Copertina
Autore Jean-Jacques Kupiec
CoautorePierre Sonigo
Titolo Né Dio né genoma
SottotitoloPer una nuova teoria dell'ereditarietà
EdizioneEleuthera, Milano, 2009 , pag. 232, cop.fle., dim. 12,5x19x1,4 cm , Isbn 978-88-8949-063-1
OriginaleNi Dieu ni gène. Pour une autre théorie de l'hérédité
EdizioneSeuil, Paris, 2000
PrefazioneGiulio Giorello
TraduttoreCarlo Milani
LettoreRenato di Stefano, 2010
Classe biologia , evoluzione , genetica
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Indice


Prefazione
di Giulio Giorello                      	 7

  I. Dove va la biologia?           	    15

 II. La questione dell'essere               26
     (Jean-Jacques Kupiec)

III. La libertà biologica                   73

 IV. L'identificazione cellulare            98
     Jean-Jacques Kupiec)

  V. Cellule in libertà                    145
     (Pierre Sonigo)

 VI. A caso, con gli occhi bendati         197
     (Pierre Sonigo)

     Conclusione                           227


 

 

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Pagina 7

PREFAZIONE
di Giulio Giorello



«Chi ha dato il moto alla natura? Dio. Chi fa vegetare tutte le piante? Dio. Chi ha dato il movimento agli animali? Dio. Chi produce il pensiero dell'uomo? Dio». Non sono parole di un creazionista entusiasta, bensì dell'illuminista (e deista) François-Marie Arouet, noto come Voltaire. Bene si prestano, comunque, a illustrare per contrasto le tesi di questo libro di Jean-Jacques Kupiec e Pierre Sonigo. I due autori sono polemici sin dal titolo, Ni Dieu ni gène. E scrivono nella breve Conclusione: «Dio esiste nel rispetto e nella meraviglia che ci ispira la natura. Ma se è inaccessibile e costituisce una spiegazione universale, la spiegazione [stessa] diventa universalmente inaccessibile». In altri termini: se ogni evento si produce perché Dio lo vuole, la spiegazione si riduce a mera registrazione di quello stesso evento, una volta che si dia per scontato che all'enunciato che descrive quell'esempio va sempre premesso l'operatore (teo)logico «È volontà di Dio che».

Il sentimento di Voltaire – che nemmeno il terremoto di Lisbona o le bestemmie ateistiche nello stile del Marchese de Sade sono mai riusciti a spegnere – ha trovato un potente avversario solo nella dottrina darwiniana dell'evoluzione. «È come confessare un omicidio», aveva scritto l'11 gennaio 1844 Charles Robert Darwin a un ex «lupo di mare» come lui, il medico e botanico Joseph Dalton Hooker, annunciandogli che, dopo aver raccolto «alla cieca» qualsiasi dato avesse a che fare col problema delle specie – dalle tartarughe, iguane e fringuelli delle Galápagos ai fossili del continente sudamericano – era ricorso a un po' di «speculazioni» per chiarirsi le idee, arrivando alla conclusione che le varie specie non fossero «immutabili», ma variassero nel tempo, derivando da «un ceppo comune» ed essendo esposte alla inesorabile selezione dovuta alla pressione ambientale. Il giovane Charles aveva annotato nel Taccuino B (1837) a pagina 101: «In passato gli astronomi avrebbero potuto affermare che Dio dispose affinché ciascun pianeta si muovesse seguendo il proprio particolare destino», ma l'astronomia moderna – da Copernico a Newton, passando per Keplero – ha indicato come fare a meno di queste disposizioni divine formulate per ciascun pianeta. Analogamente, nella concezione tradizionale delle specie, «Dio dispose che ciascun animale sia creato con una certa forma in una certa regione: ma quanto più semplice e sublime sarebbe una forza per cui, agendo l'attrazione secondo certe leggi, tali siano le inevitabili conseguenze; essendo creato l'animale, tali saranno i suoi successori secondo le leggi prefissate della generazione». Il Dio che sistema ogni cosa con l'apposito atto di volontà risulta un ostacolo alla spiegazione scientifica. Come sottolinea in particolare Kupiec nel secondo capitolo, Darwin sapeva fare il giusto uso del cosiddetto rasoio di Occam (in breve, il principio per cui «dobbiamo preferire le teorie che rendono minimo il numero di ipotesi»), realizzando una considerevole economia intellettuale: la spiegazione scientifica è riduzione dell'arbitrario nella presentazione delle morfologie osservate. Né meno semplice e sublime appare la concezione darwiniana della «guerra, terribile ma silenziosa, che ha luogo tra esseri organici nei boschi tranquilli e nei campi ridenti» – in realtà, scenari ove sempre «è in atto una competizione e un granello di sabbia sposta la bilancia» (pagine 114 e 115 del Taccuino E, autunno 1838 - estate 1839). Il delitto maggiore di Charles Darwin è stato forse quello di aver sostituito alla teologia naturale la selezione naturale.

Come insiste Kupiec, è con questo (secondo) «omicidio» darwiniano che sparisce la cosiddetta spiegazione teleologica. Aveva annotato Darwin stesso nell' Autobiografia: «Non si può più sostenere, per esempio, che la cerniera perfetta di una conchiglia bivalve debba essere stata ideata da un essere intelligente, come la cerniera della porta dell'uomo. Un piano che regoli la variabilità degli esseri viventi e l'azione della selezione naturale non è più evidente di un disegno che predisponga la direzione del vento». Sono confronti-contrapposizioni di questo tipo che evidenziano il carattere opportunistico dell'evoluzione (darwiniana) attraverso la selezione naturale per pressione ambientale. Nell'aver demolito l'idea di specie come «unità reale e fissa» Charles Darwin ha reso operativo il suo «nominalismo» e con la sua concezione della «trasmutazione» del vivente ha aperto la strada alla ridefinizione della tradizionale classificazione degli organismi. Scrive per esempio Jean-Jacques Kupiec: «Certo, la classificazione ha un significato. Ma non è l'espressione statica della creazione e del disegno divino. Essa riflette il legame genealogico di tutti gli esseri viventi, e dunque l'evoluzione. Per Darwin, la specie è un insieme di individui che hanno un antenato in comune, senza alcun riferimento a un'identità di struttura. Poiché la discendenza è sempre seguita da modificazioni, la somiglianza più o meno marcata di due individui è la conseguenza di un legame di parentela più o meno forte». E ancora: «Ripetendo in biologia ciò che Occam aveva fatto cinque secoli prima, Darwin abbandona le entità ideali che ossessionavano i suoi precursori per osservare gli individui reali» (enfasi mia). Precisa opportunamente Kupiec che «la definizione di Darwin non dice cosa sono le specie, ma cosa fanno» (enfasi mia). Rendendo la specie non «un'unità statica» bensì «un processo», Darwin «rompe con la metafisica di Aristotele»; in particolare, non c'è alcuna pianificazione che possa orientare l'evoluzione darwiniana. Si pensi, del resto, a un caso che già aveva destato l'interesse di Darwin: ali e piume di uccelli per varie ere hanno funzionato come isolanti termici adatti a conservare la temperatura corporea; solo in seguito esse si sono rivelate adatte al volo! Questa è la lezione che ci viene dal tempo profondo della storia del vivente: la selezione naturale non persegue, in sé, scopo alcuno; semplicemente, lascia emergere in un particolare contesto caratteri che poi saranno differentemente impiegati in contesti diversi. Scrive per esempio Pierre Sonigo: «L'ala non è più un miracolo se si ricostruisce la sua storia, fatta di variazioni contingenti ma probabili» (enfasi mia). Ma «la selezione naturale non pianifica nulla e non inventa nulla. Può solo migliorare quel che esiste già: le nuove funzioni derivano dalle funzioni latenti e imprevedibili il cui potenziale sarà svelato dai bisogni dell'animale. Il naso e le orecchie non sono state mantenute per selezione naturale con lo scopo di sostenere gli occhiali, anche se avevano evidentemente il potenziale nascosto per farlo. Non sono nemmeno state concepite per questo uso da un architetto (o da un programma) che sapeva che un giorno sarebbero stati inventati gli occhiali» (enfasi mia). Infine, «lo stesso accade per gli abbozzi evolutivi o embrionali di una funzione che necessita della cooperazione di molte cellule. La cellula è anteriore all'organismo, tanto dal punto di vista dell'ontogenesi quanto dal punto di vista della filogenesi [...]. La selezione naturale, esercitandosi innanzi tutto sulla cellula, non poteva predire la multicellularità e il cosiddetto programma che la gestirebbe. Altrimenti, questo sarebbe come credere, ancora una volta, che c'è un disegno nella natura (finalità), che avrebbe permesso la messa in atto dell'organizzazione cellulare» (enfasi mia). Se ne conclude che «l'ontogenesi può essere compresa solo mediante l'azione della selezione naturale che si esercita [...] sulle cellule individuali» (enfasi mia).

Non è conclusione da poco. Come nasce, per esempio, la nostra individualità immunologica? O magari il pensiero? Ovvero, «se il neurone non pensa, se il globulo bianco non si cura delle nostre infezioni, come possono comparire funzioni quali il pensiero o la risposta immunitaria?». La risposta a queste domande non dovrebbe, in linea di principio, essere diversa da quella offerta per ali e piume...

C'è un altro aspetto che viene rivelato dalla contrapposizione tra organismi e manufatti. Come si legge nell'ultimo capitolo del volume, in un motore a benzina è opportuno conoscere ogni dettaglio, «anche il più piccolo elemento che lo compone», perché anch'esso è rivolto al funzionamento di quel congegno; invece, «un motore biologico, prodotto dai processi naturali dell'evoluzione» può «essere pieno di rubinetti, leve e interruttori» derivati dalla sua storia evolutiva, ma tranquillamente trascurabili se quel che ci interessa è capire una certa funzione di quella struttura. Sarebbe come minimo improduttivo adottare il punto di vista riduzionistico che scende di livello in livello fino a quello basilare di atomi e molecole: così facendo «si corre il rischio [...] di perdersi in una descrizione completa dell'agitato moto molecolare in seno al quale i fenomeni pertinenti per il vivente si trovano diluiti», senza capire perché la struttura considerata ci appaia adeguata a quella particolare funzione.

Per Kupiec e Sonigo la critica del riduzionismo va di pari passo con un tipo di spiegazione che colloca la selezione naturale anche a livello cellulare! Sotto questo profilo, la metafora del «programma» che i genetisti riprendono dall'informatica appare loro fuorviante. Leggiamo in un altro capitolo di questo volume: «La teoria del programma genetico [...] offre una risposta a tutto [...] – Perché abbiamo un cervello? Perché il programma genetico ha fatto un cervello. Perché abbiamo un fegato? Perché il programma genetico ha fatto un fegato». La rassomiglianza col passo di Voltaire che abbiamo citato all'inizio è lampante. Per Kupiec e Sonigo il programma genetico non è che la versione contemporanea della tradizionale creazione divina. Se ogni parte dell'organismo si produce perché l'ha fatta il programma genetico, la spiegazione, anche in questo caso, diventa mera descrizione di quella stessa struttura, una volta che si sia dato per scontato che all'enunciato che esprime quell'esempio va sempre premesso l'operatore logico «il programma genetico ha fatto in modo che». Certo, non è esattamente il ricorso a un Dio trascendente; adesso «si suppone che il codice sia contenuto nei nostri geni»; ma, come nel caso teologico demolito a suo tempo da Darwin, questa concezione del programma genetico, sospeso «fra la terra del citoplasma e i cieli del DNA», non spiega poco, ma troppo – e per questo appare tipicamente non controllabile a livello empirico. Potremmo dire che rischia di diventare quello che davvero era in principio: una metafisica, capace di influenzare non solo il linguaggio dei ricercatori ma anche la pratica della ricerca. Ma non è detto che sia la miglior «metafisica influente». Nella loro conclusione Kupiec e Sonigo constatano che i fautori del programma genetico hanno sostituito al vecchio Signore del Genesi «un demiurgo accessibile, leggibile nel mondo delle molecole». Ma con che vantaggio? I nostri due autori non contestano che «in certe situazioni sia possibile domare il DNA»: si pensi agli OGM o alla terapia genica. E consideriamo, in particolare, la seconda. «In questo caso esemplare e foriero di grandi speranze, un numero piccolissimo di cellule ha ricevuto il 'gene buono' ma ha proliferato in maniera massiccia. Il gene trasferito procura un vantaggio considerevole alle cellule trattate, prima di apportare qualcosa all'organismo. I medici hanno guarito le cellule. A loro volta, le cellule hanno salvato i bambini. Ma non era, il loro [delle cellule] obiettivo: questi animali microscopici, una volta ritrovata la salute, hanno semplicemente divorato i microbi minacciosi per 'appetito' e non per devozione. Le terapie geniche cha hanno trascurato la libertà delle cellule hanno fallito. Il vivente non è una macchina, è una congiunzione di interessi» (enfasi mie).

Allo stato attuale questa «libertà cellulare» può anch'essa sembrarci poco più di un'analogia, cioè del nucleo di una diversa metafisica influente. Tramutarla in una vera e propria pratica di ricerca empiricamente controllabile («bisogna finalmente parlare di biologia», dicono i due autori nel finale) è la stimolante sfida di questo volume che non solo tratta di cellule o di specie, ma implicitamente allude alla stessa evoluzione culturale di Homo sapiens.

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Pagina 15

I
DOVE VA LA BIOLOGIA?



Si può mettere in discussione quella che si presenta come uno dei migliori esiti scientifici del XX secolo? Oggi nulla sembra in grado di arrestare la marcia trionfale della biologia. L'isolamento sistematico dei geni, la decodifica delle informazioni che contengono e l'analisi delle loro funzioni attraverso metodi sempre più sofisticati costituiscono un filone di ricerca privilegiato che non patisce alcuna limitazione. L'accumulo di questi dati dovrebbe consentire la risoluzione di tutti i problemi: è solo questione di tempi e di mezzi. D'altro canto, la potenza di questo metodo è provata dalle prodigiose manipolazioni genetiche che ne derivano. Queste manipolazioni ci offrono lo straordinario potere di modificare il corso dell'evoluzione, di cambiare le leggi della riproduzione, di arrivare a quanto di più intimo hanno gli esseri viventi.

Questa ricerca necessita di grandi risorse umane e materiali. È diventata un affare industriale. I nuovi laboratori sono delle vere e proprie fabbriche che si organizzano attorno ai centri di sequenziamento dei genomi. In Francia è stato inventato il termine «genopolio» per descrivere questi complessi scientifico-industriali.

Così la biologia, assisa sullo zoccolo della genetica molecolare, per accumulare scoperte deve solamente avanzare in maniera regolare e metodica grazie alle sue navi della conoscenza, ovvero questi laboratori-fabbriche nei quali lavorano decine, anzi centinaia di robots, tecnici e ricercatori. Isolare il gene, decrittarlo e analizzarne il prodotto: questo metodo sembra infallibile e i protagonisti del sequenziamento dei genomi non hanno risparmiato i proclami.


Genetica o astrologia?

Tuttavia, dietro questa facciata si manifestano dei problemi che relativizzano la portata dei risultati ottenuti. Un numero molto elevato di geni isolati in relazione a una patologia o a un normale processo fisiologico presentano solo una correlazione statistica con un determinato carattere fenotipico. Ciò significa che una mutazione può essere associata con una certa frequenza a malattie o a certe caratteristiche, ma non prova che ne sia la causa determinante. Fra i soggetti portatori di queste mutazioni, alcuni sviluppano la malattia o la caratteristica associata, altri no. Questo fatto ha spinto molti genetisti a relativizzare il ruolo del gene. Si parla ora di componente genetica e non di determinismo genetico. Si suggerisce, per esempio, che per sfruttare i risultati dei sequenziamenti del genoma si dovrebbe passare alla «fenotipologia». Questa nuova disciplina consisterebbe nella determinazione, per ciascun individuo, degli altri fattori in grado di spiegare le differenze nel comportamento individuale. Tra questi fattori si troverebbero, per esempio, le abitudini alimentari oppure altri fattori ambientali. Il gene sembrerebbe così ricondotto al rango di un semplice elemento situato allo stesso livello di tutti gli altri fattori che intervengono nella composizione di un organismo. Si tratta di un assestamento nella definizione del gene che si produce in modo quasi anodino, come se andasse da sé.

Eppure questo slittamento nella definizione del gene non è solo un gioco semantico privo di conseguenze. La posizione centrale del gene nei fenomeni biologici rischia di essere rimessa in discussione. La genetica è una teoria dell'ereditarietà che si è costruita su un'idea precisa: ciò che viene trasmesso di generazione in generazione non è la caratteristica ereditaria stessa ma il gene che la determina. Non si può rinunciarvi impunemente perché è proprio questo legame causale semplice e diretto fra il gene e il carattere fenotipico (ereditario) che dà alla genetica la sua capacità esplicativa. Sminuire questa relazione a una semplice correlazione statistica fra molte altre, e reintrodurre un determinismo forte proveniente dall'ambiente, costituisce una negazione della definizione di gene che comporta la distruzione del fondamento stesso della genetica, di ciò che ha assicurato il suo successo.

Si pone così il problema di quello che oggi viene chiamato, in maniera restrittiva, il determinismo o riduzionismo genetico. Questa dottrina in effetti deriva, molto coerentemente, dalla teoria genetica dell'ereditarietà. Essa spiega ogni tratto o fenomeno della vita di un organismo, come il colore degli occhi o la taglia, ma anche le malattie, come il cancro, o i normali processi, come lo sviluppo dall'uovo fino allo stadio adulto grazie all'azione sottostante di uno o più geni. Di conseguenza, l'identificazione di tali geni dovrebbe permettere di fornire una chiave esplicativa di questi fenomeni. Si cercherà così di isolare il gene del cancro, il gene dell'intelligenza, il gene dello sport, o ancora quello della schizofrenia. I media annunciano periodicamente scoperte sensazionali di questo tipo. Il record sembra essere stato recentemente battuto dalla scoperta del gene della fedeltà coniugale!

Tuttavia, vi sono sempre meno genetisti disposti a sostenere un determinismo genetico tanto semplice. In generale si cerca di temperarlo. Abbiamo citato il caso dei fattori ambientali. E anche la nozione di background genetico è utilizzata per modulare il determinismo dei geni. Si spiega allora come un dato gene si inserisca in un determinato contesto costituito da un insieme di geni portati dai cromosomi di un individuo, come tutti questi geni interferiscano fra loro con il risultato di modulare la loro attività. Quando un solo gene non è più sufficiente a spiegare un fenomeno, si suppone perciò l'esistenza di uno o più altri geni che rimangono da identificare. L'effetto del gene sarebbe allora estremamente plastico e permetterebbe di rendere conto di tutte le variazioni di carattere che possono corrispondergli. Questa spiegazione, malgrado l'aria plausibile e ragionevole, può essere molto pericolosa. Essa consente di cavarsela sempre a buon mercato, invocando un gene nascosto, così come gli ascendenti in astrologia ammettono infinite estensioni interpretative, che finiranno per diventare sempre vere.

Di fronte a queste difficoltà si può sperare, come fanno molti biologi, che si risolveranno facilmente grazie al semplice accumulo di osservazioni sperimentali, approfittando dello slancio delle ricerche in corso. Ma potrebbe anche trattarsi di un problema più profondo, la cui sorgente si troverebbe nella teoria stessa. In effetti, osservando la questione in prospettiva, ci si potrebbe chiedere se la genetica non sia analoga alla teoria delle Idee di Platone. In entrambi i casi il nostro mondo delle apparenze è duplicato da un altro mondo che ne costituisce la spiegazione. Ogni entità del primo è determinata da un'entità corrispondente del secondo. Per la genetica la spiegazione degli esseri si trova nel mondo molecolare dei geni e per Platone nel regno delle Idee, ma in entrambi i casi si riscontra la stessa relazione causale. Il fatto che la genetica ancori la sua spiegazione nel DNA non cambia nulla. Questa eventualità, di primo acchito sorprendente, potrebbe spiegare le difficoltà incontrate nella definizione del gene. In questa prospettiva, la genetica sarebbe condannata a restare una pratica precopernicana, di certo capace di accumulare dati descrittivi sempre più precisi e di moltiplicare i prodigi tecnologici, ma incapace di comprenderli e di raggiungere un livello di sviluppo paragonabile a quello delle scienze fisiche.

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Pagina 60

La selezione naturale è un principio di creazione d'ordine
a partire dal disordine



La definizione di specie di Darwin è coestensiva e inseparabile dal modello caso-selezione che abbiamo descritto nell'introduzione. Prima della teoria evoluzionista, per esempio per un fissista come Linneo, la questione era: perché ci sono degli esseri differenti? La risposta iniziale fu la volontà creatrice di Dio, che attraverso specifici atti differenti poteva creare tutti gli esseri che voleva. Questi esseri primitivi della creazione corrispondono alle Idee di Platone, o agli stampi che in Aristotele danno una forma specifica alla materia, o ancora ai prototipi delle specie di cui parlava Buffon. In ciascuno di questi casi si tratta di una variante più o meno elaborata della stessa visione del mondo, compreso il caso di Lamarck che trasferì la creazione (istruzione) divina in un meccanismo fisico.

Con Darwin questa questione non ha più senso perché la variazione indefinita è riconosciuta come la proprietà fondamentale degli esseri. Viene anzi ribaltata, poiché ci si deve piuttosto domandare: se la variazione indefinita è il fondamento di ciò che accade in natura, perché esiste l'identico, l'omogeneità? Perché non siamo immersi nella vaghezza assoluta creata dal continuum di tutte le forme che variano all'infinito? La risposta è proprio la selezione, che permette la moltiplicazione di alcune forme invece che di altre, creando così gruppi identificabili di esseri viventi.

Questo meccanismo potrebbe essere frainteso. Bisogna capire bene che non si tratta di un determinismo a posteriori che viene a controbilanciare la casualità delle variazioni. Una tale interpretazione potrebbe essere indotta dall'analogia con la selezione naturale praticata dagli allevatori. Darwin vi si era ispirato e l'aveva presa come esempio per illustrare la sua teoria. In questo caso, la volontà dell'allevatore indirizza le variazioni casuali verso un determinato fine. L'espressione «selezione naturale» potrebbe allora far pensare che nella natura si trovi un potere analogo a quello dell'allevatore, che reintrodurrebbe la specificità in seconda istanza. Darwin stesso ha spiegato il senso della selezione naturale nel capitolo IV de L'origine delle specie , e più in particolare nella parte dedicata al principio di divergenza dei caratteri. La questione posta è la seguente:

In primo luogo le varietà, anche le più marcate, sebbene abbiano alcun che del carattere delle specie, [...] pure differiscono fra loro assai meno delle specie ben distinte. Nondimeno, secondo le mie viste, le varietà sono specie in formazione, oppure, come dissi, sono specie incipienti. Come dunque le differenze minori fra le varietà possono aumentare fino a divenire le differenze più grandi che esistono fra le specie?

La risposta è che la selezione naturale induce la specializzazione ottimizzando l'utilizzazione delle risorse. La popolazione totale degli esseri viventi può così aumentare in maniera più consistente. Darwin stabilisce un'analogia molto interessante con la divisione fisiologica del lavoro fra gli organi di un organismo, di cui riparleremo nel capitolo riguardante l'identificazione cellulare.

In molte circostanze naturali si osserva la verità del principio, che una grande diversità di struttura può rendere possibile una maggiore quantità di vita. [...] Il vantaggio della diversità, negli abitanti d'un medesimo paese, è in realtà uguale a quello che nasce dalla divisione fisiologica del lavoro negli organi di uno stesso individuo [...]. Niun fisiologo dubita che uno stomaco adatto solamente alla digestione delle sostanze vegetali, oppure delle sostanze animali, tragga maggior copia di nutrimento da quei cibi che gli convengono. Così nell'economia generale di un paese, quanto più largamente diversifichino gli animali e le piante per le abitudini della vita, tanto più grande sarà il numero degl'individui che potranno tollerarsi a vicenda.

Per comprendere questo principio di ottimizzazione nell'utilizzo delle risorse di un ecosistema, immaginiamo una specie che vive sulle montagne. Questa specie può andare a cercare il proprio nutrimento sia in cima, sia ai piedi della montagna. Deve quindi essere adattata a due tipi di condizioni. Il principio di ottimizzazione di Darwin (il principio di divergenza dei caratteri) stabilisce che due specie figlie, ciascuna adattata a uno dei due tipi di condizione, si moltiplicheranno meglio rispetto alla specie parentale «mediana». Quindi, fra le variazioni aleatorie che compaiono nella specie parente, saranno proprio quelle più estreme, che tendono a separare il gruppo parentale nelle due specie figlie, a conservarsi per moltiplicazione. Un aspetto primordiale di questa teoria è che esiste divergenza perché tale meccanismo, a differenza della «polizia della natura» di Linneo, non è specifico. Lascia un ampio grado di libertà nelle relazioni fra gli esseri che non hanno ecosistemi attribuiti in maniera esclusiva secondo un principio d'ordine. Le interferenze e le competizioni che ne derivano portano alla divergenza dei caratteri. In Linneo, queste interferenze erano considerate dannose e la «polizia della natura» doveva proibirle. In Darwin, al contrario, sono all'origine delle specie. Per illustrare la sua idea, fa anche un esempio teorico.

In questo esempio ci sono undici specie disposte lungo uno schema. Le linee orizzontali traducono la prossimità di struttura, di habitat e di substrato alimentare. A, B, C, D e H, I, K, L formano due gruppi di specie vicine le une alle altre. Le linee verticali traducono la discendenza con modificazioni di queste specie. I discendenti di A e I possono moltiplicarsi senza darsi fastidio perché sono sufficientemente lontani l'uno dall'altro; viceversa, impediscono la moltiplicazione dei discendenti delle specie a loro più vicine, con le quali sono in competizione. Tale processo crea una maggiore divergenza fra i membri di quel genere e la scomparsa delle specie intermedie.

L'equilibrio raggiunto non era dato in partenza. Non è statico, ma al contrario rimane dinamico e fluttuante. Un cambiamento delle condizioni ambientali o la comparsa di nuove varietà potrebbe modificarlo.

Sergei Atamas ha di recente compiuto una simulazione informatica di questo principio di divergenza e ha così potuto «osservare» la specializzazione a partire da un continuum di forme che intrattenevano relazioni non specifiche con il proprio ecosistema. Possiamo illustrare questa simulazione, che permette di comprendere meglio il principio di divergenza di Darwin, con un esempio molto semplice.

Tre specie si nutrono di vegetali di diversa altezza e formano un continuum di taglia. Tuttavia, sono in competizione fra loro perché ognuna di esse non si ciba solamente di vegetali specifici di una data taglia. La specie intermedia (B) è sfavorita per il fatto che deve condividere il suo vegetale con quelle vicine, situate alle estremità di questo ecosistema. Si riproduce meno bene e scompare. Alla fine, si verifica la produzione di due specie ben distinte. Questo sistema fondato sulle relazioni non specifiche dei componenti ha creato ordine.

Si consideri ora quale sarebbe la versione linneana di tale esempio. Sarebbe fondata sulla «polizia della natura» e regolata da relazioni di specificità. Ognuna delle tre specie avrebbe un'altezza di vegetale attribuita in maniera esclusiva. Non ci sarebbe competizione. Nessuna scomparirebbe e si manterrebbe il continuum.

Questi esempi sono molto semplici, ma la conclusione non è banale: il sistema fondato sulla specificità non crea ordine. Gli individui restano persi nella vaghezza delle loro differenze. Al contrario, si possono avere dei raggruppamenti di individui identificabili in specie proprio perché le relazioni fra le componenti di un ecosistema possiedono un ampio grado di libertà. La selezione naturale è un principio di creazione di ordine a partire dal disordine di queste relazioni non specifiche.

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Pagina 78

Il dogma centrale della biologia molecolare



Per la biologia molecolare gli esseri viventi sono costituiti da due classi principali di molecole: gli acidi nucleici (DNA e RNA) e le proteine. Ogni proteina viene fabbricata a partire da un gene, corrispondente a uno o più frammenti di DNA. Questa sintesi viene effettuata grazie a un meccanismo di trascrizione/traduzione. Il gene viene prima «ricopiato» in RNA (trascrizione), che serve a sua volta alla sintesi della proteina (traduzione). L'informazione genetica contenuta nei geni guida questa sintesi per sfociare in una proteina.

Chiarito questo meccanismo, la questione posta dai primi biologi molecolari era tesa ad accertare in quale senso poteva circolare l'informazione fra i geni e le proteine. Il flusso di informazione può essere solo unidirezionale, dai geni alle proteine, oppure può esserci un ritorno di informazione dalle proteine al DNA? Ovvero: le proteine potrebbero servire alla fabbricazione di geni nello stesso modo in cui i geni servono alla fabbricazione delle proteine?

Dietro a questo dibattito si profilava la questione della possibile ereditarietà dei caratteri acquisiti. In effetti, se le proteine potessero servire alla fabbricazione del DNA, Si potrebbe ritenere che una modificazione della sequenza delle proteine acquisite dagli organismi nel corso della loro esistenza possa iscriversi nei geni ed essere trasmessa alla discendenza. Il dogma centrale della biologia molecolare sostiene che il flusso di informazione può passare solo dal DNA verso le proteine e che un gene determina interamente una proteina grazie all'informazione che contiene. Il senso di questo dogma oltrepassa la semplice descrizione del meccanismo di fabbricazione delle proteine. Sembra giustificare a livello molecolare la dualità genotipo/fenotipo, che sarebbe così spiegata dalla dualità DNA/proteine. Inoltre, esso ci dice che se si considerano come elementi fondamentali del vivente le proteine (il che sarebbe una visione molto restrittiva), il DNA contiene, in virtù dell'unidirezionalità del flusso informativo, tutte le informazioni necessarie alla fabbricazione di un individuo. Queste informazioni risultano codificate e formano un vero e proprio programma genetico. Se fossimo capaci di decifrare queste informazioni, potremmo letteralmente leggere l'individuo sul DNA. Questo è il senso profondo attribuito al dogma dai primi biologi molecolari.

Utilizzerò il termine «modello» di un organismo nel senso in cui il biologo parla del «modello a quattro dimensioni», intendendo con questo non solo la struttura e il funzionamento dell'organismo adulto o in un qualsiasi altro momento evolutivo, ma anche l'insieme del suo sviluppo ontogenetico a partire dall'ovulo fecondato fino allo stadio di maturità, quando l'organismo comincia a riprodursi. Ora, è stabilito che questo modello integrale a quattro dimensioni è fissato dalla struttura di quest'unica cellula, l'uovo fecondato. Inoltre, sappiamo che è essenzialmente determinato solamente dalla struttura di una piccola parte di questa cellula, il nucleo. [...] Dando alla struttura delle fibre cromosomiche il nome di codice, vogliamo indicare che lo spirito onnisciente concepito un tempo da Laplace, per il quale ogni rapporto causale sarebbe immediatamente decifrabile, potrebbe immediatamente dedurre da questa struttura se l'uovo, posto nelle condizioni adatte, si svilupperà in gallo nero o in pollo maculato, in mosca o in pianta di mais, rododendro, scarabeo, topo o donna.

Poiché tutte le informazioni necessarie sono codificate nel DNA, questo programma genetico è impermeabile alle influenze dell'ambiente.

In effetti, il programma genetico è costituito dalla dinamica combinatoria di elementi essenzialmente invarianti. In virtù della sua stessa struttura, il messaggio dell'ereditarietà non consente il benché minimo intervento concertato dal di fuori. [...] La natura stessa del codice genetico impedisce ogni cambiamento deliberato del programma sotto l'effetto della propria azione o del proprio ambiente. Essa interdice ogni influenza sul messaggio da parte dei prodotti della propria espressione. Il programma non riceve lezioni dall'esperienza.

Ancora prima di spingere oltre l'analisi, si vede bene che la nozione di norma di reazione e il dogma della biologia molecolare sono di ispirazione molto diversa, e che non sarà facile riconciliarli. Il primo favorisce l'azione dell'ambiente, mentre il secondo favorisce il programma contenuto nei geni.

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Ereditarietà o selezione naturale: chi governa i virus?



In questo libro abbiamo già affrontato il problema della natura dell'ereditarietà e del significato dell'informazione genetica. I virus forniscono molti esempi in grado di illustrare il nostro punto di vista. Ricordiamo che l'ereditarietà è attualmente concepita come la trasmissione di una molecola (generalmente di DNA) la cui forma (più precisamente la sequenza) è una rappresentazione codificata e programmata dell'organismo. Al contrario, riteniamo che l'ereditarietà sia legata non alla trasmissione di un codice ma alla riproducibilità di fenomeni aleatori. L'idea stessa della trasmissione, o in altre parole l'eredità, cui non si può sfuggire quando si tratta di genitori e figli, non è adeguata. In senso proprio, non si trasmette mai nulla: le stesse cause riproducono gli stessi effetti, ecco tutto. Come abbiamo già detto, in un sistema aleatorio la riproducibilità è garantita quando le estrazioni sono numerose. È la legge dei grandi numeri. Lanciato un gran numero di volte, un dado darà risultati riproducibili: un sesto di 1, un sesto di 2, ecc. Molecole e cellule sono altrettanti lanci di dado che sottointendono la riproducibilità che osserviamo nell'organismo. Come nel caso del dado, il numero esatto di 1, di 2, ecc. varia, ma l'insieme dei tiri risulta in proporzioni prevedibili e riproducibili. Gli insiemi di tiri si assomigliano sempre, senza per questo essere identici. Una combinazione sconvolgente di identità e differenza. Quasi un'aria di famiglia. È l'ereditarietà del dado. L'ereditarietà non è «iscritta» nei dadi, bensì deriva da un gran numero di lanci. Allo stesso modo, l'ereditarietà non è iscritta nel DNA, ma risulta dai tiri della selezione naturale. Bisogna quindi capire i principi di questa selezione invece di cercare disperatamente di leggere nei geni quello che non c'è scritto.

Nei virus, il sopravvenire di resistenze ai farmaci antivirali illustra questo rovesciamento di cause ed effetti e quindi della modalità di spiegazione tra i geni e la selezione naturale. Sfortunatamente, si è constatato che somministrando a una persona affetta dal virus dell'AIDS un farmaco antivirale, uno solo, l'efficacia del trattamento sarà transitoria. Nel giro di qualche settimana il virus sarà diventato resistente alla cura, anche se in precedenza questa si era mostrata efficace. L'esame dei geni virali consentirà di localizzare la mutazione associata a questa resistenza. Insistiamo sul termine «associata», perché abbiamo la tendenza a utilizzare l'espressione «responsabile di questa resistenza», suggerendo così a torto che il gene è all'origine della proprietà di resistenza. Esaminiamo le due tappe dell'evoluzione in questo contesto. La prima tappa, variazione casuale, corrisponde qui al sopravvenire della mutazione di resistenza in uno dei virus della popolazione. Il calcolo delle probabilità mostra che una tale mutazione, corrispondente in effetti a un «errore» al momento della duplicazione dei geni, esiste sempre in almeno un esemplare di una popolazione virale, a prescindere dalla presenza o meno del farmaco. Il farmaco seleziona una mutazione preesistente, non induce questa mutazione. La mutazione di resistenza è quindi senz'altro una condizione necessaria, ma non sempre realizzata! In questo caso, non è determinante nella comparsa della resistenza. Non ne è la causa. La seconda tappa è la selezione imposta dal farmaco antivirale. Il farmaco provoca la replicazione preferenziale dei virus portatori della mutazione di resistenza. Perciò, nella persona infetta, la proporzione dei virus resistenti, che era molto bassa in assenza di trattamento, aumenta rapidamente. Così come l'insieme della popolazione virale che porterà la mutazione. A quel punto, i virus appariranno resistenti al farmaco. Ricordiamo che siamo incapaci di studiare la resistenza di un virus solitario. Analogamente, un osservatore posizionato nello spazio potrebbe determinare il colore di un branco di elefanti ma non di un elefante isolato. L'osservatore penserà che tutti gli elefanti sono grigi, anche se alcuni di loro sono rosa. Affinché l'osservatore veda gli elefanti rosa è necessario che la maggior parte degli elefanti siano rosa. Allo stesso modo, quando solo una porzione molto bassa dei virus è portatrice della mutazione di resistenza, il virus non è considerato resistente al farmaco. In definitiva, se la resistenza è individuabile solo dopo la selezione da parte del farmaco, e non quando la mutazione appare in qualche esemplare, il farmaco è all'origine di quello che misuriamo. Senza il farmaco, la mutazione del gene è una fluttuazione priva di conseguenze. Inoltre, la presenza del farmaco è una spiegazione semplice e logica della resistenza al virus. La lettura dei geni non fornisce una simile logica esplicativa. Insistiamo sul fatto che la selezione non agisce in maniera specifica sui virus resistenti. Alcuni virus possono replicarsi in presenza del farmaco. È questa proprietà che permette di definirli resistenti. La resistenza quindi non preesiste in quanto «fenotipo» prima dell'evento selettivo, il solo in grado di definire il fenotipo. La stessa mutazione potrebbe avere altre caratteristiche che potrebbero essere rivelate in un altro contesto selettivo. La trasformazione abusiva di una relazione semiologica, constatata retrospettivamente (in questo caso il complesso genotipo-fenotipo resistente), in causalità preesistente (il mutante che si suppone determinare il fenotipo) è l'errore chiave della genetica rispetto alla teoria dell'evoluzione.

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