Copertina
Autore Robert L. Heilbroner
Titolo Il capitalismo del XXI secolo
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2006, Testi e pretesti , pag. 142, cop.fle., dim. 1,3x17x1,1 cm , Isbn 978-88-424-9244-3
OriginaleTwenty-first Century Capitalism
EdizioneAnansi, Canada, 1992
TraduttoreMarinella Giambò
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe economia politica
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Pagina 1

1. Il capitalismo visto dall'esterno


1.

"Capitalismo" è il nome del sistema economico che oggi domina il mondo. Lo scopo principale di queste pagine è appurare la possibilità di prevedere se continuerà a farlo nel secolo che ci sta dinnanzi: sono propositi impegnativi e forse qualcuno potrebbe credere che io stia per formulare grandi predizioni, ma, per il sollievo o la delusione dei lettori, devo chiarire che non è questa la mia intenzione. Negli anni settanta ebbi una volta l'occasione di discutere la capacità degli economisti di prevedere gli eventi su vasta scala che avevano contrassegnato il ventennio precedente, come per esempio l'avvento delle società multinazionali, l'ascesa del Giappone a grande potenza economica e la comparsa dell'inflazione quale problema cronico di tutte le nazioni industriali. Neanche uno di questi sviluppi che avevano scosso il mondo era stato predetto. Successivamente, ci fu una serie di avvenimenti di scala mondiale altrettanto importanti, quali il calo di produttività sofferto da tutte le potenze occidentali agli inizi degli anni settanta o la singolare perdita di leadership economica globale da parte degli Stati Uniti. Con quanta preveggenza questi sviluppi erano stati anticipati dai grandi istituti di ricerca, con le loro antenne radar sempre pronte a captare le tendenze? La risposta è che nessuno li aveva previsti. Infine, c'è quello che si può probabilmente considerare la più grande svolta economica della storia moderna: il collasso dell'economia sovietica. Che io sappia, nessuna organizzazione economica, neppure quelle al corrente di tutti i segreti dei servizi di intelligence governativi, aveva previsto questo crollo.

Di conseguenza, non sarò così sciocco da cercare di fare ciò in cui hanno fallito in tanti — e cioè di predire il futuro dell'ordine sociale in cui viviamo. In che modo, dunque, posso esprimere la mia idea sul tema del capitalismo del XXI secolo? La mia risposta è che considererò le prospettive per il capitalismo da quella che io definisco l'angolatura di una visione correlata al futuro. Come vedremo, questa angolatura è molto diversa da quella della predizione. Supponiamo, per esempio, di guardare al raggio d'azione dell'attuale capitalismo da questo nuovo e finora sconosciuto punto di vista. Vedremmo immediatamente qualcosa che probabilmente non ci verrebbe mai in mente se fossimo impegnati a prevedere quali paesi saranno in testa e quali saranno rimasti indietro nel 2025. Ciò che vedremmo è il dato di fatto straordinario che, sebbene i giapponesi, gli svedesi, gli americani, i canadesi, come pure i francesi, i tedeschi, gli inglesi e gli italiani non abbiano gli stessi usi e costumi, non concordino su molti mezzi o fini politici e in larga misura manchino di un comune senso dell'umorismo o addirittura del dovere civico, tuttavia sono capaci di svolgere con sorprendente unanimità di intesa e di intenti un compito estremamente importante, impegnativo e complesso: possono concludere affari gli uni con gli altri. Il che significa che possono effettuare scambi sul mercato, negoziare attorno a un tavolo di trattative, partecipare alle riunioni di un consiglio di amministrazione come persone che vedono quasi allo stesso modo almeno un aspetto della vita. Questo aspetto riguarda appunto la maniera in cui è organizzata la vita economica.

Pertanto, guardare il capitalismo da questa prospettiva insolita ci offre una possibilità di scrutare nel futuro che non avremmo se affrontassimo il problema dal punto di vista di una sola nazione, sia pure di una che conosciamo benissimo. La differenza è che in questo modo ci rendiamo conto che il capitalismo è un sistema con un orientamento di base, individuabile in tutte le sue specifiche incarnazioni nazionali. Soltanto diventando consapevoli di questo orientamento possiamo sperare di scoprire se ci sia una logica dietro il movimento delle cose — una logica che ci consenta di riflettere sul capitalismo del XXI secolo in termini che abbiano valore indipendentemente dal fatto che possiamo essere cittadini del Canada, degli Stati Uniti, della Svezia o del Giappone. Le predizioni che tutti facciamo, come anche le speranze e le paure che tutti nutriamo, non saranno necessariamente più fondate per il fatto di essere basate su una tale concezione, anche se è molto meno probabile che siano erronee o fuorviate, nel senso che non abbiano tenuto conto delle esigenze di tutti i sistemi capitalistici e quindi di ciascuno di essi.

Di conseguenza, un tentativo di osservare il capitalismo dall'esterno dovrebbe aiutarci a riflettere su come potrebbe diventare la società economica del XXI secolo, pur continuando a restare capitalistica; e ci aiuterà anche ad avere un'idea di dove potrebbe collocarsi il nostro paese all'interno di questi confini della possibilità. Potrà inoltre facilitare il nostro sforzo di immaginare come potrebbe essere la vita al di là di questi confini, laddove il capitalismo non fosse più il principio organizzatore della vita economica.

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Il capitalismo ha cambiato il corso della storia, innanzitutto creando un ambiente socioeconomico totalmente nuovo in cui, per la prima volta, le condizioni materiali sono migliorate costantemente e in maniera considerevole nelle aree in cui il sistema è attecchito. Ribadisco ancora una volta questo punto per sottolinearlo. Guardando agli ultimi centocinquant'anni di crescita negli Stati Uniti, troviamo che in questo arco di tempo il reddito reale pro capite è cresciuto a un tasso medio dell'1,5% annuo: un dato che forse non suonerà molto impressionante, ma che lo diventa se consideriamo che era sufficiente a raddoppiare gli standard reali di vita ogni quarantasette anni. Inoltre, fatta eccezione per i minimi storici della depressione del 1869 e dei terribili anni trenta del Novecento, l'attività economica in ciascun anno copre all'incirca il 10% di una linea retta tracciata a collegare il 1839 e il 1989. In seguito abbiamo visto che questo stesso processo di trasformazione si è radicato in Europa, successivamente in Giappone e lungo la costa occidentale del Pacifico a Taiwan, in Corea, a Hong Kong e in tempi più recenti a Singapore e in Malesia.


5.

Non c'era dunque mai stato un meccanismo sociale per un progresso economico sostenuto, paragonabile a quello dell'accumulazione capitalistica. Sarebbe tuttavia troppo facile dipingere il processo couleur de rose, per usare le parole di Marx. Se l'accrescimento del benessere materiale è stato inequivocabilmente una conseguenza dello sviluppo positivo del capitalismo, lo è stata anche la comparsa di una nuova forma di miseria sociale: non gli antichi flagelli dei cattivi raccolti, delle invasioni di predoni o della semplice ingiustizia, ma un effetto collaterale "economico" senza precedenti nelle società di un tempo. Questo effetto collaterale è la tendenza del processo di crescita a generare contemporaneamente ricchezza e miseria come parte del funzionamento del processo stesso di accumulazione.

Questa nuova forma di miseria fece la sua comparsa iniziale nell'Inghilterra elisabettiana con le "recinzioni" delle terre comuni.

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Pagina 74

5.

Qual è stato in definitiva l'impatto dell'economia keynesiana sulla politica del capitalismo? La domanda in realtà significa: la politica dell'intervento "keynesiano" è riuscita a rafforzare la vitalità del sistema?

La risposta non è facile. Nonostante le idee politiche moderate di Keynes, la sua teoria economica fu dapprima considerata una critica radicale del capitalismo, a causa dei suoi dubbi espliciti rispetto alla capacità di autosufficienza del settore privato senza il sostegno pubblico. Oggi è possibile vedere il keynesianesimo iniziale in una luce diversa, come una forza potente, tesa ad accrescere la stabilità economica e quindi a moderare l'umore politico del sistema. È anche vero che poiché il boom postbellico proseguiva, diventava più che mai difficile interessare una forza lavoro relativamente soddisfatta a cercare emendamenti di vasta portata a un ordine sociale che stava funzionando molto bene. Anche in quelle nazioni, come la Svezia, in cui furono introdotte politiche di sostanziale distribuzione del reddito e di assistenza sociale, lo scopo di queste misure "socialistiche" fu sempre quello di saggiare gli estremi limiti del capitalismo liberale, non di attraversarli per passare nel terreno incerto di una società postcapitalistica rivoluzionaria. Nella seconda fase del mondo postbellico questa svolta conservatrice divenne anche più evidente. Quando il keynesianesimo vittorioso cedette il posto a un'inflazione cronica ed endemica, le politiche antinflazionistiche dei governi gravarono più dolorosamente sulla forza lavoro che sul capitale. Quindi, a dispetto della sua fama, gli effetti dell'economia keynesiana, sia nella sua forma primitiva, sia in quella più tarda, sembrano aver rafforzato più che indebolito gli interessi del capitale e pertanto sembrano esser serviti a interessi politici conservatori, non radicali.

Ho detto tuttavia che non ritengo facile valutare gli effetti politici del keynesianesimo. Se c'è infatti una convinzione che è centrale per il conservatorismo è quella che il sistema nell'insieme funziona al meglio quando è vincolato il meno possibile dal governo. Ciò che noi troviamo sia nell'apogeo, sia nel declino del keynesianesimo è esattamente l'opposto. Nel primo periodo il governo arrivò a essere considerato responsabile della crescita; nel secondo, responsabile del blocco dell'inflazione. In entrambi i periodi, la convinzione comune — espressa nel linguaggio dell'azione, non nella retorica della politica — fu che il governo avesse in mano la chiave del futuro e che un fallimento da parte sua avrebbe danneggiato seriamente le prospettive di quel futuro.

Quest'idea non è conservatorismo, ma l'espressione della consapevolezza che l'ordine economico del sistema è più integralmente connesso con l'ordine politico e da esso più dipendente di quanto si fosse soliti pensare. In breve, assistiamo all'accresciuta politicizzazione del capitalismo, nel bene o nel male. Nel capitolo finale rifletteremo sulle implicazioni a lungo termine di questo mutamento.

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Pagina 107

5. Scenari per il futuro


1.

Ho detto fin dall'inizio che non avrei concluso con una predizione in grande stile sul futuro. Ciò non significa, tuttavia, che non abbia nulla da dire sulle prospettive per la società in cui vivranno i nostri figli, nipoti e pronipoti. Vuol dire piuttosto che non penso che possiamo prevedere queste prospettive con la chiarezza e la certezza scientifica trasmesse dal vocabolo "predizione". Parlerò quindi del capitalismo del XXI secolo in termini di scenari con i quali possiamo immaginarci il suo sviluppo. "Scenario" è una parola dalle connotazioni teatrali: trasmette la sensazione di qualcosa che è più complesso di una predizione — un tentativo di descrivere processi determinati in parte dalla necessità e in parte dalla volontà, in parte aperti alla comprensione analitica, in parte afferrati per intuizione e convinzione. L'utilità degli scenari consiste quindi tanto nella loro capacità di illuminare l'interazione fra analisi e visione nella riflessione sul futuro, quanto nella luce che gettano su ciò che di fatto accadrà.

Quasi tutti i grandi economisti descrissero scenari per il capitalismo, ma anche se la maggior parte di loro era pessimista rispetto al suo futuro a lungo termine, le loro idee sul percorso verso quel futuro difficilmente avrebbero potuto essere più discordanti. Adam Smith, come sappiamo, immaginava una Società della perfetta libertà la cui caratteristica più straordinaria era un accrescimento del benessere generale per ciascuno. È meno noto però che anche il suo scenario prevedeva un tempo in cui tale società avrebbe raggiunto in pieno «quella completezza di ricchezze» consentitale dall'eccellenza delle sue risorse e della sua posizione geografica, e a quel punto l'accumulazione sarebbe cessata, e con essa la crescita.

In una società di imprese di piccola scala una prospettiva del genere non è irrealistica, e in ogni caso possiamo immaginare che Smith collocasse la svolta fatidica in un momento così indeterminatamente lontano nel futuro quale quello in cui noi in genere situiamo l'avvento di una seria barriera ecologica alla crescita. Il lungo gradiente ascensionale di Smith inizia la sua fase discendente quando una popolazione in crescita deve dividersi un prodotto che ha cessato di crescere. Come abbiamo già visto, la sua visione sociale lo porta a prevedere la decadenza morale della classe lavoratrice che vi si sottometterà passivamente. Pertanto, contrariamente alla sua comune reputazione di nume tutelare del capitalismo, Smith è, fra tutti gli economisti, forse il meno ottimista rispetto al suo esito finale. La sua analisi ne indica il declino conclusivo; la sua visione ne evidenzia la decadenza precoce.

Marx, all'opposto, è ottimista – non sul capitalismo, ovviamente, ma sull'ordine sociale che esso genererà. Come possiamo immaginare, l'aspetto visionario del suo scenario è estremamente diverso da quello di Smith, ma contrariamente a ciò che potremmo prevedere, la parte analitica vi somiglia moltissimo. L'analisi di Marx, come quella di Smith, traccia le conseguenze di un impulso acquisitivo in un ambiente competitivo. La sua conclusione differisce da quella di Smith perché sostituisce la manifattura di spilli con la fabbrica tessile di scala molto più grande, cosicché il processo di espansione diventa turbolento e disgregativo invece che tranquillo e regolatore. Di conseguenza, la traiettoria ascendente di Marx, ben diversamente da quella di Smith, è continuamente interrotta da periodi di crisi e ristrutturazioni.

Tuttavia, questa differenza estremamente importante deriva dalle loro contrastanti percezioni della tecnologia, non da una qualche divisione profonda nell'interpretazione sociale. Ciò che è in definitiva più importante nello scenario complessivo è la visione di Marx della classe operaia come attrice della propria liberazione futura, non vittima passiva dell'ordine esistente. La classe lavoratrice «stupida e ignorante» di Smith cede quindi il posto a un proletariato confuso, ma che a poco a poco prende coscienza. Per Marx lo scenario presenta dunque un tipo differente di prospettiva: non l'ascesa e la caduta storiche, reminiscenze dell'idea ottocentesca delle glorie della Grecia e di Roma, ma un processo direzionale in cui il capitalismo sparisce davanti all'avvento del suo successore, il socialismo.

Anche due altri importanti interpreti prevedono la fine del capitalismo, ancora una volta per ragioni e con esiti differenti. John Maynard Keynes è oggi considerato un profeta del declino capitalistico, ma questa idea non rende giustizia agli elementi analitici e visionari del suo scenario. Al contrario tanto di Smith quanto di Marx, Keynes era un pessimista analitico, ma un ottimista visionario. Analiticamente era pessimista perché la sua visione del funzionamento del mercato, nel quale le aspettative giocavano un ruolo chiave, lo portava alla sconcertante conclusione che una società guidata dal mercato poteva abituarsi a una situazione di sottoccupazione permanente. Ma — e in ciò la somiglianza con Smith è grandissima — questo pessimismo rifletteva una concezione statica delle possibilità tecnologiche. Non sappiamo, però, se la Teoria generale avrebbe manifestato il suo tono piuttosto scoraggiato se fosse stata scritta nell'era tecnologica postbellica che Keynes non visse abbastanza da vedere.

La conclusione analitica pessimistica di Keynes era, tuttavia, bilanciata da una valutazione sorprendentemente fiduciosa delle possibilità politiche capitalistiche. La sua visione non includeva né il giudizio disperante di Smith sulla classe lavoratrice, né il giudizio largamente ottimistico di Marx sul suo potenziale rivoluzionario. Era quindi possibile per Keynes immaginare con equanimità non solo la socializzazione dell'investimento come «l'unico mezzo per farci avvicinare alla piena occupazione», ma anche la graduale «eutanasia del redditiero», ed essere al contempo beffardo con l'idea del socialismo, per la quale egli nutrì per tutta la vita una sorta di benevolo scetticismo. Quella di Keynes è quindi una visione che prevedeva una politica bilanciata così come un'economia bilanciata: una concezione che lui stesso definiva «moderatamente conservatrice».

I grandi scenari non sarebbero completi se non vi includessimo quello di Joseph Schumpeter, che è al contempo un ottimista analitico e un pessimista visionario. «Può il capitalismo sopravvivere?» si chiede all'inizio del suo magistrale Capitalismo, socialismo e democrazia, pubblicato nel 1942. La risposta è inequivocabile: «No, non lo credo». I suoi argomenti, tuttavia, non sono quelli di Smith, Marx o Keynes. Schumpeter introduce nel processo di accumulazione un elemento nuovo e molto più dinamico: l'idea di Marx della spietata distruzione dei vecchi capitali da parte della concorrenza è sostituita dal «turbinio incessante della distruzione creatrice», in quanto gli imprenditori creano e sfruttano campi di espansione che in precedenza non esistevano. Schumpeter, quindi, si fa beffe dell'idea che la frontiera degli investimenti e i suoi territori possano mai essere interamente occupati. Le possibilità tecnologiche, egli scrive, sono «un mare non segnato su nessuna carta» e l'aeroplano sarà per il futuro ciò che la conquista dell'India era stata per il passato. Anzi, conclude: «Non esistono ragioni puramente economiche che impediscano al capitalismo di percorrere con successo un altro tratto di strada», almeno nel breve termine che, come ci ha informato prima incidentalmente, è di un secolo.

Perché, dunque, Schumpeter prevede tuttavia la fine del capitalismo? La risposta è nella sociologia, non nell'economia; nella visione, non nell'analisi. Schumpeter percepisce la cultura del capitalismo come corrosiva dei valori. Come in tutti i sistemi di valori di tipo fondazionale, il nucleo che sostiene le sue credenze non è in definitiva difendibile razionalmente e si dissolverà a un minuzioso esame non sentimentale dei valori del capitale.

«Il capitalismo — scrive — genera una forma mentis critica che, dopo aver distrutto l'autorità morale di tante altre istituzioni, si rivolge da ultimo contro le proprie; il borghese scopre con stupore che l'atteggiamento razionalista non si ferma alle credenziali di re e pontefici, ma muove all'assalto anche della proprietà privata e dell'intero schema dei valori borghesi». La fine arriva dunque quando gli imprenditori che incarnano lo slancio vitale del sistema perdono il proprio entusiasmo e si sistemano in un'esistenza sicura come manager socialisti.

Più che l'analisi, è la visione a preparare il terreno per questa "predizione" stupefacente. Nella concezione di Schumpeter gli imprenditori sono membri di gruppi di élite che arrivano al vertice in tutte le società: il governo socialista si servirà sicuramente della loro «qualità superiore alla media». D'altra parte, gli operai, e in generale le classi medie e basse — tutte creature dell'abitudine e della routine — non noteranno neppure la differenza: una «somiglianza di famiglia» renderà il socialismo più simile al capitalismo che differente da esso. Funzionerà questo socialismo borghese, manageriale? «Certamente»: Schumpeter è tanto apodittico nel dichiarare che il socialismo funzionerà, quanto lo era stato prima nel dichiarare che il capitalismo non sopravvivrà. Anzi, arriva a dire che c'è ogni ragione di credere che il morale e l'autopercezione del socialismo potranno essere più alti rispetto a quelli del capitalismo e che i dubbi sulla pianificazione arriveranno a sembrare tanto miopi quanto quelli espressi da Smith riguardo al futuro delle società per azioni.


2.

Non è questa la sede per addentrarci in una critica dettagliata di questi notevoli tentativi di prevedere le tendenze immanenti dell'ordine capitalistico. È però un luogo adattissimo per chiederci quanto utili possano essere tali interpretazioni, reciprocamente incompatibili e spesso smentite dalla storia, per riflettere sulle prospettive future.

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