenza e il dominio dello Stato debbano stare per forza dietro le libertà del mercato? Nella teoria e nelle pratiche dello Stato liberale emerso gradualmente a partire dal diciottesimo secolo, l'idea guida era che lo Stato dovesse autolimitarsi nei suoi interventi, che dovesse praticare il laissez-faire rispetto alle pratiche individuali, e in particolare imprenditoriali, nel mercato, non per benevolenza paternalistica ma per il proprio interesse a massimizzare l'accumulazione di ricchezza monetaria e potere sotto la sua giurisdizione sovrana. Che lo Stato spesso travalichi nelle sue attività normative e interventiste è lamentela comune fra i suoi abitanti e, ovviamente, lamentela canonica da parte del capitale. Periodicamente poi nascono movimenti politici, come il Tea Party negli Stati Uniti, con la chiara missione di ridurre l'intervento statale, indipendentemente dal fatto che sia di natura benevola o meno. È tempo, dicono i critici liberisti, che lo Stato bambinaia scompaia e inizi il vero regno della libertà e dell'autonomia individuale.

Karl Polanyi aveva compreso benissimo queste relazioni, anche se sull'altro fronte dell'argomentazione politica. "La fine dell'economia di mercato," scriveva ipoteticamente, "può diventare l'inizio di un'era di libertà senza precedenti. La libertà giuridica ed effettiva può diventare molto più ampia e generale che mai in precedenza; regolazione e controllo possono produrre libertà non solo per pochi, ma per tutti. La libertà, non come accessorio del privilegio, avvelenato alla fonte, ma come diritto prescrittivo che si estende ben al di là dei confini ristretti della sfera politica nell'organizzazione più profonda della società stessa. Così le vecchie libertà e i diritti civili si aggiungeranno al fondo della nuova libertà generata dal tempo libero e dalla sicurezza che la società industriale offre a tutti. Una tale società può permettersi di essere giusta e libera."

La difficoltà di raggiungere questo ampliamento del regno della libertà sta negli interessi di classe e nei privilegi consolidati che conseguono a grandi concentrazioni di ricchezza. Le classi abbienti, sicure nelle loro libertà, oppongono resistenza a ogni limitazione delle loro azioni, sostengono di essere ridotte a uno stato di schiavitù, a un totalitarismo socialista e si agitano ininterrottamente per l'estensione delle loro particolari libertà a spese degli altri. "Libertà d'impresa e proprietà privata sono dichiarate elementi essenziali della libertà. Nessuna società costruita su altri fondamenti si dice meriti di essere detta libera. La libertà creata dalla regolamentazione viene denunciata come mancanza di libertà; la giustizia, l'autonomia e il benessere che offre sono denunciati come schiavitù sotto mentite spoglie [...] Questo significa pienezza di libertà per quelli che non hanno bisogno di ampliare il loro reddito, il tempo libero e la sicurezza, e una vera miseria di libertà per il popolo, che può tentare invano di fare uso dei suoi diritti democratici per ottenere protezione dai detentori della proprietà". Così Polanyi costruisce una confutazione significativa delle tesi centrali di La via della servitù di Friedrich Hayek , scritto negli anni 1942-1943, ma oggi bibbia della destra liberista e testo di grandissima influenza (visto che ha venduto oltre due milioni di copie).

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Marx non aveva peli sulla lingua per quel che riguarda la necessità di deporre (o "dominare") le concezioni individualistiche borghesi di ricchezza e valore per liberare il potenziale di uno sviluppo umano creativo ma collettivo, che ci circonda in modo latente a ogni angolo. Curiosamente, persino Margaret Thatcher pensava che qui ci fosse una differenza che valeva la pena notare, confermando così che anche la figlia di un droghiere, spietatamente conservatrice, con un interesse per la chimica, è in grado di produrre pensieri trascendentali. "Non è la creazione di ricchezza che è sbagliata," diceva (anche se dubito che avesse in mente esplicitamente la concezione marxiana di ricchezza come realizzazione completa di tutte le capacità e di tutti i poteri umani individuali), "ma l'amore del denaro per se stesso."

Il mondo della vera libertà è completamente imprevedibile: "Sarebbe molto più complicato prevedere cosa accadrebbe nel caso in cui venissero rimosse le catene che impediscono all'essere umano di realizzarsi in quanto tale," osserva Eagleton. "È che le persone sarebbero allora molto più libere di comportarsi come desiderano, entro i confini di reciproca responsabilità degli uni verso gli altri. Se gli uomini destinano la maggior parte del tempo a loro disposizione alle attività che definiamo di tempo libero, piuttosto che al lavoro, risulta ancora più difficile immaginare quale sarà il loro comportamento. Ho scritto le 'attività che definiamo di tempo libero' perché se davvero usassimo le risorse accumulate dal capitalismo per liberare dal lavoro la stragrande maggioranza delle persone, potremmo a quel punto smetterla di chiamarle in questo modo." A quel punto si potrebbero utilizzare a pieno l'automazione e l'intelligenza artificiale per liberare veramente le persone, anziché imprigionarle in lavori senza senso. "Per Marx," dice Eagleton, "il socialismo è il punto in cui iniziamo, a livello collettivo, a determinare i nostri destini. È una democrazia presa totalmente sul serio, non (come accade nella maggior parte dei casi) una farsa politica. E il fatto che le persone siano più libere significa che sarà più difficile prevedere quello che faranno alle cinque del pomeriggio di mercoledì." Ma questo non comporta che non ci sarà bisogno di autodisciplina, impegno e dedizione a quelle attività complesse che potremo scegliere liberamente di intraprendere per nostra soddisfazione e per il benessere di altri. La libertà attiene, come aveva capito già molto tempo fa Aristotele, alla vita buona e la vita buona è una vita attiva dedicata come tutta la natura alla perpetua ricerca della novità. Una versione non alienata della dialettica fra libertà e dominio è possibile nella ricerca degli individui, sempre in associazione con altri, di raggiungere la vetta delle loro potenzialità e dei loro poteri. Ma questa ricerca di relazioni non alienate non può procedere senza la precedente esperienza dell'alienazione e delle sue possibilità contraddittorie.

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[...] Molti si trovano con quantità sempre minori di tempo per l'attività creativa libera, in mezzo a un proliferare di tecnologie che economizzano tempo sia nella produzione sia nel consumo.

Come si è sviluppato questo paradosso? Ci vuole molto tempo, ovviamente, per gestire, far funzionare e manutenere tutti gli apparecchi domestici che fanno risparmiare tempo di cui ci siamo circondati: più aggeggi abbiamo, più tempo richiedono. La pura complessità dell'apparato di sostegno ci irretisce in telefonate senza fine o email ai centri di assistenza, alle società telefoniche e a quelle delle carte di credito, alle assicurazioni e via elencando. Non c'è poi dubbio che le abitudini culturali di cui abbiamo circondato l'adorazione feticistica dei gadget tecnologici catturi il lato giocoso della nostra immaginazione e ci porti a star seduti a guardare inutilmente sitcom, a navigare in internet o a giocare al computer per ore di fila. Siamo circondati da ogni parte da "armi di distrazione di massa".

Ma nulla di tutto questo spiega perché il tempo voli via da noi in questo modo. La ragione più profonda sta, penso, nel modo strutturato in cui il capitale ha affrontato il tema del tempo del consumo come barriera potenziale all'accumulazione. Produrre e commercializzare beni che non durano o diventano facilmente obsoleti o fuori moda, e al contempo produrre eventi e spettacoli che sono consumati istantaneamente, culmina, come abbiamo già detto, in una stupefacente inversione categorica quando i consumatori producono il loro personale spettacolo su Facebook. Le rendite che vanno al capitale da queste forme di social media sono fondamentali, ma queste forme di consumo assorbono anche un'incredibile quantità di tempo. Le tecnologie della comunicazione sono una spada a doppio taglio: possono essere piegate da una gioventù istruita e alienata a fini politici, addirittura rivoluzionari; oppure possono assorbire così tanto tempo (producendo regolarmente valore per altri, come gli azionisti di Google e Facebook) attraverso chiacchiere inutili, pettegolezzi e battute interpersonali che offrono evasione.

È difficile, se non impossibile, confutare la razionalità economica capitalistica, quando la vita, i processi mentali e gli orientamenti politici sono presi e inglobati nello pseudolavoro di gran parte della produzione contemporanea o nella ricerca di un consumismo alieno. Perderci nella posta elettronica o in Facebook non è attivismo politico. Gorz ha ragione: "se le economie di tempo di lavoro non servono a liberare tempo, e se il tempo liberato non è quello del 'libero sviluppo delle individualità', allora le economie di lavoro sono totalmente prive di senso". La società può andare verso "la riduzione programmata, graduale e senza perdita di reddito reale, della durata del lavoro, accompagnata da una serie di politiche parallele che consentano al tempo liberato di diventare per tutti quello della libera realizzazione", ma un tale sviluppo emancipativo, all'estremo, è pericoloso per il potere della classe capitalista e le resistenze e le barriere che si creano sono forti. "Lo sviluppo delle forze produttive può, di per sé, ridurre il volume del lavoro necessario; non può, di per sé, creare le condizioni che fanno della riduzione del lavoro una liberazione per tutti. La storia può metterci a portata di mano le possibilità di una più grande libertà; ma non può dispensarci dal far nostre queste possibilità e dal trarne partito. Non verremo liberati a opera di un determinismo materiale e a nostra insaputa. Il potenziale di liberazione contenuto in un processo non si attualizza se gli uomini non se ne impadroniscono per farsi liberi." Affrontare collettivamente le molte alienazioni prodotte dal capitale è un modo convincente di mobilitarsi contro il motore economico annaspante che alimenta in modo così spericolato il capitalismo da un tipo di crisi all'altra, con conseguenze potenzialmente disastrose per la nostra relazione con la natura e per le nostre relazioni con gli altri. L'alienazione universale richiede una risposta genuinamente politica: quale può essere?

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Conclusione. Prospettive per un futuro felice ma contestato: la promessa dell'umanesimo rivoluzionario


Da tempo immemorabile ci sono stati esseri umani che hanno creduto di poter costruire, individualmente o collettivamente, un mondo migliore di quello che avevano ereditato. Molti di loro poi sono giunti a credere che, così facendo, sia possibile ricostruire se stessi come persone diverse, se non migliori. Io sono fra quelli che credono in entrambe queste idee. In Città ribelli, per esempio, sostenevo che "la domanda sul tipo di città che vogliamo non può allora essere separata da altre domande, sul tipo di persone che vogliamo essere, sui legami sociali che cerchiamo di stabilire, sui rapporti con l'ambiente naturale che coltiviamo, lo stile di vita che desideriamo e i valori estetici che perseguiamo". Il diritto alla città, scrivevo, è "molto più che un diritto di accesso individuale o di gruppo alle risorse urbane: è il diritto a cambiare e reinventare la città in base alle nostre esigenze. [...] La libertà di costruire e ricostruire le nostre città e noi stessi, a mio avviso, è uno dei più preziosi tra i diritti umani e nondimeno è anche uno dei più negletti". Forse per questa ragione intuitiva, la città è stata, in tutta la sua storia, al centro di un immenso sfogo di desideri utopistici di futuri più felici e di tempi meno alienanti.

La convinzione che, attraverso il pensiero cosciente e l'azione, possiamo cambiare in meglio sia il mondo in cui viviamo, sia noi stessi, definisce una tradizione umanistica. La versione laica di questa tradizione si sovrappone a insegnamenti religiosi su dignità, tolleranza, compassione, amore e rispetto per gli altri, dai quali spesso è stata ispirata. L'umanesimo, sia quello religioso che quello laico, è una visione del mondo che misura i propri traguardi in funzione della liberazione di potenzialità, capacità e poteri umani: adotta la visione aristotelica della fioritura non vincolata degli individui e della costruzione della "buona vita". Ovvero, come lo definisce Peter Buffett, odierno uomo del Rinascimento, un mondo che garantisce agli individui "la vera fioritura della loro natura, l'opportunità di vivere una vita gioiosa e piena".

Questa tradizione di pensiero e di azione ha avuto una storia altalenante, a seconda dei momenti storici e dei luoghi, ma sembra non morire mai. Ha dovuto, ovviamente, competere con dottrine più ortodosse che attribuiscono in vario modo i nostri destini e le nostre fortune agli dèi, a uno specifico creatore divino, alle forze cieche della natura, alle leggi dell'evoluzione messe in atto attraverso eredità e mutazioni genetiche, alle leggi ferree dell'economia che stabiliscono il corso dell'evoluzione tecnologica, oppure a qualche arcana teleologia determinata dallo spirito del mondo. L'umanesimo ha avuto anche i suoi eccessi e il suo lato oscuro. Il carattere un po' libertino dell'umanesimo rinascimentale ha portato uno dei suoi maggiori esponenti, Erasmo , a temere che la tradizione giudaico-cristiana potesse essere sostituita da quella di Epicuro. Qualche volta l'umanesimo si è perso in una visione prometeica e antropocentrica delle capacità e dei poteri umani in rapporto a tutto ciò che esiste (natura compresa) al punto che qualche illuso ha creduto che, essendo vicini a Dio, noi siamo Übermenschen a cui spetta il dominio dell'universo. Questa forma di umanesimo diventa ancora più pericolosa quando certi particolari gruppi, ben identificabili, di una popolazione non sono considerati degni della qualifica di "umani". Questo è stato il destino di molte popolazioni indigene nelle Americhe, di fronte all'avanzata coloniale. Definiti "selvaggi", sono stati considerati parte della natura e non dell'umanità. Queste tendenze sono ancora ben vive in certi ambienti, tanto che una femminista radicale come Catherine MacKinnon ha scritto un libro il cui titolo chiede se le donne siano umane: Are Women Human? Che tali esclusioni, agli occhi di molti, abbiano un carattere sistematico e generale nella società moderna è indicato dalla diffusione della formulazione di Giorgio Agamben dello "stato di eccezione", in cui si trovano oggi così tante persone nel mondo (e gli abitanti di Guantanamo Bay sono un esempio primario).

Vi sono molti segni che la tradizione umanistica illuminata sia viva e vegeta, e che stia forse addirittura preparando un ritorno sulle scene. Questo è lo spirito che anima chiaramente il gran numero di persone impegnate in giro per il mondo nelle Ong e in altre istituzioni benefiche la cui missione è migliorare le possibilità e le prospettive di vita per i meno fortunati. Si vedono anche vuoti tentativi di travestire il capitale stesso con l'abito umanistico di quello che alcuni capi di grandi aziende amano chiamare Capitalismo Consapevole, una sorta di etica imprenditoriale che assomiglia in modo sospetto a un lavaggio della coscienza unito a proposte sensate di miglioramento dell'efficienza dei lavoratori facendo finta di essere gentili nei loro confronti. Tutte le cose sgradevoli che succedono sono assorbite, in quanto danni collaterali non voluti, in un sistema economico motivato dalle migliori intenzioni etiche. L'umanesimo, però, è lo spirito che anima un numero incalcolabile di persone a dare il proprio contributo, con generosità, spesso senza alcuna ricompensa materiale, e con altruismo al benessere degli altri. Gli umanesimi cristiano, ebraico, islamico e buddhista hanno generato organizzazioni religiose e benefiche a larga diffusione, e figure iconiche come il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Madre Teresa e il vescovo Tutu. Nella tradizione laica esistono molte varietà di pensiero e di pratica umanistici, fra cui correnti esplicite di umanesimo cosmopolita, liberale, socialista e marxista. E, ovviamente, nel corso dei secoli, filosofi della morale e della politica hanno formulato una serie di sistemi di pensiero etico, fra loro in conflitto, basati su molti ideali diversi di giustizia, di ragione cosmopolita e di libertà emancipativa che, periodicamente, hanno fornito parole d'ordine rivoluzionarie. Libertà, uguaglianza, fraternità erano il motto della Rivoluzione francese. Prima di quella, la Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti, seguita dalla Costituzione americana e, cosa forse ancora più significativa, da quel documento entusiasmante che è chiamato Dichiarazione dei diritti dell'uomo, hanno tutti avuto un ruolo nell'accendere in seguito movimenti politici e forme costituzionali. Le notevoli costituzioni adottate di recente in Bolivia ed Ecuador ci dicono chiaramente che l'arte di scrivere costituzioni progressiste come base per regolare la vita umana non è affatto morta. E la vastissima letteratura generata da questa tradizione non è stata vana per quanti hanno cercato una vita più dotata di significato. Basta pensare a quello che hanno significato I diritti dell'uomo di Tom Paine o Rivendicazione dei diritti della donna di Mary Wollstonecraft nel mondo di lingua inglese (e quasi tutte le tradizioni nel mondo hanno scritti analoghi da ricordare e onorare).

Ci sono due aspetti negativi ben noti in tutto questo: li abbiamo già incontrati entrambi. Il primo è che, per quanto nobili siano i sentimenti universali espressi inizialmente, si è dimostrato ripetutamente difficile impedire che l'universalità delle affermazioni umanistiche venisse distorta a vantaggio di interessi, fazioni e classi particolari. Questo produce, per esempio, il colonialismo filantropico che stigmatizza così eloquentemente Peter Buffett; questo è ciò che trasforma il nobile cosmopolitismo di Kant, e la sua ricerca della pace perpetua, in uno strumento del dominio culturale imperialista e colonialista, rappresentato oggi dal cosmopolitismo da Hotel Hilton della Cnn e dai frequent flier della business class. Questo è il problema che ha guastato le dottrine dei diritti umani incluse in una dichiarazione dell'Onu che privilegia i diritti individuali e la proprietà privata della teoria liberale a spese delle relazioni collettive e delle rivendicazioni culturali. Questo è ciò che trasforma gli ideali e le pratiche della libertà in uno strumento di governamentalità per la riproduzione e il perpetuarsi della ricchezza e del potere della classe capitalista. Il secondo problema è che l'applicazione pratica di qualsiasi sistema particolare di convinzioni e di diritti comporta sempre qualche potere disciplinare, di solito esercitato dallo Stato o da qualche altra autorità istituzionalizzata sostenuta dalla forza. La difficoltà qui è ovvia: la dichiarazione dell'Onu implica che sia lo Stato a far rispettare i diritti umani individuali, quando lo Stato è spesso il primo a violarli.

In breve, la difficoltà della tradizione umanistica è che non incorpora una buona comprensione delle sue stesse inevitabili contraddizioni interne, in particolare quella (che le riassume un po' tutte) fra libertà e dominio. Il risultato è che oggi spesso le tendenze e i sentimenti umanistici vengono presentati in modo un po' schivo e imbarazzato, tranne quando si tratta di una posizione sostenuta da una dottrina e un'autorità religiose. Il risultato è che non esiste oggi una vera difesa delle proposte o delle prospettive di un umanesimo laico, anche se non si contano i lavori individuali che a grandi linee si inscrivono in questa tradizione o addirittura ne difendono le ovvie virtù (come accade nel mondo delle Ong). I pericoli che si annidano nelle sue insidie e nelle contraddizioni dei suoi fondamenti, in particolare i problemi di coercizione, violenza e dominio, si fa finta che non esistano, perché sono troppo ardui da affrontare. Il risultato è quello che Frantz Fanon definiva un "umanitarismo insipido" e se ne trovano abbondanti tracce nella sua rinascita recente. La tradizione borghese e liberale dell'umanesimo laico forma una base etica zuccherosa su cui si fa un moralismo inefficace a proposito del triste stato del mondo e si costruiscono campagne altrettanto inefficaci contro le piaghe della povertà cronica e del degrado ambientale. Probabilmente è questo il motivo per cui, ancora negli anni sessanta, il filosofo francese Louis Althusser lanciò la sua potente e influente campagna, volta a espungere ogni discorso di umanesimo socialista e di alienazione dalla tradizione marxista. L'umanesimo del giovane Marx, come si trova espresso nei Manoscritti economici e filosofici del 1844, sosteneva Althusser, era totalmente separato dal Marx scientifico del Capitale da una "frattura epistemologica", e si può ignorarlo solo a proprio rischio e pericolo. L'umanesimo marxista, scriveva Althusser, è pura ideologia, vuoto dal punto di vista teorico e fuorviante, se non pericoloso, da quello politico. L'attaccamento all'"umanesimo assoluto della storia umana" di un marxista impegnato come Antonio Gramsci (che pagò quell'impegno con una lunga carcerazione) era, per Althusser, del tutto fuori luogo.

L'enorme aumento e la natura delle attività corresponsabili delle Ong umanitarie negli ultimi decenni sembrerebbe dare credito alle critiche di Althusser. La crescita del complesso benefico-industriale rispecchia principalmente il bisogno di incrementare il "lavaggio della coscienza" per un'oligarchia mondiale e raddoppia la sua ricchezza e il suo potere ogni pochi anni, anche nel bel mezzo di una stagnazione economica. Il loro lavoro ha fatto poco o nulla, nel suo complesso, per affrontare il degrado umano, l'espropriazione o l'espansione del degrado ambientale. La ragione è strutturale: le organizzazioni antipovertà debbono svolgere il loro lavoro senza mai interferire con l'ulteriore accumulazione della ricchezza da cui derivano i loro mezzi. Se ciascuna delle persone che lavora in una di queste organizzazioni si convertisse, dalla sera alla mattina, a una politica antiricchezza, ci troveremmo presto a vivere in un mondo molto diverso. Pochissimi benefattori, e sospetto nemmeno Peter Buffett, le finanzierebbero. E le Ong, che ora sono al centro del problema, in ogni caso non lo vorrebbero (anche se nel mondo delle Ong lavorano molte persone che vorrebbero, ma semplicemente non possono).

Allora, di che tipo di umanesimo abbiamo bisogno per cambiare progressivamente il mondo, attraverso un lavoro anticapitalista, e farlo diventare un altro tipo di luogo, popolato da tipi diversi di persone?

Credo ci sia un bisogno estremo di articolare un umanesimo laico rivoluzionario che possa allearsi con quegli umanesimi fondamentalmente religiosi (articolati con particolare chiarezza nelle versioni protestante e cattolica della teologia della liberazione, e in movimenti correlati entro le culture religiose indù, islamica, ebraica e indigene) per combattere l'alienazione nelle sue molte forme e cambiare radicalmente il mondo, allontanandolo dalle sue modalità capitalistiche. Esiste una tradizione robusta e potente - anche se problematica - di umanesimo laico rivoluzionario rispetto sia alla teoria sia alla pratica politica: è una forma di umanesimo che Louis Althusser rifiutava totalmente ma, nonostante la sua influenza, ha un'espressione potente e articolata nelle tradizioni marxista e radicale e anche oltre. È molto diverso dall'umanesimo liberale borghese, rifiuta l'idea che esista una "essenza", immutabile o data all'origine, di che cosa significhi essere umano e ci costringe a pensare intensamente come diventare un nuovo tipo di essere umano. Unifica il Marx del Capitale con quello dei Manoscritti economici e filosofici del 1844 e punta proprio al cuore delle contraddizioni di quello che qualsiasi programma umanista deve voler abbracciare, se vuol cambiare il mondo. Riconosce chiaramente che le prospettive di un futuro felice per la maggior parte delle persone sono guastate dall'inevitabilità di determinare l'infelicità di qualcun altro. Una oligarchia finanziaria espropriata che non possa più pranzare a caviale e champagne sui suoi yacht ancorati al largo delle Bahamas senza dubbio piangerà il proprio destino e le fortune ridotte in un mondo più ugualitario. Da buoni umanisti liberali, potremmo persino provare un po' di dispiacere per loro. Gli umanisti rivoluzionari si temprano contro questo pensiero: possiamo non approvare questo modo spietato di trattare tali contraddizioni, ma dobbiamo ammettere che chi lo pratica è fondamentalmente onesto e autocosciente.

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I privilegi e il potere della classe capitalista oligarchica portano il mondo in una direzione simile quasi ovunque. Il potere politico, sostenuto intensificando la sorveglianza, il controllo poliziesco e la violenza militarizzata, viene usato per attaccare il benessere di intere popolazioni reputate sacrificabili e "a perdere": vediamo ogni giorno la disumanizzazione sistematica di persone "usa e getta". Il potere oligarchico viene esercitato in modo spietato attraverso una democrazia totalitaria diretta a inibire, frammentare e sopprimere ogni coerente movimento politico antiricchezza (come Occupy). Larroganza e il disprezzo con cui oggi i benestanti vedono chi è meno fortunato di loro, anche quando (in particolare quando) nelle loro stanze fanno a gara per dimostrare chi può essere più caritatevole, sono fatti della nostra condizione attuale di cui bisogna prender nota. Il "divario di empatia" fra l'oligarchia e il resto è immenso e in crescita. Gli oligarchi scambiano un reddito più alto per un maggior valore umano e il loro successo economico per una prova della loro migliore conoscenza del mondo (invece che del loro miglior controllo dei trucchi contabili e delle minuzie legali). Non sanno come dare ascolto ai guai del mondo perché non possono e non vorranno spontaneamente riconoscere il loro ruolo nella costruzione di quei guai. Non vedono e non possono vedere le loro stesse contraddizioni. I fratelli Koch, miliardari, hanno fatto donazioni a una università come il Mit, al punto da costruire un bel centro di day care per i docenti, mentre contemporaneamente facevano affluire un numero imprecisato di milioni a sostegno di un movimento politico (guidato dal Tea Party) nel Congresso Stati Uniti che taglia i sussidi alimentari e nega assistenza, complementi nutritivi e day care a milioni di persone che vivono in povertà assoluta o quasi.

È in un clima politico come questo che i sommovimenti violenti e imprevedibili che si verificano in tutto il mondo in modo episodico (dalla Turchia e dall'Egitto al Brasile e alla Svezia nel solo 2013) fanno pensare sempre di più ai sussulti che precedono un terremoto, al cui confronto le lotte rivoluzionarie postcoloniali degli anni sessanta sembreranno scaramucce infantili. Se c'è una fine per il capitale, allora verrà sicuramente da lì, e le conseguenze immediate è improbabile che siano felici per chiunque. È quello che ci insegna con tanta chiarezza Fanon.

L'unica speranza è che la massa dell'umanità veda il pericolo prima che il marcio vada troppo oltre e che il danno umano e ambientale diventi troppo grande da riparare. Di fronte a quella che papa Francesco giustamente definisce "la globalizzazione dell'indifferenza", le masse globali debbono, come dice bene Fanon , "prima decidere di svegliarsi, indossare il cappello del pensiero e smettere di giocare al gioco irresponsabile della Bella addormentata". Se la Bella addormentata si sveglia in tempo, potremmo sperare in un finale più consono a una favola. L'"umanesimo assoluto della storia umana," scriveva Gramsci , "non tende a risolvere pacificamente le contraddizioni esistenti nella storia e nella società, anzi è la stessa teoria di queste contraddizioni." Se la speranza è in esse, come diceva Bertolt Brecht , abbiamo visto che ci sono abbastanza contraddizioni nel campo del capitale da nutrire molte ragioni per sperare.

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