Copertina
Autore Naomi Klein
Titolo Shock Economy
SottotitoloL'ascesa del capitalismo dei disastri
EdizioneRizzoli, Milano, 2007, 24/7 , pag. 624, cop.fle.sov., dim. 15,7x22,5x4 cm , Isbn 978-88-17-01718-3
OriginaleThe Shock Doctrine [2007]
TraduttoreIlaria Katerinov
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe storia contemporanea , politica , economia politica , storia criminale , guerra-pace , paesi: USA , paesi: Iraq
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Introduzione                                              9

Parte I: Due dottor shock. Ricerca e sviluppo            31

1.  La camera di tortura. Ewen Cameron, la Cia
    e il maniacale sforzo di cancellare e rifare
    la mente umana                                       33
2.  L'altro dottor Shock. Milton Friedman e la ricerca
    di un laboratorio laissez-faire                      60

Parte II: Il primo test. Le doglie del parto             87

3.  Stati di shock. La sanguinaria nascita della
    controrivoluzione                                    89
4.  Colpo di spugna. Il terrore al lavoro               115
5.  «Assolutamente non correlate». Come un'ideologia
    è stata ripulita dai suoi crimini                   135

Parte III: Sopravvivere alla democrazia.
           Bombe fatte di leggi                         149

6.  Salvati da una guerra.
    Il thatcherismo e i suoi utili nemici               151
7   Il nuovo dottor Shock.
    La guerra economica rimpiazza la dittatura          164
8.  La crisi funziona.
    L'immagine pubblica della shockterapia              179

Parte IV: Lost in transition. Mentre piangevamo,
          mentre tremavamo, mentre danzavamo            195

9.  Sbattere la porta in faccia alla storia.
    Una crisi in Polonia, un massacro in Cina           197

10. Democrazia nata in catene.
    La libertà vigilata del Sudafrica                   223
11. Falò di una giovane democrazia.
    La Russia sceglie «l'opzione Pinochet»              250
12. L'identità capitalista.
    La Russia e la nuova era del mercato barbaro        280
13. Lascia che bruci. Il saccheggio dell'Asia e
    «la caduta di un secondo muro di Berlino»           299

Parte V: Tempi scioccanti.
         Ascesa del capitalismo dei disastri            321

14. La shockterapia negli Stati Uniti.
    La bolla della sicurezza interna                    323
15. Uno Stato corporativo. Dal governo alle aziende     352

Parte VI: Iraq, al punto di partenza. Ipershock         369

16. Cancellare l'Iraq.
    In cerca di un «modello» per il Medioriente         371
17. Ritorno di fiamma ideologico.
    Un disastro molto capitalista                       389
18. Al punto di partenza.
    Dalla tabula rasa alla terra bruciata               412

Parte VII: La Zona verde mobile.
           Zone cuscinetto e mura antiesplosione        439

19. Tabula rasa in spiaggia. «Il secondo tsunami»       441
20. Apartheid del disastro.
    Un mondo di zone verdi e zone rosse                 464
21. Perdere l'incentivo alla pace.
    Israele come monito                                 484

Conclusione                                             507
Ringraziamenti                                          535
Note                                                    543
Indice dei nomi                                         611


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Introduzione
Il fascino della tabula rasa.
Tre decenni passati a cancellare e rifare il mondo



Ma la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza. Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. Allora Dio disse a Noè: «È venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco io li distruggerò insieme con la terra».

Genesi 6,11

«Shock e sgomento» [Shock and Awe] sono azioni che generano paure, pericoli e distruzione incomprensibili per la popolazione, per elementi/settori specifici della società che pone la minaccia, o per i leader. La natura, sotto forma di tornado, uragani, terremoti, inondazioni, incendi incontrollati, carestie ed epidemie, può generare «Shock and Awe».

Shock and Awe: Achieving Rapid Dominance [Shock e sgomento. Come ottenere rapidamente il predominio], la dottrina militare per la guerra americana in Iraq


Ho conosciuto Jamar Perry nel settembre 2005, al grande centro d'accoglienza gestito dalla Croce Rossa a Baton Rouge, Louisiana. Era in fila per la cena, distribuita con parsimonia da giovani e sorridenti adepti di Scientology. Ero appena stata fermata per aver parlato agli sfollati senza essere scortata da qualcuno dell'ufficio stampa, e ora stavo facendo del mio meglio per confondermi nella folla: una canadese bianca in un mare di afroamericani del Sud. Mi infilai nella coda per la cena, dietro Perry, e gli chiesi di parlarmi come se fossi una vecchia amica, cosa che lui fece di buon grado.

Nato e cresciuto a New Orleans, era fuggito dalla città inondata una settimana prima. Dimostrava circa diciassette anni, ma mi disse di averne ventitré. Lui e la sua famiglia avevano atteso a lungo gli autobus per l'evacuazione; non vedendoli arrivare, si erano messi in marcia sotto il sole cocente. Infine si erano ritrovati li, in un enorme centro congressi, un tempo teatro di convention farmaceutiche e «Carneficina nella Capitale: Il Meglio del Wrestling», ma che ora era invaso da duemila letti da campo e una folla di gente arrabbiata ed esausta, guardata a vista da nervosi soldati della Guardia nazionale appena tornati dall'Iraq.

La notizia che quel giorno stava facendo il giro del centro d'accoglienza era che Richard Baker, un importante membro repubblicano del Congresso nonché loro concittadino, aveva detto a un gruppo di lobbisti: «Siamo finalmente riusciti a ripulire il sistema delle case popolari a New Orleans. Noi non sapevamo come fare, ma Dio l'ha fatto per noi». Joseph Canizaro, uno dei più ricchi costruttori di New Orleans, aveva da poco espresso sentimenti analoghi: «Credo che abbiamo di fronte una tabula rasa da cui ripartire. E grazie a questa tabula rasa abbiamo grandi opportunità»? Per tutta quella settimana l'Assemblea legislativa statale della Louisiana a Baton Rouge aveva brulicato di lobbisti aziendali intenti ad assicurarsi quelle grandi opportunità: meno tasse, meno regole, manodopera meno costosa e «una città più piccola e più sicura» — che in pratica valeva a dire radere al suolo le case popolari e sostituirle con condomini. A sentire tutti i discorsi su «nuovi inizi» e «tabula rasa», si rischiava di dimenticare il brodo tossico di macerie, rifiuti chimici e resti umani che distava solo qualche miglio di autostrada.

Jamar non riusciva a pensare ad altro. «A me non sembra davvero un modo per ripulire la città. Quel che vedo io è che nelle zone povere sono morte un sacco di persone. Persone che non avrebbero dovuto morire.»

Parlava a voce bassa, ma un uomo più anziano in fila davanti a noi lo sentì e si voltò di scatto. «Ma cosa diavolo crede quella gente a Baton Rouge? Questa non è un'opportunità. È una stramaledetta tragedia. Sono ciechi?»

Una madre con due bambini intervenne. «No, non sono ciechi, sono cattivi. Ci vedono benissimo.»

Tra coloro che videro opportunità nelle acque che sommersero New Orleans ci fu Milton Friedman, grande guru del movimento per il capitalismo sfrenato, nonché l'uomo cui dobbiamo la bibbia dell'economia globale contemporanea basata su un'estrema mobilità. Benché novantatreenne e piuttosto cagionevole di salute, «zio Miltie» – così lo chiamavano i suoi seguaci – trovò le energie per scrivere un editoriale per il «Wall Street Journal» tre mesi dopo la rottura degli argini. «La maggior parte delle scuole di New Orleans è in rovina» osservò Friedman «come lo sono le case dei bambini che le frequentavano. Quei bambini ora sono sparsi per il Paese. Questa è una tragedia. Ma è anche un'opportunità per riformare radicalmente il sistema educativo.»

L'idea di Friedman era che, invece di spendere parte dei miliardi di dollari destinati alla ricostruzione per ripristinare, migliorandolo, il preesistente sistema delle scuole pubbliche a New Orleans, il governo avrebbe dovuto fornire alle famiglie dei buoni spesa, da usare presso istituzioni private, molte delle quali a scopo di lucro, sovvenzionate dallo Stato. Era essenziale, scriveva Friedman, che questo mutamento epocale del sistema scolastico non fosse una misura provvisoria, d'emergenza, ma piuttosto «una riforma permanente»?

Una rete di think tanks conservatori si gettò sulla proposta di Friedman e calò sulla città dopo l'uragano. L'amministrazione di George W. Bush appoggiò i loro piani con decine di milioni di dollari per convertire le scuole di New Orleans in «scuole charter», ovvero scuole pubbliche gestite da enti privati secondo le proprie regole. Le scuole charter sono fonte di profonde diseguaglianze negli Stati Uniti, e in particolare a New Orleans, dove vengono viste da molti genitori afroamericani come un modo di ribaltare le conquiste del movimento per i diritti civili, che garantiva a tutti i bambini lo stesso standard educativo. Per Milton Friedman, d'altro canto, l'intero concetto di sistema scolastico statale puzzava di socialismo. A suo parere, la funzione dello Stato era quella di «proteggere la nostra libertà sia dai nemici esterni sia dai nostri concittadini: mantenere la legalità e l'ordine, conferire forza operativa ai contratti privati, salvaguardare la competitività di mercato». In altre parole, garantire il servizio di polizia e l'esercito; ogni altra cosa, ivi compresa l'istruzione gratuita, costituiva un'indebita ingerenza nel mercato.

In stridente contrasto con la lentezza geologica nella riparazione degli argini e nel ripristino della rete elettrica, la vendita all'asta del sistema scolastico di New Orleans si svolse con rapidità e precisione militari. Nel giro di diciannove mesi, quando la maggior parte dei cittadini poveri era ancora in esilio, il sistema delle scuole pubbliche di New Orleans era stato quasi completamente rimpiazzato da scuole charter gestite da privati. Prima dell'uragano Katrina, il comitato dei direttori d'istituto gestiva 123 scuole pubbliche; ora solo quattro. Prima di quell'uragano, c'erano state sette scuole charter private in città; ora ce n'erano trentuno. Gli insegnanti di New Orleans erano stati rappresentati da un sindacato forte; ora il contratto sindacale era stato stracciato, e tutti i suoi 4700 membri erano stati licenziati. Alcuni insegnanti, tra i più giovani, furono riassunti dalle scuole charter, con salari ridotti; ma tutti gli altri no.

New Orleans era adesso, secondo il «New York Times», «il principale laboratorio nazionale per l'uso su larga scala delle scuole charter», mentre l'American Enterprise Institute, un think tank friedmaniano, esclamava raggiante che «Katrina ha ottenuto in un giorno [...] ciò che i riformatori scolastici della Louisiana non erano riusciti a ottenere in anni di tentativi». Gli insegnanti delle scuole statali, intanto, mentre vedevano i soldi destinati alle vittime dell'inondazione impiegati per cancellare un sistema pubblico e sostituirlo con uno privato, chiamavano il progetto di Friedman «un esproprio educativo».

Definisco «capitalismo dei disastri» questi raid orchestrati contro la sfera pubblica in seguito a eventi catastrofici, legati a una visione dei disastri come splendide opportunità di mercato.


L'editoriale su New Orleans si rivelò l'ultimo suggerimento pubblicamente espresso da Friedman; meno di un anno dopo, il 16 novembre 2006, morì all'età di novantaquattro anni. Privatizzare il sistema scolastico di una città americana di media grandezza potrà sembrare un'impresa modesta per l'uomo osannato come il più influente economista dell'ultimo mezzo secolo, un uomo che contava tra i suoi discepoli parecchi presidenti degli Stati Uniti, primi ministri britannici, oligarchi russi, ministri delle finanze polacchi, dittatori del Terzo mondo, segretari del partito comunista cinese, direttori del Fondo monetario internazionale e gli ultimi tre direttori della Federal Reserve americana. Eppure, la sua determinazione a sfruttare la crisi di New Orleans per affermare una versione fondamentalista del capitalismo fu anche un commiato particolarmente appropriato per questo professore alto un metro e sessanta e pieno di energie, che all'apice della carriera si era descritto come «un predicatore all'antica che declama il sermone domenicale».

Per più di trent'anni, Friedman e i suoi potenti seguaci avevano perfezionato proprio questa strategia: attendere il verificarsi di una grande crisi o di un grande shock, quindi sfruttare le risorse dello Stato per ottenere un guadagno personale mentre gli abitanti sono ancora disorientati, e poi agire rapidamente per rendere «permanenti» le riforme.

In uno dei suoi saggi più influenti, Friedman formulò la panacea tattica che costituisce il nucleo del capitalismo contemporaneo, e che io definisco «dottrina dello shock». Osservava che «soltanto una crisi – reale o percepita – produce vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica, le azioni intraprese dipendono dalle idee che circolano. Questa, io credo, è la nostra funzione principale: sviluppare alternative alle politiche esistenti, mantenerle in vita e disponibili finché il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile». Alcune persone accumulano cibo in scatola e acqua in previsione di grandi disastri; i friedmaniani accumulano idee per il libero mercato. E quando la crisi colpisce – ne era convinto il professore dell'Università di Chicago – è fondamentale agire in fretta, imporre un mutamento rapido e irreversibile prima che la società tormentata dalla crisi torni a rifugiarsi nella «tirannia dello status quo». Friedman stimava che «una nuova amministrazione dispone di un periodo di sei-nove mesi in cui realizzare i principali cambiamenti; se non coglie l'opportunità di agire incisivamente in quel periodo, non avrà un'altra occasione del genere». Variazione sul tema del consiglio di Machiavelli per cui i danni andavano inflitti tutti assieme, questa si sarebbe dimostrata una delle eredità strategiche di Friedman più durature.


Friedman imparò a sfruttare uno shock o una crisi su larga scala verso la metà degli anni Settanta, quando fece da consigliere al dittatore cileno, il generale Augusto Pinochet. Non solo i cileni erano in stato di shock dopo il violento colpo di Stato di Pinochet, ma il Paese era anche traumatizzato da una grave iperinflazione. Friedman consigliò a Pinochet di imporre una trasformazione fulminea dell'economia: tagli fiscali, libero scambio, privatizzazione dei servizi, tagli alla spesa sociale e deregulation. Alla fine, anche i cileni videro le loro scuole pubbliche rimpiazzate da istituti privati sovvenzionati mediante buoni spesa. Era la più estrema trasformazione in senso capitalistico mai tentata sino ad allora, e divenne famosa come la «Rivoluzione della Scuola di Chicago», dato che molti degli economisti di Pinochet avevano studiato con Friedman presso quella università. Friedman predisse che la velocità, la subitaneità e la portata dei mutamenti economici avrebbero provocato reazioni psicologiche nell'opinione pubblica tali da «facilitare l'adattamento». Coniò un'espressione per indicare questa tattica dolorosa: «trattamento shock» economico. Negli anni che seguirono, ogni volta che i governi hanno imposto radicali programmi di libero mercato, il trattamento shock, o «shockterapia», è stato il metodo favorito.

Pinochet facilitò l'adattamento anche attraverso le sue personali shockterapie: quelle applicate nelle tante camere di tortura del regime, inflitte sui corpi agonizzanti di chi era considerato un potenziale ostacolo sulla strada della trasformazione capitalistica. Molti, in America Latina, vedevano un legame diretto tra gli shock economici che impoverivano milioni di persone e l'ampia diffusione della tortura che puniva le centinaia di migliaia di persone che credevano in un diverso tipo di società. Come disse lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano: «Come salvare detta disuguaglianza se non a colpi di tortura con l'elettricità?».

Esattamente trent'anni dopo che queste tre distinte forme di shock erano calate sul Cile, la stessa formula è riemersa, con molta più violenza, in Iraq. Prima è venuta la guerra, con lo scopo – secondo gli autori della dottrina militare Shock and Awe (Shock e sgomento) – di «controllare la volontà dell'avversario, le sue percezioni e il suo intelletto, e renderlo letteralmente incapace di agire o reagire». Poi è venuta la shockterapia economica, imposta, in un Paese ancora in fiamme, da L. Paul Bremer, il governatore dell'Iraq nominato dagli Stati Uniti: privatizzazione selvaggia, completa libertà di scambio, un'aliquota d'imposta unica al 15 per cento, un governo di proporzioni ridottissime. Il ministro iracheno del Commercio ad interim, Ali Abdul-Amir Allawi, disse all'epoca che i suoi connazionali erano «stufi di essere cavie per esperimenti. Ci sono già stati abbastanza shock al sistema, non ci serve questa shockterapia economica». Quando gli iracheni opposero resistenza, furono rastrellati e portati in prigioni dove avrebbero subito fisicamente e psicologicamente altri shock, decisamente meno metaforici.


Ho iniziato a studiare il fenomeno della dipendenza del libero mercato dal potere dello shock quattro anni fa, nei primi giorni di occupazione dell'Iraq. Dopo aver fatto la corrispondente da Baghdad, dove avevo raccontato dei falliti tentativi di Washington di far seguire alla dottrina Shock and Awe la shockterapia, sono andata in Sri Lanka, diversi mesi dopo il catastrofico tsunami del 2004, e lì ho assistito a un'altra versione della stessa manovra: gli investitori stranieri e i prestatori internazionali si erano uniti allo scopo di sfruttare l'atmosfera di panico per consegnare l'intero litorale a imprenditori che vi costruirono grandi villaggi turistici, impedendo a centinaia di migliaia di pescatori di ricostruire le loro case vicino al mare. «Con un crudele rovescio di fortuna, la natura ha offerto allo Sri Lanka un'opportunità unica, e da questa grande tragedia sorgerà un importante polo del turismo internazionale» annunciò il governo dello Sri Lanka. Quando poi l'uragano Katrina colpì New Orleans, e la pletora di politici conservatori, think tanks e imprenditori edili iniziarono a parlare di tabula rasa e fantastiche opportunità, fu chiaro che il metodo privilegiato per imporre gli obiettivi delle grandi imprese, adesso, era quello di usare i momenti di trauma collettivo per dedicarsi a misure radicali di ingegneria sociale ed economica.

La maggior parte dei sopravvissuti a un disastro devastante vuole ben altro che una tabula rasa: vogliono salvare il salvabile e iniziare a riparare ciò che non è stato distrutto, vogliono riaffermare il proprio legame con i luoghi in cui sono cresciuti. «Mentre ricostruisco la città mi sembra di ricostruire me stessa» diceva Cassandra Andrews, residente della Lower Ninth Ward, una delle zone più colpite di New Orleans, mentre spazzava via i detriti. Ma i fautori del capitalismo dei disastri non hanno interesse a restaurare ciò che era prima. In Iraq, nello Sri Lanka e a New Orleans, la «ricostruzione» iniziò portando a compimento il lavoro svolto dal disastro, spazzando via cioè quanto rimaneva della sfera pubblica, per poi rimpiazzarlo in tutta fretta con una specie di Nuova Gerusalemme aziendale: il tutto prima che le vittime del disastro naturale fossero in grado di coalizzarsi e reclamare ciò che spettava loro di diritto.

Mike Battles l'ha espresso nel modo migliore: «Per noi, la paura e il disordine offrivano promesse concrete». Il trentaquattrenne ex agente segreto della Cia parlava di come il caos nell'Iraq post-invasione avesse aiutato la sua sconosciuta agenzia di sicurezza privata, la Custer Battles, a ricevere circa cento milioni di dollari in contratti governativi. Le sue parole potrebbero fungere da slogan per il capitalismo contemporaneo: paura e disordine sono i catalizzatori per ogni nuovo balzo in avanti.

Quando ho iniziato questa ricerca sull'intersezione tra superprofitti e megadisastri, pensavo di essere di fronte a una mutazione fondamentale del modo in cui la spinta a «liberare» i mercati si faceva strada in tutto il mondo. Sono stata parte attiva del movimento no global che fece il suo debutto mondiale a Seattle nel 1999, e quindi ero abituata a vedere questo genere di politiche, imposte facendo pressioni ai summit dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), o come clausole dei prestiti del Fondo monetario internazionale (Fmi). Le tre richieste tipiche – privatizzazione, deregulation e sostanziosi tagli alla spesa sociale – erano di solito molto malviste dai cittadini; ma quando si firmavano gli accordi c'era almeno il pretesto di un'intesa tra i governi che gestivano i negoziati, oltre al consenso tra i presunti esperti. Ora, lo stesso programma ideologico veniva imposto con i mezzi più apertamente coercitivi: sotto un'occupazione militare straniera in seguito a un'invasione, o subito dopo un cataclisma naturale. L'11 settembre sembra aver concesso a Washington il via libera per smettere di chiedere ai Paesi se desiderano la versione americana di «economia di mercato e democrazia» e iniziare a imporla con la forza militare dello Shock and Awe.

Approfondendo la storia della diffusione su scala planetaria di questo modello di mercato, tuttavia, mi sono resa conto che l'idea di sfruttare crisi e disastri era stato fin dall'inizio il modus operandi del movimento promossa da Milton Friedman: il fondamentalismo capitalista ha sempre avuto bisogno dei disastri per imporsi. Certo, i disastri stessi erano sempre più grandi e scioccanti; ma ciò che stava accadendo in Iraq e a New Orleans non era un'invenzione nuova, post-11 settembre. Piuttosto questi esperimenti di sfruttamento delle crisi costituivano il culmine di tre decenni di stretta osservanza della dottrina dello shock.

Visti attraverso la lente di questa dottrina, gli ultimi trentacinque anni hanno un aspetto molto diverso. Alcune delle più drammatiche violazioni dei diritti umani nella nostra epoca, usualmente considerate semplici atti di sadismo compiuti da regimi antidemocratici, in realtà sono state commesse con l'intento deliberato di terrorizzare l'opinione pubblica allo scopo di preparare il terreno per l'introduzione di «riforme» radicali in senso liberista. In Argentina negli anni Settanta, la «sparizione» di trentamila persone — molte delle quali attivisti di sinistra — a opera della junta fu un passo essenziale per l'imposizione di politiche ispirate alla Scuola di Chicago, esattamente come il terrore era stato complice della stessa metamorfosi in Cile. In Cina nel 1989, lo shock del massacro di piazza Tienanmen, e gli arresti di decine di migliaia di persone che seguirono, permisero al partito comunista di trasformare gran parte del Paese in una tentacolare zona di libera esportazione, popolato da lavoratori troppo spaventati per rivendicare i loro diritti. In Russia nel 1993, Boris Eltsin decise di inviare carri armati per appiccare il fuoco agli edifici del Parlamento e di chiudere in carcere i leader dell'opposizione: fu questo a spianare la strada per la privatizzazione a prezzi di saldo che fece nascere i famigerati oligarchi di quel Paese.

La guerra delle Falkland nel 1982 servì a uno scopo simile per Margaret Thatcher in Gran Bretagna: il disordine e il fervore nazionalista scaturiti dalla guerra le consentirono di usare una straordinaria durezza per sconfiggere i minatori in sciopero e accendere la prima frenesia di privatizzazioni in una democrazia occidentale. L'attacco Nato a Belgrado nel 1999 creò le condizioni per repentine privatizzazioni nell'ex Jugoslavia: un obiettivo che risaliva a prima della guerra. Il fattore economico ovviamente non fu l'unica causa di queste guerre ma, in ciascuno di questi casi, un grande shock collettivo fu sfruttato per preparare il terreno alla shockterapia economica.

Gli episodi traumatici che hanno assolto questa funzione di indebolimento non sono sempre stati apertamente violenti. In America Latina e in Africa negli anni Ottanta, fu una crisi di indebitamento a obbligare i Paesi alla scelta tra «privatizzazione o morte», per usare le parole di un funzionario del Fmi. Messi in ginocchio dall'iperinflazione, e solitamente troppo indebitati per opporsi alle pretese che accompagnavano i prestiti stranieri, i governi accettarono un trattamento shock con la promessa che ciò li avrebbe salvati da un disastro ben peggiore. In Asia, fu la crisi finanziaria del 1997-98 – paragonabile, per gli effetti devastanti, alla Grande depressione – a trasformare, aprendo a forza i loro mercati, le cosiddette Tigri asiatiche in quella che il «New York Times» ha definito «la svendita per cessata attività più grande del mondo». Molti di questi Paesi erano democrazie, ma le radicali trasformazioni economiche non sono state imposte democraticamente. Al contrario: come Friedman aveva ben compreso, l'atmosfera generale di crisi forniva il necessario pretesto per ignorare i desideri espressi dagli elettori e consegnare il Paese a economisti «tecnocrati».

Naturalmente, ci sono stati casi in cui l'adozione di politiche liberiste ha avuto luogo in modo democratico: si sono visti politici vincere le elezioni con programmi intransigenti, e gli Stati Uniti di Ronald Reagan ne sono l'esempio migliore; un caso più recente è quello dell'elezione di Nicolas Sarkozy in Francia. In questi casi, tuttavia, i crociati del libero mercato hanno incontrato la pressione dell'opinione pubblica e sono stati obbligati a temperare e modificare i loro piani economici radicali, accettando cambiamenti parziali al posto di una conversione totale. Il punto cruciale è che il modello economico di Friedman può essere parzialmente imposto in una democrazia, ma per attuarlo in tutta la sua portata ideale sono richieste condizioni di natura autoritaria. Perché la shockterapia economica potesse essere applicata senza vincoli – come lo fu in Cile negli anni Settanta, in Cina negli Ottanta, in Russia nei Novanta e negli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001 – è sempre stato necessario un qualche ulteriore grosso trauma collettivo che sospenda temporaneamente o sopprima completamente le consuetudini democratiche.

Questa crociata ideologica ha visto la luce nei regimi autoritari del Sudamerica, e nei suoi più ampi territori di ultima conquista – Russia e Cina – coesiste ancora oggi, in tutta serenità e generando grandi profitti, con una leadership dal pugno di ferro.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 18

La shockterapia torna a casa

Il movimento di Friedman, la Scuola di Chicago, ha conquistato territori in tutto il mondo a partire dagli anni Settanta, ma fino a poco tempo fa la sua ideologia non era mai stata applicata pienamente nel suo Paese di origine. Certo, Reagan aveva fatto passi avanti, ma gli Stati Uniti avevano comunque un sistema di welfare, sicurezza sociale e scuole pubbliche, in cui i genitori si aggrappavano, nelle parole di Friedman, al loro «irrazionale attaccamento a un sistema socialista».

Quando i repubblicani assunsero il controllo del Congresso nel 1995, David Frum, canadese trapiantato in America e futuro autore dei discorsi di George W. Bush, era fra i cosiddetti neoconservatori che propugnavano una rivoluzione economica basata sulla shockterapia negli Stati Uniti. «Ecco come penso che dovremmo procedere. Anziché fare piccoli tagli – un po' qua, un po' là – propongo di eliminare, in un solo giorno quest'estate, trecento programmi, ciascuno dei quali costa meno di un miliardo di dollari. Forse questi tagli non faranno una gran differenza, ma – ragazzi – avranno un grande valore simbolico. E si possono farli subito.»

All'epoca Frum non ottenne la sua shockterapia domestica, soprattutto perché non c'era una vera crisi su cui far leva. Ma nel 2001 la situazione cambiò. Al momento degli attacchi terroristici, la Casa Bianca era piena di discepoli di Friedman, tra cui il suo amico intimo Donald Rumsfeld. La squadra di Bush è riuscita a cogliere l'attimo di vertigine collettiva con una prontezza di riflessi sconcertante: non, come ha sostenuto qualcuno, perché l'amministrazione abbia dolosamente pianificato la crisi, bensì perché le figure centrali dell'amministrazione, veterani di precedenti esperimenti di capitalismo dei disastri in America Latina e nell'Europa dell'Est, facevano parte di un movimento che implora le crisi come i contadini pregano per la pioggia in tempi di siccità, e come gli evangelici fondamentalisti supplicano di essere rapiti in cielo appena prima della fine del mondo. Quando il disastro colpisce, sanno all'istante che il momento tanto atteso è finalmente giunto.

Per trent'anni, Friedman e i suoi seguaci avevano sistematicamente sfruttato i momenti di shock negli altri Paesi – i loro equivalenti dell'11 settembre – a iniziare dal colpo di Stato di Pinochet, l'11 settembre 1973. L'11 settembre 2001 accadde che l'ideologia covata nelle università americane e fortificata nelle istituzioni di Washington poté tornare finalmente a casa.

L'amministrazione Bush usò fin da subito la paura generata dagli attacchi non solo per lanciare la cosiddetta «Guerra al Terrore», ma per assicurarsi che essa fosse un'impresa quasi completamente volta al profitto, una nuova e fiorente industria che avrebbe soffiato nuova vita nella stagnante economia americana. Lo si comprende meglio se lo si chiama «complesso del capitalismo dei disastri»: possiede tentacoli molto più lunghi rispetto al complesso militare-industriale contro cui Dwight Eisenhower aveva messo in guardia alla fine della sua presidenza. Questa è una guerra globale combattuta a ogni livello da aziende private il cui coinvolgimento è pagato con denaro pubblico, con un mandato vitalizio per proteggere la patria americana in eterno, eliminando il «male» oltreconfine, in ogni sua forma. Nel giro di pochi anni, il complesso ha già espanso il suo mercato potenziale, dalla lotta al terrorismo al peacekeeping internazionale, alle amministrazioni locali, alla risposta ai sempre più frequenti disastri naturali. Il fine ultimo delle grandi imprese al centro del complesso è riportare il modello di governo for-profit, che avanza così rapidamente in circostanze straordinarie, entro il funzionamento ordinario e quotidiano dello Stato. Il fine ultimo è privatizzare il governo.

Per mettere in moto il complesso del capitalismo dei disastri, l'amministrazione Bush ha subappaltato, senza alcun dibattito pubblico, molte delle funzioni più delicate e importanti del governo: dall'assistenza sanitaria per l'esercito agli interrogatori dei prigionieri, alla raccolta e gestione di informazioni riservate su ciascun cittadino. Il ruolo del governo in questa guerra senza fine non è quello di un amministratore che dirige una rete di appaltatori, ma di un imprenditore dalle tasche gonfie, che fornisce il capitale necessario per l'avviamento del complesso ma diventa anche il miglior cliente dei servizi che il complesso offre. Per citare solo due dati che mostrano la portata della trasformazione: nel 2003, il governo americano mise sotto contratto 3512 agenzie private per esercitare funzioni di sicurezza; nei ventidue mesi fino all'agosto 2006, il dipartimento per la Sicurezza nazionale ha firmato più di 115.000 contratti di questo tipo. L'industria globale della «sicurezza interna» – economicamente insignificante fino al 2001 – è ora un settore da duecento miliardi di dollari. Nel 2006, la spesa del governo americano per la sicurezza interna raggiungeva una media di 545 dollari per famiglia.

E questo è solo il fronte interno della Guerra al Terrore: i soldi veri servono a portare la guerra altrove. Oltre alle industrie militari, che hanno visto i loro profitti impennarsi grazie alla guerra in Iraq, mantenere l'esercito americano è oggi una delle economie di servizio più fiorenti del pianeta. «Due Paesi che hanno entrambi un McDonald's non hanno mai combattuto una guerra tra loro» dichiarò incautamente l'editorialista del «New York Times» Thomas Friedman nel dicembre 1996. Non solo fu smentito nel giro di due anni, ma, grazie al modello della guerra for-profit, oggi l'esercito americano va in guerra con Burger King e Pizza Hut a rimorchio, appaltando ristoranti per le truppe nelle basi militari, dall'Iraq alla «mini-città» attualmente in costruzione a Guantànamo.

Poi ci sono gli aiuti umanitari e la ricostruzione. Aiuti e ricostruzione for-profit, sperimentati per la prima volta in Iraq, sono già diventati il nuovo paradigma globale, ed è ininfluente che la distruzione iniziale sia provocata da una guerra preventiva, come l'attacco di Israele al Libano nel 2006, o da un uragano. Il flusso dei nuovi disastri aumenta di continuo, a causa della scarsità di risorse e dei mutamenti climatici, e far fronte a queste emergenze è, semplicemente, un mercato in ascesa troppo allettante per lasciarlo alle organizzazioni non-profit. Perché mai dovrebbe essere l'Unicef a ricostruire le scuole quando può farlo la Bechtel, una delle più grandi imprese di costruzione degli Stati Uniti? Perché mandare i rifugiati del Mississippi in case popolari vuote, quando possono essere ospitati su navi da crociera Carnival? Perché impiegare forze di pace dell'Onu in Darfur, quando agenzie di sicurezza private come la Blackwater sono alla ricerca di nuovi clienti? Ed è questa la differenza del dopo-11 settembre: prima, le guerre e i disastri offrivano opportunità a un settore ristretto dell'economia – per esempio i costruttori di jet da combattimento, o le aziende che ricostruivano i ponti bombardati. Il fine economico primario delle guerre, tuttavia, era quello di offrire un mezzo per aprire nuovi mercati che erano stati isolati e generare boom del dopoguerra. Oggi invece, le risposte alle guerre e ai disastri sono così completamente privatizzate che sono esse stesse il nuovo mercato. Non c'è bisogno di aspettare la fine della guerra per il boom: il mezzo è il messaggio.

Un vantaggio decisivo di questo approccio postmoderno è che, in termini commerciali, non può fallire. «L'Iraq è stato meglio del previsto»: con queste parole un analista finanziario ha definito un trimestre particolarmente positivo per l'industria energetica Halliburton. Era l'ottobre 2006, il mese più violento dell'anno fino ad allora, con 3709 civili iracheni morti. Eppure, pochi azionisti restarono impassibili di fronte a una guerra che aveva generato venti miliardi di dollari in ricavi per questa sola azienda.

Fra il commercio d'armi, i soldati privati, la ricostruzione for-profit e l'industria della sicurezza nazionale, il risultato emerso dall'impronta data dall'amministrazione Bush alla shockterapia post-11 settembre è una nuova economia pienamente articolata. È stata costruita nell'era Bush, ma ora esiste in maniera del tutto autonoma da una particolare amministrazione, e resterà ben salda finché non verrà identificata, isolata e sfidata l'ideologia suprematista del business che ne costituisce la premessa. È dominata dalle aziende americane ma è globale: le aziende britanniche, per esempio, portano la loro esperienza in materia di onnipresenti telecamere a circuito chiuso, le ditte israeliane offrono la loro expertise nella costruzione di recinti e muri ad alta tecnologia, e l'industria canadese del legname invia rappresentanti in giro per il mondo per vendere case pretabbricate che sono svariate volte più costose di quelle prodotte localmente. «Credo che nessuno prima d'ora avesse mai guardato alla ricostruzione delle aree colpite da disastri come a un vero mercato immobiliare» dice Ken Baker, direttore generale di un gruppo leader nel commercio di legname. «È una strategia a lungo termine per diversificare.»

Fatte le debite proporzioni, il complesso del capitalismo dei disastri è paragonabile ai boom del «mercato emergente» e delle telecomunicazioni negli anni Novanta. Anzi, gli addetti ai lavori sostengono che i contratti oggi sono ancora migliori che nei giorni delle dot.com, e che la bolla della sicurezza ha preso il posto delle altre scoppiate in precedenza. Insieme ai profitti in rapida crescita dell'industria delle assicurazioni (che in proiezione dovrebbero aver raggiunto la cifra record di 60 miliardi di dollari nel 2006 nei soli Stati Uniti), e agli utili elevatissimi dell'industria del petrolio (che contribuisce a generare le catastrofi da cui trae profitto), l'economia dei disastri ha fatto molto per salvare il mercato mondiale dalla grave recessione che rischiava alla vigilia dell'11 settembre.


Quando si tenta di ripercorrere la storia della crociata ideologica che è culminata nella radicale privatizzazione della guerra e del disastro, si ripresenta un problema: l'ideologia è in realtà proteiforme, sempre pronta a cambiar nome e assumere nuove identità. Friedman si definiva un liberal, ma i suoi seguaci americani, che associavano i liberals alle tasse alte e agli hippie, tendevano a identificarsi come «conservatori», «economisti classici», «fautori del libero mercato» e, più tardi, favorevoli alla Reaganomics o al laissez-faire. In gran parte del mondo, la loro ortodossia è nota come «neoliberismo», ma spesso è chiamata free trade o semplicemente «globalizzazione». Solo dalla metà degli anni Novanta il movimento intellettuale, capeggiato dai think tanks di destra con cui Friedman era associato da tempo – la Heritage Foundation, il Cato Institute e l'American Enterprise Institute – ha iniziato a definirsi «neoconservatore», una visione del mondo che ha sfruttato la forza della macchina militare Usa al servizio di obiettivi economici.

Tutte queste incarnazioni hanno in comune la devozione a una santa trinità – eliminazione della sfera pubblica, liberazione delle corporation da qualunque vincolo e spesa sociale ridotta all'osso – ma nessuno di questi nomi sembra perfettamente adeguato per definirne l'ideologia. Friedman qualificava il suo movimento come un tentativo di liberare il mercato dallo Stato, ma l'esperienza di ciò che accade quando la sua visione è applicata al mondo reale è ben diversa. In ogni Paese in cui negli ultimi trent'anni sono stati applicati i principi della Scuola di Chicago, ciò che è emerso è una potente alleanza di dominio tra poche enormi corporation e una classe di politici quasi invariabilmente ricchi: e i confini tra i due gruppi sono sfumati e sempre mutevoli. In Russia, i soggetti privati nell'alleanza sono chiamati «oligarchi»; in Cina, «principini»; in Cile, «piranha»; negli Stati Uniti, sono i «pionieri» della campagna Bush-Cheney. Ben lungi dal liberare il mercato dallo Stato, questi gruppi politici e aziendali si sono semplicemente fusi insieme, scambiandosi favori per assicurarsi il diritto di appropriarsi di risorse preziose che prima erano di pubblico dominio: dai pozzi di petrolio russi ai poderi collettivi della Cina ai contratti di ricostruzione in Iraq concessi senza aste d'appalto.

Una definizione più consona per un sistema che cancella i confini tra il Big Government e il Big Business non è liberal, conservatore o capitalista, ma corporativista. Le sue caratteristiche principali sono enormi trasferimenti di beni pubblici ai privati, spesso accompagnati dall'esplosione del debito pubblico, uno iato sempre più largo tra gli scintillanti ricchi e i poveri usa-e-getta, e un nazionalismo guerrafondaio che giustifica spese illimitate per la sicurezza. Per chi si trova all'interno della bolla di estrema ricchezza creata da questo sistema, non può esserci modo più conveniente per organizzare una società. Ma a causa degli evidenti svantaggi per la vasta maggioranza della popolazione che resta fuori dalla bolla, tra le altre caratteristiche dello Stato corporativo ci sono gli arresti di massa, la sorveglianza aggressiva (ancora una volta, con il governo e le grandi aziende che si scambiano favori e contratti), la riduzione delle libertà civili e spesso, anche se non sempre, la tortura.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 23

La tortura come metafora

Dal Cile alla Cina all'Iraq, la tortura è stata un partner silenzioso nella rivoluzione liberista globale. La tortura, però, è ben più che uno strumento utile per imporre scelte politiche indesiderate a chi si ribella: è anche una metafora della logica alla base della dottrina dello shock.

La tortura – o, nel linguaggio della Cia, l'«interrogatorio coercitivo» – è un insieme di tecniche pensate per indurre nei prigionieri uno stato di assoluto disorientamento e shock, allo scopo di obbligarli a fare concessioni contro la loro volontà. La logica di fondo è resa esplicita in due manuali della Cia, desecretati nei tardi anni Novanta. In essi si spiega che per piegare le «fonti che oppongono resistenza» bisogna creare rotture violente tra i prigionieri e la loro capacità di dare senso al mondo che li circonda. In primo luogo, si elimina ogni input sensoriale (con cappucci in testa, tappi alle orecchie, manette, isolamento totale), poi si bombarda il corpo con stimoli estremi (luci stroboscopiche, musica a tutto volume, percosse, elettroshock).

Lo scopo di questa fase di «ammorbidimento» è provocare una specie di uragano nella mente: i prigionieri subiscono una regressione tale, e sono così spaventati, che non riescono più a pensare razionalmente né a proteggere i propri interessi. È in questo stato di shock che la maggior parte dei prigionieri dà a chi li interroga ciò che questi desidera: informazioni, confessioni, abiura di convinzioni precedenti. Uno dei manuali della Cia fornisce una spiegazione particolarmente esplicita: «C'è un intervallo – che può essere estremamente breve – di animazione sospesa, una sorta di shock o paralisi psicologica. È provocata da un'esperienza traumatica o subtraumatica che fa esplodere, per dir così, il mondo che è familiare al soggetto, oltre all'immagine che egli ha di sé entro quel mondo. Gli specialisti riconoscono questo effetto quando si manifesta e sanno che in quel momento la fonte è molto più aperta ai suggerimenti, molto più disposta a collaborare, di quanto non fosse appena prima di subire lo shock».

La dottrina dello shock imita alla perfezione questo processo, cercando di ottenere su vasta scala ciò che la tortura ottiene su una singola persona in una cella per interrogatori. L'esempio più chiaro è stato lo shock dell'11 settembre, che, per milioni di persone, ha «fatto esplodere il mondo a loro familiare» e ha dato il via a un periodo di forte disorientamento e regressione, che l'amministrazione Bush ha sfruttato con estrema abilità. All'improvviso ci siamo ritrovati a vivere in una sorta di Anno Zero, in cui tutto ciò che sapevamo del mondo fino a quel momento poteva essere sbrigativamente definito «pensiero pre-11 settembre». I nordamericani, che peraltro non erano mai stati grandi esperti di storia, sono diventati «un foglio bianco» sul quale «possono essere scritte le parole più nuove e più belle», come Mao disse del suo popolo. Un nuovo esercito di esperti si è materializzato all'istante per scrivere nuove e bellissime parole sulla ricettiva tela delle nostre coscienze postraumatiche: «scontro di civiltà», hanno scritto. «Asse del Male», «islamofascismo», «sicurezza nazionale». Mentre tutti ci preoccupavamo delle nuove e mortifere guerre tra culture, l'amministrazione Bush è stata in grado di ottenere quello che prima dell'11 settembre poteva solo sognare: combattere guerre privatizzate all'estero e affidare la sicurezza della patria a un complesso di aziende.

È così che funziona il capitalismo dei disastri: il disastro originario – il colpo di Stato, l'attacco terroristico, il crollo dei mercati, la guerra, lo tsunami, l'uragano – getta l'intera popolazione in uno stato di shock collettivo. Le bombe che cadono, le grida di terrore, i venti sferzanti sono più efficaci, nel rendere malleabili intere società, di quanto la musica assordante e i pugni nella cella di tortura non indeboliscano i prigionieri. Come il prigioniero terrorizzato che rivela i nomi dei compagni e abiura la sua fede, capita che le società sotto shock si rassegnino a perdere cose che altrimenti avrebbero protetto con le unghie e con i denti. Jamar Perry e gli altri sfollati al centro d'accoglienza di Baton Rouge avrebbero dovuto perdere le loro case popolari e le loro scuole pubbliche. Dopo lo tsunami, i pescatori dello Sri Lanka avrebbero dovuto cedere la loro preziosa spiaggia ai proprietari di alberghi. Gli iracheni, se tutto fosse andato come previsto, avrebbero dovuto essere così scioccati e terrorizzati da rinunciare al controllo delle riserve di petrolio, alle loro aziende pubbliche e alla loro sovranità, cedendoli alle basi militari e alle zone verdi americane.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 25

La grande bugia

Nel torrente di parole scritte nei necrologi di Milton Friedman, il ruolo della crisi, dello shock e del disastro fu a malapena menzionato. Piuttosto, la morte dell'economista fornì un'occasione per raccontare di nuovo la storia ufficiale di come la sua versione del capitalismo radicale fosse diventata ortodossia governativa in quasi ogni angolo del globo. È una versione romanzata della storia, ripulita dalla violenza e dalla coercizione così intimamente intrecciata con questa crociata, e rappresenta il più riuscito colpo di propaganda degli ultimi tre decenni. La versione dice più o meno quanto segue.

Friedman ha dedicato la vita a combattere una pacifica battaglia di idee contro chi credeva che i governi avessero il dovere di intervenire nel mercato per smussarne gli angoli. Era convinto che la storia «avesse preso una strada sbagliata» quando i politici avevano iniziato a dar retta a John Maynard Keynes, architetto intellettuale del New Deal e del moderno Stato sociale. Il crollo del 1929 aveva convinto i più che l'approccio del laissez-faire fosse fallito, e che i governi dovessero intervenire nell'economia per redistribuire la ricchezza e limitare le grandi concentrazioni. In quei giorni bui per il laissez faire, quando il comunismo conquistò l'Est, il welfare state sedusse l'Occidente e il nazionalismo economico mise radici nel Sud postcoloniale, Friedman e il suo mentore, Friedrich von Hayek, tennero viva con pazienza la fiamma di una versione pura del capitalismo, non toccata dai tentativi keynesiani di mettere in comune la ricchezza collettiva per costruire società più giuste.

«L'errore fondamentale, a mio avviso» scrisse Friedman in una lettera a Pinochet nel 1975, era stato «credere che sia possibile far del bene con i soldi degli altri». Pochi lo ascoltarono: i più insistettero che i loro governi potevano e dovevano far del bene. Friedman fu sbrigativamente liquidato da «Time» nel 1969 come «un folletto o uno scocciatore», ed erano in pochi a venerarlo come un profeta.

Alla fine, dopo decenni di esilio intellettuale, vennero gli anni Ottanta e il dominio di Margaret Thatcher (che chiamava Friedman «un combattente per la libertà intellettuale») e Ronald Reagan (che fu visto con in mano una copia di Capitalismo e libertà, il manifesto di Friedman, durante la campagna elettorale per la presidenza). Finalmente c'erano leader politici che avevano il coraggio di liberare e svincolare i mercati nel mondo reale. Stando a questa versione ufficiale, dopo che Reagan e la Thatcher ebbero pacificamente e democraticamente liberato il mercato, la libertà e la prosperità che seguirono furono così palesemente desiderabili che quando i dittatori iniziarono a cadere, da Manila a Berlino, le masse chiesero a gran voce la Reaganomics accanto ai loro Big Mac.

Quando infine l'Unione Sovietica collassò, il popolo dell'«impero del male» era impaziente di unirsi alla rivoluzione friedmaniana, così come i comunisti convertiti al capitalismo in Cina. Voleva dire che il vero liberismo globale non aveva più ostacoli, e in esso le grandi imprese, finalmente affrancate, non solo erano libere a casa loro, ma erano libere di varcare ogni confine senza vincoli, diffondendo la prosperità in tutto il mondo. Ora c'era consenso su come la società dovesse essere governata: i leader politici dovevano essere eletti, e le economie dovevano seguire le regole di Friedman. Era, come disse Francis Fukuvama, «la fine della storia»: «il punto finale dell'evoluzione ideologica dell'umanità». Quando Friedman morì, la rivista «Fortune» scrisse che «la marea della storia era con lui»; il Congresso americano approvò una risoluzione che lo lodava come «uno dei più importanti patroni della libertà nel mondo, non solo nell'economia ma in ogni campo»; il governatore della California Arnold Schwarzenegger fece celebrare il Milton Friedman Day nell'intero Stato il 29 gennaio 2007, e parecchie città e cittadine fecero lo stesso. Il «Wall Street Journal» riassumeva efficacemente questa versione ordinata della storia con il titolo: Freedom Man.


Questo libro è una sfida alla pretesa centrale e più cara alla storia ufficiale: che il trionfo del capitalismo senza regole sia nato dalla libertà, che il liberismo sfrenato vada a braccetto con la democrazia. Al contrario, mostrerò che questo fondamentalismo capitalista è stato invariabilmente partorito dalle più brutali forme di coercizione, inflitte sul corpo politico collettivo come su innumerevoli corpi individuali.

La posta in gioco è alta. Il corporativismo sta per conquistare le sue ultime frontiere: le economie chiuse e basate sul petrolio del mondo arabo, e i settori delle economie occidentali che a lungo sono stati protetti dal profitto – incluse la risposta alle emergenze e la creazione di eserciti. Poiché non si finge neppure di cercare il consenso popolare prima di privatizzare funzioni economiche tanto vitali, sia in patria sia fuori, serve un'escalation di violenza e disastri sempre maggiori per far avanzare la causa. Eppure, poiché il vero significato degli shock e delle crisi è stato così efficacemente cancellato dalla storia ufficiale della crociata corporativista, le tattiche estreme usate in Iraq e a New Orleans sono spesso scambiate per semplici incompetenze o favoritismi della Casa Bianca di Bush. In realtà, gli exploit di Bush rappresentano il culmine, molto violento e molto creativo, di una campagna lunga cinquant'anni per la totale liberazione delle grandi imprese, che non sarà frenata da una singola elezione in un singolo Paese. Piuttosto, è la stessa ideologia che dev'essere identificata, isolata e sfidata.

Qualsiasi tentativo di incolpare le ideologie per i crimini commessi dai loro seguaci dev'essere intrapreso con grande cautela. È troppo facile dire che coloro dai quali dissentiamo non sono solo in errore ma sono tirannici, fascisti, genocidi. È anche vero però che certe ideologie sono un pericolo per la gente e necessitano di essere identificate per quello che sono. Sono quei sistemi chiusi, quelle dottrine ideologiche che non possono coesistere con altri sistemi di valori: i loro seguaci disprezzano la diversità e pretendono una tabula rasa su cui costruire. Il mondo com'è oggi va cancellato per edificarne uno nuovo e perfetto. È una logica che affonda le radici nelle fantasie bibliche di grandi inondazioni e grandi incendi, una logica che conduce ineluttabilmente alla violenza. Le ideologie che aspirano a quell'impossibile foglio bianco che si può raggiungere solo con un qualche cataclisma sono le ideologie pericolose.

Di solito sono i sistemi ideologici basati sull'estremismo religioso e sul concetto di razza che richiedono l'eliminazione di altri gruppi al fine di perseguire una visione purista del mondo. Ma in seguito al crollo dell'Unione Sovietica, c'è stata una potente resa dei conti collettiva con i grandi crimini commessi nel nome del comunismo. Gli archivi sovietici sono stati aperti ai ricercatori, che hanno così potuto contare i morti per carestie forzate, campi di lavoro e omicidi politici. Il processo ha scatenato un acceso dibattito su quanto le uccisioni fossero ispirate dall'ideologia in sé, o invece dalla sua distorsione da parte di seguaci come Stalin, Ceausescu, Mao e Pol Pot.

«È stato il comunismo in carne e ossa a imporre la repressione all'ingrosso, culminata in un regno di terrore spalleggiato dallo Stato» scrive Stéphane Courtois, coautore del discusso Libro nero del comunismo. «L'ideologia è, dunque, innocente?» Certo che ne ha. Non ne consegue che tutte le forme di comunismo siano intrinsecamente genocide, come qualcuno ha affermato, ma è stata senza dubbio un'interpretazione della teoria comunista, un'interpretazione dottrinaria, autoritaria e contraria a ogni pluralismo, che ha condotto alle purghe staliniane e ai campi di rieducazione di Mao. Il comunismo autoritario è, ed è bene che sia, per sempre macchiato da quei laboratori.

Ma che ne è allora della crociata contemporanea per liberate i mercati mondiali? I colpi di Stato, le guerre e í massacri che servono a installare e mantenere i regimi a favore delle grandi società non sono mai stati trattati come crimini del capitalismo, ma sono stati liquidati come eccessi di dittatori troppo zelanti, come fronti caldi della Guerra fredda, e ora della Guerra al Terrore. Se i più decisi oppositori del modello economico corporativista sono sistematicamente sterminati – in Argentina negli anni Settanta, in Iraq oggi – quella soppressione è giustificata come parte della lotta sporca contro il comunismo o il terrorismo: quasi mai come la lotta per l'avanzamento del capitalismo puro.

Non sto affermando che tutte le forme di sistema di mercato sono per forza violente. È assolutamente possibile, certo, avere un'economia di mercato che non richieda una simile brutalità e non necessiti di tale purezza ideologica. Un mercato libero dei prodotti di consumo può coesistere con una sanità pubblica, con scuole pubbliche, con un ampio segmento dell'economia – come una compagnia petrolifera pubblica – saldamente in mano statale. È parimenti possibile richiedere che le grandi aziende paghino salari decenti e rispettino il diritto dei lavoratori di costituirsi in sindacati; e che i governi tassino e redistribuiscano la ricchezza così che le aspre ineguaglianze che affliggono lo Stato corporativo siano ridotte. Non è obbligatorio che i mercati siano fondamentalisti.

Keynes aveva proposto esattamente questo genere di economia mista, regolata, dopo la Grande depressione: una rivoluzione nell'approccio politico che creò il New Deal e trasformazioni analoghe in tutto il mondo. È stato proprio quel sistema di compromessi, controlli ed equilibri che la controrivoluzione di Friedman mirava a smantellare metodicamente Paese dopo Paese. Vista in questa luce, la variante fondamentalista del capitalismo propria della Scuola di Chicago ha, in effetti, qualcosa in comune con altre pericolose ideologie: quel tipico desiderio di irraggiungibile purezza, di imbiancare la tela e tirar su dal nulla la società ideale.

Questo desiderio di disporre del potere divino di creazione ex nihilo costituisce precisamente il motivo per cui gli ideologi del libero mercato sono così attratti dalle crisi e dai disastri. Una realtà non apocalittica è semplicemente incompatibile con le loro ambizioni. Da trentacinque anni, ciò che anima la controrivoluzione di Friedman è stata l'attrazione per un tipo di potere, libertà e senso di possibilità che è disponibile solo in tempi di mutamento cataclismatico – quando le persone, con le loro abitudini ostinate e le loro domande insistenti, vengono spazzate via – momenti in cui la democrazia sembra concretamente impossibile. Chi crede nella dottrina dello shock è convinto che solo una grande discontinuità — un'inondazione, una guerra, un attacco terroristico — possa generare quelle tele vaste e bianche tanto intensamente desiderate. In questi momenti malleabili, in cui siamo psicologicamente e fisicamente sradicati, gli artisti del reale tuffano le mani e iniziano il loro lavoro di ricreazione del mondo.

| << |  <  |