Copertina
Autore Filippo La Porta
CoautoreGiuseppe Leonelli
Titolo Dizionario della critica militante
SottotitoloLetteratura e mondo contemporaneo
EdizioneBompiani, Milano, 2007, Tascabili 388 , pag. 270, cop.fle., dim. 12,5x19x1,6 cm , Isbn 978-88-452-5915-9
LettoreLuca Vita, 2008
Classe critica letteraria
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Indice


    AL LETTORE                                                5

    ANNI OTTANTA

1.  Il concetto di critica militante.
    L'eredità degli anni Settanta                             9
2.  Gli anni di piombo. Una pietra sopra di Italo Calvino    13
3.  Artisti della critica: Praz, Macchia, Garboli, Citati    18
4.  Pampaloni critico "giornaliero"                          26
5.  Critici scrittori e scrittori critici:
    Calasso, Magris, Raboni                                  30
6.  Tra critica militante e Università:
    Fortini, Baldacci, Asor Rosa, Mengaldo                   37
7.  Tra il libro e la vita: Alfonso Berardinelli             58
8.  Letteratura e giornalismo: Golfino, Mauri                77

    ANNI NOVANTA

1.  Compiti troppo impegnativi per la critica letteraria?    91
2.  Paesaggi italiani stravolti                              97
3.  Finimondo                                                98
4.  "Cosa ha voluto dirci l'autore?»                        100
5.  Ritorno del critico-individuo                           101
6.  Un napoletano a Baltimora                               103
7.  Adoperare la tradizione                                 104
8.  Debenedetti e noi                                       105
9.  La letteratura non è un indovinello                     107
10. I «fondamenti invisibili" della lettura                 108
11. Lo stile è il critico                                   109
12. Critici linguisti                                       111
13. Il saggista sa aspettare...                             112
14. Un rapporto diretto con i classici                      113
15. La critica è il critico                                 115
16. Non siamo solo macchine...                              116
17. Calvino come discrimine                                 119
18. Pasolini come discrimine                                120
19. Una ambigua democrazia letteraria                       123
20. Il canone ridefinito                                    124
21. Critici-mondo                                           126
22. Artisti della teoria                                    128
23. Riscoperta dell'etica                                   130
24. Romanzi essenziali come il pane                         132
25. Riviste militanti (Alberto Rollo, Marino Sinibaldi,     133
    Roberto Carnero, Arnaldo Colasanti)
26. Classici "eccentrici" della modernità...                136
27. La semplicità e la logica                               138
28. Statue di neve                                          139
29. Opere e merci                                           141
30. Nella solitudine e nel silenzio...                      142
31. La sfuggente realtà                                     144
32. Una critica che si vuole antagonista                    147
33. Il dandy convertito (Cordelli)                          149
34. Un umanista travestito da neoavanguardista (Guglielmi)  151
35. Scrittori civili e malinconici (Garboli e Ficara)       153
36. Il tragico perduto                                      158
37. Nostalgia di salute e di semplicità                     160
38. Argomentare (Barenghi, Carraro, Casadei, Parente)       162
39. Conclusioni (ancora su individuo e modernità)           164

    CONCLUSIONI

    Dove va la critica?
    di Giuseppe Leonelli                                    183

    La letteratura "deviazione" inutile?
    di Filippo La Porta                                     187
        1) I rischi del critico tuttologo                   188
        2) Sperimentazioni e scritture ibride               190
        3) Una consapevole ingenuità                        193
        4) Responsabilità del lettore                       194
        5) Una aristocrazia democratica                     195
        6) Strade a cappio                                  196

    Schede bio-bibliografiche
    di Caterina Marinucci                                   199

    INDICE DEI NOMI                                         259


 

 

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1. Il concetto di critica militante.

L'eredità degli anni Settanta


Ci si è spesso interrogati, fin dai tempi del De Sanctis e del Carducci, su che cosa debba intendersi per "critica militante". Una volta si definiva come tale la critica che aveva per oggetto i contemporanei e si esercitava soprattutto sui giornali e le riviste non accademiche. Ma era una definizione che fin dall'inizio non aveva gran senso e in seguito ne avrebbe avuto ancora meno. Oggi siamo sempre più inclini a pensare che non sia tanto l'oggetto, ma la funzione a esaltare la militanza dell'atto critico. Si può restare chiusi nei laboratori anche se ci si esercita sul più recente best-seller o, al contrario, diventare militanti quando si scopre, magari attraverso lo studio del passato, una particolare prospettiva sul mondo in cui viviamo. Senza dire che esiste una "militanza pedagogica svolta giorno per giorno nell'insegnamento":

In modo più mediato e sottile, si può essere critici militanti nella scuola - luogo deputato alla trasmissione del sapere e quindi alla formazione degli allievi - anche orchestrando la scelta dei libri di testo, l'adozione di un classico piuttosto che di un altro.

All'inizio degli anni Settanta, i vari modelli di critica operanti in Italia all'Università o altrove (impressionistica, storicistica di estrazione crociana o marxistica, psicologica, stilistica) furono investiti da una forte ventata strutturalistica e semiologica. Il fenomeno aveva preso quota in Europa verso la metà del decennio precedente. Remo Ceserani descrive con efficacia l'eccitazione con la quale gli intellettuali più aperti alle novità si passavano, di "mano in mano", nel 1962, la fotocopia del saggio di Jakobson e Lévi-Strauss sugli Chats di Baudelaire, portato in Italia da un Umberto Eco "che l'aveva avuta da Barthes". Secondo Ceserani, sarebbe cominciato con quella sorta di samizdat il "decennio d'oro della teoria e della critica letteraria".

Un anno dopo, mentre l'avanguardia italiana lanciava da Palermo quella che avrebbe dovuto essere "la nuova letteratura e la nuova critica" un letterato ascrivibile alla vecchia guardia, ma sempre attento alle novità, come Giacomo Debenedetti, cominciava a pensare a un'inchiesta, che sarebbe poi uscita con il titolo Strutturalismo e critica nel 1965, in limine al catalogo generale 1958-65 della casa editrice Il Saggiatore. Sempre nel 1965 sarebbero stati pubblicati "Gli orecchini" di Montale di D'Arco Silvio Avalle, primo saggio strutturalista prodotto in Italia sul modello dell'analisi di Jakobson e Lévi-Strauss.

Nasceva intanto una nuova rivista, "Strumenti critici", fondata e diretta da Maria Corti, Cesare Segre, D'Arco Silvio Avalle, Dante Isella. Le nuove metodologie scientiste venivano illustrate e diffuse con il fervore e quasi con l'intransigenza che avevano contrassegnato, non molto tempo prima, certe affermazioni della critica più ideologicizzata. L'elogio della struttura appariva sancito e quasi salmodiato in forma di duetto da Segre e la Corti, curatori del volume polifonico I metodi attuali della critica in Italia e protagonisti di un dibattito a due in coda al libro. La critica semiologica, la cui trattazione nel volume era affidata a Umberto Eco, veniva intesa, come ribadiva Segre nel consuntivo finale, in una accezione particolare, "tale da poter unificare in sé, in quanto momenti diversi e successivi della semiosi operata dallo scrittore, i vari metodi" di cui si trattava nel volume. L'applicazione della semiologia alla critica letteraria avrebbe, in altre parole, rese fertilmente comunicanti tra loro le varie prospettive metodologiche nell'analisi del testo: il risultato sarebbe stato una sorta di atto critico totale. Senza nessun pregiudizio, secondo una "feconda riflessione" della Corti, per l'eventuale critico-scrittore, visto che "la tendenziale scientificità dei metodi non dà alla critica uno statuto scientifico, anzi le lascia intatta la mirabile natura di atto squisitamente artistico".

Nonostante queste rosee previsioni e le conseguenti affermazioni teoriche e applicazioni pratiche, soprattutto di Segre, destinate a estendersi nel tempo, la critica strutturalistica e semiologica era in realtà già in crisi alla fine degli anni Settanta e non troverà molto spazio in questo libro. I risultati effettivi erano abbastanza modesti da giustificare prese di posizione severe. I libri che si salvano e torniamo a rileggere nell'enorme produzione di quello che George Steiner ha definito in Vere presenze "discorso secondario", non sono molti e nessuno classificabile, quanto al metodo, nella nouvelle vague strutturalistico-semiologica. O, piuttosto, nessuno veramente classificabile, se non nella propria essenza originale.


Si comincia, ad apertura di decennio, con tre libri, molto diversi tra loro, ma di grande importanza critica, nel senso più pieno e forte della parola, che tende ad assorbire e rendere quasi tautologico l'aggettivo "militante": Varianti e altra linguistica (1970) di un illustre veterano degli studi filologici e stilistici come Gianfranco Contini; Il personaggio uomo di Giacomo Debenedetti, primo e più importante anello, assieme al Romanzo del Novecento del 1971, di una lunga catena di scritti postumi; Mnemosine, parallelo tra la letteratura e le arti visive (1971) di Mario Praz, orchestrazione sinestetica, da allora purtroppo mai più ristampata, di motivi, temi, forme attraverso le varie arti. Nello stesso anno, nella raccolta di saggi I Fantasmi dell'opera, probabilmente il suo capolavoro (due anni dopo, un altro libro fondamentale, La caduta della luna), Giovanni Macchia insegue le forme cangianti, i paradisi caleidoscopici attraverso i quali la letteratura esprime il proprio mito teatrale e si riconcilia con la sostanza proteica della vita.

Il 1976 è l'anno del Molière di Cesare Garboli, un libro eccentrico, inusuale, che restituisce alla contemporaneità un classico di tre secoli prima, mai veramente compreso e metabolizzato dalla cultura italiana, incrociando e fondendo più generi letterari e traducendo l'analisi scientifica nella diagnosi di mali profondi e di strategie di potere che ci sono oggettivamente contemporanei. Tre anni dopo, è il momento di un libro postumo di Pasolini, Descrizioni di descrizioni, una raccolta di recensioni che si trasforma in un libro tutto in prima persona, capace, al di là del valore delle opere di cui si parla, di appassionare il lettore, in cui, come fu osservato da Gianfranco Contini, si realizza "l'ultima perfetta occorrenza dell'elzeviro letterario".

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7. Tra il libro e la vita: Alfonso Berardinelli

Alfonso Berardinelli, dopo la monografia giovanile su Fortini, del 1973, presenta al lettore una raccolta di saggi, Il critico senza mestiere (1983), che costituisce un discorso sulla letteratura, e sul suo reciproco solidale, la critica, tra i più acuti che siano stati tentati nell'ultimo ventennio del secolo. Alla fine degli anni Settanta, mentre appare completamente sgretolato un nesso – poesia e rivoluzione – che aveva acceso i dibattiti negli anni vicini al Sessantotto, si comincia a prendere coscienza dei più vari e variopinti "effetti di deriva" ideologici. Sebbene i fortilizi della cosiddetta critica marxista, soprattutto in ambito accademico, appaiano a uno sguardo superficiale ancora saldi e agguerriti, la fiducia in un "effetto politico" del lavoro letterario si avvia a un irreversibile declino.

Non si sa bene che cosa debbano fare rispettivamente lo scrittore e il critico, rispettivamente protagonista e deuteragonista d'ogni creazione letteraria. Il terrorismo fu forse tra i responsabili, almeno in Italia, della diffusione di una nuova forma di "assenza", non più platonica, mistica e quintessenziale come quella che aveva contraddistinto gli adepti della poesia pura negli anni Trenta, ma tecnologica, scientista, non priva di aspetti di giocoso bricolage, al di là delle definizioni e pratiche sussiegose. "Negli ultimi anni s'è fatto avanti lo strutturalismo", annunciò Cesare Segre, che ne sarebbe stato, assieme a Maria Corti, uno dei corifei, a metà degli anni Sessanta. Spettò poi a Maria Corti definire Strumenti critici, la rivista attorno alla quale si riuniva la schiera sempre più folta degli "scienziati della letteratura", addirittura un'espressione di militanza.

"Militare" poteva dunque consistere nella esplorazione dei livelli semiologici del testo, nell'individuazione delle funzioni, delle loro interazioni reciproche: s'era finalmente trovata la "chiavina", di buona memoria pascoliana, la "formula che mondi possa aprirti" ignota a Montale? Una parte cospicua della critica si mise a civettare con le strutture, così come fino a non molto tempo prima aveva trafficato con l'impegno, i carri armati, gli aeroplani della cultura, i pifferi cari a Vittorini, il realismo, la forza eversiva dell'avanguardia. Si smontavano e rimontavano testi, anche se non mancavano, sia pure tra ammiccamenti ambigui, malumori e borbottii di storicisti. Come risultato, alla fine del decennio Settanta, si ebbe il senso di una costipazione di specialismi, un "uso scientifico-amministrativo della letteratura", una pratica "di conoscenza per vivisezione e catalogazione". E il momento della teoria della letteratura, della teoria della critica, "delle nuove scienze del testo ipertrofiche e insieme tautologiche": la teoria della realtà sembrava sostituirsi alla realtà.

Al polo opposto, non, per parafrasare il Leopardi della Ginestra, il "verace saper", ma le "superbe fole" dei seguaci di Blanchot o dell'ultimo Barthes: il testo letterario come "spazio sacro" e "corpo d'amore", l'"infinito trattenimento" in cui "l'ozio si sacralizza acquistando tratti sacerdotali: forme di neoestetismo ora solenne ora ammiccante, in cui il critico è solo di fronte alle opere, e il rapporto con la tradizione, ridotta a deposito, è signorile ma deresponsabilizzato". Il critico senza mestiere costituisce un bilancio impeccabile, non abbastanza meditato, o forse rimosso se non saltato a pié pari, dalla saggistica contemporanea, di una situazione critica della cultura letteraria contemporanea che il tempo non ha fatto che confermare e, se possibile, peggiorare.

Dov'è finita, si chiede Berardinelli nel saggio eponimo che occupa il penultimo posto nel volume, l'immagine del lettore che è esistita per molto tempo entro di noi, il lettore che sapeva "interrogare e interpretare", "solitario e libero, padrone della propria privacy, ribelle e intrepido ricercatore di se stesso o membro di una perfetta società liberale, che ci viene incontro dalle pagine delle grandi autobiografie intellettuali", che sapeva "cosa fare dei libri e di se stesso"? Buona parte dell'opera di Berardinelli può essere considerata un tentativo di ritrovare e incrementare quell'immagine di lettore, di estrapolarne le prerogative e di adattare su di esse il genere tipico della modernità: il saggio, ovvero, come scrive nella Critica come saggistica, "il più mutevole e inafferrabile dei generi", quello che "regola i rapporti tra gli altri generi, si insinua tra loro e al loro interno, li alimenta e trae vantaggio dal loro splendore, se ne fa schermo imitandoli o pretende di indicare la strada da seguire".

Questa figura di saggista, nella sua articolazione letteraria, è il critico. In La critica come saggistica Berardinelli ne offre varie tipologie, da Spitzer a Sklovskij a Benjamin, Debenedetti, Barthes, personaggi diversissimi l'uno dall'altro, ma tutti contraddistinti da un comune elemento fondamentale, quell'esperienza di "invenzione e illuminazione epistemologica" senza la quale qualunque metodologia astratta si trasforma in una gabbia e la lettura in una mortificante ricognizione del già noto, se non dell'ovvio.

Il volume Tra il libro e la vita. Situazioni della letteratura contemporanea, uscito nel 1990, assembla una serie di saggi pubblicati in varie sedi, o letti in occasione di conferenze, nel corso del decennio. Berardinelli mette sotto osservazione il panorama della cultura italiana dagli anni Sessanta agli Ottanta, a partire dalla "potente ondata cosmopolitica" che la investe fra il 1965 e il 1967. Si comincia con Estremismo letterario: 1960-1980, uno degli scritti più intensi del libro.

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ANNI NOVANTA



1. Compiti troppo impegnativi per la critica letteraria?

Parlare di critica letteraria significa interrogarsi su una serie di questioni non soltanto letterarie. Soprattutto nel nostro paese, dove il dibattito culturale, e segnatamente a partire dal febbrile "laboratorio" sociale degli anni Settanta, si incontra con problematiche squisitamente "politiche"; non possiamo non ricordare l'influenza preponderante del marxismo, la critica dei poteri e delle istituzioni, l'interesse degli intellettuali per i movimenti di opposizione.

Prima di proseguire l'analisi della critica militante in Italia, affrontando gli anni Novanta, ci è parso dunque opportuno riassumere le questioni principali sottese oggi a qualsiasi discorso sulla letteratura:

– la possibilità dell'esistenza di un pensiero critico, sostenuto non più da un'ideologia ma da una percezione individuale e da una razionalità condivisa, vale a dire l'impegno a ritrovare le ragioni di una possibile rivolta non sulla base delle grandi narrazioni ma dentro l'esperienza del singolo, dentro il suo disadattamento;

- il rapporto attivo con il passato, con la tradizione culturale: siamo ancora in grado di ascoltarla oppure è già diventata fast food, consumabile senza conseguenze la malinconica bacheca dove, secondo l'immagine di George Steiner, sono esposti violini Stradivari che nessuno sa più suonare?

– la capacità, da parte di una società come quella italiana, di descrivere se stessa in modo preciso e onesto.

Per riassumere ancora: quale idea, e utopia, di modernità può affiorare, sia pure indirettamente, dalla nostra critica letteraria degli ultimi decenni?

Si tratterà di una modernità dialogica, aperta, plurale e al tempo stesso fondata su individui autonomi, quale, secondo Giacomo Debenedetti, sarebbe connessa al romanzo? Ma il romanzo, come sappiamo, è un genere tradizionalmente poco congeniale all'Italia: già nel 1840 Carlo Cattaneo sul "Politecnico" osservava che "nel paese della bella lingua... una pagina di romanzo è un lavoro di più astrusa ragione". Non a caso ho citato riviste italiane tra Sette e Ottocento: come sottolinea Francesco Muzzioli, nelle Teorie della critica letteraria (Carocci, 1994) proprio "Il caffè" o la "Frusta" – al contrario del più affabile e neutrale "Spectator" dell'inglese Joseph Addison – hanno interpretato la figura del critico letterario in senso assai combattivo, "come impegno non arreso ai gusti prevalenti e pronto a schierarsi controcorrente".

Certo da allora il paesaggio appare fortemente mutato. Dentro una comunicazione sociale basata sui tempi veloci della pubblicità e dello zapping, l'esercizio stesso della lettura, con la sua distanza e lentezza, "mantiene viva un'ipotesi di razionalità, di coscienza critica e civile", e si tratta della razionalità moderna "sorta dal seno dell'umanesimo della parola". Ma, di fronte al declino dell'umanesimo e alla crescente marginalizzazione della letteratura all'interno di una cultura perlopiù visiva e mediatica, proprio il critico è chiamato a svolgere una funzione storico-antropologica, in quanto "addetto alla memoria selettiva della civiltà".

Critici custodi della memoria e della civiltà? Non vorremmo che le nuove generazioni italiane di critici fossero intimorite da compiti tanto impegnativi. Ma fatalmente qualsiasi critica, impegnata ad argomentare giudizi di valore, contribuisce di fatto a configurare una "civiltà" umana auspicabile. Aspetto che riguarda anche la questione della nostra latitante identità nazionale. In Italia, come osserva tra gli altri Ernesto Galli della Loggia, si ha difficoltà a combinare la modernità con i materiali storici della nostra identità: la modernità italiana "non è capace né di superare né di risolvere in sé il passato, ma si sovrappone semplicemente ad esso, vi si mischia goffamente". Inoltre, se la letteratura viene emarginata nella vita civile, da un altro punto di vista essa ha "stravinto". Serve infatti più che mai a infiorettare parassitariamente i discorsi di politici, economisti, filosofi, architetti, giuristi, biologi... Nel suo La critica letteraria del Novecento (Il Mulino 2002) Alberto Casadei osserva che già da vent'anni la teoria letteraria ha perso incisività nel dibattito culturale, trovando però inaspettato credito presso le altre discipline, poiché tutto appare riportabile a una comune tendenza narrativa. Come già profetizzato da Nietzsche, il mondo diventa favola, anzi "narrazione", e in questa veste appare particolarmente docile. La letteratura dunque ha "vinto", ma depotenziandosi.

Gli anni Novanta costituiscono per la critica militante quello che gli anni Ottanta erano stati per i giovani narratori. Nel corso del decennio, infatti, accanto a un revival di filologia e storiografia, una "nuova critica" sembra consolidarsi e prendere piena coscienza di sé, intrecciando un dialogo più o meno esplicito con alcuni maestri, non soltanto italiani. Escono i primi bilanci sistematici e le prime storie letterarie rivolte alla nuova narrativa italiana, con la definizione di mappe e tendenze, con la messa a punto di ipotesi interpretative più generali.

A conferma di una tendenza che poi avremo modo di documentare meglio, verso la metà del decennio esce la raccolta di saggi curata da Fulvio Panzeri I nuovi selvaggi. Le condizioni del narrare oggi (Guaraldi 1995), in cui la nuova critica sembra scavalcare la generazione precedente – neoavanguardisti e semiologi – per rivendicare un rapporto ravvicinato con modelli più lontani. Questa almeno l'intenzione programmatica di Panzeri, assai vicino a giovani scrittori come Pier Vittorio Tondelli e Claudio Piersanti che hanno segnato l'emergere della nuova narrativa negli anni Ottanta: il libro nasce del resto da un incontro tra nuovi critici e nuovi narratori del settembre del 1995. Nell'introduzione Panzeri esprime una richiesta di "linguaggi forti, alternativi ai modelli della bella scrittura o della sequenza narrativa facile", di libri che svelino la propria nudità emozionale, benché "imperfetti". Ma soprattutto, al termine della sua requisitoria propone una critica dei "senza potere", lontana dai Palazzi e a stretto contatto con i libri, e chiama a propri maestri Testori, Fortini e Carlo Bo.

A questo punto, sembra opportuno precisare che questo excursus sulla critica degli anni Novanta è dedicato alla critica militante in rapporto alla narrativa. Non che non siano uscite importanti riflessioni sulla poesia contemporanea. Ma, come osserva Matteo Marchesini, la poesia italiana recente sconta, più ancora di altri generi, una desolante assenza di critica: i risvolti di copertina di libri di poeti esordienti firmati da critici autorevoli assomigliano "a un favore d'amicizia", il canone sembra fatto solo dall'editoria, e proprio la mancanza di verifiche e di qualsiasi "responsabile" controllo critico genera una situazione asfittica.

Benché Internet estenda per certi versi il numero di lettori e rilanci la scrittura (una "scrittura secondaria", secondo Tomas Maldonado), la letteratura appare penalizzata nella comunicazione contemporanea. Come recuperarne la necessità nell'epoca digitale? Come bussola per orientarci meglio nella selva contemporanea di messaggi, codici, forme dell'immaginario? Ma forse è in gioco qualcosa di più sostanziale del poter disporre di un passepartout semiologico: occorrerebbe chiederci se siamo ancora in grado di riconoscere il valore della tradizione culturale, operazione preliminare a qualunque rilettura critica.

Siamo ancora capaci di assumere la letteratura non come deposito inerte di narrazioni ma come interrogazione che preme con urgenza su di noi, che può rivelarci qualcosa di essenziale: su noi stessi, sul nostro destino, sul nostro paese? Ceserani metteva in evidenza, alla fine del decennio, lo "stato di depressione" della critica - stanchezza, mancanza di vera passione conoscitiva, indifferenza a questioni di teoria, mediocre qualità di scrittura, crisi di facoltà umanistiche e insegnamento letterario – imputabile fondamentalmente alla trasformazione della letteratura in merce e, parallelamente, della critica in asettico supermercato delle metodologie.

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15. La critica è il critico

La figura di Geno Pampaloni è tra quelle che sembra impossibile "confinare" in un solo decennio: per questo, dopo averlo analizzato nell'ambito degli anni Ottanta, torniamo ora a parlarne.

Pampaloni ci sembra cruciale non solo per l'infallibilità del gusto, ma perché, nella sua attività di "critico giornaliero" sul "Corriere della sera" e poi sul "Giornale", permette di ridefinire funzioni e compiti della critica militante: attitudine, partendo da un libro, a disegnare un ritratto dell'autore e di un'intera epoca storica; insofferenza alle questioni teoriche e robusto senso concreto-empirico; capacità di costruire frammenti illuminanti di storia letteraria; assimilazione poco sistematica ma efficacissima della stilcritica all'interno di un discorso che privilegia gli aspetti tematici ed esistenziali, assumendo il libro non come pretesto ma come "occasione"; e poi, come già si è detto, l'arte suprema del florilegio, del prelievo dal testo, come unica indicazione di metodo, la possibilità data al lettore di una verifica minima dell'interpretazione attraverso la citazione ad hoc. Parlando di Pancrazi Pampaloni ci propone un involontario autoritratto:


"Passò attraverso i labirinti letterari senza mai smarrirsi (...) scrivendo sempre di uomini, mai di tendenze; ritratti, mai teorie; giudicando di poesia e d'arte, raramente di poetiche [...] (cit., p. 108) la critica è il critico (ivi p. 113)".

Si affaccia inoltre nelle pagine di Pampaloni l'ipotesi di una modernità italiana inquieta, ansiosa, rivolta a un passato pre-borghese. In un ritratto di Montale si sofferma sul tipo di laicità che caratterizza il poeta: non "la religiosità laica" storicistica alla Croce ma una "laicità in cui irrompe, a forzarla, di soprassalto, e non già per consolazione ma per allarme, il sentimento religioso, la nozione o il segreto di un valore che supera il tempo". Quando definisce Montale un "laico che religiosamente crede negli assoluti", pensiamo stia parlando di sé. Disperato e al tempo stesso aperto al possibile. Disincantato ma fermo nell'attesa. Pur sapendo come la verità (l'essere, il tutto, il nulla) che balena all'improvviso e attraverso segni oscuri, dilegui subito. E così la religione di Soldati gli appare come la "religione di un mondo abbandonato da Dio a se stesso, un Dio scomparso". Mentre nella Morante individua l'idea di persona come qualcosa di sacro e intangibile, della creatura non interamente riducibile alla storia. Ecco, qui sembra profilarsi una visione laica della condizione umana, che però recupera una verità metafisica anche solo come bagliore e rivelazione inafferrabile, presentimento, certezza sempre labile.

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16. Non siamo solo macchine...

Paradossalmente, l'introduzione delle macchine nella critica letteraria ha portato alla fine di qualsiasi sogno scientista. Nel senso che le macchine possono svolgere benissimo alcune operazioni meramente quantitative, ma tutto quel che non può essere fatto dalle macchine acquista d'ora in poi un valore inestimabile.

Il saggio di Alberto Cadioli Il critico navigante affronta in modo puntuale il problema della trasformazione della letteratura a opera delle nuove tecnologie: digitalizzazionè o mediatizzazione. Fin dalle prime pagine si ricorda come il critico navigante – il critico informatizzato – deve per forza appoggiare il proprio monitor, la tastiera, il computer su uno scrittoio che è retaggio del passato: il suo sapere tecnico deve fondarsi su una civiltà che affonda nel passato. È vero, il critico navigante dispone di molti più strumenti e di molte più possibilità di lettura dei testi, ma certo questi strumenti non si sostituiscono alla propria imprescindibile visione individuale, intellettuale, critica, emotiva... Senza dire che il tempo della scrittura è quello della riflessione, mentre l'ipertesto – ovvero una struttura non lineare, non sequenziale composta da testi diversi – offre soprattutto informazioni.

Come ci avverte Massimo Riva, autore di un ipertesto sul Decameron (Decameron Web), con le nuove tecnologie possiamo esplorare meglio qualsiasi opera, trovare – soprattutto insieme – tutti i collegamenti possibili, inventare percorsi trasversali e reticolari ecc. La cultura però non è solo collaborazione e dialogo di gruppo, come pure auspica Riva, ma anche solitudine e silenzio dell'individuo, che ama cercarsi da sé quei percorsi trasversali e imprevedibili.

La questione decisiva è capire se tutta la cultura può ridursi a informazione – per quanto accurata – o se invece è cognizione del dolore, fatica della comprensione, memoria personale, rischio dell'interpretazione... Il critico-filologo che studia le componenti linguistiche e stilistiche di un autore, secondo la "stilometria" (occorrenze lessicali e sintattiche, lunghezza di parole, e di frasi, figure retoriche...) può essere aiutato dalle nuove tecnologie "capaci di immagazzinare una grande quantità di informazioni". Ma si servirà di queste informazioni per confermare o smentire ipotesi interpretative nate precedentemente.

Si può formalizzare elettronicamente tutto — ha precisato il grande studioso di letteratura romanza Aurelio Roncaglia — tranne l'interpretazione che è "intuizione soggettiva" oltre che "referenzialità oggettiva". Né si può usare il computer per elaborazioni non quantitative. Il maggiore studioso americano di queste tematiche, George P. Landow, ci assicura che ipertesto e teoria letteraria si sono avvicinati reciprocamente. Pensiamo alla critica di Derrida al pensiero logocentrico: una libertà assoluta del lettore che può interpretare il testo come meglio crede, senza riconoscere l'autorità di un autore. Un fantastico "macrotesto personale" che ciascuno si crea navigando fra i testi e che assomiglia allo zapping dello spettatore televisivo. Lo stesso Cadioli osserva che quel continuo passaggio tra testi sembra "dettato più dalla coazione al gioco dei rimandi che dalla meditazione suggerita dalla scrittura", dall'esperienza vissuta.

Passando poi alla trascrizione digitale dei classici della letteratura, queste pagine ci invitano a considerare che le opere compaiono in rete quasi sempre prive di qualsiasi riferimento paratestuale (tipo di edizione e di collana, note dei curatori, prefazioni, riconoscibilità di un progetto editoriale...), strumento di bordo indispensabile, aumentando in tal modo il disorientamento degli utenti. Il testo entra in rete perdendo ogni forma tipografica. Una novità tecnologica che sembra garantire a tutti — democraticamente — l'accesso alla letteratura conferma invece le differenze sociali, approfondendo la differenza tra chi già dispone di strumenti di bordo e chi no.

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Pagina 126

21. Critici-mondo

Oggi la saggistica letteraria si trova in una fase di rilancio ma perlopiù in Occidente, mentre altrove si resta saldamente ancorati alla fiction. A noi occidentali, sovraccarichi di coscienza storica, non resta altro che commentare il mondo. La stessa monumentale storia del romanzo in più volumi ideata e curata da Franco Moretti assomiglia a un epicedio sul genere romanzesco. Certo, quest'opera tiene conto delle esperienze letterarie più diverse, anche "ai confini dell'impero", ma non sarà un caso che sia stata pensata "nel centro dell'impero", e come riflessione terminale su un genere che proprio qui sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva. Del resto il saggio di Moretti per La storia d'Europa di Einaudi concludeva che un continente che si innamora di Kundera merita di fare la fine di Atlantide.

Ma la critica stessa non ha in parte contribuito a questa malinconica fine? Qual è infatti l'idea di letteratura di Moretti? Ci viene incontro – minacciosamente – come un'arpia, che seduce e insieme ghermisce in un abbraccio mortale, dato che la sua unica funzione è farci adattare alla società, organizzare il consenso nel modo più soft, rendere gestibili i conflitti personali. Si potrebbe obiettare che la letteratura nel corso dei secoli ha anche alimentato il "dissenso" silenzioso di milioni di individui, la loro refrattarietà al sistema sociale, le loro più segrete e indocili utopie. Anche perché quell'immagine dell'arpia ispira una critica impegnata soprattutto a "fare a pezzi" i testi letterari spiegando "scientificamente" come funzionino e a quali bisogni sociali rispondano.

Moretti è certamente uno dei nostri saggisti più originali. Il suo Romanzo di formazione, pubblicato nel 1986, si presentava come un saggio storico-letterario di straordinaria limpidezza – nato da un rovello molto personale: il bisogno di confrontarsi con una idea di maturità nel momento in cui si usciva dalla giovinezza – che ricostruiva una stagione intera del romanzo e mescolava l'analisi delle retoriche narrative alla sociologia del quotidiano. I libri di Moretti configurano un capitolo importante della storia delle idee in Occidente, eppure l'idea di letteratura che sottende la sua "critica dell'ideologia" sembra negare quella humanitas, quell'abbandono conoscitivo, di cui sempre si nutre ogni lettura di testi.

L'applicazione del darwinismo alla letteratura, il vibrante elogio della modernità, vista come conflittualità produttiva (l'Europa policentrica sognata da Guizot e non l'immobile Europa-totalità di Novalis), rischia di trascurare chi viene liquidato nel conflitto, chi resta senza voce e senza visibilità. Eppure la "geografia del romanzo" – la più bella "invenzione"critica di Moretti – corregge il tiro e riconquista al nostro sguardo non solo i classici del canone e i best-seller ma anche libri e generi dimenticati. Benché nata come scienza militare, la geografia può oggi fornirci "buone carte" del territorio, dove un romanzo minore ci svela all'improvviso la sua relazione con la verità abbagliante di un'esperienza limitata nello spazio.

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Dove va la critica?
di Giuseppe Leonelli



Dove va la critica? Ogni tanto questo interrogativo rispunta, fatto proprio da qualche pattuglia, più o meno sparuta, di questionanti e rimbalza sulle pagine dei supplementi letterari, sugli schermi di qualche televisione locale. Si tratta di discussioni che lasciano il tempo che trovano, perché sempre uguali a se stesse e condotte per lo più in astratto. Piuttosto che interrogarsi fino alla noia su che cosa è e che cosa deve o dovrebbe fare la critica, sarebbe interessante vedere chi siano e che cosa valgano i critici in Italia. Questo libro è un tentativo, articolato sullo sfondo di due, quasi tre decenni, di rispondere a tale domanda che difficilmente, per le sue ovvie, scomode implicazioni, viene fatta.

Indubbiamente esiste ancora in Italia una cultura militante, e ha dato, nel passato anche recente, frutti splendidi; ancora attiva in questi anni post-plumbei, anni di fango o, se si preferisce, anni-pattumiera, in cui si sfalda e affonda un paese sempre più inesistente, popolato di demoni queruli e meschini, di degrado scolastico, giornali per lo più illeggibili, accademie cimiteriali. Un paese di racket politici, infantili culti della personalità, giustizialismi di massa, con tribuni della plebe vocianti sulle piazze, parlamentari inquisiti o addirittura pregiudicati, irriducibili, pronti a tutto nell'attaccamento al seggio, risse televisive, penne in vendita o in locazione, maleducazione dilagante. Viviamo in una società in cui la prossima eclisse dell'intellettuale, tema di suggestione francofortese, affacciatosi a fine anni Cinquanta in Italia nel libro eponimo di Elémire Zolla, appare ormai un dato di fatto, d'una ineluttabilità e concretezza quasi tangibile. Come potrà esistere la critica, attività fondamentale per l'esercizio dell'intelligenza, e non solo di quella letteraria, in un paese in cui nessuno, presto, sarà più in grado di dare un giudizio motivato e provveduto su alcunché?

Si scorrono le varie fasi di svolgimento della cultura italiana del dopoguerra come un vecchio album di fotografie, residui d'un tempo che appare trascorso per sempre. Ne risulta un "come eravamo" cui ci accostiamo con un misto di curiosità e tenerezza. Vediamo Vittorini, nelle istantanee intorno al 1945, sorpreso a ritmare tiritere mistico-giaculatorie sul "Politecnico", costruite con gli stessi materiali verbali di Conversazione in Sicilia, sul tema, su cui oggi sorridiamo, quasi increduli che possa davvero essere stato posto, della Cultura al potere. Che dire, quanto alle polemiche letterarie, degli apostoli di un realismo che oggi non si sa bene più che cosa sia e di cui nessuno parla, o saprebbe parlare? Erano anni di "passione", parola-chiave di un passato più lontano della luna, allorché la letteratura si raccoglieva su se stessa per uscire da sé, illudendosi di poter servire a fecondare il corpo della realtà, far "parlare le cose". In un'altra foto, Calvino, in tenuta da cacciatore, insegue un ormai improbabile leone, il "midollo del leone" lungo le sponde del mare immobile dell'oggettività; in un'altra ancora, Pasolini medita assorto su una tomba su cui sventola "uno straccetto rosso", mentre intorno spande una "mortale pace" un maggio piovoso, autunnale e sembra per sempre esaurito "tra le macerie... il profondo/e ingenuo sforzo di rifare la vita". E che dire del Gattopardo che non si poteva e non si doveva scrivere? Delle dimissioni del romanzo, presentate e ritirate più volte in un periodo di rigoglio del genere che oggi neppure possiamo concepire? E la letteratura da rifiutare, intorno al Sessantotto, in nome della stessa letteratura? Eccoci nei decenni Ottanta e Novanta, oggetto di questo libro: anni forse, per citare versi del più caro, più dolce poeta del mezzo secolo, Attilio Bertolucci, di pura "sopravvivenza", in cui "durano a lungo/questi crepuscoli, come d'estate che mai, mai/viene l'ora della lampada accesa, di quelle falene irragionevoli che vi sbattono contro". Gli anni in cui ci lasciano Montale e Calvino, Moravia, Elsa Morante, la Ginzburg, Fortini, Giovanni Macchia. Ma restano tra noi, ancora pienamente attivi, Luzi, Citati, Garboli, Pampaloni e tutti gli altri, maestri veri e allievi tenaci, ora anch'essi, quest'ultimi, uomini maturi, quasi vecchi, ancora custodi della serriana religione delle lettere, che è religione della parola, l'atto istitutivo e conservativo della nostra umanità.

Per chi ha conosciuto momenti migliori, il nostro paese appare oggi quasi irriconoscibile: in crisi l'esercizio delle arti, le attività dello spirito, la stessa lingua in cui ci esprimiamo, tutto quello che rende la vita di una nazione degna di considerazione e, addirittura, degna di essere vissuta. L'Italia sembra viaggiare a ritroso, verso quella definizione a suo tempo coniata da un famoso cancelliere asburgico, che la concepiva solo come espressione geografica. Quasi tutto quello che fu bello e nobile fluttua in un lugubre gossip quotidiano, chiacchiera infinita che assorbe e dissolve ogni cosa. Siamo a quel paese senza, diagnosticato da Alberto Arbasino: ricordiamo? paese "senza memoria, senza storia, senza passato, senza esperienza, senza conoscenze, senza dignità, senza realtà", per arrestarci quasi subito nell'impressionante lista di epiteti che apre il volume; e aggiungere, di nostro, "senza speranza"; perché, per dirla con il Leopardi della Ginestra, non c'è speranza per un paese, in cui vengano meno "verace saper, l'onesto e il retto/conversar cittadino,/e giustizia e pietade".

Un paese anche senza letteratura, perché il fiore della poesia, quello che fiorisce tra "afflitte fortune", come la ginestra leopardiana, mandando al cielo un dolcissimo profumo, "che il deserto consola", nasce anche sotto il vulcano ribollente, nell'assenza di cibo, nella prostrazione fisica, nella paura, ma non, per dirla con un altro grande, dove "sien ministri al vivere civile/l'opulenza e il tremore".

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La letteratura "deviazione" inutile?
di Filippo La Porta



Nella lingua inglese si distingue tra personal essay – soggettivo, antisistematico, digressivo (che inizia con Montaigne, anche se ha qualche antecedente nel mondo classico) – e formal essay – accademico, impersonale (che esordisce con Bacone). Il primo si distribuisce poi nei sottogeneri del diario di viaggio, del pamphlet, della memorialistica, della meditazione morale, della satira e del reportage. La critica letteraria ha sempre oscillato tra personal essay e formal essay, tra studio letterario e saggio. Però la critica "militante", come abbiamo visto fin qui, è imparentata più da vicino con la tradizione eretica della saggistica personale, non specialistica, spesso autobiografica, legata alla scrittura come conversazione, esposta al rischio dell'errore. I critici emersi negli anni '90 non discutevano solo di temi letterari e opzioni stilistiche. La loro battaglia non era tanto in nome di una poetica quanto di una utopia morale. E qualche volta – non sempre – sono riusciti a trovare la lingua per parlare nuovamente della nostra società e del nostro paese, di se stessi e della mutazione dell'esperienza, dopo l'esaurimento delle grandi narrazioni ideologiche. Hanno saputo partire dall'"occasione" specifica che sono i testi letterari per interrogare ancora la nostra coscienza, per cercare di capire il mondo contemporaneo. Perciò la critica letteraria destinata a durare è quella che da una parte si fa antropologia (riflessione sulle maschere eterne della nostra tradizione, sguardo problematico sulla mutazione contemporanea) e che dall'altra appartiene alla saggistica, e diventa cioè genere letterario, capace di darsi uno stile. Anche la migliore critica militante, che ancora si esercita sulle pagine dei nostri, è quella capace — pur nella adesione al proprio oggetto — di uno sguardo più distanziato e di una qualità della scrittura che la trasformi in oggetto meno effimero (segnalo almeno Giovanni Pacchiano, Ermanno Paccagnini, Paolo Di Stefano e lo scrittore-critico Luca Canali).

La critica, fedele al suo etimo, è sempre in "crisi" (come ha sottolineato Paul de Man), proprio perché è destinata a mettere sempre in crisi i soggetti da essa coinvolti: il critico, il lettore, l'autore. Il suo è un sapere incerto, "traballante" (Cortellessa), di invenzione personale, non garantito da nessuna teoria o metodo scientifico o filosofia della storia. Bisogna però capire se la "crisi" attuale sia produttiva di risultati interessanti.

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