Copertina
Autore Alfonso M. Iacono
Titolo Storia verità e finzione
Edizionemanifestolibri, Roma, 2006, La nuova talpa , pag. 216, cop.fle., dim. 145x210x14 mm , Isbn 978-88-7285-429-7
LettoreRiccardo Terzi, 2006
Classe filosofia , storia , storia contemporanea , politica
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Indice


INTRODUZIONE - PERDITE DI MEMORIA                          9


PARTE PRIMA — AUTONOMIA E POTERE                          15

1. La storia e la semplificazione                         17
2. Da Occidente a Oriente                                 27
3. Intorno al concetto di autonomia                       41
4. Immagini, democrazia e circolazione delle élites       53

PARTE SECONDA — CONOSCENZA E ALTERITÀ  I                  65

5. Il problema dell'altro nell'universalismo occidentale  67
6. Conoscenza storica, mutamento, autonomia               81
7. Differenza, cambiamento, irreversibilità               93
8. Storia, verità e finzione                             101

PARTE TERZA — CONOSCENZA E ALTERITÀ  II                  109

9. Effetti della naturalizzazione                        111
10. L'ambiguo oggetto sostituto                          129
11. I Greci e i selvaggi                                 151
12. L'utopia e i Greci                                   167

Note                                                     182
Nota biografica                                          217
Indice dei nomi                                          209

 

 

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PERDITE DI MEMORIA



È un'epoca confusa, questa. Non più difficile di quelle passate. Più confusa sì. E nella confusione accadono cose contraddittorie. Interessanti e stupide. Attraenti e ripugnanti. Nel campo dell'arte, le nuove tecnologie aiutano gli artisti a fare quello che devono fare, cioè a guardare con altri occhi e a far guardare con altri occhi. I vecchi temi, le fiabe, i racconti, la tradizione orale e la tradizione scritta, si mettono insieme a fare un viaggio in cui le cose si mescolano restando se stesse. Qui la memoria resiste per la semplice ragione che è rinnovata. Pinocchio o Amleto acquistano una dimensione diversa, ma senza perdere i loro tratti caratteristici. Si tratta anche di un esercizio di memoria, di quell'esercizio grazie al quale riconoscendo i tratti familiari di qualcosa che ci è noto, riusciamo a cogliere, anche proprio per questo, il mutamento di senso che le storie narrate ora comunicano. Il feticismo delle merci domina a tal punto che non ci accorgiamo di quanto ci sia entrato dentro, si sia naturalizzato, entrato nel nostro modo di essere. Esso domina il nostro attuale senso del mutamento. La differenza che il pubblicitario ci fa cogliere tra una merce e l'altra che le è concorrenziale e che le somiglia, non ha propriamente a che fare con il mutamento. Si tratta invece delle differenza di quel gioco del mercato che sta condizionando tutto il nostro modo di vivere e di pensare, a cui soggiaciamo quasi senza rendercene conto. È il gioco del cambiamento debole, la finta orgia del nuovo, che si propone incessantemente come un valore e che, proprio a causa di quell'incessantemente, si è logorato. Il conformismo oggi ha i tratti del nuovo e del cambiamento. Viviamo l'epoca della caricatura della modernità. La finta orgia del nuovo uccide la memoria. Chi si ricorda della prima guerra del Golfo? Nessuno. Ogni tanto giunge sentore di qualcosa che ancora accade in Afghanistan. Ma qualcuno ha memoria di quella Guerra che l'occidente presentò come guerra di liberazione? E del Kossovo e della missione Arcobaleno? Tutto è nel calderone del già dimenticato. Tutto è confuso. Un tempo tornare al passato era ritenuto necessario per comprendere se stessi, ora al passato ci si va con veloci viaggi organizzati, vitto e alloggio compresi nel prezzo (vini esclusi), giusto il tempo di qualche veloce e fugace fotografia. Stiamo diventando tutti giapponesi. Statunitensi e britannici hanno fatto credere che Saddam Hussein avesse le armi nucleari. Fatta la guerra, si è scoperto che forse non le aveva. Ma ormai il gioco era stato giocato. Quello che colpisce e attanaglia la mente non è il senso dell'inganno, ma il fatto che l'inganno stesso è accettato quasi come un evento naturale. Non sconvolge nessuno. È come la corruzione: accettata ormai come parte delle cose di questo mondo. E così pure la perdita di memoria, grazie a cui gli impuniti hanno campo e gloria. Nel campo della comunicazione politica la perdita di memoria sta diventando sempre più uno strumento del fare politica. Il presidente del consiglio o il portavoce di un partito fanno una dichiarazione o rilasciano un'intervista i cui contenuti potranno essere corretti o smentiti qualche giorno dopo. Fra le parole e le cose non vi è più alcun legame. Nessuno si aspetta una corrispondenza fra esse, ma almeno un nesso dovrebbe pur esserci, e invece non c'è. Tuttavia il vero punto è che quando il politico di turno rilascia una dichiarazione, non vi è memoria. Non c'è più un filo che lega quel che aveva detto, corretto, smentito qualche giorno prima e quel che dice ora. Si ricomincia sempre da capo. E questo ricominciare da capo, questa perdita di memoria, questo frastuono di parole che cessa improvvisamente senza lasciare traccia, è l'espressione del crollo dei contenuti in favore del personaggio. L'aria di familiarità, il riconoscimento sono dati dalla fama del leader, che è sempre presente nelle case di tutti attraverso la tv. Presenze senza storia. O ci sono tutti i giorni o spariscono. Oggi, la metamorfosi che consensualmente stiamo vivendo e che da cittadini ci sta trasformando in sudditi, passa per la perdita della memoria, per l'ossessionante esibizione del nuovo, per l'assoluto prevalere del fascino personale del leader sui contenuti rispetto a cui vincolare patti, programmi, progetti. Il solo accennare a queste parole, patti, programmi, progetti, provoca strane sensazioni di vecchio, di desueto, di inessenziale. Oggi si può sputtanare pubblicamente chiunque facendo riferimento a contenuti che possono essere falsificati con tranquillità per la semplice ragione che nessuno andrà a controllare le fonti. Non c'e tempo, non c'è voglia, non c'è memoria.

È un'epoca confusa. Produce attrazione e ripugnanza. Vecchi conformismi sono per fortuna saltati. Ma se ne affacciano di nuovi. La perdita di memoria facilita loro la strada. Non abbiamo più il coraggio di chiederci dove, per esempio, stia oggi il confine tra il terrorismo e la lotta di un popolo contro l'oppressione, anche perché non riusciamo a voltarci indietro nella storia per chiedercelo e ci basta sapere che noi, l'Occidente, la Democrazia, siamo dalla parte giusta, quella dove sta il bene e dove non alligna il male. Ma dobbiamo domandarci: cosa vi è di democratico, di giusto, di buono in una perfetta visione del mondo dove il senso della critica si dissolve nei mille rivoli di un fiume che non scorre, dove non vi è più spazio per guardare con altri occhi?

La memoria oggi si annebbia nello spazio televisivo di pochi giorni, ma tutto cominciò con la Guerra del Golfo. Saddam Hussein invase il Kuwait e l'Onu diede il via libera alle truppe americane ed europee allo scopo di rimettere le cose al posto giusto. Nessun dubbio: Saddam e il suo regime erano colpevoli, avevano violato – ed era vero –, un diritto: l'Iraq doveva essere punito. Poi vi fu la tragedia del Kossovo. Venne deciso l'«intervento militare umanitario» e così fu. Poi giunse terribile e inaspettato l'11 settembre del 2001, a cui seguì l'intervento militare in Afghanistan. Poi di nuovo l'Iraq, questa volta senza l'Onu e con un'opinione pubblica mondiale generalmente ostile, preoccupata e spaventata di fronte a una guerra preventiva che gli Stati Uniti e l'Europa hanno fatto in nome della democrazia, della libertà, dell'occidente, ma soprattutto in nome degli stessi Stati Uniti, neo portatori di una missione apocalittica e dunque, con buona pace dei teorici della fine della storia, nuovi depositari dell'incedere della storia universale. Il profeta Daniele aveva visto nel sogno di Nabucodonosor il succedersi di quattro imperi universali, la cui identificazione fu disputata e contesa per secoli da filosofi, da nazioni e da imperi. Ora sono gli Stati Uniti gli ultimi portatori, armati e tecnologici, liberi e democratici, del destino della storia, un destino dove il riconoscimento degli altri tende sempre più a doversi produrre in un deserto.

A ben guardare la successione delle guerre in questi anni recenti, non può sfuggire un elemento. L'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq fu ingiusta, l'aggressione dei Serbi nei confronti dei kossovari fu ingiusta, l'11 settembre fu ingiusto, i Talebani in Afghanistan furono ingiusti. La guerra degli Stati Uniti è stata contro azioni ingiuste da parte di regimi dittatoriali e del terrorismo. Per questo molti ritennero che in Kuwait come nel Kossovo, come in Afghanistan si doveva intervenire. E vi credettero. Credettero cioè che l'intervento americano fosse l'unica soluzione adatta a risolvere delle tragedie umane, sociali, politiche. Il rimedio appariva peggiore del male. Ma non si tratta solo di questo. L'attuale guerra contro l'Iraq è il risultato di un'escalation che, in modo costante, sta vedendo realizzarsi una nuova strategia politica e militare degli Stati Uniti per il controllo e il dominio sul mondo. Con la guerra umanitaria nel Kossovo gli Stati Uniti ottennero uno stravolgimento del ruolo e dell'identità della Nato. Ora, con questa guerra, l'Onu ha ricevuto un ulteriore colpo di maglio. Dopo la caduta del muro di Berlino l'assetto mondiale era destinato naturalmente a mutare, ma questo mutamento sta prendendo le truci fattezze di un governo come quello statunitense che, assieme a quello britannico, in nome della democrazia, della libertà, dell'umanità fa guerre illegittime, preventive, intrise di un terribile mélange di manicheismo (il bene contro il male) e di crudo interesse (cominciare a «mettere ordine» in Medioriente), di un inquietante intreccio tra desiderio di vendetta dopo l'11 settembre e voglia di riaffermare assai realisticamente e concretamente la propria potenza.

Qual è il nesso fra guerra preventiva, potenza, vendetta, manicheismo da un lato e democrazia e libertà dall'altro? Perché un nesso, per quanto atroce, dovrà pure esservi. Quanto più forti e rigidi appaiono i messaggi che dividono il mondo tra bene e male, tanto più angosciante è il dubbio che guerra preventiva, potenza, vendetta, manicheismo stiano spaventosamente intrecciandosi con le nostre parole sacre, cioè democrazia e libertà. Possono convivere? Temo di sì. Anzi, stiamo entrando dentro questa strana convivenza. Certo, dipende dal tipo di democrazia e dal tipo di libertà. Ma il punto non è soltanto questo. Lo è, ma non soltanto. Il fatto è che stiamo entrando sempre più dentro un sistema di vita dove le libertà istituzionali tendono a intrecciarsi con una subliminale perdita delle autonomie collettive e individuali, dove il culto del successo, dietro la sua apparente dinamicità, stilla messaggi spietati e autoritari, dove il ritorno delle gerarchie rappresenta il contrassegno della perdita dell'eguaglianza nelle sue varie forme (economiche, culturali, psicologiche, istituzionali), dove la paura, accentuando oltre ogni dire il bisogno di rassicurazione, spinge i cittadini verso il ritorno ad uno stato di minorità. Si accentueranno processi che si muovono verso una sempre più forte divaricazione tra ceti forti e ceti deboli. E il prevedibile irrigidimento dei fondamentalismi islamici spingerà l'Occidente a irrigidire i propri fondamentalismi e viceversa.

Michel Foucault aveva distinto fra liberazione e pratiche di libertà, riflettendo proprio sul problema, esploso in modo particolare nel XX secolo, secondo cui i movimenti politici che in nome della liberazione avevano effettivamente liberato i loro popoli e le loro nazioni, giunti al potere, padroni della parola liberazione, finivano con l'impedire, di fatto, – è una considerazione già espressa da Hannah Arendt – ogni opposizione che volesse ottenere obiettivi di libertà. Come si fa a lottare in nome della libertà, quando la parola libertà appartiene a coloro contro cui viene opposta? Foucault sosteneva che, proprio per questa atroce contraddizione di cui soffrivano i paesi e gli stati socialisti e nazionalisti, a cominciare da quelli del cosiddetto Terzo Mondo, era necessario attuare comunque pratiche di libertà proprio dove la liberazione si mostrava compiuta.

Credo che il problema si ponga oggi anche per i paesi d'Occidente che fanno della democrazia e della libertà i loro valori più sacri. I movimenti che attuano pratiche di libertà ci sono già. Sono i grandi movimenti mondiali no global, sono coloro che in tutto il mondo lottano e manifestano contro le guerre e i devastanti effetti collaterali della cosiddetta globalizzazione.

È in tale cornice, ma in una chiave indiretta (come si conviene a una riflessione che non si presenta a tesi predefinite, ma intende restare aperta) che sono qui discussi i temi dell'autonomia e della storia a partire da alcuni angoli visuali che vanno da quello della rete di potere nelle considerazioni di Primo Levi sulla zona grigia e il problema della semplificazione della storia a quello del rapporto tra Occidente e Oriente di fronte al tema epistemologico e politico dell'autonomia, dalle contraddizioni dell'universalismo e della storia universale al sacro non religioso e al feticismo come legami tra potere e conoscenza di fronte alla questione dell' altro, dai concetti di cambiamento e irreversibilità al tema della verità nella storia, dai Greci in rapporto ai selvaggi al ruolo dell'utopia tra antichi e moderni.

Sono convinto che se ci si muovesse esclusivamente all'interno della politica (di quella politica che sempre più oggi si mostra come amministrazione del potere, piuttosto che come critica e pratica del progetto e del cambiamento) non si sarebbe in grado di operare una riflessione critica sul significato filosofico-politico di concetti quali autonomia, potere, storia. Penso che una riflessione siffatta debba oggi prendere le mosse da una ricerca sugli aspetti filosofici, storici, antropologici che stanno, per così dire, intorno alla politica, fuori di essa, in tensione con essa.

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CAPITOLO 1
LA STORIA E LA SEMPLIFICAZIONE



UNA SVOLTA STORICA

La tragedia dell'11 settembre segna una svolta storica per almeno tre ragioni. La prima è che (è stato detto da tutti) gli Usa vengono colpiti al loro interno. Ciò non era mai accaduto. La seconda è che il terrorismo può ritorcere violentemente contro se stesso il modo occidentale di vita. Gli aerei di linea dirottati che si abbattono sulle torri e sul Pentagono sono di per sé eloquenti in tal senso. Il sistema occidentale di vita, sia da un punto di vista economico, sia da molti altri punti di vista, non può tollerare restrizioni a movimenti di cose e di persone, che, semmai, tendono incessantemente a aumentare. Sicurezza e libertà non riescono a stare insieme. La terza ragione consiste nel fatto che, anche qui forse per la prima volta, l'antagonismo al sistema capitalistico non giunge dall'interno dello stesso sistema e ha il volto truce, fanatico e reazionano del fondamentalismo.

Sulla prima ragione c'è poco da aggiungere a quanto abbondantemente detto. Sulla seconda e sulla terza ragione forse è il caso di soffermarsi ancora.

Veniamo al problema del modo di vita occidentale. Esso è basato su un movimento incessante al punto che qualcuno lo ha paragonato al topolino che gira e corre dentro una ruota. Il sistema capitalistico ha un bisogno continuo di rivoluzionare se stesso, di espandersi, di crescere. Non può essere fermato da estreme misure di sicurezza, da troppi controlli, da tutto ciò che può rallentarne il flusso. Si tratta della libertà? Qui la faccenda si complica. Il bisogno continuo che ha il capitalismo di rivoluzionare se stesso, a cominciare dalla sua base tecnica, porta con se effetti devastanti. Getta sul lastrico milioni di lavoratori, diventati inutili con i nuovi modi di produzione, tende ad accrescere il divario fra paesi ricchi e paesi poveri. La vecchia filosofia e ideologia liberista, secondo cui la crescita di ricchezza nei paesi forti alla lunga trascina con sé nel benessere i paesi poveri, serve forse a nascondere la cattiva coscienza dei paesi ricchi e ad offrire false speranze a quelli poveri, ma di fatto è puntata ad assicurare ai ricchi quel tipo di libertà che ambisce all'onnipotenza e che, proprio per questo, ottiene come inevitabile risultato il paradosso secondo cui vi sono uomini, milioni di uomini, che quella libertà la subiscono. E quando rifiutano di subirla, viene loro tolta con le dittature che il cosiddetto mondo libero ha favorito e favorisce, ha imposto e impone, nel mondo al di fuori dei suoi confini. Si può subire la libertà? Evidentemente si tratta, come detto, di un paradosso. Subire la libertà significa essere gettati nella solitudine della disoccupazione dall'incedere individualistico del mercato e, in particolare, del mercato del lavoro. Subire la libertà significa essere immersi, come siamo, in un mare di informazioni con scarse possibilità di mutare l'ordine gerarchico dell'importanza imposto dai mass media. Subire la libertà significa cercare forme forti di identità e di appartenenza. Forme che però assai spesso sono sistemi che hanno bisogno di inventarsi un nemico, una vittima, un altro negativo su cui costruire l'identità e l'appartenenza. Il razzismo, per esempio, ha a che fare con l'identità e con il senso di appartenenza. Così come quella forma di radicalizzazione religiosa che è il fondamentalismo. Costruirsi il proprio senso di appartenenza contro l' altro, trovare un nemico rispetto a cui tutte le contraddizioni interne appaiono secondarie, se non insignificanti.

Forse si dovrebbe riflettere sul fondamentalismo anche a partire da queste interpretazioni della modernità, evitando i facili discorsi sullo scontro fra civiltà o sul ritorno dell'arcaico. Il delirio di onnipotenza del capitalismo porta a un paradosso, poiché costringe gli altri a subire la sua libertà, facendone pagare loro il prezzo.

Il grande linguista Noam Chomsky, da anni impegnato negli Usa e nel mondo in una battaglia sul rapporto fra democrazia e informazione, comincia il suo articolo pubblicato sulle pagine di Le Monde Diplomatique di dicembre (2001), ponendo due postulati: il primo è che «gli avvenimenti dell'11 settembre costituiscono una atrocità spaventosa, probabilmente la maggiore perdita simultanea di vite umane, guerre escluse». Il secondo postulato è che ci si dovrebbe porre «l'obiettivo di ridurre il rischio che possano ripetersi tali attentati, siano essi rivolti contro di noi o contro altri». Non è con il terrore né con la vendetta che si risponde al terrorismo. Ma ha anche ricordato che ci si sbaglia a considerare il terrorismo uno strumento dei deboli: «Nicaragua, Haiti e Guatemala sono i tre paesi più poveri dell'America latina. Figurano anche tra i paesi in cui gli Stati Uniti sono intervenuti manu militari, il che non è necessariamente un coincidenza fortuita. Tutto ciò avvenne in un clima ideologico contrassegnato dai proclami entusiastici degli intellettuali occidentali. Qualche anno fa, l'autocompiacimento faceva furore: fine della storia, nuovo ordine mondiale, stato di diritto, ingerenza umanitaria e via dicendo. Era moneta corrente, proprio mentre lasciavamo che si commettessero atrocità innumerevoli. Anzi, peggio, davamo un nostro contributo attivo. Ma chi ne parlava? Una delle più grandi conquiste della civiltà occidentale consiste forse nel rendere possibile questo tipo di incongruenza in una società libera. Uno stato totalitario è privo di questo dono».

Ma il problema è che, come già detto, l'attacco al capitalismo ha questo volto truce del terrorismo fondamentalista, che opera in nome di un disegno di un dio, che pretende di essere più onnipotente dell'onnipotente sistema occidentale, che è violento, che opprime e schiavizza le donne.

È a partire però dalla questione del fondamentalismo che si deve sollevare la terza ragione. L'11 settembre ci dice che l'antagonismo storico al modo occidentale di vita non proviene necessariamente ed esclusivamente dall'interno di questo stesso modo di vita. Finora non è stato così. Lo scontro fra paesi capitalistici e paesi a socialismo reale restava comunque uno scontro all'interno della cultura e della tradizione occidentale (sia pure innestata in quella orientale come in Cina, Corea, Vietnam, Cambogia, Giappone). Dopo l'11 settembre questo non è più certo.

Finora, le forze politiche e sociali dell'Occidente sensibili o interessate al cambiamento, fino agli attuali movimenti che cercano di difendersi dagli effetti della globalizzazione, hanno di fatto pensato l'antagonismo politico, così come l'idea che un altro mondo è possibile, come questioni, in primo luogo, tutte interne allo stesso Occidente. Di fatto, tutto ciò che ne restava fuori era ed è considerato, per usare la terminologia di un tempo, una contraddizione secondaria. Forse non è più così, o non è più soltanto così. L'11 settembre ci suggerisce che altri mondi forse sono possibili, ma non è detto che tra quelli possibili, tutti siano necessariamente migliori di quello attuale. Da ciò non si deve trarre la conclusione che viviamo nel migliore dei mondi possibili (o nel meno peggiore), né dobbiamo spingerci ad accettare l'esistente sotto il ricatto che vi possono essere mondi peggiori. Ma si deve comprendere che i luoghi dell'antagonismo storico tendono ad essere altri oltre a quelli che immaginavamo e che gli spazi della politica occupati dal terrorismo fondamentalista restringono quelli di chi lotta per la possibilità di un mondo migliore.

Da questo punto di vista è importante non ridurre la complessità della storia a opposizioni semplici e non semplificare la comprensione degli eventi storici.


LA STORIA E LA SEMPLIFICAZIONE

Primo Levi inizia il secondo capitolo de I sommersi e i salvati, dove si tratta del difficile e tragico ruolo dei prigionieri-funzionari ebrei nei lager, con alcune considerazioni sul perché sia necessario non semplificare e soprattutto sul perché sia necessario non semplificare nella storia. Egli scrive: «tendiamo a semplificare anche la storia, ma non sempre lo schema entro cui si ordinano i fatti è individuabile in modo univoco, e può dunque accadere che storici diversi comprendano e costruiscano la storia in modi fra loro incompatibili». Questo vuol dire solo che ogni interpretazione rientra in uno schema e ritaglia un mondo che non è complementare, né si completa con gli schemi e i mondi delle altre interpretazioni.

Da qui il senso epistemologico e terapeutico del semplificare: «Ciò che comunemente intendiamo per 'comprendere' coincide con 'semplificare': senza una profonda semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema: a questo scopo tendono i mirabili strumenti che ci siamo costruiti nel corso dell'evoluzione e che sono specifici del genere umano, il linguaggio e il pensiero concettuale».

Tuttavia, secondo Primo Levi, in molte interpretazioni, la semplificazione nasconde un potente desiderio di dividere il mondo in «noi» e «loro», di creare un confine netto, secco, un confine che ci orienta e ci rassicura. Dal senso epistemologico e terapeutico della semplificazione si passa allora alla sua patologia. Infatti, quello che, per certi aspetti, appare liberatorio nelle fiabe, cioè la netta divisione fra buoni e cattivi, noi tendiamo a riprodurlo nella riflessione storica sul passato, così come negli eventi contemporanei (per esempio nella descrizione che i mass media danno delle guerre, cioè di eventi in cui la tentazione a semplificare il rapporto antagonistico amico-nemico oppure bene-male è fortissima), ma allora questa divisione cessa di essere liberatoria. La semplificazione, in questi casi, non aiuta la comprensione, semmai la confonde. E la confonde perché fa prevalere sul bisogno di conoscenza il bisogno di sicurezza.

«...è talmente forte in noi — scrive Primo Levi — forse per ragioni che risalgono alle nostre origini di animali sociali, l'esigenza di dividere il campo fra 'noi' e 'loro', che questo schema, la bipartizione amico-nemico, prevale su tutti gli altri».

Sia chiaro, il richiamo alla nozione di complessità nell'interpretazione di fatti ed eventi storici non ha niente a che vedere con l'altra faccia della semplificazione, quella revisionista, dove le acque si confondono e gli elementi per la comprensione storica e il giudizio morale si sfocano. La complessità non implica l'ingiudicabilità, implica il fatto che la storia deve essere usata non come un luogo della rassicurazione, ma come una strategia della comprensione al cui interno ha senso giudicare.

In questo senso Primo Levi dice che la storia non è come lo sport, non è come lo spettacolo, non è come l'agonismo, non è, sia concessa questa aggiunta, come ciò che si vede oggi in televisione. Il bisogno che ha Primo Levi di mettere in guardia contro la semplificazione nella storia ci richiama inevitabilmente al fatto che noi assistiamo oggi a una tendenza molto potente alla semplificazione legata anche alla spettacolarizzazione degli eventi. Oggi un evento politico somiglia sempre più a un evento sportivo; lo scontro tra due politici sembra un metaforico incontro di pugilato; nella politica delle società democratiche occidentali dominate dai mass media, la biografia degli individui, o, come si dice sempre più frequentemente, dei protagonisti, ha la meglio sui contenuti. Tende a perdersi il senso della memoria e della storia. Il dominio comunicativo della Tv porta a identificare e a farci identificare semplificazione con desiderio di semplificazione.

«Questo desiderio di semplificazione è giustificato — continua Primo Levi — la semplificazione non sempre lo è. È un'ipotesi di lavoro, utile in quanto sia riconosciuta come tale e non scambiata per la realtà; la maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o non semplici della semplicità che piacerebbe a noi».

Spesso la semplificazione risponde molto di più a una strategia di rassicurazione che a una strategia della conoscenza. Il sistema comunicativo della Tv può aiutarci a comprendere in che senso una strategia della rassicurazione tende a prevalere su una strategia della conoscenza. Noi viviamo in un mondo ansiogeno, e cerchiamo delle rassicurazioni. Nella nostra cultura non è soltanto la religione che attua una strategia della rassicurazione, la attuano anche la scienza e la tecnologia. L'idea che la scienza e la tecnologia, grazie anche ai loro potenti risultati, siano la soluzione di tutti i problemi risponde più a un desiderio nostro di rassicurazione, in un mondo pieno di paura, che non a un desiderio di conoscenza. Non ci sarebbe niente di male nel bisogno umanissimo di rassicurazione, se non fosse per il fatto che una strategia della rassicurazione tende a trasformare il bisogno in un mezzo di riproduzione del dominio e della sudditanza. Il fatto, per esempio, che noi ci aspettiamo continuamente dalla scienza risultati miracolosi finisce col confondere la nostra identità di cittadini con l'identità di pazienti, collocandoci in una condizione in cui ci piace essere oggetti ben gestiti da chi ha in mano il sapere e il potere. È un'operazione autoritativa che va incontro anche a un bisogno nostro, sia ben chiaro, che è quello di rassicurazione, ma che molto ha a che fare con dei rapporti di potere, con la loro riproducibilità e perpetuazione. La rassicurazione non fa altro che confermare sempre il rapporto di potere.

D'altra parte, già Kant aveva individuato il problema in Che cos'è l'illuminismo?: «è [...] difficile per ogni singolo uomo districarsi dalla minorità che per lui è diventata pressoché una seconda natura. È giunto perfino ad amarla, e attualmente è davvero incapace di servirsi del suo proprio intelletto, non essendogli mai stato consentito di metterlo alla prova. Regole e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale o piuttosto di un abuso delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una eterna minorità. Anche chi da essi riuscisse a sciogliersi, non farebbe che un salto malsicuro sia pure sopra i più angusti fossati, poiché non sarebbe allenato a siffatti liberi movimenti». Ci si abitua dunque alla condizione di minorità, che diviene luogo di sicurezza a tutto danno dell'autonomia. La punta estrema di questa situazione è descritta in modo straordinario da Franz Kafka nel suo ultimo, incompiuto racconto La tana. Il protagonista esce dalla tana non per liberarsi da quell'ambiguo luogo che rappresenta nello stesso tempo la sicurezza e la prigionia, ma per poterla rimirare dall'esterno e confermare con l'uscita l'impossibilità di uscire.

Kant parla qui di tutori che favoriscono, per così dire, il permanere della condizione di minorità degli uomini, creando l'abitudine alla minorità e la paura di una eventuale uscita da essa.

Nel lager i prigionieri sono obbligati all'estrema condizione di minorità e la paura di uscire non è soltanto suscitata dai tutori e dai guardiani, ma anche dagli stessi prigionieri, ovvero da quelli che si identificano con i tutori e con i guardiani.

Questa identificazione getta un'ombra sull'illuminismo di Kant, il quale accusava di pigrizia e di viltà gli uomini fermi nella condizione di minorità e affidava alla volontà l'uscita.

Ma non c'era spazio per la volontà nei lager, perché in essi non c'erano vie d'uscita e nessuno, dal di fuori, chiamava coloro che stavano dentro. Come ha notato Bruno Bettelheim, il problema cruciale sollevato dal libro di Hannah Arendt, La banalità del male, consiste nel fatto che, in uno stato totalitario, «non ci sono voci che dal di fuori possano risvegliare la nostra coscienza».

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CAPITOLO 9
EFFETTI DELLA NATURALIZZAZIONE



LA POSSIBILITÀ DEL SACRO NON RELIGIOSO

Tra gli anni '40 e gli anni '50 Ernesto de Martino mise a punto i suoi concetti di perdita della presenza e di destorificazione, che, attraverso l'influsso di Martin Heidegger e Rudolph Otto, gli permisero di interpretare il sacro in una maniera molto interessante. Tutto ciò, nonostante quella sorta di autocritica che de Martino si fece un po' a causa di Benedetto Croce, un po' a causa di un contesto storico-politico di sinistra che propugnava l'«umanesimo integrale», l'«umanesimo civile», il «progresso», il superamento dell'arretratezza, in seno al capitalismo italiano considerato «straccione» e a una situazione sociale dove al progresso economico doveva corrispondere un progresso culturale e civile.

Secondo de Martino, «la vita religiosa e il dominio del sacro hanno la loro origine culturale nell'esigenza tecnica di proteggere la presenza dal rischio di non esserci in una storia umana». L'uomo fa la storia, ma, per proteggersi dalla paura di perdersi, deve operare una «destorificazione», deve cioè entrare in un simbolismo mitico-rituale basato sulla ripetizione, dove egli sta come se non stesse nella storia. Solo grazie a questo processo può essere reintegrato e superare la crisi della presenza. «La vita religiosa è orizzonte simbolico dominato dalla destorificazione. Infatti è l'orizzonte "tutt'altro" dalla storia (contrapposizione di sacro e profano), è orizzonte metastorico; l'origine e la prospettiva si fondano anch'essi sulla destorificazione, in quanto l'origine (mitica) è origine e autenticazione metastoriche della storia, e in quanto la prospettiva e il termine assoluto della storia, il suo concludersi nella metastoria; i valori profani si dischiudono per entro il simbolismo mitico-rituale, e conquistano il loro senso per entro quel simbolismo, che appare come la fonte di tutti i valori».

[...]

Il bisogno che ha l'occhio dello specchio per vedere se stesso mostra la difficoltà: la conoscenza degli eventi e delle azioni che si espletano nella storia e che sono degli uomini, implica inevitabilmente e sempre riflessione. E il riflettersi in uno specchio comporta sempre il rischio che l'immagine riflessa, mostrando somiglianza e inducendo al riconoscimento, neghi l'identità con chi guarda se stesso. Talvolta, si sa, si guarda se stessi senza vedersi. Una società trasparente, dove gli uomini sono permanentemente presenti a se stessi, padroni e controllori delle loro azioni, esiste, per parafrasare Primo Levi, soltanto nelle utopie. Il fatto che noi sappiamo che le istituzioni civili o le merci prodotte sono il frutto della nostra attività non muta lo scenario: istituzioni e merci provocano l'oblìo della loro origine e si naturalizzano. Non appaiono più come prodotti della nostra attività. Diventare un «tutt'altro» che però non è il «tremendum», secondo la teoria del sacro di Rudolph Otto, e non è nemmeno l'estraneo, l'inconsueto, lo straordinario, secondo la teoria dell'origine della religione che da Democrito giunge a David Hume e che si basa sull'irrompere, nell'universo culturale degli uomini di fenomeni irregolari della natura, che dovono essere assorbiti attraverso spiegazioni magiche, religiose, scientifiche a seconda del progresso della mente umana e della civiltà. Al contrario, questo «tutt'altro» si mostra come familiare, consueto, normale. È un fuori dalla storia non in quanto sacro, ma in quanto banale, naturale. La sua apparente eternità è nella banalità, là dove l'apparente eternità del sacro è nell'eccezionalità.

Il potere, per mantenere la sua autorità, ha bisogno dell'eccezionale, del sacro; deve rendersi visibile, spettacolare; deve mostrarsi. Ma per legittimarsi e autoprodursi, per mantenere la sua forma, ha bisogno del banale, del consueto, della naturalizzazione. Per imporsi, deve rendersi invisibile nello spettacolo, deve nascondersi nell'evidenza.

In una società in cui la sfera dell'economico si è autonomizzata, il mondo delle merci determina la forma del potere socialmente diffuso. Il carattere di feticcio della merce esprime non il sacro, ma la naturalizzazione del nostro sdoppiamento. Un processo, questo, che non si mostra come tale, ma come fenomeno autonomo e non riconoscibile.

Ma se il sacro si presenta nella religione come l'inconsueto, lo straordinario, l'eccezionale, nei processi naturalizzati dell'economia e della vita sociale dominata dalle merci, il momento di rottura avviene quando i processi familiari, naturalizzati, appaiono agli occhi dell'osservatore estranei, inconsueti. Destano meraviglia e sono perturbanti. Ma ciò non porta al «tremendum» del sacro (che purtuttavia desta stupore), porta alla denaturalizzazione e alla destoricizzazione dei rapporti umani e sociali.

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