Copertina
Autore Walter Laqueur
Titolo Gli ultimi giorni dell'Europa
SottotitoloEpitaffio per un vecchio continente
EdizioneMarsilio, Venezia, 2008, I nodi , pag. 224, cop.ril.sov., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-317-9552-4
OriginaleThe last Days of Europe
EdizioneSt. Martin's Press, New York, 2007
TraduttoreAldo Mosca
LettoreGiovanna Bacci, 2009
Classe politica , sociologia
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Indice


  9 Prefazione

 11 Introduzione
    11  Un brevissimo viaggio nell'Europa del futuro
    18  Gli ultimi giorni della vecchia Europa

 29 L'Europa si restringe

 39 Migrazioni
    54  Francia: dall'Algeria a Parigi
    63  Germania: dall'Anatolia orientale a Berlino
    71  Regno Unito: dal Bangladesh all'East End
    81  Islamofobia e discriminazione
    89  L'Euroislam e Tariq Ramadan
    95  La violenza islamista in Europa

107 La lunga via verso l'unità europea

123 Il problema del welfare state
    135 Germania
    138 Francia
    141 Regno Unito
    143 Italia e Spagna

149 Russia: un'alba ingannevole?

165 Il fallimento dell'integrazione e il futuro dell'Europa

    165 Cosa è andato storto?
    171 Cosa rimane dell'Europa?
    175 Il futuro dell'Europa musulmana: Regno Unito
    184 Il futuro dell'Europa musulmana: Francia
    187 Il futuro dell'Europa musulmana: Germania
    191 Il futuro dell'Europa musulmana: Spagna
    193 Il sogno di un'Europa unita
    196 La difesa del welfare state
    198 Verso Stati binazionali
    215 La salvezza verrà dalla Turchia?

219 Bibliografia


 

 

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Pagina 29

I.
L'Europa si restringe



Il mio nonno materno, un mugnaio, nacque nel 1850 e visse nella Slesia del nord. Ebbe sei figli. Tre di loro non ebbero figli, due ne ebbero due ciascuno e uno ebbe un figlio unico. Questa, in poche parole, è la storia della crescita e del declino della popolazione in Europa. Nell'Ottocento una famiglia aveva in media cinque figli, ma questo numero diminuì costantemente finché, prima dello scoppio della prima guerra mondiale, cadde sotto il tasso di riproduzione (2,2) nei maggiori paesi europei. Ci furono brevi periodi durante i quali la tendenza si invertì, per esempio il baby boom dopo la seconda guerra mondiale, quando il tasso di nascita salì sopra il 2,2 in tutti i paesi europei, e in alcune nazioni come l'Olanda, l'Irlanda e il Portogallo superò il 3,0. Ma questo durò meno di un decennio, e dalla fine degli anni cinquanta il declino è stato continuo. Oggi il tasso di fertilità per l'Europa in generale è 1,37. (Il tasso di nascita grezzo è il numero di nascite per mille persone per anno). Per dare un altro esempio: in Italia e in Spagna, nei primi anni del ventunesimo secolo, sono nati circa la metà dei neonati del 1960. La tendenza continua, ed è difficile pensare che potrebbe esserci un'inversione duratura. Fra cent'anni la popolazione dell'Europa sarà solo una minima parte di quello che è ora, e in duecento anni alcuni paesi potrebbero scomparire.

È certamente una tendenza impressionante se si considera che solo cento anni fa l'Europa era il centro del mondo. L'Africa era costituita quasi interamente da colonie europee, e l'India era il gioiello dell'Impero britannico. La Germania, la Francia e la Russia avevano gli eserciti più forti del mondo, e l'Inghilterra aveva la marina più forte. L'economia europea guidava il mondo mentre l'America stava progredendo rapidamente ma aveva ancora una lunga strada da fare e pochi ne tenevano conto. Politicamente e culturalmente, solo Londra e Parigi, Berlino e Vienna contavano; per gli studenti europei non c'era alcuna buona ragione per iscriversi alle università americane, che erano arretrate rispetto a quelle europee da ogni punto di vista.

Per la verità c'erano nubi all'orizzonte, per esempio la rivoluzione russa del 1905, ma anche in Russia il progresso era notevole. C'erano tensioni fra le potenze europee, ma non c'erano state guerre per parecchi decenni, e una nuova guerra sembrava improbabile. La fiducia dell'Europa era solida. La popolazione mondiale nel 1900 era di circa 1,7 miliardi, di cui uno su quattro viveva in Europa, la cui popolazione era circa sei volte quella degli Stati Uniti, a quel tempo 76 milioni. Poi scoppiò la prima guerra mondiale, con la sua orribile devastazione e i suoi milioni di vittime – circa 8,5 milioni di soldati morirono e 13 milioni di civili persero la vita per fame, malattie e massacri – a cui seguirono rivoluzioni, guerre civili, inflazione e disoccupazione di massa. L'Europa era notevolmente indebolita, eppure era ancora il centro del mondo, la sua forza guida.

Intanto si profilava inesorabilmente il problema della popolazione, ma pochi vi fecero attenzione, perché in cifre assolute continuava ad aumentare e la gente viveva più a lungo. La popolazione europea era di 422 milioni nel 1900, 548 milioni nel 1950 e 727 milioni nel 2000. Infatti, di tanto in tanto furono lanciati falsi allarmi sulla sovrappopolazione. Quando andavo a scuola in Germania, prima dell'avvento dei nazisti, gli insegnanti parlavano sempre del bisogno di più lebensraum, più "spazio vitale". Il famoso bestseller di quel periodo era Volk ohne Raum (Un popolo senza spazio) di Hans Grimm. L'autore era vissuto per molti anni in Sud Africa, e pensava come molti altri che l'agricoltura fosse il pilastro dell'economia della nazione e ne determinasse il benessere. Questo era sbagliato anche allora, prima della grande rivoluzione tecnologica nell'agricoltura, e anche Hitler si convinse che per organizzare e mantenere un grande esercito moderno lo sviluppo dell'industria pesante fosse più importante che coltivare patate e pomodori. Eppure anche dopo la seconda guerra mondiale la favola della sovrappopolazione in Europa trovò per qualche tempo sostenitori influenti come il Club di Roma, che nel 1972 pubblicò trenta milioni di copie di un rapporto sui limiti della crescita economica, in cui si faceva la predica precisamente sul problema della sovrappopolazione.

Qual'è stata la causa del costante calo del tasso di nascita? Non è facile rispondere a questa domanda, perché la tendenza si è manifestata in tutto il continente, in paesi con caratteri molto diversi, a nord e a sud, a ovest e a est, in paesi cattolici e protestanti, tra i ricchi e i relativamente poveri. Per questa ragione non è sorprendente che non ci sia consenso fra i demografi su questo punto. La pillola anticoncezionale ha avuto un certo peso, ma probabilmente non decisivo. Più importante è stato il fatto che sempre più donne hanno accettato (o si sono sentite obbligate ad accettare) di lavorare a tempo pieno, e non hanno voluto che le gravidanze e la necessità di prendersi cura dei bambini interrompessero la carriera. Per dare solo un esempio, metà delle scienziate tedesche sono senza figli. Con ogni probabilità, il fattore più importante è stato il serio indebolimento del valore della famiglia; la famiglia è come passata di moda, e molti hanno preferito divertirsi piuttosto che essere legati a ogni sorta di obblighi e responsabilità. Di qui il paradosso: proprio quando gli europei avrebbero potuto permettersi di avere più figli che in ogni altro tempo, ne hanno invece avuti di meno.

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La diminuzione della popolazione è necessariamente un processo non desiderabile? E fino a che punto contano le cifre? Non è invece desiderabile, per alcuni aspetti, visto che i pericoli della sovrappopolazione sono ovvi? E non è vero che buone condizioni di vita prevalgono più spesso nei paesi più piccoli che in quelli più grandi? Questo può essere vero, ma il problema dell'Europa è come impedire un declino troppo rapido, che avrebbe enormi conseguenze sociali ed economiche.

Quando fu introdotto il welfare state dopo la seconda guerra mondiale, la struttura della popolazione nelle società europee era molto diversa; inoltre, l'aspettativa di vita è salita notevolmente e continuerà a salire. Secondo alcuni esperti, nel 2060 l'aspettativa media di vita sarà di cento anni. Questi mutamenti hanno un effetto diretto sui contributi sociali da pagare, sul sistema sanitario, le assicurazioni e altri servizi. Ci sono gli stessi problemi in altri paesi sviluppati, ma in Europa sono particolarmente acuti e diventeranno ancora più acuti in futuro. Da dove verranno i fondi addizionali? Cosa succede all'economia quando la popolazione diminuisce? Alcuni sono propensi a credere che la produttività del lavoro e del capitale fornirà i fondi addizionali, ma questo sembra sempre meno probabile con il passare del tempo: è molto più probabile che vengano tagliati i servizi sociali. Per esempio, l'età pensionabile, oggi sessantacinque anni nella maggior parte dei paesi europei, può essere aumentata, e l'entità delle pensioni, che oggi arriva anche al 70 per cento del reddito medio, può dover essere diminuita. In molti paesi europei ci si è mossi in questa direzione, incontrando una dura opposizione; ma coloro che si sono opposti ai tagli dolorosi non sono stati in grado di fare proposte alternative.

L'età mediana è oggi solo leggermente più alta in Europa che in America (trentasette e trentacinque anni, rispettivamente), ma secondo le proiezioni, nel 2050 sarà trentasei anni in America e cinquantatré in Europa. L'America sarà un paese molto più giovane, un fatto che avrà non solo conseguenze economiche misurabili statisticamente, ma anche e soprattutto effetti secondari di ordine politico e psicologico. Assumendo che le forze armate siano ancora necessarie tra cinquant'anni, sorge il problema della provenienza dei soldati dell'Europa — a meno che l'età delle reclute non venga aumentata nel giro di circa vent'anni.

Ci sono altri fattori che non si possono misurare: nel giro di una generazione o due l'istituzione della famiglia sarà ulteriormente indebolita. In Germania il suo rapido declino cominciò con la generazione del 1968 e la Scuola di Francoforte, con la sua teoria critica che sminuiva la funzione della famiglia da un punto di vista sia sociale sia economico. Ma la famiglia ha meno importanza anche in altre società in cui il 1968 non fu un importante punto di svolta. Un noto economista ha dichiarato che l' Homo economicus non vorrebbe avere figli. Quali sono le conseguenze, se i giovani scoprono che con la scomparsa della famiglia i loro genitori sono i loro soli parenti? Sarà probabilmente un mondo fatto di gente molto più sola e triste. Non abbiamo risposte per queste domande e altre a esse collegate.

Resta da rispondere a due domande, anche se in breve: le proiezioni potrebbero essere sbagliate? Ed è possibile invertire queste tendenze se ciò viene considerato desiderabile?

L'esperienza storica mostra per lo più che le "politiche delle nascite" non hanno molto successo, almeno non nel lungo periodo. Sotto Hitler e Mussolini, e anche sotto Stalin per un certo periodo, un tasso di nascita più alto fu promosso dalle macchine di propaganda di quei regimi, e una serie di incentivi furono promessi e dati alle famiglie numerose. Ma ciò non ebbe effetti significativi sulla tendenza di lungo termine. La Germania dell'Est sotto il regime comunista offriva molti servizi alle madri che lavoravano, e molte si sono lamentate del fatto che dopo la caduta del Muro di Berlino molti di quei servizi sono stati sospesi; ma nemmeno là questa politica ha avuto un effetto duraturo sul tasso di nascita. Tra le società democratiche, la Francia e la Svezia hanno adottato politiche mirate a ridurre il costo dei figli, dalla licenza di maternità per molti mesi prima e dopo la nascita (e la garanzia del posto di lavoro), a riduzioni fiscali, assegni e vari altri incentivi, compresa la possibilità di lavorare part-time. Alcuni hanno suggerito che quando due candidate fanno domanda per lo stesso posto di lavoro, a parità di condizioni si dovrebbe dare la precedenza alle madri rispetto alle donne senza figli. A conti fatti, la Svezia ha speso per questi incentivi dieci volte di più di Italia e Spagna, ma dopo un breve aumento, il numero di nascite è diminuito di nuovo – ciò è stato attribuito a un rallentamento del sistema economico. In Italia, invece, dove il tasso di nascita era diminuito ancora di più, si è pensato che la ragione del declino fosse il benessere. In breve, la Svezia e la Francia, che hanno offerto un certo numero di incentivi per incoraggiare le nascite, non possono essere un modello; il massimo che si può dire è che se queste misure non fossero state introdotte il tasso di nascita sarebbe diminuito ancora di più. Negli anni a venire ci saranno probabilmente piccoli alti e bassi del tasso di nascita europeo, ma la tendenza di base è verso il basso e, anche se un cambiamento radicale è sempre possibile, al momento è difficile immaginare perfino le sue possibili cause. Ciò che si può prevedere quasi con certezza matematica è che il declino continuerà almeno fino alla metà di questo secolo, perché se ci sono più morti che nati verrà a mancare un'intera generazione che avrebbe potuto avere figli. In generale, le previsioni dei demografi sono state esatte, con un margine di errore trascurabile. Essi fanno le loro previsioni secondo lo scenario migliore e quello peggiore, con una previsione addizionale per il caso intermedio. Così, per dare solo un esempio, la proiezione più alta per la popolazione mondiale a metà del secolo è 10,6 miliardi, la più bassa 7,4, e la mediana 8,9. Ma nel caso dell'Europa perfino gli scenari migliori mostrano una tendenza negativa.

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In che misura si può dare la colpa alle autorità europee per la discriminazione delle minoranze musulmane? Per quanto riguarda l'assistenza pubblica, per niente. In Danimarca i musulmani sono il 5 per cento, ma contano per il 40 per cento della spesa per l'assistenza. Le cifre di altri paesi sono simili (eccetto solo per le pensioni e per altre voci che non c'entrano). Se questi paesi aumentassero queste spese e altre forme di aiuto, ciò sarebbe fatto a danno della popolazione locale più debole e non musulmana, e porterebbe, come per i sussidi per la casa per esempio, a tensioni politiche e sociali. In Scandinavia molte critiche sono state sollevate contro gli assistenti sociali, che hanno insegnato agli immigrati come manipolare la rete di sicurezza sociale. Alcuni predicatori hanno spiegato alla loro comunità che i membri hanno diritto a ottenere ogni sussidio possibile, e che solo uno stupido non approfitterebbe fino in fondo della cuccagna disponibile nelle società occidentali. Invece di spiegare ai nuovi venuti come trovare lavoro, e l'importanza dell'istruzione, essi hanno creato l'impressione che lo Stato si sarebbe occupato dei loro bisogni e che avrebbe avuto l'obbligo di aiutarli, perché essi sono vittime di un ordine mondiale ingiusto, del colonialismo e così via. Il risultato è stato che i fondi disponibili sono stati dispersi egualmente fra i bisognosi e quelli che avrebbero potuto lavorare, e sono stati sussidiati perfino i "militanti" che preparavano azioni violente, non solo i Kaplan in Germania ma anche gli attentatori suicidi in Gran Bretagna e gli islamisti in Scandinavia e in Olanda.

Molta della responsabilità per questa situazione poco felice e poco sana si potrebbe certo attribuire alle autorià per non aver convogliato gli immigrati verso il lavoro produttivo. Esse non si sono concentrate sulla necessità di provvedere un'istruzione speciale e scuole di addestramento professionale. È vero però che non è stata colpa delle autorità se i giovani hanno abbandonato la scuola e l'apprendistato, o se non hanno imparato la lingua locale (un problema in tutta Europa, ma meno in Inghilterra e in Francia). E qui si arriva a un'altra domanda: c'era forse qualcosa nel retroterra sociale e culturale di queste famiglie e individui che impediva loro di avere risultati, tanto quanto gli immigrati di altre culture? Molto dipende dall'ambiente familiare: se le ragazze hanno ottenuto a scuola risultati migliori dei ragazzi, è stato forse perché le femmine, a differenza dei maschi, non hanno il permesso di andare in giro per le strade per ore e ore? Oppure è stato perché i genitori non hanno autorità sui figli maschi? O è stato forse perché le famiglie di questo gruppo etnico e culturale danno meno importanza all'istruzione laica di gente proveniente da altri paesi? Queste questioni sono state raramente poste con chiarezza, tantomeno studiate sistematicamente; forse è perché quelli che potrebbero porle hanno paura di essere accusati di razzismo.

Si è sostenuto molto spesso che la lamentela principale dei musulmani riguarda il mancato rispetto verso di loro. Ma per ripeterci: poche lamentele del genere si sono sentite in altre comunità etniche o religiose. È ovvio che ogni essere umano ha il diritto di essere trattato giustamente e di non essere oppresso o offeso, ma quelli che si sono lamentati di atteggiamenti condiscendenti o di offese più gravi volevano di più, ed era ciò che si sarebbero dovuti guadagnare con il merito e con il contributo alla vita sociale. I loro meriti erano spesso scarsi e il contributo inesistente, eppure c'era la pretesa di essere rispettati (o almeno temuti). Non si è trovata alcuna facile soluzione a questo dilemma.

I politici americani ed europei che desideravano pacificare coloro che si sentivano offesi hanno fatto di tutto per esaltare nei loro discorsi l'importanza e i valori eterni dell'Islam. Gli europei non si sarebbero mai sognati di fare simili complimenti al cristianesimo, al giudaesimo o al buddismo; e poi hanno sottolineato il contributo inestimabile dato dagli immigrati che lavorano sodo. Lo credevano veramente, o era quella taqi'a, l'abitudine di fingere? La taqi'a può essere perfettamente giustificata come mezzo per calmare la gente in un momento di grande eccitazione e tensione, ma raramente garantisce una soluzione duratura.

In Gran Bretagna alcuni leader della comunità musulmana sono stati nominati lord per i meriti acquisiti nel paese, e in nazioni che non hanno questo sistema di onorificenze sono stati concessi altri titoli. Ma non tutti potevano essere fatti lord: tutti i gruppi di immigrati nella storia hanno incontrato delle ostilità fino a quando sono stati pienamente accettati, ma nessuno ha cominciato dalla cima della piramide sociale nel paese acquisito. Non è facile introdurre un nuovo sistema di promozione sociale.


L'EUROISLAM E TARIQ RAMADAN


In Occidente alcuni hanno espresso grandi speranze nella crescita di uno specifico Euroislam, una versione della religione musulmana che terrebbe conto delle tradizioni e situazioni europee e sarebbe con esse compatibile. L'Euroislam ha avuto in Tariq Ramadan il suo rappresentante più noto ed eloquente; nessuno è apparso più frequentemente di lui in interviste televisive e talk show in Europa, e le cassette con i suoi discorsi sono circolate in decine di migliaia di copie. Il settimanale «Time» lo ha incluso tra i cento intellettuali più importanti del ventesimo secolo, mentre altri lo hanno chiamato l'equivalente musulmano del reverendo Martin Luther King Jr. Tariq Ramadan, nipote di Hassan al-Banna, il fondatore della Muslim Brotherhood in Egitto, è nato in Svizzera nel 1962 ed è cittadino svizzero. Da giovane era un bravissimo calciatore e giocò anche per la Servette di Ginevra, una delle migliori squadre svizzere, ma poi resistette alla tentazione e si dedicò invece allo studio dell'Islam. Ha fatto discorsi in molti paesi ed è stato consigliere del primo ministro Tony Blair, ma gli è stato rifiutato il permesso di entrare negli Stati Uniti e per qualche tempo anche in Francia.

I critici di Tariq Ramadan, dopo aver confrontato i suoi scritti e i suoi discorsi in arabo e nelle lingue europee, hanno sostenuto che il "fratello Tariq" ha predicato regolarmente in francese e inglese una versione moderata e illuminata della sua fede, mentre ha lanciato messaggi più aggressivi e radicali in arabo. In breve, Tariq è un sostenitore della Muslim Brotherhood tanto quanto suo nonno, suo padre Said (ora defunto) e i suoi fratelli, i quali erano o sono ancora tutti molto attivi nell'organizzazione, e non solo per fare propaganda. Tariq ha dichiarato di non essere mai stato membro della Brotherhood, ma questo non significa molto, perché l'organizzazione non è come un partito politico e non ha iscrizioni formali alla maniera occidentale, con contributi mensili, tessere e cose del genere.

Nei suoi libri e discorsi (si vedano To Be a European Muslim, 1999, e Western Muslims and the Future of Islam, 2003) Ramadan sostiene che con la crescita delle comunità musulmane in Occidente si sta verificando un cambiamento graduale (forse perfino una rivoluzione silenziosa) che dovrebbe rendere possibile per i musulmani credenti e praticanti rimanere fedeli alla loro religione e insieme vivere in pace con i concittadini, piuttosto che rinchiudersi nella nicchia di una minoranza. Dato il carattere dell'Islam, la sharia (la legge religiosa) e le direttive del Corano su come comportarsi con gli infedeli, questo non è un compito facile e Tariq Ramadan cade inevitabilmente in contraddizione. Egli sostiene di non avere alcuna obiezione contro uno Stato e una società laici, ma allo stesso tempo si è opposto con veemenza alla legge francese che bandisce l' hijab. Dice che i musulmani appartengono prima di tutto all' umma – la comunità dei credenti – e che non dovrebbero fare nulla di ciò che li renderebbe dei cattivi fedeli; ma dice anche che i musulmani in Occidente dovrebbero essere leali allo Stato e al paese in cui vivono. Questo significa che dovrebbero obbedire alle autorità solo finché esse non impongono niente che contraddica la loro religione; in questo caso ci dovrebbe essere una "clausola di coscienza" che consentirebbe di affermare che un certo comportamento è contrario alla loro fede. Questa scelta arbitraria delle leggi da osservare si può trovare anche in certe sette cristiane, per esempio a proposito del servizio militare, ma nel caso dell'Euroislam essa avrebbe applicazioni molto più estese.

A differenza di partiti islamici radicali come Hizb al Tahrir, che sostiene che i musulmani non dovrebbero occuparsi della vita politica nel paese di residenza, almeno non fino a quando saranno la maggioranza, Tariq Ramadan appoggia molto l'impegno politico. La sua posizione gravita verso la sinistra, naturalmente non quella marxista e materialista ma piuttosto la New Left e i radicali interessati al Terzo Mondo; fin dall'inizio i suoi sostenitori sono stati personalità come lo svizzero Jean Zigler e Alan Gresh, un condirettore di «Le monde diplomatique» in Francia. Ramadan è un avversario irriducibile della globalizzazione e nei suoi sermoni insiste sulla visione sociale dell'Islam e i mali del capitalismo, proprio come Hizb al Tahrir. Ma le sue opinioni non sono sistematiche; non arrivano a niente di simile a un socialismo religioso, né si trova la richiesta che i musulmani ricchissimi spartiscano le loro ricchezze con i poveri.

Tariq Ramadan non solo difende un'etica della responsabilità, ma persegue anche l'alleanza con altri gruppi ambientalisti e religiosi, varie organizzazioni alternative (come la Association pour la taxation des transactions pour l'aide aux citoyens – Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie per l'aiuto ai cittadini – meglio nota come ATTAC), e anche gruppi per la difesa dei diritti umani fuori dalla comunità musulmana. Egli si rende conto che molti musulmani, insicuri della propria identità, hanno difficoltà ad andare troppo lontano in questa direzione, e infatti non è un caso se le sue idee in difesa dei diritti umani sono state quelle con il minore successo.

La sua opinione che le regole islamiche nel campo degli affari debbano essere adattate alle necessità della società moderna non ha quasi trovato opposizione da parte della gerarchia religiosa ortodossa. Se queste leggi antiquate fossero applicate alla lettera, diventerebbe impossibile per i musulmani possedere dei capitali, fare investimenti finanziari o anche, a livello personale, usare carte di credito o acquistare una polizza di assicurazione. Quando però Ramadan si occupò, per esempio, delle hudud — pene imposte dal Corano e dalla sharia come la lapidazione delle adultere e l'amputazione delle mani per i ladri — si trovò davanti una dura opposizione. Si rendeva conto che l'oppressione delle donne è qualcosa come il tallone d'Achille dell'Islam nelle società moderne e che dovrebbe essere riformata, ma dato il potere della gerarchia religiosa c'era poco che lui potesse fare.

Riforme come questa erano assolutamente inaccettabili per la gerarchia ortodossa, che comprendeva Qaradawi, lo sceicco televisivo di Al Jazeera amico di Ken Livingstone, sindaco di Londra. La gerarchia respinse tout court le posizioni di Ramadan: le hudud facevano parte del Corano e perciò non erano soggette a riforma. Dati i rapporti di parentela di Ramadan, però, i suoi oppositori accettarono, seppure con notevole riluttanza, a discutere alcune sue proposte; ma il risultato era prevedibile: esse furono respinte all'unanimità. Un esperto legale dichiarò che se si impone una moratoria sulla lapidazione delle donne e la pena di morte, domani qualcuno chiederà di abolire la preghiera del venerdì. (Ramadan non ha chiesto l'abolizione delle antiche leggi, solo una moratoria).

Uno degli alleati di Qaradawi, un autorevole teologo musulmano americano, ha dichiarato che qualsiasi rimaneggiamento delle hudud sarebbe equivalente alla distruzione della nazione musulmana e perciò vicino all'apostasia. L'argomento di Ramadan, che le norme del Corano sono state spesso violate nel mondo musulmano da autorità arbitrarie, non ha scosso la gerarchia, che era più forte, mentre Ramadan non aveva nessuna intenzione di fare la parte del riformatore radicale e tantomeno del martire.

Molti tra coloro che avevano seguito le dichiarazioni di Ramadan non credevano che fossero sincere; pensavano invece che nel suo intimo egli fosse ancora un membro della Muslim Brotherhood e che le riforme da lui difese fossero solo una facciata di comodo. Una delle tesi da lui scritte era stata una difesa della Brotherhood; aveva attaccato degli intellettuali francesi ebrei (alcuni dei quali non erano affatto ebrei) per le loro critiche all'Islam, e su questioni importanti non aveva mai preso le distanze dall'organizzazione e dalle sue posizioni fondamentali.

Qualcuno potrebbe sostenere in sua difesa che non è giusto criticarlo per la sua ambivalenza, cosa inevitabile vista la sua situazione. Era difficile rimanere allo stesso tempo l'idolo delle banlieues musulmane di Parigi e degli intellettuali progressisti: doveva solo addattarsi alla sua audience, facendo discorsi di tipo diverso spesso in contraddizione fra loro. Egli è rimasto sostanzialmente un fondamentalista, come dimostrano le sue critiche dei musulmani progressisti e riformatori, ma ha capito che alcune riforme sono necessarie se l'Islam vuole mantenere la fiducia di una nuova generazione esposta all'influenza occidentale. In qualche occasione Tariq Ramadan ha ammesso questo dilemma. Quando in un dibattito televisivo gli è stata chiesta esplicitamente la sua opinione sulla lapidazione delle donne come punizione per l'adulterio, non si è dissociato da quella pratica ma ha solo chiesto una moratoria. Suo fratello, dottore in filosofia e docente a Ginevra, ha appoggiato la lapidazione. Ramadan ha poi dichiarato che se avesse condannato la lapidazione si sarebbe fatto amico Nicolas Sarkozy, ministro dell'Interno, ma avrebbe perduto il proprio seguito nel mondo musulmano e «una volta condannato, non [avrebbe potuto cambiare] niente».

Tutto ciò mostra i limiti di Ramadan come riformatore. Le sue dichiarazioni sono state contradditorie. Ha condannato il terrorismo, specialmente in Inghilterra, vuole che i musulmani in Europa siano più autocritici, ma allo stesso tempo più conservatori nell'Islam sulle questioni religiose; dice di essere contro la censura, ma allo stesso tempo si è battuto con grande energia a Ginevra per il bando di una commedia di Voltaire, Il fanatismo, o Maometto il Profeta. Non esiste un Tariq Ramadan, ce ne sono due; per il momento, e nel futuro prevedibile, il Tariq islamista è senza dubbio il più forte.

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Le reti clandestine musulmane si svilupparono negli anni novanta. In parte erano composte da "afghani", uomini che avevano combattuto in Afghanistan e poi erano ritornati in Algeria e in altri paesi arabi, ma anche da militanti locali. È stato spesso sostenuto che i candidati più probabili per missioni terroristiche erano giovani disoccupati che facevano capo a certe moschee o a club affiliati ad esse. Sarebbero stati scelti da agenti reclutatori che promettevano loro azioni con uno scopo che avrebbe dato un significato alla loro vita, per non parlare del brivido. Le bande di strada avrebbero avuto un ruolo importante in questo processo; altri venivano reclutati da compagni di detenzione nelle prigioni.

Eppure fattori come la povertà e la disoccupazione non sono spiegazioni sufficienti. Non pochi terroristi reclutati in Europa Occidentale venivano da famiglie della classe media e stavano studiando per un titolo di primo o secondo livello. Era lo stesso per la rete di Amburgo che preparò gli attentati dell'11 settembre a New York e Washington. L'assassino del giornalista americano Daniel Pearl aveva studiato alla London School of Economics; erano istruiti anche Mohamed Boujeri, l'assassino di Theo Van Gogh, e molti altri, come Khaled Kalkal, il terrorista militante degli anni novanta, e Zacaria Moussaoui, il cosiddetto ventesimo dirottatore dell'11 settembre che è stato arrestato negli Stati Uniti. I più istruiti venivano spesso reclutati via internet, che col passare degli anni è diventata un importante terreno di reclutamento per gli jihadisti.

Se le motivazioni economiche e sociali non sono sufficienti per una spiegazione, occorre considerare fattori politici e psicologici. La religione ha certo avuto una certa importanza, ma per quanto se ne sa non sono stati affatto i più pii e ortodossi a scegliere l'azione violenta. Secondo un rapporto inglese del 2005 preparato dai Ministeri dell'interno e degli esteri, le reclute provenienti dalla classe media erano per la maggior parte dei solitari che frequentavano i club universitari di carattere religioso o etnico, mossi dalla delusione per la propria condizione. Alcuni erano arrivati recentemente dal Nordafrica o dall'Africa Orientale, ma c'erano anche cittadini britannici di seconda o anche terza generazione le cui famiglie erano immigrate dal subcontinente indiano. Inoltre, sempre secondo il rapporto, un numero notevole proveniva da ambienti musulmani non religiosi e liberal oppure erano stati convertiti in età adulta – compresi alcuni cittadini di origine britannica e caraibica. Tutto ciò sembra mostrare che ci deve essere stata una combinazione di motivazioni: l'odio per l'America, l'Occidente e il paese adottato; un'aggressività incontrollata e il bisogno di acquisire "rispetto" (e se non rispetto, di incutere almeno paura); e l'insoddisfazione per i due pesi e due misure applicati dal loro nuovo paese in politica internazionale. Perché, poi, la mancanza di attività sui problemi della Cecenia, del Kashmir e della Palestina? Tutto sommato, troppo pochi "attivisti" sono stati oggetto della ricerca e analizzati dai ministeri per poter trarre delle generalizzazioni sulla loro provenienza e le loro motivazioni.

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Il terrorismo è stato spesso definito come guerra asimmetrica, e da un punto di vista legale lo è stato certamente. Se gli islamisti facevano propaganda per azioni violente, questo poteva spesso essere permesso secondo le leggi sulla libertà di parola. Se preparavano un attentato terroristico potevano forse essere arrestati, ma non potevano essere condannati perché non avevano commesso il fatto: si poteva sempre sostenere che in realtà non avevano avuto intenzione di portare a termine l'azione terroristica. Allo stesso modo, è stato sostenuto che anche negli Stati Uniti coloro che agirono l'11 settembre avrebbero forse potuto essere fermati per un breve periodo, ma non incriminati e tantomeno condannati fino al momento in cui presero effettivamente il controllo degli aerei per la loro missione finale. Se fossero stati trovati in possesso di armi, questo sarebbe stato naturalmente illegale, ma le sentenze sarebbero state inevitabilmente leggere. Nemmeno le armi di distruzione di massa, specialmente se binarie, cioè materiali usabili anche per scopi pacifici, erano necessariamente una prova schiacciante. Se l'appartenenza a un'organizzazione terroristica veniva provata al di là di ogni ragionevole dubbio, si poteva sempre sostenere che quello era un gruppo di guerriglia protetto dalla Convenzione di Ginevra o un movimento di liberazione nazionale (come accadde in Italia), l'appartenenza al quale non era punibile ma anzi degna di supporto.

È accaduto spesso che le prove addotte contro sospetti terroristi non fossero accettate in tribunale perché erano state ottenute con intercettazioni, o perché avrebbero comportato che le forze di sicurezza rivelassero pubblicamente le loro fonti, cosa che nella maggior parte dei casi esse si rifiutarono di fare. Fra tutti i paesi europei, solo la Francia aveva un sistema capace di fronteggiare più o meno efficacemente il terrorismo, e quel paese fece anche seguito all'incriminazione con condanne e deportazioni. Il risultato fu che negli anni novanta molti terroristi che avevano chiesto asilo politico in Francia, legalmente o no, si trasferirono a "Londonistan"; in quasi tutti gli altri paesi la deportazione si è dimostrata estremamente difficile in termini legali e perciò molto rara. Gli individui che si scoprivano essere un pericolo per lo Stato non potevano essere deportati nel paese di origine, perché la maggior parte dei paesi non europei, compresi gli Stati Uniti e molti Stati asiatici e africani, non avevano abolito la pena di morte e c'era sempre il pericolo che questa gente venisse trattata duramente o anche torturata. Ci sono voluti anni per ottenere l'estradizione di terroristi anche da un paese europeo all'altro, e in qualche occasione queste estradizioni, per una ragione o per l'altra, non sono mai state effettuate. Quando, malgrado queste leggi, alcuni individui sono stati estradati o deportati (la cosiddetta rendition ), si è scatenato il finimondo. Come si poteva, veniva detto, trattare in modo disumano persone che dovevano essere considerate innocenti fino alla prova della loro colpevolezza? Oltre a tutto, la situazione era ulteriormente complicata dal fatto che i sospetti terroristi non erano cittadini stranieri ma erano ormai naturalizzati.

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Il problema del perché le nazioni hanno avuto un declino si può discutere all'infinito. Quando sarà scritta la storia del declino europeo nel ventesimo secolo è possibile che ci si chiederà non perché la potenza del continente è diminuita, ma perché è durata così a lungo. Le migrazioni possono essere state un fattore di declino delle nazioni, ma spesso le hanno anche rafforzate. La storia medievale e quella moderna sono storie di migrazioni: basti pensare all'emigrazione europea verso il nord e il sud dell'America (italiani e spagnoli), agli ugonotti che emigrarono in Germania e in altri paesi europei, all'emigrazione polacca in Francia e Germania nel ventesimo secolo, all'emigrazione russa in Francia dopo il 1917, a quella ebraica dall'Europa dell'est, o ancora agli emigranti cinesi e indiani che si stabilirono in gran numero nel Sudest asiatico e anche in Africa. Molto spesso questi emigranti erano gli individui più intraprendenti, che lasciavano il paese di nascita per una ragione o per l'altra, e ci fu un beneficio da entrambe le parti: gli immigrati trovarono la via del successo nella nuova società e i paesi che li assorbivano beneficiavano dei loro talenti e capacità. Società forti e fiduciose in se stesse sono state quasi sempre in grado di assorbire queste ondate di immigrazione e di trarne i risultati migliori. All'inizio ci sono sempre state delle difficoltà; anche in un paese fatto di immigrati come gli Stati Uniti, per un lungo periodo né gli irlandesi né gli ebrei erano benvenuti, per non parlare del "pericolo giallo". Qualche volta i nuovi venuti hanno trovato difficile accettare le leggi e lo stile di vita dei paesi ospiti; alcuni, per sempio, rifiutavano il servizio militare. C'è sempre stata una migrazione di ritorno, ma la maggioranza è rimasta nel paese di adozione e dopo qualche generazione è diventata una sua parte integrante.

Tutto ciò vale anche per il nostro tempo. Ho già discusso i contributi degli indiani alla Gran Bretagna, dei cinesi agli Stati Uniti e ad altre parti del mondo, dei sikh, degli armeni, dei ciprioti e di una lunga serie di altri popoli. I lavoratori ospiti polacchi sono bene accolti in tutta Europa e i filippini in tutto il mondo. È vero che in un'era di nazionalismo aggressivo le minoranze etniche si sono trovate in difficoltà. Per esempio, Idi Amin cacciò gli indiani dall'Uganda e Gamal Abdel Nasser espulse dall'Egitto greci, italiani, altri europei e anche gli ebrei anche se erano vissuti là per generazioni, mentre le minoranze cinesi hanno subito pressioni nel Sudest asiatico. Ma questi erano gruppi relativamente piccoli, ed è solo in Europa che il problema degli immigrati musulmani è diventato un grave problema politico. L'integrazione non ha funzionato, in parte perché gli immigrati stessi non la volevano. Il multiculturalismo ha fatto emergere delle società parallele, con conseguenze spesso negative.

Questa situazione ha imposto di interrogarsi: di chi era la colpa, e cosa si poteva fare per rimediare? Una delle ragioni era naturalmente che i paesi europei non erano abituati ad assorbire milioni di stranieri radicati in culture differenti, che non avevano nessun desiderio di rinunciare al vecchio stile di vita e accettare i costumi dei paesi d'adozione. Questa non è una caratteristica dell'Europa; si può trovare in tutto il mondo, eccetto in quei paesi che sono dipesi per lunghi periodi dal flusso di immigranti, come le nazioni del nordamerica, alcuni paesi dell'America Latina, íl Canada e l'Australia. Per il resto, l'antipatia per gli stranieri, anche quelli vicini per lingua, religione e cultura, è stata profonda e diffusa. Perfino le condizioni dei rifugiati palestinesi nei paesi arabi sono state spesso difficili; venivano e vengono spesso chiusi nei campi profughi, qualche volta venivano espulsi, e solo raramente ottenevano la cittadinanza, anche se non mancavano certo i discorsi che parlavano di solidarietà con questi fratelli e sorelle perseguitati.

Ma c'erano anche altre ragioni. Per cominciare, l'immigrazione musulmana in Europa è stata in gran parte spontanea e incontrollata. È continuata per molto tempo, anche dopo che è diventato chiaro che i "lavoratori ospiti" non avevano alcuna intenzione di ritornare al paese d'origine, e molto tempo dopo che era diventato evidente che per loro non c'era lavoro. In una certa misura l'immigrazione era la conseguenza del passato imperiale: gli algerini avevano diritto di stabilirsi in Francia, mentre gli abitanti delle Indie Occidentali e gli indiani che vivevano in Uganda avevano diritto di andare in Gran Bretagna. Ma questa spiegazione postcoloniale non si applicava alla maggioranza, nata molto tempo dopo che gli imperi avevano rinunciato ai loro possedimenti e quei paesi avevano ottenuto l'indipendenza, né si applicava a tutti quelli che erano emigrati in Germania o in Svezia, in Austria, in Olanda o in Belgio.

C'era, e c'è ancora in una certa misura, una scuola di pensiero secondo la quale la responsabilità della mancata integrazione era da attribuire alle società europee, che non avevano un atteggiamento sufficientemente benevolo verso gli immigrati e non avevano investito abbastanza per aiutarli a trovare casa e in altri modi, compresa l'istruzione. Ma alle società europee – ai singoli cittadini – non è mai stato chiesto se volevano avere nel loro paese milioni di nuovi vicini; quei cittadini avevano il diritto di votare su tutta una serie di problemi, interni e di politica estera, ma su questo problema assolutamente centrale nessuno li ha mai consultati: i governi e le imprese hanno fatto tutto da soli. Avrebbero agito diversamente se avessero previsto le conseguenze?

Nemmeno per questa domanda c'è una risposta certa. Alcuni paesi sarebbero stati più cauti nell'aprire le porte agli immigranti e nel concedere asilo. Altri probabilmente non si sono curati del problema, nella credenza di non avere più molto da offrire, di avere cioè più o meno assolto la propria missione storica (semmai ne hanno avuta una) e che difendere la propria identità sociale e culturale non era una questione di primaria importanza nel mondo contemporaneo. Per nazioni esauste forse era arrivato il momento di passare la fiaccola della civiltà ad altri popoli, altre religioni, altri gruppi etnici.

In alcuni casi, come quelli della Scandinavia e dell'Olanda, può aver avuto un certo peso una cattiva coscienza che risale agli anni trenta, quando ai rifugiati dalla Germania nazista veniva quasi sempre negato asilo sebbene fossero perseguitati per motivi politici o razziali. Anche in Germania c'era il timore di essere accusati di razzismo se veniva negato l'ingresso agli immigranti. È difficile capire, anche con uno sguardo retrospettivo, cosa avessero in mente i governanti di questi paesi nel dopoguerra. Immaginavano forse che un'immigrazione incontrollata non avrebbe creato grandi problemi? Che i problemi economici, sociali e culturali sarebbero stati risolti? Che gli immigranti un giorno sarebbero scomparsi o che si sarebbero bene integrati?

Tutto ciò non significa che delle società europee fiduciose in se stesse avrebbero dovuto chiudere ermeticamente le porte a tutti gli immigranti. Ma li si sarebbe dovuti avviare al lavoro produttivo, non permettergli di usufruire dei servizi di assistenza fin dal giorno del loro arrivo. I predicatori e gli agitatori che parlavano della decadenza di uno stile di vita occidentale peccaminoso avrebbero dovuto essere espulsi. Si sarebbe dovuto imporre agli immigrati di rispettare le leggi, i valori e le norme prevalenti; se queste leggi e norme non fossero state conformi alle loro convinzioni, sarebbero stati liberi di andarsene. Questo, dopotutto, è ciò che è accaduto nella storia: cristiani dell'Europa centrale ed ebrei dell'Europa orientale emigrarono in America precisamente perché si sentivano vittime di discriminazioni e persecuzioni.

I governi e le società europee, invece, non avevano più fiducia in se stesse; la xenofobia non era scomparsa, ma la classe dirigente era ben poco orgogliosa di appartenere a una certa nazione, o all'Europa. Ciò che prevalse fu il relativismo culturale e morale, forse in parte come reazione al nazionalismo del passato. Queste società non erano in grado di offrire una guida ai nuovi arrivati ed erano molto permissive, sicché gli immigrati inevitabilmente si facevano l'idea che leggi e norme si potessero tranquillamente ignorare. Atteggiamenti come questi, insieme al relativismo culturale e morale degli europei, erano destinati ad avere gravi conseguenze, e gli europei dovranno sopportarle. Gli immigranti illegali in Giappone, in Cina o a Singapore, praticamente in ogni altro paese, sarebbero stati rispediti indietro entro pochi giorni, se non poche ore. Gli Stati Uniti hanno avuto un problema simile con gli immigranti messicani, ma almeno questi non avevano in mente di imporre una nuova legge straniera e religiosa al paese di adozione. Agli immigranti illegali in Europa è stato permesso di rimanere, ma anche se le autorità avessero scelto una linea più dura, questa avrebbe avuto effetto solo su una minoranza, dal momento che i membri delle comunità di immigrati sono ormai cittadini del nuovo paese o ci sono nati, quindi hanno diritto di viverci come chiunque altro.

Oggi ci si sta gradualmente rendendo conto di come tutto questo peserà sul futuro dell'Europa, insieme ad altre minacce che il continente ha di fronte. Certamente si tratta della fine dell'Europa come grande protagonista della politica mondiale. Come si è già detto, disgrazie e disastri epocali potrebbero capitare anche in altri continenti; alcuni sono stati descritti in opere di fantascienza, altri sono stati elencati e descritti in un libro di Richard A. Posner, Catastrophe: Risk and Response, 2005. Vanno dal terrorismo biologico a una gigantesca epidemia, al surriscaldamento del pianeta, fino alla collisione con una cometa. Ma in tutta probabilità una simile catastrofe su scala planetaria colpirebbe anche l'Europa, quindi non sarebbe una consolazione per gli europei.

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