Copertina
Autore Wilhelm von Humboldt
Titolo Scritti filosofici
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2007 [2004], Classici del pensiero , pag. 810, cop.fle., dim. 12x19x4,5 cm , Isbn 978-88-02-07791-8
CuratoreGiovanni Moretto, Fulvio Tessitore
LettoreLuca Vita, 2007
Classe filosofia , linguistica
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Indice

  9 Introduzione
 69 Nota biografica
 73 Nota bibliografica

    PARTE PRIMA - FILOSOFIA DELLA POLITICA

 87 Sulla religione
117 Idee per una Costituzione politica suggerite dalla nuova
    Costituzione francese
127 Idee per un saggio sui limiti dell'attività dello Stato

    PARTE SECONDA - FILOSOFIA DELLA STORIA

267 Sullo studio dell'antichità e di quella greca in particolare
297 Il secolo diciottesimo
399 Lo spirito dell'umanità
411 Lazio e Grecia, ovvero considerazioni sull'antichità classica
447 Sul carattere dei Greci, la loro immagine ideale e storica
455 Storia della decadenza e del tramonto dei liberi Stati greci
503 Considerazioni sulla storia universale
513 Considerazioni sulle cause motrici della storia universale
521 Il compito dello storico

    PARTE TERZA - FILOSOFIA DELL'ARTE

543 La differenza sessuale e il suo influsso sulla natura organica
567 La forma maschile e femminile
601 Saggi estetici su "Hermann und Dorothea" di Goethe
659 Schiller e il corso della sua evoluzione spirituale

    PARTE QUARTA - FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO

697 Introduzione alla traduzione dell'Agamennone di Eschilo
723 Sullo studio comparato delle lingue in relazione alle diverse
    epoche dello sviluppo linguistico
747 Sull'origine delle forme grammaticali e il loro influsso sullo
    sviluppo delle idee
775 Sul duale

803 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 87

SULLA RELIGIONE
[1788]



In tutti gli Stati, di cui la storia ci conserva il ricordo, troviamo istituzioni religiose e politiche molto strettamente legate tra loro. Lo studio approfondito dell'origine di questo fenomeno deve essere ugualmente interessante per gli storici e per i filosofi. Indubbiamente la ragione di questo fatto è costituita dalla fede nel potere di Esseri sovraterreni, dalle attese e dai timori suscitati da questa fede; gli stessi fondatori della società dovevano essere troppo compenetrati da queste idee per non coinvolgere la divinità nelle costituzioni politiche che elaboravano, e il legislatore, per nobile intento umanitario o per scaltro inganno, doveva servirsi di questo mezzo per costringere i suoi sudditi all'obbedienza. Soprattutto quest'ultimo caso si è verificato con frequenza. Così Mosè fece parlare il Dio dei suoi Padri, Numa l'Egeria, Maometto lo Spirito Santo e gli Incas il Dio Sole, con la sola differenza dettata dalle diverse convinzioni e necessità del proprio tempo.

Negli Stati più antichi la religione era uno strumento diretto nelle mani del sovrano. La divinità deteneva tutto il potere supremo, il capo dello Stato era soltanto l'interprete degli ordini divini, e anche là dove non regnava una teocrazia vera e propria, egualmente ogni nuova iniziativa doveva essere sottoposta al preventivo controllo della divinità. Questa non proteggeva tanto il cittadino in quanto uomo, ma lo Stato intero, il cittadino in quanto cittadino. Non era tanto la legge che comandava di venerare la divinità, piuttosto era la divinità che dava la legge, la difendeva e la vendicava. Ottenerne il favore o provocarne la collera significava procurare allo Stato prosperità o rovina totale. In quei tempi rozzi e incolti tutte le rappresentazioni di un Essere sovraterreno erano ancora del tutto antropomorfiche; il culto era un mero tessuto di cerimonie. Su queste cerimonie poi si fondava l'autorità dei sacerdoti, e sull'autorità di questi si fondava il potere dei magistrati. Così l'intera struttura dello Stato si legava a quest'unico filo. Un'innovazione in materia di religione perciò, in quanto violazione di una legge penale, non era semplicemente un delitto, ma un crimine politico in senso stretto; l'osservanza degli usi cultuali non rappresentava tanto lo sforzo di conservare agli dèi i loro fedeli quanto quello di conservare allo Stato la sua costituzione. Perciò il rispetto dimostrato da Socrate e da Moses Mendelssohn per le stesse più strane esigenze della loro religione non era un riguardo indulgente per la superstizione del loro popolo, ma l'osservanza del dovere civico, nel primo, e di quello nazionale, nel secondo, in quanto i Giudei non formano più uno Stato autonomo. Non fu perciò intolleranza quella dei giudici ateniesi che condannarono Socrate a bere la cicuta. Egli era da considerare come un criminale contro lo Stato quando fosse stato dimostrato che privava gli altari dei loro sacrificatori.

Inoltre le divinità degli antichi popoli erano divinità particolari, limitate ai confini della proprietà umana. Ogni regione, ogni luogo veniva consacrato a un dio particolare. Esistevano gli dèi della casa, della famiglia, della tribù, della nazione; esistevano le divinità dei singoli campi, dei giardini, dei boschetti, delle sorgenti, dei monti ecc. La protezione di queste divinità era una caratteristica degli abitanti di queste regioni, dei membri di queste società; si trattava però di una caratteristica che ineriva alle regioni e alle società, e che si perdeva uscendo dai confini del paese o cessando di essere membri della famiglia. Di qui le varie cerimonie cultuali nell'edificazione di case, nella trasmissione di eredità, nel passaggio da una famiglia ad un'altra; di qui l'idea terribile connessa all'esilio. Da noi l'esiliato perde la moglie, i figli, la casa paterna, il suolo patrio, ma gli rimane sempre un vincolo, il vincolo cioè che lo lega al suo Dio. Secondo le concezioni antiche, invece, anche questo vincolo si spezzava, gli stessi dèi abbandonavano il profugo sventurato, egli era straniero dappertutto, presso gli dèi e presso gli uomini. Quanto di atroce ha perduto l'idea di straniero da quando la concezione di un Padre e Tutore universale unisce l'intero genere umano! Si comprende perciò come tutti i popoli antichi fossero immuni dalla tendenza a fare proseliti e dovessero piuttosto allontanare gli stranieri dai loro templi. Il benefico influsso degli dèi nazionali era beneficio esclusivo, che si perdeva quando si divideva, e si defraudava quando fosse stato arbitrariamente attribuito. Si deve aggiungere che la partecipazione alla religione significava partecipazione al diritto di cittadinanza. Si poteva quindi avere l'intenzione di fare dei proseliti solo se si desiderava aumentare il numero dei cittadini.

La religione degli antichi era parte della costituzione politica, ma non era nulla più di questo. Del resto essa lasciava ad ogni cittadino una libertà illimitata, non gli imponeva limiti né a proposito delle sue idee sull'origine dell'universo, sulla direzione degli avvenimenti umani, sulle sue attese nell'oltretomba e così via, né a proposito delle sue azioni; insomma la religione non entrava in conflitto né con la filosofia teoretica né con quella pratica. Anche le azioni dei cittadini, infatti, la religione le determinava solo in quanto determinava le leggi, e vegliava sul loro rispetto. In generale, in quanto strumento per rendere il cittadino più costumato e, quindi, più obbediente alle leggi, la religione non richiedeva convincimenti, ma soltanto, quale ruota motrice nella macchina dello Stato, il compimento di determinate azioni esterne. Di qui l'illimitata libertà di pensiero, l'immensa tolleranza degli antichi, che sopportava ogni setta e non conosceva una religione dominante se non come costituzione statale vigente, quindi solo nei rapporti dei cittadini. Per questo la filosofia non doveva mai tacere davanti ai verdetti sacerdotali; per questo, da console, Cicerone doveva ascoltare il consiglio degli auguri, mentre da privato poteva stupirsi pubblicamente che un augure potesse vedere un suo simile senza ridere. Se presso gli antichi la filosofia e la religione fossero state nel rapporto in cui si trovano ora, ogni libertà spirituale, ogni cultura, sarebbe andata assolutamente perduta, in quanto la costituzione dello Stato era inscindibilmente legata alla religione.

Se si tengono presenti queste caratteristiche della religione dei popoli meno civilizzati (cui qui ho potuto solo accennare, ma che varrebbe la pena di esaminare più esattamente e documentare con appropriate testimonianze), nell'uso, che negli Stati antichi e nei nostri attuali, viene fatto della religione, si coglie la differenza che, in generale, caratterizza questi rispetto a quelli. Finché era soltanto il caso a creare gli Stati e la necessità ad organizzarli, si cercava unicamente di ridurre il cittadino a cittadino obbediente; ora invece la legislazione, che procede in base a programmi calcolati, tende a formarlo cittadino capace. A quei tempi perciò anche la religione era soltanto un mezzo coercitivo, mentre ora è un mezzo formativo.

La religione quindi non è più intrecciata strettamente con la costituzione dello Stato; quest'ultima potrebbe esistere anche senza di quella se i cittadini sapessero realizzare una più alta moralità e una più intima disposizione alla obbedienza delle leggi. La deviazione dalle idee religiose prescritte non è più un sovvertimento della costituzione, ma soltanto una trasgressione delle leggi dello Stato. Queste stesse leggi acquistano ora un'altra fisionomia. Siccome deve agire sul carattere, la religione deve essere accompagnata da un convincimento interiore. Ma un convincimento non può essere prodotto o strappato coattivamente da leggi. Chi pertanto devia dalla dottrina dello Stato, non vi può essere riportato da nessuna legge; la legge gli impedisce soltanto di diffondere ulteriormente la sua opinione deviante. Dal fatto che i legami tra religione e Stato siano allentati e il dovere religioso si identifichi meno con quello civile trae vantaggio la libertà del cittadino.

La nostra religione insegna l'esistenza di una divinità universale, e non nazionale; non è religione del cittadino, ma dell'uomo. La protezione della divinità non è proprietà esclusiva di alcuni pochi, è invece un dono cui ognuno può partecipare senza togliere qualcosa all'altro. Di qui la nostra tendenza a fare proseliti, accresciuta dalla speranza di un duplice vantaggio, anzitutto per il neoconvertito, che viene così elevato ad un grado più alto di felicità, e poi per il missionario, che acquista merito presso la sua divinità, la quale aumenta così il numero dei suoi fedeli.

La nostra religione si rivolge all'uomo in quanto uomo, si interessa della sua moralità e della sua felicità individuale. Essa quindi esige convinzione. Ma la convinzione non è possibile senza una qualche conseguenza per il nostro intero sistema di pensiero, senza un'armonia totale. Pertanto la ragione non può essere in contrasto con la religione; essa deve portare agli stessi risultati oppure tacere là dove ne produce di diversi. Da noi religione e filosofia sono così intimamente unite che sorge il concetto di eresia, e ogni opinione filosofica che contrasti con il concetto dominante di religione, oppure porti a conseguenze in contrasto con quel concetto, deve essere repressa. Se quindi la libertà di pensiero ha tratto vantaggio dal meno solido legame tra Stato e religione, è pregiudicata nuovamente, e in maniera più consistente, da questa unione. Infatti la coercizione della religione positiva ora viene estesa a cose che, in sé, non sono nemmeno suscettibili di una determinazione positiva. Già la storia dimostra con più di un esempio quanto sia dannosa l'unione troppo stretta tra gli oggetti della ricerca e quelli della fede. In quanto nei tempi di più rozza barbarie si ritenevano possibili effetti soprannaturali in virtù dell'alleanza con spiriti ostili, la fisica e le scienze naturali in genere si videro ostacolate in tutti i loro progressi. Perché si credeva di poter dedurre dalle dottrine originarie dei maestri religiosi altri princìpi quali verità religiose, Copernico fu condannato come eretico. Ma abbiamo proprio bisogno di risalire così indietro? Ancora oggi, certe azioni immorali non apparirebbero in una luce totalmente diversa se fossimo abituati a considerare la morale in un rapporto meno stretto con la religione? Lo stesso nostro diritto penale offrirebbe un buon numero di tali esempi se lo si studiasse in quest'ottica. Mi limito a citarne uno, la punizione di certe dissolutezze contro natura.

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Ogni religione — parlo qui della religione che si riferisce alla moralità e alla felicità, non del fatto che la ragione conosca realmente, o pensi di conoscere, qualche verità religiosa; infatti l'intuizione della verità è indipendente da tutte le influenze della volontà e del desiderio — ogni religione, dicevo, si fonda su un bisogno dell'anima. Noi speriamo, temiamo, perché desideriamo. Là dove manca ogni traccia di cultura spirituale, anche il bisogno è soltanto sensibile. Il timore e la speranza di fronte agli avvenimenti naturali, che l'immaginazione trasforma in esseri autonomi, costituiscono il nucleo dell'intera religione. Là invece dove incomincia la cultura spirituale, essi non bastano più. L'anima allora brama ardentemente di contemplare qualche perfezione, di cui una scintilla già arde in essa, ma della quale intuisce l'esistenza, fuori di sé, in una misura molto più grande. Questa visione si trasforma in stupore e, qualora l'uomo si figuri mentalmente un rapporto con questo Essere, in amore, dal quale origina un desiderio di assimilazione e di unificazione. Questo fatto si riscontra anche nei popoli che si trovano ancora ai livelli più bassi della formazione culturale. È da esso infatti che, anche presso i popoli più incolti, sorge la convinzione che i grandi della nazione discendano dagli dèi e vi ritornino. L'idea della divinità si differenzia soltanto in virtù della diversa idea di perfezione che vige in ogni epoca e in ogni nazione. Gli dèi degli antichi Greci e Romani, nonché gli dèi dei nostri antenati, erano degli ideali di potenza e vigore fisico. Quando sorse e si affinò l'idea del bello sensibile, la bellezza sensibile personificata venne elevata al trono della divinità, e così nacque la religione, che si potrebbe definire religione dell'arte. Quando ci si elevò dal sensibile allo spirituale puro, dal bello al buono e vero, la sintesi di ogni perfezione intellettuale e morale divenne oggetto di adorazione, e la religione una proprietà della filosofia. Se le religioni si differenziassero a seconda delle nazioni o dei partiti, e non invece a seconda dei singoli individui, forse, in base a questo criterio, si potrebbe istituire un confronto tra i loro diversi valori. Ma la religione è del tutto soggettiva, si fonda soltanto sulla peculiarità del modo di pensare di ogni uomo.

Se l'idea di una divinità è il frutto di una vera formazione spirituale, il suo influsso si esercita bellamente e beneficamente sulla perfezione interiore. Tutte le cose ci appaiono mutate più se sono le creature di un'intenzione programmata che se sono l'opera di un caso assurdo. Le idee di sapienza, ordine, intenzione, che sono così indispensabili per il nostro agire, si radicano più stabilmente nella nostra anima se le scopriamo presenti ovunque. Il finito diventa quasi infinito, l'accidentale permanente, il mutevole continuo, il complicato semplice, se immaginiamo una causa ordinatrice al vertice delle cose e una durata infinita delle sostanze spirituali. La nostra ricerca della verità, la nostra aspirazione alla perfezione, acquista maggiore stabilità e sicurezza se per noi esiste un Essere che sia la fonte di ogni verità, la sintesi di ogni perfezione. L'anima avverte in maniera meno dura i destini avversi, in quanto in essa si congiungono fiducia e speranza.

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Pagina 112

Ma a voler continuare, volendo trovare nuovi mezzi di promozione, non si dovrebbe dimenticare mai di valutarne l'utilità rispetto agli svantaggi. Ma dopo quello che si è detto e ripetuto non c'è più bisogno di diffondersi a dimostrare quanti siano i danni causati dalla limitazione della libertà di pensiero. Se tali danni si estendessero soltanto ai risultati delle ricerche, e producessero semplicemente incompletezza o scorrettezza nella nostra conoscenza scientifica, potrebbe forse avere una qualche giustificazione il voler contrapporre a ciò l'utilità che si può attendere — e si deve attendere — per il carattere. Ma in questo modo il danno è di gran lunga più considerevole. L'utilità di una libera ricerca si estende all'intero nostro modo, non solo di pensare, ma anche di agire. In chi è abituato a giudicare da sé e a sentir giudicare dagli altri la verità e l'errore, senza riguardo per le condizioni esterne, tutti i princìpi dell'agire sono più meditati, più coerenti e dedotti da punti di vista più alti che non in colui le cui ricerche vengono continuamente condizionate da circostanze estrinseche alla ricerca stessa. L'indagine e la convinzione, che da essa trae origine, sono un'attività autonoma; la fede e la fiducia in una forza estranea sono invece una perfezione intellettuale o morale estranea. Pertanto nel pensatore che indaga crescono l'autonomia e la stabilità, mentre nel credente fiducioso aumentano la debolezza e l'inattività. È vero che là dove domina totalmente e soffoca ogni dubbio, la fede produce un coraggio più invincibile e un vigore più duraturo; la storia di tutti gli entusiasti l'insegna. Ma questo vigore è auspicabile soltanto quando ci si prefigga un successo esterno particolare, per il quale si richiede una semplice attività meccanica, non invece là dove si attendono decisione personale, azioni calcolate, fondate su motivi della ragione, o addirittura perfezione interiore. Questo stesso vigore, infatti, si fonda proprio sulla debolezza, sulla repressione di ogni attività propria della ragione. I dubbi sono tormentosi solo per chi crede, mai per chi si limita a svolgere la propria ricerca razionalmente. In generale, infatti, per il ricercatore i risultati sono meno importanti che per il credente. Durante l'indagine egli è consapevole dell'attività, del vigore della sua anima, sente che la sua vera perfezione, la sua felicità, si fonda precisamente su questo vigore; i dubbi sui principi che finora ha ritenuti veri non lo opprimono, lo rallegra il fatto che la sua facoltà intellettuale abbia tratto grande vantaggio dalla visione degli errori che prima rimanevano nascosti. La fede, invece, può provare interesse soltanto per il risultato, in quanto per essa non c'è più nulla nella verità conosciuta. I dubbi suscitati dalla sua ragione tormentano il credente. Essi, infatti, non sono, come nelle persone che ragionano autonomamente, nuovi mezzi per raggiungere la verità, ma, al contrario, sono qualcosa che privano della certezza, senza indicargli un mezzo per riottenerla in un altro modo. Questa considerazione, sviluppata ulteriormente, porta alla costatazione che, in generale, non è bene attribuire un'importanza eccessivamente grande a singoli risultati e credere che da essi dipendano numerose altre verità o numerose conseguenze vantaggiose, esterne o interne. In questo modo si produce troppo facilmente una stasi nella ricerca e, a volte, le affermazioni più libere e illuminate si oppongono proprio al fondamento, senza il quale neppure esse avrebbero mai potuto imporsi. Quanto importante è la libertà di pensiero, altrettanto nociva ne è la limitazione.

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Pagina 521

IL COMPITO DELLO STORICO
[1821]



Lo storico ha come compito l'esposizione dell'accaduto, un compito che egli assolve tanto più perfettamente quanto più pura e completa gli riesce tale esposizione. La semplice esposizione rappresenta infatti la prima, indispensabile esigenza del suo ufficio e insieme il massimo che da lui ci si possa attendere. Sotto questo profilo, più che autonomo e creativo, egli appare recettivo e imitativo.

Da parte dei sensi però l'accaduto è individuabile solo parzialmente, il resto occorre percepirlo, dedurlo, intuirlo. Quel che di esso balza alla vista è disperso, sconnesso, isolato; l'osservazione diretta non è in grado di cogliere ciò che conferisce unità a questa realtà frammentaria, ciò che colloca il particolare nella sua vera luce e dà forma al tutto. Essa può percepire soltanto le circostanze concomitanti e successive, non invece l'intimo nesso causale sul quale unicamente si fonda la verità interiore. Se si cerca di raccontare il più trascurabile dei fatti, con l'intenzione però di riferire rigorosamente solo quanto è realmente accaduto, si noterà tosto come, senza la massima prudenza nella scelta e nel vaglio dei termini, si insinuino ovunque minute interpretazioni estranee a ciò che è accaduto, le quali non fanno che provocare errori e incertezze. Lo stesso linguaggio arreca qui il suo contributo, in quanto ad esso, che scaturisce dalla pienezza dell'animo, mancano spesso espressioni totalmente esenti da connotazioni secondarie. Nulla perciò è più raro di un racconto letteralmente vero, nulla rappresenta più di esso la prova di una mente sana, ben ordinata, capace di distinguere in maniera netta, e di uno stato d'animo libero, oggettivo; la verità storica è perciò paragonabile in qualche modo alle nuvole, che solo di lontano acquistano una figura per l'occhio; nelle singole circostanze che li collegano, i fatti della storia sono quindi poco più che i risultati della tradizione e dell'indagine, che si è convenuto di accettare come veri, in quanto oltre ad essere i più verisimili in sé, si inseriscono anche meglio nel contesto complessivo.

Con la mera distinzione del realmente accaduto si è però raggiunto appena lo scheletro dell'avvenimento. Quello che essa può dare è il fondamento necessario della storia, la sua materia, ma non la storia stessa. Arrestarsi a questo punto vorrebbe dire sacrificare la verità peculiare, interiore, fondata sul nesso causale, a una verità esteriore, letterale, apparente, e scegliere un errore certo per evitare il pericolo di un errore ancora incerto. La verità di ogni evento si fonda sull'integrazione prodotta da quella parte invisibile di ogni fatto che abbiamo ricordato più sopra e che perciò è dovere dello storico aggiungere. Da questo punto di vista egli è autonomo e persino creativo, non certo nel senso che produca ciò che non esiste, bensì in quanto con la propria energia dà forma a ciò che con la mera ricettività non era in grado di percepire nella sua realtà. Come il poeta, anche se in modo diverso, egli deve elaborare in sé quanto ha riunito in maniera confusa al fine di trasformarlo in un tutto organico.

Può apparire pericoloso identificare, anche in un solo punto, i campi dello storico e del poeta. Eppure è innegabile l'affinità esistente tra le loro rispettive attività. Se infatti, stando a quanto abbiamo detto, il primo non raggiunge con l'esposizione la verità dell'accaduto se non integrando e connettendo i dati incompleti e frammentari dell'osservazione diretta, come il poeta egli può fare ciò soltanto mediante la fantasia. Siccome però egli subordina quest'ultima all'esperienza e all'esplorazione della realtà, abbiamo qui la differenza che elimina ogni pericolo. In questa subordinazione la fantasia non opera come fantasia pura, per cui è più esatto chiamarla capacità di presagire e di connettere. In questo modo però si assegnerebbe alla storia un ruolo ancora troppo modesto. La verità dell'accaduto sembra certamente semplice, eppure è il massimo che si possa pensare. Se infatti venisse raggiunta interamente, in essa ci si svelerebbe ciò che, alla stregua di un concatenamento necessario, condiziona tutta la realtà. Pure lo storico deve perciò tendere al necessario, non per sottoporre, come fa il poeta, la materia al dominio della forma della necessità, ma per conservare immutate nella mente le idee che ne rappresentano le leggi, poiché solo compenetrato da esse egli può rinvenirne l'impronta nella pura esplorazione del reale nella sua realtà.

Lo storico tiene presenti tutti i fili dell'agire terreno e tutte le tracce delle idee sovraterrene; l'oggetto del suo studio è, più o meno approssimativamente, l'insieme dell'esistenza, ragion per cui egli deve anche seguire tutte le direzioni dello spirito. Ma speculazione, esperienza e poesia non sono attività dello spirito separate, opposte e limitantisi a vicenda, bensì irradiazioni diverse delle medesime attività.

Per raggiungere la verità storica si devono quindi percorrere contemporaneamente due vie: esplorare l'accaduto in maniera rigorosa, imparziale, critica, e collegare quanto è stato indagato, presagendo ciò che quei mezzi non permettono di raggiungere.

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Pagina 723

SULLO STUDIO COMPARATO DELLE LINGUE
IN RELAZIONE ALLE DIVERSE EPOCHE
DELLO SVILUPPO LINGUISTICO
[1820]



1. Lo studio comparato delle lingue può condurre a sicuri e considerevoli chiarimenti sul linguaggio, sullo sviluppo dei popoli e sulla cultura umana solo quando lo si renda uno studio specifico che rechi in se stesso la propria utilità e il proprio scopo. In tal modo, certo, anche la trattazione di una singola lingua diviene invero difficile. Infatti, sebbene sia facile cogliere l'impressione generale di ognuna, ci si perde in una innumerevole quantità di singoli elementi apparentemente insignificanti non appena si cerchi di rintracciarne le cause; e ben presto si vede che l'azione delle lingue non dipende tanto da certe grandi e spiccate qualità ma si fonda piuttosto sull'impressione costante, a stento percettibile nei singoli casi, della natura dei suoi elementi. Qui, però, proprio il carattere generale dello studio diventa il mezzo per portare con evidenza alla luce questo organismo finemente intessuto, poiché la chiarezza della forma, in complesso sempre identica pur sotto molteplici e vari aspetti, facilita l'indagine.

2. Come il nostro globo terrestre è passato attraverso grandi cataclismi prima di assumere l'attuale conformazione dei mari, dei monti e dei fiumi, ma da allora si è modificato ben poco, così anche nelle lingue esiste un punto di compiuta organizzazione, a partire dal quale la struttura organica, la configurazione stabile non muta più. Al contrario, entro dati limiti il processo del più affinato perfezionamento può continuare in esse all'infinito, in quanto prodotti viventi dello spirito. Una volta che la lingua ha acquisito il proprio aspetto, le forme grammaticali essenziali restano le stesse; la lingua che non ha operato distinzioni di genere, di caso, di passivo o di medio, non rimedia più a queste lacune; tanto meno si accrescono le grandi famiglie di parole, le principali forme di derivazione. Tuttavia mediante la derivazione nelle più fini diramazioni dei concetti, mediante la composizione delle parole, l'elaborazione interna del loro contenuto, il loro collegamento sensato, e l'uso fantasioso dei loro significati originari, mediante la distinzione, avvertita come giusta, di certe forme per determinati casi, mediante l'eliminazione del superfluo e l'addolcimento dei toni aspri, un nuovo mondo di concetti e uno splendore dell'eloquenza prima sconosciuto si schiude nella lingua povera, goffa e modesta al momento della sua formazione, se il favore del destino le arride.

3. È un fenomeno degno di nota che non si sia ancora trovata alcuna lingua al di là della linea di confine della forma grammaticale compiuta, che non se ne sia mai sorpresa nessuna nel fluente divenire delle sue forme. Per provare ancor più questa affermazione dal punto di vista storico, nello studio degli idiomi delle nazioni selvagge deve perdurare una aspirazione a determinare il livello più basso della formazione della lingua, in modo da conoscere tramite esperienza almeno l'ultimo gradino della scala dell'organizzazione delle lingue. Finora, però, l'esperienza personale mi ha mostrato che anche i cosiddetti idiomi rozzi e barbarici possiedono già tutto ciò che occorre ad un uso completo e sono forme in cui, come i migliori e più eccellenti idiomi hanno provato, l'animo intero potrebbe incarnarsi nel corso del tempo per dar forma in esse, in maniera più o meno perfetta, ad ogni genere di idee.

4. La lingua non può altresì nascere che in un sol colpo o, per meglio dire, essa deve possedere in ogni istante della sua esistenza ciò che fa di essa una totalità. Emanazione immediata di un essere organico nel suo valore sensibile e spirituale, la lingua partecipa della natura di tutto ciò che è organico per il fatto che in essa ogni elemento sussiste solo per mezzo dell'altro e il tutto solo in virtù della forza che pervade la totalità. La sua essenza si ripete incessantemente, ma in cerchi più stretti o più ampi, all'interno della lingua stessa; in quanto si fonda sulla forma grammaticale, già nella semplice proposizione essa è presente in compiuta unità; e poiché il collegamento dei concetti più semplici suscita l'intera trama delle categorie dell'intelletto, poiché il positivo esige e reca con sé il negativo, la parte il tutto, l'unità la molteplicità, l'effetto la causa, la realtà la possibilità e la necessità, il condizionato l'incondizionato, una dimensione dello spazio e del tempo l'altra, ogni grado della sensazione quelli immediatamente prossimi, ecco che, non appena sia stata conseguita con chiarezza e determinatezza l'espressione della più semplice connessione di idee, una totalità della lingua è presente anche per quanto concerne la ricchezza del lessico. Ogni parola pronunciata forma quella che non lo è stata o la prepara.

5. Nell'uomo dunque si congiungono due sfere capaci della divisione fino a un numero calcolabile di elementi fissi e del loro collegamento fino all'infinito, e in cui nello stesso tempo ogni parte manifesta sempre la sua peculiare natura come relazione a quelle parti cui appartiene. L'uomo possiede la forza di dividere queste due sfere, spiritualmente mediante la riflessione, materialmente mediante l'articolazione, e di collegare nuovamente le loro parti, spiritualmente mediante la sintesi dell'intelletto, materialmente mediante l'accento che riunisce le sillabe nella parola e le parole nel discorso. Pertanto, come la sua coscienza è diventata sufficientemente poderosa da far compenetrare in sé queste due sfere con la forza che suscita la medesima compenetrazione in chi ascolta, così esso è in possesso dell'insieme delle due sfere. La loro compenetrazione reciproca può avvenire solo mediante una medesima forza, e questa può provenire solo dall'intelletto. Anche l'articolazione dei suoni, l'immane differenza tra il mutismo dell'animale e il discorso umano non si lascia spiegare fisicamente. Solo il vigore dell'autocoscienza impone alla natura corporea l'esatta divisione e la rigida delimitazione dei suoni che noi chiamiamo articolazione.

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