Copertina
Autore Washington Irving
Titolo Il mistero di Sleepy Hollow e altri racconti
EdizioneNewton Compton, Roma, 2008, Biblioteca Economica 190 , pag. 352, cop.fle., dim. 13,4x22x3,2 cm , Isbn 978-88-541-0965-0
OriginaleThe Sketch Book of Geoffrey Crayon, Gent. [1819]
PrefazioneGoffredo Fofi
TraduttoreChiara Vatteroni
LettoreElisabetta Cavalli, 2008
Classe classici statunitensi
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Indice


  7 Introduzione di Goffredo Fofi
 14 Nota biobibliografica

    IL MISTERO DI SLEEPY HOLLOW E ALTRI RACCONTI

 19 Prefazione all'edizione riveduta di Washington Irving
 24 L'autore si racconta
 27 La leggenda di Sleepy Hollow
    (Trovata tra le carte del defunto Diedrich Knickerbocker)
 54 Il viaggio
 60 Roscoe
 66 La moglie
 73 Rip van Winkle. Uno scritto postumo di Diedrich Knickerbocker
 90 Gli scrittori inglesi e l'America
 98 Vita di campagna in Inghilterra
104 Un cuore infranto
109 L'arte di fabbricare libri
115 Un re poeta
127 La chiesa di campagna
132 La vedova e suo figlio
139 Una domenica a Londra
141 La taverna «Alla testa di cinghiale», a Eastcheap. Studio shakespeariano
151 La mutevolezza della letteratura. Colloquio nell'abbazia di Westminster
160 Funerali di campagna
170 La cucina della locanda
172 Lo sposo fantasma. Il racconto di un viaggiatore
185 L'abbazia di Westminster
198 Natale
204 La diligenza
210 La vigilia di Natale
220 Il giorno di Natale
231 Il pranzo di Natale
242 Antichità londinesi
247 Little Britain
259 Stratford-on-Avon
274 Elementi del carattere degli indiani d'America
283 Philip di Pokanoket. Storia di un indiano
297 John Bull
307 La beniamina del villaggio
315 Il pescatore con la lenza
323 Commiato

325 Appendice I
326 Appendice II
327 Note


 

 

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Pagina 7

Introduzione


I meriti storici del lavoro letterario di Washington Irving (1783-1859) sono innegabili. Egli fu un ponte tra la cultura inglese (e più latamente europea) e quella originale e nascente del Nuovo Mondo, e annunciò – senza però farne parte – il Rinascimento Americano che vide il meraviglioso fiorire di una grande letteratura, con personaggi della grandezza del filosofo Ralph Waldo Emerson (1803-1882), dei narratori Edgar Allan Poe (1809-1849), Nathaniel Hawthorne (1804-1864) e Herman Melville (1819-1891), dei poeti Walt Whitman (1819-1892) ed Emily Dickinson (1830-1886). A questi possiamo aggiungere il nome di Mark Twain (1835-1910) e quelli di Henry James (1843-1916) ed Edith Wharton (1862-1937), che muoiono però nel nuovo secolo e non sono più dei pionieri ma dei consolidatori, soprattutto il primo, di tanta originalità e grandezza. Tutti meno Whitman avevano fatto le loro "università" – anni di apprendistato e di confronti – viaggiando in Europa, e naturalmente nell'Europa a loro culturalmente più prossima, l'Inghilterra. Da essa la nuova nazione era riuscita a staccarsi solo con una lunga guerra di indipendenza, ma essa restava pur sempre la vera "madre patria" dello spirito, in un complesso gioco di attrazione e ripulsa, nella fatica di distaccarsene costruendo una società nuova, e di conseguenza una cultura nuova. Di Irving va anche ricordato che egli dette vita alle prime riviste culturali americane, tra cui «Salmagundi» (che è anche il titolo di uno dei suoi primi volumi, una satira della società newyorkese), e che vuol dire né più né meno che "salami conditi", ed era il gridò contratto e storpiato degli italiani venditori di salsicce (poi hot dog) lungo le vie di New York. Il modello era ancora una volta inglese, «The Spectator» di Addison.

[...]

Lo spunto fiabesco e tradizionale del sonno magico e della sbalordita rinascita è usato magnificamente da Irving, forse meglio che in qualsiasi suo derivato. Ed è il racconto di Rip che hanno imitato, sapendo o meno di farlo, tanti scrittori e registi e gag-men eccetera. Per esempio – l'elenco potrebbe essere lunghissimo – c'è il gustoso racconto di un minore toscano dell'Ottocento il cui protagonista s'addormenta al tempo del Granduca e si risveglia nell'Italia unita, ci sono i romanzoni con le agnizioni da risveglio improvviso, ci sono le innumerevoli vittime di ferite di guerra e "gli smemorati di Collegno", ci sono i filmoni e i filmetti alla Prigionieri del destino, c'è persino D'Annunzio con la smemoratezza di Aligi in La figlia di Jorio portata all'estremo da Totò nello sketch (Il figlio di Jorio) di una rivista del tempo di guerra in cui Aligi si risveglia sotto l'occupazione tedesca, su su fino al recente film tedesco Good Bye, Lenin! in cui una donna cade in coma nella RDT per risvegliarsi dopo la caduta del muro... Lo spunto è straordinariamente favorevole a variazioni sulla mutazione di una società, dei suoi sistemi di potere e dei suoi costumi. «Alle origini della letteratura americana», ha scritto ancora Calvino nella "lezione americana" dedicata alla Rapidità, «questo motivo ha dato origine al Rip Van Winkle di Washington Irving, assumendo il significato di un mito di fondazione della vostra società basata sul cambiamento». Cambiamento in meglio? Per Irving, certamente in peggio. Ed è forse anche per questo che Rip Van Winkle, dice ancora Calvino nell'articolo su «la Repubblica», «ben merita di essere considerato il testo inaugurale della letteratura degli Stati Uniti».

All'interno del Libro degli schizzi ci sono altri gioielli di intelligenza politica nonché di umana generosità, come i due dedicati al problema indiano, lucidissimi nel denunciare la violenza e l'ipocrisia dei coloni e la coerenza e il coraggio degli indigeni, Elementi del carattere degli indiani d'America e Philip di Pokanoket - Storia di un indiano. E perché la cultura americana e per esempio Hollywood si accostassero a un livello di coscienza e di chiarezza comparabile a questo si dovette arrivare al 1950 (il timorato e blando L'amante indiana di Delmer Daves) o, meglio, a Il piccolo grande uomo di Arthur Penn, che è del 1970. Quelli di Irving sono due testi davvero belli, e non riguardano l'Europa bensì l'America, riflettono sull'America. Ma vorrei considerare come "americane", anche se ambientate in Inghilterra, anche due formidabili descrizioni e digressioni sulla vita culturale, e anzi sulla letteratura e sul suo destino nell'epoca moderna (e dopo) presenti nel Libro, anche stavolta un dittico: L'arte di fabbricare libri e Sulla mutevolezza della letteratura. Che acutezza di analisi e che capacità di previsione sulla storia e il destino della letteratura nelle mani dei letterati, degli accademici e dell'industria! Da leggere e da meditare! Quando Irving abbandona il campo dell'idillio britannico e delle buone maniere, ha ancora moltissimo da dirci sul suo paese, sul suo futuro, e sulla sua cultura, che è diventata anche la nostra.

GOFFREDO FOFI

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Pagina 27

Il mistero di Sleepy Hollow

(Trovato tra le carte del defunto Diedrich Knickerbocker)


                                Era una terra di piaceri intorpiditi
                  di sogni ondeggianti davanti agli occhi semichiusi
                     e di allegri castelli tra le nuvole che passano
                              per sempre arrossando un cielo estivo.

                                                             Thomson



Racchiusa in una delle sinuose curve che caratterizzano la riva orientale del fiume Hudson, in quell'ampia ansa chiamata il Tappaan Zee dai navigatori olandesi, i quali ammainavano sempre prudentemente le vele implorando la protezione di San Nicola quando passavano di lì, sorge una piccola cittadina mercantile, o porto rurale, che alcuni conoscono come Greensburg ma che è più generalmente e comunemente nota come Tarry Town. Pare che questo nome gli sia stato dato, originariamente, dalle donne della campagna circostante per l'inveterata tendenza dei loro mariti a trattenersi presso la taverna del paese nei giorni di mercato. In ogni modo, non garantisco che sia la verità, mi limito a narrare il fatto per amore di esattezza e di autenticità. Non lontano da questo villaggio, a circa due miglia, si trova una piccola valle o, per meglio dire, una radura circondata da alte colline, che è uno dei posti più tranquilli del mondo intero. Un piccolo ruscello l'attraversa per tutta la sua lunghezza, mormorando solo il tanto che basta a conciliare il sonno e l'occasionale scalpiccio di una quaglia, o il leggero ticchettare del picchio sono quasi gli unici rumori che interrompono quella calma uniforme.

Ricordo che, da ragazzo, la mia prima caccia allo scoiattolo fu in un boschetto di enormi noci che ombreggiano un lato di questa valle. Mi ero avventurato lì intorno a mezzogiorno, quando la natura è particolarmente silenziosa, e io stesso sussultai per il fragore del mio fucile che ruppe quell'immobilità domenicale, prolungato e restituito da echi rabbiosi. Se mai dovessi desiderare un luogo in cui ritirarmi, per sottrarmi al mondo e alle sue distrazioni e trascorrervi sognando quel che resta di una vita turbolenta, non ne conosco uno che sia più allettante di questa valle.

Per la pace indolente che la caratterizza e la peculiare natura di coloro che vi abitano, tutti discendenti dei primi coloni olandesi, questa piccola valle appartata è nota da lungo tempo come Sleepy Hollow e nella campagna circostante i suoi semplici abitanti sono chiamati «i ragazzi di Sleepy Hollow». Un'aria sognante e intorpidita sembra avvolgere questo luogo, impregnandone l'atmosfera. Alcuni dicono che il posto sia stato stregato da una specie di medico-mago, ai primi tempi dell'insediamento; altri che un vecchio capo indiano, stregone o mago della sua tribù, vi celebrasse i suoi riti prima che il paese venisse scoperto dal capitano Hendrick Hudson. Certo è che il luogo sembra davvero preda di un incantesimo, che strega la mente dei suoi onesti abitanti, i quali se ne vanno in giro sempre come trasognati. Qui, tutti sembrano bendisposti verso ogni sorta di eccentrica credenza, vanno soggetti a estasi e visioni, vedono spesso cose strane e sentono nell'aria musiche e voci. L'intera zona pullula di leggende popolari, luoghi infestati dagli spiriti, e scure superstizioni. Stelle cadenti e meteore infuocate attraversano questa valle più spesso che qualsiasi altro luogo di queste campagne e la giumenta della notte, con i suoi nove figli, sembra averla eletta quale luogo preferito per le sue scorrerie.

Lo spirito che più di tutti tormenta questa regione incantata, e sembra essere il comandante in capo di tutte le forze dell'aria, è il fantasma di un cavaliere con il capo mozzato. Si dice sia lo spettro di un soldato della cavalleria assiana, che finì decapitato da una palla di cannone durante una delle tante battaglie della guerra di indipendenza, e che i contadini vedono spesso galoppare a spron battuto nel buio della notte come trasportato sulle ali del vento. Pare, inoltre, che non si limiti ad apparire solo nella valle, ma che si spinga talvolta anche alle strade vicine e, in particolare, presso una chiesa poco lontana da lì. Alcuni dei più attendibili storici di queste regioni, che hanno scrupolosamente raccolto e confrontato i confusi racconti legati a questo spettro, precisano che il corpo del soldato è sepolto nel cimitero della chiesa, e sostengono che il suo fantasma attraversi a cavallo il campo di battaglia ogni notte in cerca della propria testa, attribuendo la velocità con cui attraversa Sleepy Hollow alla fretta di tornare nel cimitero della chiesa prima dell'alba.

Tale è, a grandi linee, il contenuto della leggenda che ha alimentato molte storie fantastiche in questa regione piena di ombre; presso tutti i focolari delle campagne vicine lo spettro è noto come il Cavaliere senza testa di Sleepy Hollow.

Vale la pena sottolineare che questa attitudine alle visioni cui ho accennato non si limita agli abitanti originari della valle, ma è inconsapevolmente assimilata da chiunque vi soggiorni per un certo tempo. Non importa quanto fossero lucidi e svegli prima di giungere in questa torpida regione, nel giro di poco tempo s'impregnano dell'influsso stregato dell'aria e cominciano a fantasticare, a sognare a occhi aperti e ad avere delle visioni.

Parlo di questo luogo pacifico con tutto il plauso possibile, poiché è proprio in queste remote valli olandesi, annidate qui e là nel grande stato di New York, che abitanti, usi e costumi si mantengono intatti e inalterati dal flusso dell'immigrazione e del progresso, che altrove in questo paese senza pace favorisce continui cambiamenti. Sono un po' come quelle pozzanghere di acqua stagnante che si trovano ai margini di un veloce ruscello, sulle quali il piccolo filo di paglia o la bolla d'aria fluttuano lentamente oppure roteano piano nel loro piccolo porto, estranei all'impetuoso passaggio della corrente. Sebbene siano trascorsi molti anni dall'ultima volta che ho attraversato le pigre ombre di Sleepy Hollow, mi domando se non troverei ancora oggi gli stessi alberi e le stesse famiglie a vivacchiare protette da quell'intimità.

In questo luogo così appartato, in un periodo remoto della storia d'America – circa trent'anni fa – risiedeva un bravuomo di nome Ichabod Crane, o, per dirla con le sue parole, «vi si tratteneva» allo scopo di istruire i bambini dei dintorni. Era originario del Connecticut, che fornisce all'Unione pionieri per la mente e per le foreste e invia ogni anno squadre di guardaboschi sulle frontiere e di maestri nelle campagne. Il suo cognome, Crane, era molto appropriato alla persona. Alto e magro, stretto di spalle, con braccia e gambe lunghe, le mani che penzolavano a un chilometro dai polsini, due piedi che sarebbero stati utili come pale: un fisico che sembrava tenuto insieme da fili troppo lenti. La testa era piccola e quadrata, con orecchie enormi, grandi occhi verdi e vitrei e un naso lungo come il becco di un beccaccino, tanto da farlo assomigliare a uno di quei galli-banderuola, che, appollaiati su un perno lungo e sottile, indicano da che parte soffia il vento. Vedendolo camminare a lunghe falcate sul crinale della collina in una giornata tempestosa, con gli abiti svolazzanti e gonfiati dal vento, lo si sarebbe potuto scambiare per lo spirito della carestia sceso in terra, o per uno spaventapasseri fuggito da un campo di grano.

La scuola era un edificio basso con un'unica grande stanza, fatto di tronchi d'albero; le finestre erano in parte munite di vetri e in parte schermate alla meglio con fogli di vecchi quaderni. Quando era vuota, veniva ingegnosamente chiusa con un giunco attorcigliato alla maniglia della porta e una serie di pali contro le imposte delle finestre; sebbene un ladro potesse entrarvi con estrema facilità, avrebbe avuto di certo qualche difficoltà a uscirne. L'architetto Yost Van Houte aveva probabilmente preso l'idea dalla fattura di una nassa da anguille. La scuola si trovava in una posizione piuttosto isolata ma gradevole, ai piedi di una collina boscosa; le scorreva accanto un ruscello ed era ombreggiata da una grande betulla. Da lì, nelle pigre giornate estive, si udiva il brusio sommesso, simile al ronzio di un alveare, delle voci degli studenti che ripassavano le lezioni, che il maestro interrompeva di tanto in tanto con voce severa, per fare qualche rimprovero e impartire qualche comando, se non addirittura con il temibile sibilo della ferula, quando spronava qualche fannullone ad affrettarsi lungo il fiorito sentiero del sapere. A essere onesti, il maestro era un uomo coscienzioso che teneva sempre a mente la preziosa massima: «Risparmia la frusta e vizierai il bambino». E gli scolari di Crane non erano sicuramente viziati.

Non vorrei però dipingerlo come uno di quei crudeli despoti della scuola, che gioiscono per la sofferenza dei loro sottomessi; egli amministrava la giustizia con buonsenso più che con severità, sollevando dal fardello le spalle del più debole e caricando quelle del più forte. L'esile fanciullo che trasaliva al minimo schiocco della ferula veniva giudicato con indulgenza; e le esigenze della giustizia venivano assolte infliggendo una doppia razione a qualche ragazzaccio olandese robusto e caparbio che, sotto la sferza, metteva il muso, protestava, s'ostinava e diventava intrattabile. Crane definiva questo trattamento «fare il proprio dovere nei confronti dei genitori» e non infliggeva mai una punizione senza poi aggiungere – per consolare e rassicurare il monello dolorante – che «non se la sarebbe dimenticata e l'avrebbe ringraziato per questo fino all'ultimo giorno della sua vita».

Dopo la scuola, si trasformava nel migliore amico e addirittura nel compagno di giochi dei più grandicelli. Nei pomeriggi dei giorni di festa, accompagnava a casa alcuni dei più piccoli, che spesso avevano anche delle graziose sorelle o delle brave madri, con la dispensa sempre piena di ghiottonerie. In realtà, mantenersi in buoni rapporti con gli scolari era nel suo interesse: lo stipendio che riceveva come insegnante era risibile, e sarebbe stato appena sufficiente a procurargli il pane quotidiano dato che era un gran mangiatore e, magro com'era, riusciva a dilatarsi come un anaconda. Per aiutarlo, i contadini che avevano dei figli da lui istruiti lo ospitavano in casa loro, secondo uso locale. In questo modo, egli riusciva a mantenersi in modo dignitoso, una settimana qui e una là, portandosi dietro i suoi effetti personali chiusi in un fazzoletto di cotone.

Affinché l'ospitalità non risultasse troppo onerosa per quei rozzi mecenati, che tendevano a considerare gravose le spese dell'insegnamento e i maestri di scuola degli scansafatiche, trovava il modo di rendersi utile e benvoluto. Dava una mano nei lavori meno pesanti: aiutava a raccogliere il fieno, accomodava siepi e palizzate, abbeverava i cavalli, portava le mucche al pascolo, spaccava la legna per l'inverno. Abbandonava l'autorevole severità con cui dominava nel suo piccolo regno, la scuola, e diventava straordinariamente gentile e seduttivo. Si accattivava il favore delle madri coccolando i bambini, soprattutto i più piccoli e, come il fiero leone che risparmia magnanimamente l'agnello, era capace di sedere con un bimbo sulle ginocchia o di far dondolare con il piede una culla, per ore e ore.

In aggiunta a queste sue molteplici vocazioni, era anche il maestro di canto della zona e racimolava molti lustri scellini insegnando il canto liturgico in tutto il vicinato. E la domenica, in chiesa, era per lui motivo di grande orgoglio prender posto di fronte alla galleria con il suo gruppo di cantori scelti, rubando completamente – ne era convinto – la scena al parroco. La sua voce superava quelle di tutti gli altri e in questa chiesa si sentono ancora oggi trilli e gorgheggi che, nel silenzio della domenica mattina, echeggiano fino a mezzo miglio di distanza, fino alla riva opposta dello stagno, e che si dice discendano direttamente dal naso di Ichabod Crane. Così, grazie a questi vari, piccoli espedienti e a quel metodo ingegnoso comunemente noto come «di riffe o di raffe», il buon pedagogo riusciva a cavarsela dignitosamente e c'era chi pensava, ignorando quanta fatica costi l'applicazione mentale, che la sua fosse proprio una vita fortunata.

Il maestro di scuola è, in genere, un personaggio che riveste una certa importanza tra le donne di un paese di campagna, che lo considerano un indolente gentiluomo, di gran lunga superiore, nei gusti e nei modi, a tutti gli altri rozzi cascamorti, la cui sapienza può essere eguagliata solo da quella del parroco. Il suo arrivo in una fattoria scatenava sempre una certa agitazione intorno al tavolo del tè, su cui veniva immancabilmente aggiunto subito un piatto di biscotti o di canditi e, alle volte, compariva anche una teiera d'argento. Il nostro letterato era quindi particolarmente a suo agio tra i sorrisi delle giovani donne di campagna. Che grandi arie si dava la domenica nel cortile della chiesa, tra una funzione e l'altra! Raccoglieva per loro grappoli d'uva dalle vigne selvatiche che invadevano gli alberi lì intorno; recitava, per farle divertire, tutti gli epitaffi delle lapidi o si incamminava lungo la sponda dello stagno, con un intero stuolo di fanciulle al seguito, mentre i maldestri ragazzi di campagna restavano indietro timorosi, invidiando la sua eleganza e la sua capacità di mettersi in mostra.

Data la natura vagabonda della vita che conduceva, era anche una specie di gazzettino ambulante che portava con sé da una casa all'altra tutto un capitale di pettegolezzi, e il suo arrivo era quindi sempre accolto con piacere. Le donne, poi, lo consideravano assai colto perché aveva letto molti libri dalla prima all'ultima pagina ed era un fine conoscitore della History of New England Witchcraft di Cotton Mather, alla quale, sia detto per inciso, credeva nel modo più fermo ed assoluto.

Egli era infatti uno strano miscuglio di arguta furbizia e di semplice ingenuità. La curiosità che nutriva per il favoloso e la sua abilità nel digerirlo erano straordinarie e sia l'una che l'altra si erano arricchite proprio durante il soggiorno in quella regione incantata. Nessuna leggenda era troppo grossolana o troppo straordinaria per il suo stomaco. Spesso il pomeriggio, dopo aver congedato i suoi studenti, si sdraiava contento sul folto tappeto di trifoglio lungo il ruscello che scorreva mormorando vicino alla scuola, per rivivere le terribili storie del vecchio Mather finché, con le prime ombre della sera, i suoi occhi cominciavano a confondere le pagine come in una nebbia. Così, nell'attraversare la palude, il ruscello e il bosco per tornare alla fattoria dove alloggiava in quel periodo, qualsiasi piccolo rumore della natura in quell'ora magica – il lamento delle nottole dalla collina, il verso del rospo, foriero di tempesta, il lugubre fischio del gufo o l'improvviso frullo d'ali di un uccello spaventato tra gli alberi – scuoteva la sua fantasia eccitata. Anche le lucciole ogni tanto lo facevano sussultare se una, più luminosa delle altre, si accendeva all'improvviso in un angolo buio del sentiero o se uno di quegli stupidi grossi insetti andava a sbattergli addosso, il poveraccio era sul punto di tirare le cuoia nel timore di esser stato colpito da qualche maleficio. A quel punto, per riuscire a distrarsi e allontanare gli spiriti maligni, intonava un salmo e i bravi abitanti di Sleepy Hollow, seduti sull'uscio delle loro case, provavano un reverente timore a quel salmodiare nasale che riecheggiava «con una dolce e prolungata malinconia» dalle lontane colline o nella strada già buia.

Un'altra fonte di spaventosa delizia erano le lunghe sere d'inverno che trascorreva accanto al camino in compagnia delle Vecchie comari olandesi che filavano, magari con una fila di mele che si cuocevano e sfrigolavano sul focolare, e raccontavano le loro straordinarie storie di spettri e di fantasmi, di campi stregati, di ruscelli stregati, di ponti stregati, di case stregate e, soprattutto, del Cavaliere senza testa, l'assiano che attraversava la valle al galoppo. Lui ricambiava il favore intrattenendole con storielle di magia, di terribili presagi, di visioni prodigiose e di rumori misteriosi, così diffuse nel Connecticut dei primi tempi, e le terrorizzava parlando di comete e di stelle cadenti e del fatto allarmante e ormai assodato che il mondo girava su se stesso e che tutti, per metà del tempo, stavano a testa in giù!

Ma se c'era un piacere in tutto questo, finché se ne stava seduto comodo e in compagnia, riscaldato dal camino in una stanza illuminata dal rosso fuoco crepitante dove, chiaramente, nessun fantasma avrebbe mai osato comparire, era un piacere a caro prezzo, che egli non mancava di pagare con i terrori del successivo tragitto fino a casa. Quali ombre spaventose affollavano il suo sentiero nel pallido e spettrale chiarore di una notte nevosa! E con che struggimento guardava ogni tremula luce proiettarsi nei campi da una finestra lontana! Quante volte era morto di paura per un alberello coperto di neve che, come un fantasma avvolto in un lenzuolo, si allungava sul sentiero che stava percorrendo! Quante volte il cuore gli si stringeva in una morsa di ghiaccio nell'udire il rumore dei suoi stessi passi sulla neve gelata, tanto che non osava neppure voltarsi per paura di scoprire che chissà quale strana creatura gli camminava alle spalle! Quante volte un'improvvisa raffica di vento, ululando tra gli alberi, lo aveva gettato nel più completo sgomento al pensiero che potesse essere l'assiano al galoppo, durante una delle sue scorribande notturne!

Ma in fondo si trattava di semplici paure notturne, fantasmi della mente che vagano nelle tenebre. Per quanto avesse già visto molti fantasmi in vita sua e, nel corso delle sue passeggiate solitarie, fosse stato assalito più di una volta da Satana sotto mentite spoglie, la luce del giorno metteva fine a ogni terrore. Ed egli sarebbe andato avanti così tranquillamente per tutta la vita, a dispetto del diavolo e del suoi malefici, se una creatura che è per i mortali fonte di maggior sgomento di qualsiasi spettro, folletto e dell'intera genia delle streghe messe insieme, non gli avesse attraversato la strada: una donna.

Tra gli allievi di musica che una sera alla settimana si radunavano per le lezioni di canto, vi era una certa Katrina Van Tassel, unica figlia di un ricco agricoltore olandese. Aveva diciotto anni, era giovane e fresca, tonda come una quaglia e matura, succosa e rosa come una pesca degli orti di suo padre, popolare non solo per la sua bellezza, ma anche per essere un ottimo partito. Era anche un poco vanitosa, come dimostravano i suoi gusti nell'abbigliamento: un misto di moda vecchia e nuova, che dall'una e dall'altra prendeva quanto di più adatto a far risaltare al meglio le sue virtù. Indossava gioielli di oro puro, che la sua trisavola aveva portato da Saardam, una seducente pettorina vecchio stile e una gonna corta e provocante che lasciava scoperti i piedi più belli e le caviglie meglio tornite di tutta la regione.

Ichabod Crane era più che sensibile al fascino del gentil sesso e non c'è da meravigliarsi che un bocconcino così fosse entrato nei suoi favori, soprattutto dopo che era andato a farle visita a casa di suo padre. Il vecchio Baltus Van Tassel era il tipico agricoltore ricco, soddisfatto e generoso. Raramente spingeva lo sguardo o i pensieri oltre i confini della sua fattoria, ma tutto ciò che era compreso in quei confini era accogliente, allegro e comodo. Era soddisfatto della sua ricchezza, ma non borioso, si piccava della sua generosità più che dell'eleganza in cui viveva. La sua roccaforte dava sulle rive dell'Hudson, in una di quelle piccole valli ritirate, fertili e verdi in cui gli olandesi hanno la passione di costruirsi il nido. Vi era un grande olmo che allungava i suoi vigorosi rami, una sorgente d'acqua freschissima che si raccoglieva in un piccolo pozzo e poi si allontanava luccicante tra l'erba fino al vicino ruscello che scorreva mormorando tra ontani e salici nani. Presso la casa sorgeva un granaio tanto grande da poter essere usato come chiesa; da ogni sua finestra e da ogni fenditura tracimavano i tesori della fattoria. Da lì, proveniva incessante il rumore della trebbiatrice in fervente attività dalla mattina alla sera. Le rondini e i rondoni svolazzavano cinguettando vicino alle grondaie, mentre i piccioni, alcuni guardando verso l'alto, come a scrutare il cielo, altri con la testa nascosta sotto l'ala o sprofondata sul petto, altri ancora tutti intenti a gonfiarsi tubando e facendo inchini alle loro dame, si godevano il sole sul tetto. Floridi maiali appesantiti dal grasso grufolavano nella pace e nell'abbondanza del loro recinto da cui, di tanto in tanto, sbucava una truppa di porcellini ad annusare l'aria. Un elegante esercito di oche bianche come la neve navigava nello stagno vicino, scortando nutrite flotte di anatre; interi reggimenti di tacchini si rimpinzavano nell'aia, mentre uno stuolo di faraone si agitavano da una parte all'altra come irascibili donne di casa, starnazzando nervose e sdegnate. Il gallo, fiero e impettito, pattugliava la porta del granaio, modello esemplare di marito, guerriero e gentiluomo, sbattendo le ali e cantando orgoglioso con il cuore pieno di gioia. Talvolta, spostava la terra con la zampa e poi chiamava a raccolta la schiera sempre affamata di mogli e di figli a godersi il buon boccone che aveva appena scoperto.

Il pedagogo guardava quella sontuosa promessa di cibo invernale con l'acquolina in bocca. La sua mente ingorda vedeva ogni porcellino scorazzante già farcito e arrostito, con una mela in bocca; i piccioni, comodamente stesi all'interno di una bella focaccia, coperti da uno strato di croccante pasta sfoglia; vedeva le oche nuotare nel loro stesso sugo; le anatre sistemate a due a due, come coppie di sposi, con una ricca salsa di cipolle in dote. Nei maiali vedeva ritagliate le future fette di pancetta e di prosciutto appetitoso, e non vi era tacchino che non s'immaginasse accosciato con la testa sotto l'ala, magari con una collana di salsicce saporite; persino il gallo era disteso in un piatto a parte, con le zampe all'aria, supplice e sottomesso, in un atteggiamento che – da vivo – avrebbe orgogliosamente disprezzato.

Mentre Ichabod fantasticava estasiato, volgendo i suoi grandi occhi verdi dai ricchi pascoli ai lussureggianti campi di grano, segale, saggina e granturco, e poi agli orti, gonfi di frutti vermigli, che circondavano l'assolata proprietà di Van Tassel, il suo cuore si tormentava per la fanciulla destinata a ereditare quei tesori che la sua fantasia trasformava ingegnosamente in moneta sonante da investire in immensi terreni selvaggi e lussuosi palazzi costruiti nel nulla. E già vedeva realizzate le sue speranze: s'immaginava la bella Katrina con un'intera nidiata di figli, in cima al grosso calesse carico di tutto il necessario, ceramiche e pentole incluse; e poi se stesso alle prese con una cavalla e il suo puledro, pronto a partire per il Kentucky, il Tennessee, o per Dio sa dove.

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Pagina 73

Rip van Winkle

Uno scritto postumo di Diedrich Knickerbocker


                                    Per Wotan, Dio dei sassoni,
                                         da cui deriva Wensday,
                                           cioè giorno di Wotan
                           la verità è cosa che manterrò sempre
                                  fino al giorno in cui tornerò
                                                nel sepolcro...

                                                     Cartwright



Il seguente racconto fu rinvenuto tra le carte del defunto Diedrich Knickerbocker, un vecchio gentiluomo di New York vivamente interessato alla storia olandese della provincia e alle usanze dei discendenti degli antichi coloni. Tuttavia, le sue ricerche storiche non si svolsero tanto tra i libri quanto tra la gente, perché i primi, purtroppo, erano tristemente scarni di notizie rispetto ai suoi argomenti preferiti; e si era invece accorto che i vecchi abitanti di un borgo cittadino, e soprattutto le loro mogli, avevano un ricco repertorio di leggende, di valore inestimabile per la storia. Tutte le volte che gli capitava perciò di incontrare un'autentica famiglia olandese, comodamente insediata in una fattoria dal tetto basso, all'ombra di un frondoso sicomoro, la considerava alla stregua di un libriccino stampato a caratteri gotici, ben chiuso da un fermaglio, e la studiava con lo zelo di un topo di biblioteca.

Il frutto di queste ricerche fu una storia della provincia sotto il governatorato olandese, pubblicata alcuni anni fa. Diverse sono stati i giudizi sul valore letterario di quest'opera che, a dire il vero, non è gran cosa. Il suo merito principale consiste nella scrupolosa accuratezza che, al primo apparire del libro, suscitò in realtà parecchi dubbi, ma che è stata poi ampiamente riconosciuta tanto da essere ormai ammesso in tutte le collezioni storiche come testo dall'autorità indiscussa.

Il vecchio gentiluomo morì poco dopo la pubblicazione del volume. Adesso che è morto e sepolto, non può certo nuocere alla sua memoria dire che avrebbe potuto utilizzare meglio il suo tempo con opere di maggior peso. In questa passione, egli era comunque incline a fare di testa sua e sebbene, agli occhi di chi gli stava vicino, ogni tanto facesse una gran confusione e alcuni amici per i quali provava profonda deferenza e affetto ne avessero l'animo rattristato, i suoi errori e le sue follie sono tuttavia ricordati «più con dolore che con ira» e s'incomincia a credere che non avesse mai avuto l'intenzione di nuocere o di offendere. Ma comunque il suo ricordo venga giudicato dai critici, è comunque caro a molte persone la cui opinione positiva ancora conta qualcosa. In particolar modo, a certi pasticceri che sono arrivati al punto di imprimere la sua effigie sulle torte di Capodanno, offrendogli in questo modo la possibilità di essere immortale, un po' come se venisse effigiato sulla medaglia di Waterloo o su un soldino della Regina Anna.


Chiunque abbia risalito il corso dell'Hudson ricorderà sicuramente i monti Kaatskill. Sono una propaggine isolata del grande gruppo degli Appalachiani e si scorgono in lontananza, a ovest del fiume, raggiungere maestose altezze e dominare la regione circostante. Ogni mutamento di tempo, di stagione, addirittura ogni ora del giorno, realizzano una variazione nei magici colori e negli aspetti di queste montagne, che da tutte le brave donne di casa sono perciò considerate un ottimo barometro. Quando il tempo è soleggiato e stabile, si ammantano di azzurro e di porpora e stagliano il loro profilo superbo sullo sfondo del limpido cielo serale; ma a volte, quando il resto del paesaggio è sereno, hanno sopra alla vetta un cappello di nuvole grigie che, ai raggi del sole che tramonta, s'infuocano e si accendono come una corona di gloria.

Ai piedi di queste montagne incantate, il viaggiatore si sarà imbattuto talvolta in un esile filo di fumo che si alzava da un villaggio i cui tetti di assi di legno risaltano tra gli alberi, là dove l'azzurro dell'altipiano sfuma nel verde fresco del paesaggio più vicino. È un piccolo villaggio molto antico, costruito da alcuni coloni olandesi agli albori della provincia, quando il buon Peter Stuyvesant (riposi in pace!) aveva appena iniziato a governare; e solo pochi anni addietro esistevano ancora alcune dimore dei primi abitanti, tirate su con mattoncini gialli importati dall'Olanda, con le finestre provviste di grate e i frontoni triangolari, sormontati da banderuole.

In questo stesso villaggio e in una di queste case (che, a dire il vero, era purtroppo rovinata dal tempo e battuta dalle intemperie) viveva, molti anni or sono, quando il paese era ancora una provincia della Gran Bretagna, un poveraccio buono e semplice che si chiamava Rip van Winkle. Discendeva da quel van Winkle che si distinse per il suo valore ai tempi cavallereschi di Peter Stuyvesant e che lo seguì nell'assedio di Fort Christina. Egli aveva però ereditato ben poco del carattere fiero del suo progenitore. Ho già fatto notare che era un tipo semplice e di buon cuore; ed era un vicino servizievole e un marito sottomesso, tiranneggiato dalla moglie. Anzi, era proprio a quest'ultima circostanza che si poteva far risalire il carattere mite che gli aveva procurato tanta popolarità, perché sono appunto gli uomini che in casa sono costretti ad obbedire a una moglie bisbetica quelli che, all'esterno, sono più deferenti e docili. Il carattere è indubbiamente reso morbido e malleabile dal bollente inferno delle sofferenze domestiche, dato che la strigliata di una moglie vale quanto tutte le prediche del mondo per indurre alla virtù della pazienza e della tolleranza. Sotto certi aspetti, quindi, una moglie bisbetica è da considerarsi una relativa benedizione e, in tal senso, Rip van Winkle era benedetto tre volte.

Era sicuramente il beniamino di tutte le massaie del villaggio, che – com'è solito fare il gentil sesso – nelle discussioni familiari parteggiavano per lui e non mancavano di addossare tutta la colpa a madama Van Winkle ogni volta che parlavano di loro nel corso delle ciance serali. Anche i bambini del villaggio lo accoglievano con grida di gioia ogni volta che lo vedevano. Li aiutava nei loro giochi, fabbricava oggettini e giocattoli, insegnava loro a far volare l'aquilone e a tirare le biglie, narrava lunghe storie piene di fantasmi, streghe e indiani. Quando bighellonava per il villaggio, era sempre circondato da uno stuolo di bambini che lo tiravano per la giacca, gli si aggrappavano alla schiena, gli facevano continuamente scherzi in quantità e non c'era nessun cane dei dintorni che gli abbaiasse.

Il difetto nel carattere di Rip era un'incontrastabile avversione per qualsiasi lavoro utile. E non gli facevano certo difetto l'impegno o la costanza: sarebbe rimasto seduto, senza lamentarsi, tutto il santo giorno su una roccia a pescare, reggendo una canna lunga e pesante come la lancia di un tartaro, anche senza l'incoraggiamento di un singolo pesciolino che abboccasse all'amo. Avrebbe portato il fucile in spalla per ore e ore, attraversando faticosamente boschi e paludi, su e giù per monti e per valli, per sparare a uno scoiattolo o a un piccione selvatico. Mai si sarebbe rifiutato di aiutare un vicino, anche nel lavoro più ingrato, ed era sempre in prima fila nelle allegre riunioni di campagna in cui si pelava il granturco o si alzavano muretti di pietre. Anche le donne del villaggio si servivano di lui per le loro commissioni e gli facevano fare quei lavoretti occasionali dei quali i mariti, meno disponibili, non si volevano prendere cura. Rip, insomma, era sempre pronto a dedicarsi agli affari degli altri, ma non ai suoi e per quanto riguardava i doveri verso la famiglia e i lavori necessari a mandare avanti la fattoria, riteneva addirittura impossibile occuparsene.

Secondo lui era infatti inutile applicarsi al proprio appezzamento, perché era il più nefasto dell'intero paese; tutto vi faceva una brutta fine e l'avrebbe fatta suo malgrado. Gli steccati cadevano continuamente a pezzi, la mucca si perdeva oppure finiva tra i cavoli; nel suo campo la gramigna cresceva sicuramente più in fretta che altrove; se doveva fare un lavoro all'aperto, poteva star sicuro che la pioggia sarebbe caduta a catinelle. Perciò, sotto la sua gestione, la proprietà che aveva ereditato era finita male, un acro dopo l'altro, fino a ridursi a un semplice appezzamento coltivato a granturco e a patate: malgrado ciò restava sempre la fattoria più malridotta dei dintorni.

Anche i suoi figli erano cenciosi e selvatici come figli di nessuno. Il piccolo Rip, un monello tale e quale a lui, prometteva di ereditare non solo gli indumenti smessi, ma anche le abitudini paterne. Lo si vedeva trotterellare sempre come un puledro tra i piedi della madre, con un paio di vecchie brache del padre, che si sforzava di reggere con una mano, come una signora elegante con lo strascico, quando è brutto tempo.

Tuttavia, Rip van Winkle era un cuor contento dall'indole sciocca e ottimista e prendeva il mondo così come viene: mangiava pane bianco o nero, purché fosse possibile ottenerlo con il minimo della fatica e preferiva morire di fame per un soldo piuttosto che faticare per una sterlina. Se lasciato in pace, avrebbe trascorso beatamente la vita senza far niente, ma la moglie continuava a stordirgli il capo, rimproverandolo per l'indolenza, la trascuratezza e la rovina che faceva ricadere sulla famiglia. Giorno e notte, notte e giorno agitava la lingua senza posa e qualsiasi cosa Rip dicesse o facesse provocava un nuovo torrente di rimproveri coniugali. Lui aveva un solo modo per reagire a quelle sfuriate: un modo che, utilizzato con regolarità, si era trasformato in abitudine. Si stringeva nelle spalle, scuoteva la testa, alzava gli occhi al cielo, ma non pronunciava una sillaba. Questo, però, scatenava una nuova raffica della moglie e, a quel punto, egli era ben lieto di ritirarsi in buon ordine rifugiandosi all'esterno della casa, in realtà la sola parte che un marito tormentato dalla moglie possieda.

Il solo compagno domestico di Rip era il suo cane Wolf, tiranneggiato quanto il padrone perché madama Van Winkle li considerava compagni di ozi, e guardava addirittura la bestia di malocchio, come se fosse colpa sua se il padrone deviava così spesso dalla retta via. Vero è che, in materia di onore canino, era l'animale più coraggioso che avesse mai scorrazzato per i boschi, ma qual è il coraggio in grado di sopportare il tormento continuo e ossessivo di una lingua di donna? Appena entrava in casa, Wolf si faceva mogio mogio e, con la coda tra le gambe, si aggirava con l'aria sospettosa del ladruncolo, tenendo sempre d'occhio madama Van Winkle e, al primo fremito del manico della scopa o del mestolo, usciva a precipizio lanciando acuti guaiti.

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L'arte di fabbricare libri


                        Se fosse vero quel severo giudizio di Sinesio:
                          «È colpa più grave rubare le opere dei morti
             che i loro vestiti», che cosa sarebbe di molti scrittori?

                                                                Burton



Mi sono spesso stupito dell'estrema produttività della stampa, domandandomi come mai tante menti alle quali sembra che la natura abbia inflitto la maledizione della sterilità, siano tuttavia generose di pubblicazioni in grande copia. A mano a mano che si procede lungo il percorso della vita, di giorno in giorno, però, le occasioni di stupore diminuiscono e si scoprono di continuo cause semplicissime che danno origine a profonde ragioni per meravigliarsi. Mi è capitato quindi, nei miei vagabondaggi per questa grande metropoli, di imbattermi in una scena che mi ha chiarito alcuni misteri dell'arte di pubblicare libri e ha decretato la fine del mio stupore.

Bighellonavo, in un giorno d'estate, per le grandi sale del British Museum, con quella indolenza che ci si può aspettare in chi visiti un museo nella stagione calda: ciondolavo intorno alle teche dei minerali, esaminavo distrattamente i geroglifici di una mummia egizia oppure tentavo, con quasi analogo successo, di interpretare le pitture allegoriche degli alti soffitti. Mentre mi guardavo pigramente intorno, la mia attenzione fu attirata da una porta lontana, in fondo a una serie di sale. Era chiusa, ma ogni tanto si apriva e un individuo dall'aspetto bizzarro, vestito per lo più di nero, ne sgusciava furtivo e attraversava rapido le stanze, senza nemmeno rivolgere un'occhiata agli oggetti esposti. C'era, in tutto ciò, un'aria misteriosa che pungolò la mia languida curiosità e decisi di oltrepassare lo stretto ed esplorare le regioni sconosciute che si stendevano al di là. La porta cedette al tocco della mia mano con la stessa immediatezza con cui i portali di un castello incantato cedevano al tocco della mano dell'impavido cavaliere errante, e mi ritrovai in una sala ampia, arredata con grandi scaffali pieni di libri vetusti. Al di sopra degli scaffali e proprio sotto la cornice, erano disposti una gran quantità di anneriti ritratti di antichi scrittori. Nella sala erano collocati lunghi tavoli, con leggii e l'occorrente per scrivere, dinanzi ai quali erano seduti numerosi individui, pallidi, diligentemente intenti nello studio di volumi polverosi, che frugavano in mezzo a manoscritti ammuffiti e prendevano un gran numero di appunti del loro contenuto. Quel locale misterioso era immerso in un silenzio profondissimo, rotto soltanto dal graffiare delle penne sui fogli di carta o, di tanto in tanto, dal profondo sospiro di uno di quei saggi che cambiava posizione per girare le pagine di un antico in-folio, sospiro che senza dubbio esalava dal vuoto e dall'aria viziata che si accompagnano alle dotte ricerche.

Di tanto in tanto qualcuno scriveva qualche riga su un pezzetto di carta e suonava un campanello; allora si presentava un inserviente, ritirava in silenzio il foglietto, si defilava in punta di piedi e tornava poco dopo nella stanza, carico di pesanti volumi sui quali l'altro affondava subito i denti e le unghie, con voracità famelica. Non ebbi più dubbi: ero capitato in mezzo a una confraternita di maghi assorti nello studio delle scienze occulte. Quello spettacolo mi rammentò un vecchio racconto arabo su un filosofo che era stato rinchiuso in una biblioteca incantata, nelle viscere di una montagna, che si schiudevano solo una volta l'anno e dove indusse gli spiriti del luogo a ubbidire ai suoi ordini e a rifornirlo di ogni genere di libri sulla magia nera. In questo modo, alla fine dell'anno, quando il magico portale girò ancora una volta sui cardini, ne uscì arricchito di una tale esperienza in fatto di scienze occulte da poter volare sulle teste della folla e dominare le forze della natura.

Poiché la mia curiosità si era ormai del tutto ridestata, chiamai con un bisbiglio uno degli inservienti che stava per abbandonare la sala e lo pregai di darmi informazioni sulla strana scena che mi si parava dinanzi agli occhi. Furono sufficienti poche parole. Scoprii che quei misteriosi personaggi che avevo scambiato per maghi erano per la maggior parte autori còlti appunto nell'atto di fabbricare libri. Mi trovavo, in realtà, nella sala di lettura della grande British Library, immensa collezione di volumi di tutte le epoche e in tutte le lingue, molti dei quali sono attualmente dimenticati o al più letti assai raramente: uno di quei depositi appartati di letteratura obsoleta ai quali gli scrittori moderni attingono copiosamente la sapienza classica o "l'inglese puro e senza macchia" con cui nutrire gli esigui rivoletti del proprio pensiero.

Appropriatomi dunque del segreto, sedetti appartato per assistere al famoso processo di fabbricazione dei libri. Notai un individuo magro, dall'aspetto bilioso, che cercava esclusivamente i volumi corrosi dalle tarme e stampati in caratteri gotici. Era evidente che costui stava componendo un'opera di profonda erudizione che sarebbe stata acquistata da chiunque volesse passare per dotto, il quale l'avrebbe poi collocata su uno scaffale bene in vista della biblioteca, o sul tavolo, aperta, ma non l'avrebbe mai letta. L'osservai tirare fuori di tanto in tanto dalla tasca un grosso biscotto e smangiucchiarlo: se quello fosse il suo pranzo, o se cercasse così di scongiurare quel languore allo stomaco provocato dalle lunghe meditazioni su opere aride, lascio che siano studiosi più agguerriti di me a deciderlo.

C'era poi un ometto azzimato, vestito di colori vivaci, che aveva sul viso un'espressione pettegola e maliziosa e l'atteggiamento dello scrittore in buoni rapporti con il proprio editore. Dopo averlo studiato con cura, riconobbi in lui un diligente redattore di quelle miscellanee che vanno a ruba sul mercato. Ero curioso di vedere come fabbricasse i propri prodotti. Si agitava ed era indaffarato più degli altri: si tuffava in diversi libri, svolazzava sulle pagine dei manoscritti, prendeva un assaggio da uno, un assaggio dall'altro, «ordine su ordine, regola su regola, un po' di qua un po' di là». Sembrava che il contenuto del suo libro fosse eterogeneo quanto il calderone delle streghe di Macbeth. Un dito qui, un pollice là, zampe di rana, il pungiglione di un verme cieco e tutte le sue chiacchiere rovesciate dentro al composto, come «sangue di babbuino», che avrebbe reso il tutto «denso e spumeggiante».

Dopo tutto, pensai, questa attitudine a rubacchiare è stata forse inculcata negli scrittori per un utile scopo: magari è la via individuata dalla Provvidenza per conservare nei secoli i semi della sapienza e della cultura, a dispetto dell'ineluttabile decadenza delle opere nelle quali erano originariamente comparsi. La natura ha provveduto in modo saggio, seppure volubile, a trasportare i semi da un clima all'altro nel gozzo di certi uccelli; cosicché gli animali, che in se stessi non sono che un gradino superiori alle carogne, e in particolare gli impudenti saccheggiatori degli orti e dei campi, sono i mezzi di cui la natura si serve per diffondere e perpetuare le sue benedizioni. Analogamente, le gemme dello stile e i nobili pensieri di autori antichi e dimenticati sono colti da questi stormi di scrittori predoni e portati a fiorire e dare frutti in tempi e luoghi diversi e distanti. Molte delle lo opere, inoltre, sono soggette a una specie di metempsicosi e rinascono sotto nuove vesti. Quella che un tempo era una storia corposa, rivive sotto forma di vicenda avventurosa, un'antica leggenda si trasforma in una moderna opera teatrale e un serio trattato filosofico fornisce la materia prima per una serie di saggi agili e brillanti. Avviene la stessa cosa nel disboscamento delle foreste americane: quando bruciamo una selva di vetusti pini, spunta al suo posto una progenie di querce nane e non capita mai di vedere il tronco di un albero abbattuto sgretolarsi e diventare terra, perché dà vita a un'intera tribù di funghi.

Non piangiamo, quindi, sulla decadenza e l'oblio nei quali cadono gli scrittori antichi: non fanno che assecondare alla grande la legge della natura, la quale impone che tutte le forme della materia sulla faccia della terra abbiano una durata limitata, ma stabilisce anche che gli elementi di cui sono composte non periscano mai. Generazione dopo generazione, la vita nel regno animale come in quello vegetale, passa e dilegua, ma il principio vitale è trasmesso ai posteri e le specie continuano a fiorire. Allo stesso modo, anche gli scrittori generano altri scrittori e, dopo aver partorito una numerosa progenie, discendono, carichi di anni, a riposare con i loro padri: con gli scrittori, cioè, che li hanno preceduti... E che hanno derubato.

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