Copertina
Autore Filippo La Porta
Titolo Maestri irregolari
SottotitoloUna lezione per il nostro presente
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2007, Nuova Cultura 164 , pag. 154, cop.fle., dim. 13x19x1 cm , Isbn 978-88-339-1807-5
LettoreAngela Razzini, 2008
Classe critica letteraria
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


 11 Introduzione
    Dalla caverna si esce uno alla volta

    Ad-mirari, 11
    Critica dell'esistente e amore per la realtà, 16
    Il limite, 17
    L'inganno del futuro, 18
    Il bisogno di ripensare la nostra civiltà, 19
    Fratelli maggiori, 20
    Irriducibilmente individui, 21
    Mistici della democrazia (intermezzo olandese), 22
    Educatori, non indottrinatori, 23
    Religiosità senza fede, 24
    Un agire poco visibile, 26
    Anticomunisti e poco affidabili, 28
    Saggisti, scrittori senza genere e senza mestiere, 30
    La fuoriuscita, 31


    Maestri irregolari


 35 1. Le evidenze del mondo.
       Nicola Chiaromonte (1905-1972)


    Intellettuale socratico, 35
    La realtà è quella «forza di cui ignoriamo tutto», 36
    Inappartenente, 37
    Ciò che rende sopportabile il mondo, 38
    Antitaliano, 39
    I «pretesi sovvertitori», 40
    La resistenza dell'individuo, 41
    Un «paradiso di ricambio», 42
    Una normalità per tempi anormali, 44
    L'esperienza, 45
    Niente di esterno può contaminare, 45
    Quale coerenza possibile?, 46
    Nichilismo e malinconia, 46

 48 2. Decenza morale.
       George Orwell (1903-1950)

    Dire la verità, 48
    La gente comune, 50
    Il diritto di essere lunatici, 51
    Il vocabolario della moralità, 52
    Pacifisti di stagno, 54
    Uniformità allegra, 55

 57 3. Basta con la grandezza storica!
       Simone Weil (1909-1943)

    Oltre la vulgata, 57
    Una diversa idea di grandezza, 58
    Individuo e condivisione, 59
    Bene è dare più realtà all'altro, 6o
    Elsa Morante weiliana, 62
    Un'anima gemella: Rachel Bespaloff, 63
    La monotonia del male, 64
    «Meravigliosa bellezza del creato», 65

 67 4. Amore per la vita e disperazione dell'esistenza.
       Albert Camus (1913-1960)

    Fraterno, 67
    Rivolta e misura, 68
    Essere dilettanti, 69
    Futura umanità, 70
    Distogliere lo sguardo, 71
    Ultimi uomini o già mutanti?, 72
    Un identico furore, 74
    L'oltranza della felicità, 75
    Conservare ciò che conta, 77

 79 5. L'avventura di un cristiano eretico.
       Ignazio Silone (1900-1978)

    Semplicità, 79
    Doppio esilio, 80
    L'innocenza perseguitata, 81
    Scommettere la vita su qualcosa, 82
    In ostaggio, 83
    La legge del mandorlo, 84
    Un manifesto mancato, 85
    Inattuale, 86

 88 6. Cavaliere scettico.
       Arthur Koestler (1905-1983)

    Il segreto della freccia, 88
    Il personaggio più riuscito, 89
    Lo yogi e Rossana Rossanda, 90
    Decoro, 93
    Intermezzo letterario, 94
    Costretti alla felicità, 95
    «In nome di una mezza verità», 96

 98 7. L'autonomia perduta.
       Carlo Levi (1902-1975)

    Monumentum, 98
    Critica della politica, 99
    Autonomia, 101
    Civiltà contadina, 102
    Etica e ritmo dell'universo, 103
    Un romanzo sperimentale, 104
    Il riccio liberatore, 105
    Influenze, 106
    Predilezioni, 107
    Allergici e Diabetici, 108

110 8. Pensare da soli.
       Hannah Arendt (1906-1975)

    Letture, 110
    La rivoluzione guarda al passato, 111
    Limiti della politica, 112
    Quale normalità, 114
    Una questione di gusto, 115
    Agire contro fare, 116
    Immaginazione contro fantasia, 117

118 9. Non educare al successo.
       Christopher Lasch (1932-1994)

    Utopie genitoriali, 118
    Destra, sinistra e altri scompigli, 119
    Patologia sociale, 120
    Ancora sulla normalità negata, 121
    Le nuove élite sono di sinistra?, 122
    Egoismo illuminato, 123
    Consonanze, 124
    Un mito che può servirci, 125

127 10. Nemico della realtà, mai.
        Pier Paolo Pasolini (1922-1975)

    Il destino del corvo, 127
    Una rassegnazione eversiva, 128
    Ossimori, 129
    Aveva ragione?, 130
    Il presente e il reale, 130
    La lotta per la democrazia reale, 131
    La borghesia come malattia, 132
    Incompatibilità, 133
    Orestiade quotidiana, 134

135 11. Unplug: via dal consumo.
        Ivan Illich (1926-2002)

    Girare su se stessi, 135
    Contro la diagnosi, 136
    Siamo all'altezza del suo radicalismo?, 137
    I don't care, 139
    Il vernacolaree le sue strettoie, 140
    Allievi, 142
    Una austerity gioiosa?, 143

145 Riferimenti bibliografici

151 Indice dei nomi

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 11

Introduzione

Dalla caverna si esce uno alla volta


                                 È eretico chi ha idee personali.

                                                Joseph de Maistre



«Ad-mirari»

A quindici anni, mentre il professore in classe insegnava Manzoni, leggevo di nascosto Marcuse e Sartre (anche capendoci poco). Autori dei quali non dovevo riferire a nessuno e che perciò ero disposto a riconoscere come maestri. La scuola mi annoiava ed esasperava, né mi dava alcuno stimolo intellettuale; e così ai doveri, alle piccole astuzie e ai riti scolastici contrapponevo la cultura. Sentivo che la cultura era dalla mia parte, dalla parte di chi si ribella, di chi non si conforma, mentre dall'altra parte c'era l'istituzione, il potere, la burocrazia, il dominio della menzogna. Percepivo la cultura ancora come qualcosa di sovversivo, mentre per un quindicenne di oggi la cultura si confonde in buona parte con l'ambiente circostante. Assomiglia a tutto il resto, è solo un consumo tra gli altri. Ne diffida.

Ma chi è un maestro? Cosa può insegnarci? Nella biografia di Ramakrsna, grande sapiente indiano dell'Ottocento, scritta da Christopher Isherwood, il maestro riesce a trasmettere davvero solo ciò che ha vissuto direttamente. E poi la sua azione non consiste tanto nel prescriverci qualcosa quanto nel mostrarci il limite. Ramakrsna, di fronte a una dichiarazione dell'allievo che aderisce alla natura non dualistica del cosmo (Dio è ovunque, dunque anche nella tigre, dunque dovrò abbracciare la tigre...) si limita a commentare. «Non esagerare» Il punto. nell'educazione. sta tutto lì: aiutare a capire dove si trova il limite oltre il «si esagera», oltre il quale cioè una verità si perverte in una menzogna, un comportarnento giusto diventa ingiusto.

Credo che abbiamo bisogno di maestri, anche se oggi tendiamo a pensare il contrario: e anzi l'idea stessa di maestro è divenuta sospetta, incompatibile con la democrazia di massa e con le sue retoriche dominanti. Nessuno vuole eleggere nessun altro a suo maestro: se ne sentirebbe sminuito! Eppure abbiamo bisogno di maestri, noi smarriti abitanti del terzo millennio, sradicati da ogni tradizione e desolatamente liberi di scegliere quella che più ci piace, orfani di tutte le ideologie. Abbiamo bisogno di maestri umili ed esigenti, in parte involontari, certamente «eretici» (nell'accezione di de Maistre, citato in epigrafe), che ci aiutino anzitutto a capire che cosa è reale e che cosa è irreale nella nostra esistenza. Vorrei proporre una costellazione culturale anche un po' disomogenea, ma non del tutto incongrua. Si tratta di alcune grandi figure di «irregolari» del secolo scorso - alcuni tra loro in contatto o in rapporto di amicizia e collaborazione -, che possono utilmente guidarci al presente millennio. Personaggi perlopiù eccentrici, poco frequentati nel dibattito culturale, salvo poche, eccezionali fiammate di interesse o l'esplodere di una moda effimera. Più citati e celebrati, in modo cerimonioso, che davvero letti. Forse perché poco utilizzabili, almeno in un senso immediato. Hanno vissuto - tutti - come individui, ostinati e indocili, proprio attraversando il Novecento, che è stato invece secolo dei movimenti, dei partiti di massa, delle ideologie collettive. Quando li leggo - infine - mi sembra sempre di ascoltarne la voce. Come se parlassero proprio a me, quasi in intimità.

Perché un libro dedicato a dei maestri nel momento in cui l'esperienza muta così vertiginosamente - con la tecnologia, con l'accelerazione delle nostre vite - da non essere quasi più trasmissibile? Per la prima volta nella storia dell'umanità i nipoti ne sanno più dei nonni e l'autorità stessa dell'esperienza è screditata. Eppure dentro la nostra modernità «liquida», dove tutto ciò che è solido è destinato a sciogliersi o svaporare, non intendiamo rinunciare del tutto alle nostre fragili fedi (laiche o religiose) in qualcosa che resta. E poi il presente, da solo, non riesce a giudicare e interpretare se stesso: per fare esperienza di qualcòsa abbiamo bisogno del passato, di na idea della verità, della bellezza, del bene con cui confrontarci. Se, per esempio, il rapporto di un nostro contemporaneo con Dante non è con un sopravvissuto ma con «qualcuno arrivato prima di lui» (Contini), maestro è chi, arrivato prima, ci chiede di raggiungerlo, anche se la via dobbiamo trovarla da noi.

Perciò ho pensato ad autori non proprio contemporanei ma abbastanza ravvicinati, che cioè hanno vissuto nel secolo scorso, senza spingermi oltre. Avevo bisogno di qualcuno che comunque avesse abitato, almeno in parte, nello stesso mondo in cui mi trovo, che avesse potuto intravedere la fase aurorale di fenomeni e processi che poi si sono dispiegati: società di massa, impoverimento dell'esperienza, secolarizzazione ecc. Sono, in un ordine non anagrafico (ricordo che il più vecchio è Silone, nato nel 1900, e il più giovane Lasch, nato nel 1932), ma che riflette la casualità di un percorso personale: Nicola Chiaromonte , George Orwell , Simone Weil , Albert Camus , Ignazio Silone , Arthur Koestler , Carlo Levi , Hannah Arendt , Chistopher Lasch , Pier Paolo Pasolini e Ivan Illich. Autori in qualche caso dimenticati o spariti dai cataloghi, o magari, come nel caso di Camus, conosciuti solo per una parte della loro opera. Avrei potuto indicarne altri, come Adorno o Isaiah Berlin, Kurt Vonnegut o Leonardo Sciascia, ma ho preferito limitarmi a quelle figure che la mia esistenza ha incontrato in qualche suo passaggio decisivo, dandomi la possibilità di reinterpretarla ogni volta ampliando un po' la prospettiva. Aggiungo che pur aspirando a comporre ritratti agili, sintetici, ho evitato ogni completezza e sistematicità, e in qualche caso ho messo l'accento su un'opera ritenuta secondaria ma che per me ha un valore particolare (per esempio, nel caso di Hannah Arendt,

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 35

I.

Le evidenze del mondo

Nicola Chiaromonte (1905-1972)


                            «Borghese» è colui il quale crede di essere
                  una volta per sempre al riparo dai colpi della sorte.

                                                     Nicola Chiaromonte



Intellettuale socratico

Confesso che Nicola Chiaromonte è il mio eroe. Un eroe comune, umile e riservato, che ritiene di dover partire volontario per la Spagna nella squadriglia aerea di Malraux, e che poi fugge dai nazisti emigrando in America da Casablanca nel 1941, appena un anno prima del celebre film di Michael Curtiz. E confesso che mi ha sempre fatto pensare, certo abusivamente, all'affascinante figura interpretata da Bogart nel film. Con Nicola Chiaromonte ritroviamo per intero il saggista come intellettuale critico, disorganico, impegnato a decostruire il potere, a smontare la cultura della forza, a demistificare gli idoli sociali, a ripensare – quasi titanicamente - le radici della nostra civiltà. In pieno '68 volle individuare la radice dei mali sociali - della quale partecipava però anche l'opposizione studentesca - nella cosiddetta «egomania» (gli innumerevoli studi sulla mentalità narcisistica sarebbero venuti solo più tardi). In lui ritroviamo l'individuo che decide di agire - senza alcuna enfasi - quando ne sente la necessità morale. Un intellettuale socratico, cui stava a cuore una moralità insieme personale e politica, come scrisse l'amica Mary McCarthy. Mi piace cominciare la mia galleria di maestri novecenteschi con Chiaromonte, per il quale filosofare è «la capacità di porsi domande». Perché con lui? Perché Chiaromonte, attraverso uno stile limpido, essenziale e aspro, a volte quasi autoumiliato (agli antipodi di Pasolini, altro grande saggista italiano della seconda metà del secolo, che aveva uno stile invece vibrante e poetico), guarda al presente tentando di rileggere l'intera cultura occidentale a partire dai greci. Non intende edificare un canone, ma ci mostra come sia possibile usare la tradizione, mettendola in contatto immediato con i problemi dell'esistenza contemporanea, individuale e collettiva. Ci spinge a «ritrovare ciò che è essenziale e ciò che non lo è». Uno sforzo ancora più urgente, nel momento in cui la cultura occidentale è ridotta a un museo decorativo o a un eccitante parco tematico. Così può citare Omero o Dante o Shakespeare per ragionare su di sé, sulla vita e sulla morte, sulle cure quotidiane, in modo onesto, a volte puntiglioso. Chiaromonte ci invita a una conversione alla semplicità delle cose, alla loro «vera natura», che sempre si sottrae a ogni pretesa di controllo. Il peccato mortale resta la hybris (la tracotanza), l'illusione di guidare il corso degli eventi, di controllare il fondo oscuro delle cose, di padroneggiare il mondo con le parole (delle quali si resta prigionieri). Che fare? L'individuo, pur accettando la propria impotenza, non deve rinunciare a fare tutto ciò che crede giusto, cercando di obbedire al ritmo della natura e delle cose. E può anche scoprire che sono reali tutti gli atti della sua esistenza che non hanno avuto effetti tangibili: incontri improduttivi, conversazioni apparentemente inconcludenti, amori non corrisposti. In Italia Chiaromonte è pressoché ignorato. Il meglio della nostra cultura novecentesca è difficilmente esportabile, per il suo linguaggio e per i suoi temi, mentre nel caso di Chiaromonte abbiamo un autore già attivamente «esportato» in altre culture: amico e sodale di Camus, ispiratore della rivista americana «Politics» nel dopoguerra, poi negli anni settanta letto in Polonia dai dirigenti di Solidarnosc, citato in Inghilterra dal maggior pensatore anarchico vivente, Colin Ward.


La realtà è quella «forza di cui ignoriamo tutto»

Per Chiaromonte il problema ultimo consiste proprio nel capire che cos'è la realtà, nel saperla riconoscere. Per lui la realtà è qualcosa che mette in relazione l'individuo non solo e non tanto con gli altri (con la comunità), ma «con l'insieme delle cose – Natura o Cosmo che lo si voglia chiamare». Tanto che se quello stesso individuo «non si riconosce sottomesso a un ordine che lo trascende», va considerato semplicemente «un mostro». E ancora, realtà è «la forza di coesione per cui il mondo, nel cambiare che fa di continuo, rimane continuamente fermo e durevole», è ciò che resta sempre, al di là di qualunque parola con cui vogliamo definirlo; è quella «forza di cui ignoriamo tutto» e che pure segna inesorabilmente il limite del nostro agire, della nostra ragione - e che in Tolstoj o nella tradizione greca e indiana coincide con il concetto del divino stesso. E infine della realtà è parte costitutiva «il sentimento del casuale, dell'aleatorio, dell'irrazionale». L'invito di Chiaromonte a tornare «all'immediatezza dell'esperienza», alle «evidenze prime del mondo», alle «evidenze naturali», è rivolto contro i falsi miti e le credenze alimentate dalle ideologie. L'adesione al reale non significa mai, nella riflessione di questo meridionalissimo e cosmopolita scrittore, accettazione supina del fatto compiuto, condivisione del dogma hegeliano per cui il reale è in sé razionale. Anzi, noi sappiamo che questo mondo «avrebbe potuto e potrebbe ogni momento essere altro da quello che è, e noi con esso». Per lui «necessario» non è un particolare stato di fatto, ma solo quell'ordine ultimo dell'universo da cui tutto dipende. Seguendo poi il suo itinerario attraverso la grande letteratura moderna apprendiamo la sua visione, mutuata da Tolstoj e Kierkegaard, «dell'individuo umano come di un essere infinitamente restio alla serie di eventi in cui si trova coinvolto perché in rapporto immediato e indissolubile con la natura delle cose». Potremmo anche dire che per lui reale è la vita quotidiana intessuta di pensieri e sentimenti, nella quale l'individuo fa esperienza concreta della sua libertà. E reale è altresì la verità - infrangibile - nascosta nel cuore di questo individuo (scrive nel primo numero di «Tempo presente»: «ci occuperemo più della verità che delle sue conseguenze»). Mentre irrealtà è la Storia, entro cui tutto ci sfugge, impastata insieme di caso e di necessità. E anche irrealtà è sempre la Teoria che vorrebbe incasellare l'esperienza.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 88

6.

Cavaliere scettico

Arthur Koestler (1905-1983)


            La sensibilità, la voglia di cercare ... sono attitudini
            che presuppongono una certa dose di frustrazione,
            né troppa né poca: una specie di moderata infelicità.

                                                     Arthur Koestler



Il segreto della freccia

Arthur Koestler un «maestro»? Lui, che è stato vagabondo per tutta la vita? Apolide, inappartenente, perseguitato e messo in carcere un po' da tutti, dai fascisti spagnoli ai democraticissimi inglesi? Una biografia erratica, costellata di sventure (i campi di prigionia), di avventure esotiche (la trasvolata dell'Artico sullo Zeppelin), di amori passionali e di fedi assolute – dal sionismo estremista al marxismo rivoluzionario –, tutte vissute con sincerità e poi abbandonate per coerenza. La sua figura ci sembra vicina alla condizione attuale del cittadino spaesato della globalizzazione, irrequieto perché «moderatamente infelice» (come recita la citazione posta in esergo), che ha molte patrie e molte identità, e che tuttavia continua a cercare una propria coerenza e un radicamento dentro una tradizione che sia però interamente elettiva. Koestler diventa comunista ascoltando Chopin e poi sionista radicale cantando canzoni goliardiche con i suoi compagni d'università. Ne conclude che «la libido politica è fondamentalmente irrazionale», governata da emozioni primarie. Il che non significa abdicare al giudizio, dato che «riconoscere le fonti irrazionali di taluni impulsi non invalida la necessità di controllarli con la ragione». Una verità non del tutto peregrina, se pensiamo che molte autobiografie politiche tendono invece a occultare questo dato irrazionale e a ricostruire i percorsi individuali secondo modelli edificanti. L'autobiografia di Koestler, epica e intima al tempo stesso, è percorsa da un'ansia di verità («conoscere il segreto della freccia» dell'esistenza), ma soprattutto da un proposito di adesione alle proprie emozioni: «la distinzione tra vero e falso si riferisce alle idee, non alle emozioni; un'emozione può essere gratuita ma non falsa».


Il personaggio più riuscito

Più che il suo romanzo di maggior successo, Buio a mezzogiorno – impietosa requisitoria sui processi staliniani e sul perverso meccanismo delle autocritiche, che fa confessare reati mai commessi - e il fondamentale saggio sui rapporti tra etica e politica Lo yogi e il commissario, sono gli smaglianti volumi dell'autobiografia (Freccia nell'azzurro, The Invisible Writing - non ancora tradotto - e La schiuma della terra) a restituirci la ricchezza del suo pensiero e della sua esistenza: comunista romantico a quattordici anni per aver assistito a un funerale con le bandiere rosse accompagnato dalla Marcia funebre di Chopin (memorabile anche il suo racconto dei cento giorni della Comune di Budapest nel 1919: un «comunismo reale» pieno di umorismo, che regala i gelati alla popolazione); sionista convinto in un kibbutz israeliano nel 1926; giornalista nella Germania prenazista; iscritto nel 1931 al Partito comunista (che abbandona dopo le purghe staliniane); prigioniero nella Spagna franchista della guerra civile; nel 1938 internato in Francia come straniero politicamente sospetto; arruolato nell'esercito inglese; inviato del «Times» in Palestina e infine ripiegato nella sua quiete solitaria di studioso. Da sempre innamorato della scienza e appassionato di filosofia. Cultore epicureo della buona tavola, affascinante seduttore, ma anche capace di rigore e austerità. Sempre attivo sul fronte dell'«impegno» (anche se via via in una forma politica meno diretta), sia contro il terrore staliniano sia in importanti battaglie civili come l'abolizione della pena di morte in Inghilterra. Morto suicida a Londra, malato di leucemia, nel 1983. Probabilmente è stato lui stesso il suo personaggio letterario più riuscito e più vitale. Tanto più che, grande scrittore, non ha mai avuto il culto feticistico del romanzo. Commentando un periodo particolarmente intenso e avventuroso della sua esistenza – attivismo che avrebbe ritardato i suoi inizi di scrittore – calcola che tutte le energie che vi profuse sarebbero bastate per innumerevoli romanzi, ma aggiunge subito con la sua tipica, malinconica spavalderia, che «sarebbero stati brutti romanzi ed è stata invece una bella vita!» Tutte le risorse della sua immaginazione erano messe a frutto in rapporti vissuti, e lì l'esperienza si bruciava interamente. Le sue vicende testimoniano, tra l'altro, la difficile praticabilità di un anticomunismo democratico e di sinistra («nel combattere contro i comunisti si è sempre imbarazzati dai propri alleati»), di un antifascismo radicale e insieme inflessibile verso ogni totalitarismo. E a proposito di comunismo, bisognerebbe sempre ricordare l'osservazione del Koestler maturo: «Abbiamo sbagliato per ragioni giuste». Altrimenti rinunciamo a riattivare il nucleo critico-utopico che, perlopiù abusivamente, la tradizione comunista ha preteso di incarnare per troppo tempo. Non smette di sorprendermi come quella tradizione continui, soprattutto in Italia, a monopolizzare qualsiasi pensiero critico sull'esistente. Eppure i pensatori più radicali degli ultimi vent'anni non sono marxisti. Personalmente, quando ero comunista avevo meno orrore del capitalismo. Nutrivo più fiducia nello Sviluppo, mentre ora simpatizzo con quanti auspicano la «decrescita».


Lo yogi e Rossana Rossanda

I due grandi archetipi dello yogi e del commissario si ergono sempre di fronte alla lotta politica di ogni tempo e di ogni paese: il primo è convinto che niente possa essere migliorato se non da uno sforzo individuale interiore, che i mezzi contino più dei fini, e che l'argomentazione logica perda valore quando ci si accosta al polo magnetico della verità; il secondo crede solo al cambiamento dall'esterno, alla priorità dei fini (che tutto giustificano) e all'infallibilità della argomentazione logica. Koestler si augura una convergenza tra le ragioni dell'uno e dell'altro, ma forse oggi, dopo che ogni «eccesso» è stato argomentato e giustificato, ci sentiamo più vicini allo yogi, al suo primato della coscienza e della verità su qualsiasi machiavelleria, nelle cui fattispecie furbesche indoviniamo il repentino guizzo efferato. E forse non è solo una questione di logica, ma anche di colori. Partiamo dal capitolo «Purgatorio» della Schiuma della terra, sul campo di concentramento francese. I comunisti sovietici rinchiusi nel campo «non rubavano, non facevano la spia, non erano corrotti, ma scoppiavano di virtù. Anni di sistematica intossicazione avevano colpito la loro materia grigia con una specie di cecità per i colori». Vorrei soffermarmi su questo passaggio - parlando di un altro autore e di un libro recente - e sulla «cecità per i colori» dei comunisti sovietici. Rossana Rossanda, comunista italiana eretica, ha scritto un'autobiografia, La ragazza del secolo scorso, che si può anche leggere come una singolare propedeutica morale alla capacità di «vedere» il prossimo. Il rovello da cui si origina ci porta oltre l'impegno, la militanza, i compiti storici, il marxismo ecc., anche se di tutto ciò è, naturalmente, impastato. Che cosa infatti spinge l'autrice, nata a Pola da una famiglia borghese, a diventare comunista nel 1943, e - a differenza di Koestler, che è rimasto nel Partito comunista per sei anni - a restare coerentemente tale per oltre mezzo secolo? Quale utopia privata, quale tipo di passione o di ricerca individuale, quale fede o generosa «follia» intravediamo dietro quella scelta? Nella configurazione di un destino, gli elementi in gioco sono sempre in larga parte imponderabili e casuali. Credo però che quella scelta abbia a che fare con la facoltà umana del «vedere»: vedere gli altri, il resto dell'umanità, la disordinata varietà della vita, il mondo nella sua incomponibile interezza. Secondo i canoni della «vita falsa», direbbe Adorno, gli altri esistono solo all'interno della relazione strumentale; oppure sono, sartrianamente, l'inferno. Il loro volto è cancellato. La sorella minore della Rossanda, Marina, un giorno le rivela una verità che sarà per lei traumatica: «Ero sulla quarantina quando mi spiegò quanto fossi stata autoritaria, piena di me, disattenta al prossimo e a lei in particolare, insopportabile, ottusa. Mai che la ascoltassi, anzi vedessi». Ecco, questa ottusità morale, e anzi l'urgenza personale di venirne a capo, sembra essere l'inquieto fantasma dell'autobiografia della Rossanda, il suo più autentico movente. Così suona, qualche pagina dopo, l'elogio del Partito comunista: «ci dette la chiave di rapporti illimitati, quelli cui da soli non si arriva mai, di mondi diversi, di legami fra gente che cercava di essere uguale, mai seriale, mai dipendente, mai mercificata, mai utilitaria». Mi ha colpito come la Rossanda – che percepisce l'ingresso in politica come una uscita dalla zona grigia, incolore dell'indifferenza - capovolga involontariamente la considerazione di Koestler a proposito dei suoi compagni comunisti di prigionia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 110

8.

Pensare da soli

Hannah Arendt (1906-1975)


                    Quella che in Francia era una passione e un «gusto»,
                    ovviamente in America era un'esperienza.

                                                           Hannah Arendt



Letture

Di cosa parliamo quando parliamo di rivoluzione? Perché si fa (e si sogna) una rivoluzione? Qual è il suo fine? Quali sono i suoi veri moventi? Di quali bisogni è espressione e metafora? La mia generazione ha seriamente pensato alla possibilità – per quanto ciò sembri oggi fantascientifico – di fare una rivoluzione in Italia, nel decennio seguito al '68. La degenerazione di quel sogno collettivo nel terrorismo e nella lotta armata, e poi la cooptazione di dirigenti e quadri «rivoluzionari» nella nuova spregiudicata classe dirigente, ha spinto qualcuno a cercare altre chiavi di lettura del presente, altri filoni di pensiero. O a ritrovare molto tardi autori che magari avevamo prima solo sfiorato, come Camus. L'iperpoliticizzazione fu uno dei demoni più insidiosi di un movimento la cui grande originalità consisteva esattamente nel contrario. Paul Goodman scrisse nel 1967: «delle forze che animano i giovani progressisti la più importante è la loro moralità», la loro insistenza sulle questioni di principio, contro ogni pastoia diplomatica e tatticismo; «i loro termini filosofici sono "autenticità" e "impegno" e provengono dal vocabolario dell'esistenzialismo». Ma, come sappiamo, non è stato quel vocabolario a prevalere nel lessico dei militanti. Allora mi sono prima imbattuto nelle pagine impietose e lucidissime di Simone Weil, che decostruisce l'idea di rivoluzione, spogliandola di tutti gli elementi fideistici e riportandola alla ingenua convinzione progressista che l'essere umano camminando in avanti a un certo punto sale - chissà perché - verso l'alto; poi in Sulla rivoluzione di Hannah Arendt, pubblicato da noi nei 1983, a distanza di vent'anni dalla prima edizione americana. La figura della Arendt, ebrea, profuga, senza patria, allieva di Heidegger, pensatrice antisistematica, è stata sempre guardata con sospetto sia dalla sinistra sia dalla «filosofia delle università»: stile troppo assertivo, presunta ambiguità ideologica, idealizzazione della Costituzione americana, mito romantico del mondo greco. Per lei il filosofo «chiarifica esperienze comuni a tutti»: altro che gli sprofondamenti abissali dei nostri postheideggeriani! E a proposito di Heidegger, il love affair che legò la Arendt e il suo professore all'Università di Friburgo rivela, attraverso il carteggio, tutta la distanza umana tra i due. Come ha osservato Claudio Magris, la prima lettera inviatale dal filosofo, «untuosa e falsamente profonda», è «un modello di come si possano simulare anche con se stessi sentimenti apparentemente sofferti e utilissimi a tiranneggiare gli altri». La Arendt, mai simulatrice di pensieri vertiginosi, diffidente verso burocrazie e apparati, ha cercato prima di ogni altra cosa di ripensare la politica, oscillando tra certa enfasi sulla dimensione pubblica dell'esistenza e una presa d'atto, più problematica, dei rischi connessi a ogni socializzazione. Esiste altra libertà, oltre a quella che ci garantisce la politica: Socrate infatti trae la sua forza semplicemente dal fatto che riesce a stare solo con se stesso.


La rivoluzione guarda al passato

Leggere la Arendt costituiva per me una profilassi del politicismo e corroborava una precisa intuizione: che la parte più utopica del movimento non andasse cercata nella sua ideologia esplicita, nei proclami e nei programmi, nelle parole d'ordine e nelle dichiarazioni dei suoi portavoce, ma proprio nel suo essere, nel suo tangibile manifestarsi. In ciò che faceva, e non in ciò che pensava e teorizzava di sé: comportamenti, stili di vita, modi di comunicare e di stare insieme. Ho saputo in seguito che Sulla rivoluzione era stato uno dei libri più letti e amati negli inquieti campus americani, accanto all' Uomo in rivolta di Camus. Ma qual'è l'idea-forza del libro, al di là di certe forzature, unilateralità e contraddizioni storiche che gli sono state rimproverate?

| << |  <  |