Copertina
Autore Aurelio Lepre
Titolo Che c'entra Marx con Pol Pot?
SottotitoloIl comunismo tra Oriente e Occidente
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2001, Sagittari 130 , pag. 180, dim. 140x210x13 mm , Isbn 978-88-420-6367-4
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe storia , politica , marxismo
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Indice


    Introduzione                              V

1.  Le polemiche sul comunismo                3

2.  La rivoluzione nel centro del mondo      13
    l. Da Marx a Pol Pot, p. 13 - 2. Il
    rapporto tra guerra e rivoluzione, p. 19

3.  Il rifiuto di una guerra mondiale        25
    1. Lo sviluppo del capitalismo in
    Inghilterra, p. 25 - 2. La rivoluzione
    della Comune, p. 28 - 3. Il rifiuto di
    Engels della violenza e della guerra, p. 33

4.  La sconfitta della pace                  39
    l. La guerra russo-giapponese e la
    rivoluzione russa, p. 39 - 2. Revisionismo
    e pacifismo, p. 44 - 3. Da Sorel a
    Mussolini: la rivoluzione di destra, p. 49
    - 4. La Grande Guerra, p. 51

5.  La nascita dell'Unione Sovietica         55
    l. La scelta di Lenin, p. 55 - 2.
    L'illusione della rivoluzione mondiale,
    p. 59

6.  La costruzione di una società socialista 67
    1. Dalla rivoluzione mondiale al socialismo
    in un solo paese, p. 67 - 2. Il fallimento
    della rivoluzione in Oriente, p. 70 - 3. La
    guerra di posizione e l'estrema
    concentrazione della politica, p. 74 - 4.
    Il ritorno del passato e il Grande Terrore,
    p. 78

7.  Da una guerra all'altra                  83
    l. Tra sicurezza collettiva e geopolitica:
    la rinascita del nazionalismo russo, p. 83
    - 2. La rivoluzione si sposta in Estremo
    Oriente, p. 90 - 3. La seconda guerra
    mondiale e le sue conseguenze, p. 94 - 4.
    L'Occidente contro l'Occidente, p. 97

8.  Declino e fine del comunismo in Europa  101
    1. L'ultimo progetto di Stalin, p. 101 -
    2. Il progetto di Chruscëv, p. 103 - 3. La
    ripresa e la fine dell'espansionismo
    sovietico, p. 105 - 4. Nazionalismo e
    comunismo nel campo socialista europeo, p.
    107 - 5. Il comunismo nei paesi
    occidentali, p. 108

9.  Comunismo e geopolitica                 115
    l. La definitiva orientalizzazione del
    comunismo: la Cina di Mao Zedong, p. 115 -
    2. La catastrofe del Grande Balzo in
    avanti, p. 117 - 3. La rivoluzione
    culturale e la fine dell'utopia maoista, p.
    121 - 4. La definitiva crisi
    dell'internazionalismo comunista, p. 124

10. Gli ultimi comunismi                    129
    1. Castro e Guevara, p. 129 - 2. Il
    comunismo in Occidente, p. 133 - 3.
    L'ultima frontiera della rivoluzione
    comunista: l'Africa, p. 135 - 4. Il
    nazionalcomunismo, p. 139

11. Marx e l'occidente                      145

    Note                                    157

    Indice dei nomi                         173

 

 

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Pagina V

Introduzione



Centocinquant'anní fa Karl Marx e Friedrich Engels scrissero nel Manifesto che uno spettro si aggirava per l'Europa: il comunismo. Nel corso del XX secolo lo spettro s'incarnò in un gigantesco sistema politico-sociale, che andava dal cuore dell'Europa ai mari della Cina, e fu in grado di porsi come antagonista di quello capitalistico. Grazie al formidabile apparato bellico dell'Unione Sovietica, sembrò poterne minacciare la stessa esistenza. Ma sul piano economico quel gigante aveva i piedi di argilla e, prima che il secolo terminasse, si sgretolò senza potersi servire della propria potenza militare: la vittoria degli Stati Uniti fu decisa, infatti, dalla loro forza economica. A renderla più completa, anche in Cina il partito comunista sta rinunciando, sia pure per gradi, all'economia collettiva e la sta sostituendo con quella capitalistica, ritenuta in grado di produrre più ricchezza. Nel 2001, due soli paesi si rifanno alla piena ortodossia del comunismo, come è stata intesa a partire da Lenin: Cuba, simbolo di un'orgogliosa povertà, e la Corea del Nord, chiusa in se stessa, bene armata, ma anch'essa fragile per la debolezza della sua economia.

La sconfitta del comunismo, invece di porre fine all'anticomunismo, l'ha alimentato. Gli attacchi odierni sono più violenti che in passato e coinvolgono anche Marx: viene messo sotto accusa non solo il sistema che ha governato per settant'anni l'Unione Sovietica, ma anche il pensiero che l'ha ispirato. Le responsabilità della mancanza di libertà, delle repressioni e dei gulag vengono attribuite a Marx non meno che a Stalin e a Lenin. Si tratta di accuse generiche, perché pochi, tra quelli che lo maledicono, ne hanno letto le opere. E perché dovrebbero farlo, se gli scritti di Marx sono pochissimo frequentati anche dalla sinistra? Quella democratica cerca i suoi modelli nel pensiero liberale e la sinistra che si definisce rivoluzionaria li cerca in un comunismo primitivo, dove si mescolano l'elogio della non violenza e della guerriglia, del pauperismo e dell'egualitarismo, in una sorta di ritorno allo stato di natura.

Se Marx rivivesse oggi, resterebbe inorridito ad apprendere che, in suo nome, furono ammazzati in Cambogia, sotto il regime di Pol Pot, milioni di innocenti. E s'indignerebbe anche a sentir definire comunista la Corea del Nord, trasformata in una grande caserma. Quanto ai milioni di morti provocati in Russia e in Cina dalla trasformazione violenta di società agricole in società industriali, vi troverebbe una conferma della sua tesi sull'impossibilità di costruire il comunismo in un paese economicamente arretrato. Nell'opera di Marx si trovano, infatti, gli elementi utili per comprendere il fallimento del comunismo reale, profondamente diverso dal «regno della libertà», che egli aveva in mente.

L'Eden laico sognato da Marx avrebbe dovuto essere il punto di approdo del massimo livello di sviluppo economico possibile nel capitalismo, il prodotto di una società ricca, che nel comunismo avrebbe trovato il mezzo per diventarlo ancora di più. Marx voleva il benessere per tutti: è stato anche lui il teorico di una affluent society, egualitaria ma opulenta. Non auspicò mai l'eguaglianza nella miseria.

La rivoluzione avrebbe dovuto scoppiare e vincere nel centro del mondo, e non nella sua periferia: solo così si sarebbe avverato il sogno di liberare l'uomo dal bisogno. La previsione di Marx si rivelò errata, perché Lenin riuscì a forzare il corso della storia, quando, nel 1917, conquistò il potere in un paese, come la Russia, che ancora non aveva visto dispiegarsi in pieno la rivoluzione economica e politica borghese. Fu allora che il marxismo occidentale si trasformò in comunismo asiatico e in questa forma continuò a espandersi, propagandosi, nella seconda metà del secolo, in Asia e anche in Africa.

L'analisi sviluppata in questo saggio è centrata proprio sul tradimento perpetrato da Lenin, quando trapiantò il comunismo in Oriente. Per questo peccato di origine, le società costruite da Lenin, da Stalin, da Mao Zedong e dai loro seguaci furono afflitte da una penuria di beni che consentiva solo il soddisfacimento dei bisogni elementari. Se, seguendo l'ordine cronologico, facciamo un elenco dei paesi in cui la rivoluzione comunista vinse, ci rendiamo conto di una continua discesa verso una maggiore povertà: Russia, Cina, Cuba, Vietnam. In quelli economicamente più progrediti dell'Est europeo, il comunismo non fu il risultato di una rivoluzione, ma fu imposto dall'Armata Rossa dopo la seconda guerra mondíale. Nel centro del mondo, costituito dall'Inghilterra prima e dagli Stati Uniti poi, non assunse mai, diversamente dalle previsioni di Marx, una reale consistenza.

In realtà, per capire a quali conseguenze drammatiche abbia portato la traduzione leninista del pensiero di Marx, non ci sarebbe bisogno di rileggere le sue opere. Sono stati gli stessi dirigenti dell'URSS a mostrarlo, quando hanno deciso il suicidio del comunismo sovietico. Ma la rilettura che farò nelle pagine seguenti porta, mi sembra, a un altro risultato, per niente scontato.

Oggi, i più lontani da Marx sono i movimenti che proclamano rivoluzioni o trasformazioni radicali. Se n'erano allontanati già i protagonisti del Sessantotto, che guardavano a Mao Zedong come a un maestro, ma ora il distacco è veramente completo. I nuovi rivoluzionari sono contro la globalizzazione, di cui Marx è stato il primo celebratore. Considerano una sciagura la formazione del mercato mondiale, che per Marx era l'indispensabile premessa per la costruzione di una civiltà universale. Avversano la ricchezza che Marx, invece, riteneva il fondamento necessario all'estrinsecazione di tutte le doti creative dell'uomo. Sono convinti che la natura venga violentata dallo sviluppo industriale, mentre Marx auspicava il suo assoggettamento. Non c'è una sola rivendicazione del cosiddetto «popolo di Seattle» che lo troverebbe d'accordo. Tra chi difende l'Occidente e chi lo contesta, soltanto i primi potrebbero ancora legittimamente riferirsi a Marx. Non è certo mia intenzione sostenere che egli non sia stato un duro nemico del capitalismo. Ci mancherebbe. Ma non lo è stato della civiltà occidentale, alla quale appartiene in pieno. Credo che, se lo si rilegge senza prevenzioni, si possa arrivare a questa conclusione. Perciò, in un XXI secolo che vedrà molto probabilmente sfide planetarie lanciate da altre civiltà, l'Occidente potrà avere bisogno anche di lui.

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Pagina 3

1.
Le polemiche sul comunismo



Il comunismo costituisce la più importante questione storiografica dell'età contemporanea. Ci sono tre modi di affrontarla: demonizzarlo come un movimento e un'ideologia che ha prodotto soltanto crimini; ribadire la propria fede nel suo futuro, o, infine, cercare di capire le cause della sua nascita e della sua crisi. E questo è certamente il più proficuo, anche sul piano politico.

Ma sembra che, al di fuori di un ristretto gruppo di studiosi, nessuno abbia voglia di cominciare. Gli anticomunisti, perché la demonizzazione è più facile e anche politicamente più utilizzabile; i comunisti, perché la fede non si discute, e gli ex comunisti, infine, perché di certe cose è meglio parlare il meno possibile: gli avversari sono in agguato, pronti ad approfittare di ogni ammissione di colpa, per chiedere autodafé in cui i rei facciano completa abiura. Qualcuno, per la verità, si sente così colpevole da arrivare spontaneamente all'autoflagellazione, qualcun'altro si limita al pentimento. La maggior parte si rifugia e si arrocca nella perdita di memoria. Importanti intellettuali, che nel Sessantotto incitavano ad abbattere con la violenza il potere borghese, chiedono, stupiti: «Marx, chi?». E dirigenti politici di primo piano ricordano di avere collocato, mano a mano che passavano gli anni, l' opera omnia di Lenin sempre più in alto negli scaffali della libreria, fino a farla scomparire in cantina. Quanto agli scritti di Marx, confessano di averli sempre considerati indigeribili mattoni: loro amavano si, Marx, ma l'altro, Groucho. Per fortuna, le circostanze - che come diceva, mi sembra, quest'ultimo - fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze, li hanno liberati dalla necessità di far finta di avere letto Il Capitale, che li aveva afflitti quando erano giovani dirigentí del partito comunista. Lo slogan di Togliatti «veniamo da lontano e andiamo lontano» si è trasformato in «non ricordiamo da dove veniamo e non sappiamo dove andiamo».

Ripeto, gli studiosi che anche in passato si erano seriamente occupati del marxismo, del comunismo, dell'URSS, della Terza Internazionale e così via, hanno continuato serenamente il loro lavoro. Ma la ricerca storica su questi argomenti è diventata un'attività pressoché clandestina, e non tanto per ragioni politiche, quanto perché essi destano qualche interesse solo all'interno dell'accademia, o quasi. Sarà stata l'indigestione fatta nel Sessantotto, quando bastava una bandiera rossa in copertina per trasformare un libro in un best seller, sarà stato il crollo dell'URSS, certo è che i lettori interessati a ricordare sono sempre meno numerosi.

La rimozione del passato fa parte, probabilmente, del patrimonio genetico italiano: avvenne lo stesso dopo la caduta del fascismo, quando moltissimi lo cancellarono. Anche i quattro anni trascorsi dall'estate del 1943 a quella del 1947 furono presto dimenticati. L'unità nazionale antifascista, corrispondente a quella internazionale tra Stati Uniti, Unione Sovietíca e Gran Bretagna, aveva fatto mettere in ombra la persecuzione dei kulaki, i campi di lavoro forzati e i processi degli anni Trenta contro gli oppositori di Stalin. A volte sembra che queste cose siano state conosciute solo dopo l'inizio della guerra fredda. Ma non è così. Il governo sovietico non aveva mai nascosto l'esistenza di campi in cui milioni di colpevoli di reati, politici o comuni, venivano «rieducati». Quanto ai processi, nel 1938 aveva provveduto a pubblicare, dopo averli fatti tradurre in una lingua internazionale come il francese, i verbali del dibattimento pubblico. Non si parlava certo di tortura, fisica o psicologica, degli imputati, ma sarebbe dovuta bastare la lettura degli interrogatori condotti da Andrej Vysinskij, con l'implacabilità del persecutore di vere eresie e di presunti tradimenti, a far capire a sufficienza cosa erano stati quei processi, per l'assurdità delle accuse che venivano mosse e per la disponibilità degli accusati a confessarsi colpevoli dei crimini più inverosimili.

Ma l'anticomunismo ha sempre avuto un valore soprattutto strumentale. Lo stesso fascismo aveva premuto sull'acceleratore o frenato, secondo l'intenzione di Benito Mussolini di accentuare o no gli elementi sociali del suo programma. Alla sua caduta, Stalin acquistò il fascino del vincitore anche presso le persone più insospettabili. Nel 1944, Alcide De Gasperi lo definí «grande maresciallo, grande condottiero dei popoli» e azzardò un audace paragone:

Ma lassù sull'erta, e mi par di vedere con gli occhi della fede la Sua luminosa figura, cammina un altro Proletario, anch'Egli israelita come Marx; duemila anni fa Egli fondò l'Internazíonale basata sull'eguaglianza, sulla fraternità universale, sulla paternità di Dio, e suscitò amori ardenti, eroismi senza nome, sacrifici fino all'immolazione.

Oggi può sembrare incredibile, ma nel 1944, un cattolico moderato come De Gasperi appariva convinto che il popolo italiano avrebbe potuto percorrere il cammino della ripresa accompagnato da Cristo e da Marx, tutti e due ebrei e, soprattutto, proletari. Ma anche chi non aveva nessuna simpatia per i proletari poteva ammirare Stalin. Per esempio, Benedetto Croce, il quale si chiedeva se la Provvidenza si sarebbe incaricata di trovare «successori sempre pari» a «uomini di genio politico dotati» come Lenin o Stalin. Lo stesso Edgardo Sogno, riconosciuto campione di anticomunismo, ha detto di quegli anni: «Eravamo ancora sotto ipnosi, vittime della malia. Mi sono svegliato più tardi, nel '47, nel '48».

Quando la malia cessò, Marx tornò a essere patrimonio di una sola parte. Ma bisogna ricordare che la sua conoscenza, al di fuori degli studi specialistici, è stata sempre piuttosto superficiale. In Italia Marx è stato sempre visto attraverso degli schermi: la riscrittura che ne aveva fatto Stalin, negli anni della lotta clandestina del PCI contro il fascismo, l'interpretazione di Lenin, dopo il 1956, e, infine, il Mao Zedong-pensiero. Quando gli è andata bene, è stato letto attraverso Antonio Labriola o Antonio Gramsci.

Nel Sessantotto si straparlò di Marx. Non mancarono studi approfonditi e intelligenti intuizioni. Ma la vulgata fu un disastro. La traduzione delle puntigliose discussioni filologiche in materiale di propaganda rivoluzionaria immediata, finì col privare di senso anche le più acute analisi. A tal punto, che Marx poté essere considerato un teorico della spesa proletaria nei supermercati e della rivoluzione di quel sottoproletariato che aveva sempre disprezzato.

In quegli anni si guardò molto al terzomondismo: poiché non si trovavano soggetti rivoluzionari in Europa, si cercarono fuori. L'attenzione e, in molti casi, la soggezione alle tesi terzomondiste derivavano anche da un complesso di colpa. I comunisti non avevano nessuna responsabilità per il colonialismo e per l'imperialismo, ma si «fecero carico», come si diceva allora, di tutti i crimini attribuiti all'Occidente. Di qui, anche in Italia, la mitizzazione dei «dannati della terra», immaginati come i nuovi apostoli della missione rivoluzionaria, tradita o improponibile nel mondo occidentale. L'economia fu messa in secondo piano rispetto alla politica. Si continuò a parlare in nome di Marx, ma, con l'obiettivo di portare la fantasia al potere, fu abbandonato, anche sul piano teorico, proprio l'elemento fondamentale del suo pensiero, la preminenza dell'economia sulla politica.

Nell'attività pratica era stato abbandonato da tempo. La rivoluzione russa del 1917 fu, nei fatti, il trionfo della politica sull'economia. E tutta la costruzione del comunismo fu fondata sulla politica, nella forma estremamente concentrata della dittatura. Nella seconda metà del XX secolo i più intelligenti allievi di Marx furono, invece, proprio coloro che pubblicamente lo combattevano e lo denigravano. Mentre il movimento comunista mondiale cercava l'egemonia attraverso la forza, i paesi capitalistici la trovarono sul terreno dell'economia. Nel 1947 gli Stati Uniti gettarono le basi del loro predominio con il piano Marshall e alla fine vinsero il confronto planetario con l'Unione Sovietica proprio grazie alla loro superiorità economica, al fatto che riuscivano a produrre più ricchezza.

Marx ed Engels avevano capito subito che il problema principale era proprio questo: per poter rappresentare una tappa più avanzata in quello che essi immaginavano come il cammino dell'umanità sulla strada del progresso, bisognava che il «modo di produzione comunistico» fosse in grado di produrre più benessere di quello capitalistico. Il loro obiettivo non era il raggiungimento delle condizioni di vita eguali, ma misere, e sia pure spesso dignitose, che avrebbero contrassegnato più tardi il comunismo reale. Per questo, diversamente dai loro falsi epigoni, essi celebrarono la «ricchezza» collettiva, risultato della millenaria fatica dell'uomo e base di ogni progresso futuro, che sola avrebbe potuto consentire all'uomo di essere veramente libero. Lenin lo capi benissimo, perché conosceva le opere di Marx ed Engels come le proprie tasche, ma in lui prevalse la volontà di diventare un grande creatore di storia. Mentre se ne proclamava interprete, tradì il pensiero marxiano ed engelsiano, affidando alla politica anche i compiti che sarebbero toccati all'economia, e aprì così la strada a Stalin.

Già nel 1917, Gramsci intuì che la rivoluzione russa andava contro Il Capitale di Marx, ma l'íntuizione restò tale: lui stesso ben presto sembrò dimenticarla. Del resto, nella stessa Italia l'economia capitalistica non era ancora in grado di produrre direttamente egemonia. A parte Gramsci, il solo segretario del PCI che ebbe una profonda conoscenza di Marx fu Palmiro Togliatti. Ma lo vide attraverso Stalin e soprattutto Lenin e, anche lui, credette alla preminenza della politica. Nel 1945 immaginò un compromesso: lasciare il campo dell'economia all'iniziativa capitalistica e rivolgere tutte le forze del PCI alla sfera politica.

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Pagina 9

La confusione è resa possibile dalla mancanza di conoscenze storiche diffuse, a livello non solo specialistico, ma di massa, a causa della volontà, in parte indotta, di dimenticare. Il desiderio di entrare nel XXI secolo senza il carico di odio lasciato in eredità dal XX è del tutto comprensibile, ma il passato non può essere ignorato, anche negli aspetti che possono risultare più spiacevoli. Altrimenti, si lascia libero il campo alle più spregiudicate incursioni di chi cerca di utilizzare l'identificazione del comunismo con il Male assoluto per fini politici attuali. Se n'è avuto un esempio nel 1997, con la pubblicazione di un Libro nero del comunismo, in cui, con calcoli che tenevano scarso conto dei risultati delle ricerche a carattere scientifico, si imputavano al «sistema comunista» nel suo insieme (comprendente anche i partiti che non sono stati mai al potere) 94.210.000 di morti. Il modo peggiore di rispondervi è quello di contrapporre colpe a colpe, crimini a crimini, come è avvenuto quando si sono ricordate le decine di milioni di morti provocati dal capitalismo nel corso della sua storia, a cominciare dal genocidio degli indios nel Cinquecento.

Nel saggio che fa da presentazione al Libro nero del comunismo il curatore dell'opera, Stéphane Courtois, ha mantenuto il discorso su un piano moralistico-propagandistico. Pur riconoscendo che la storia del comunismo «non si riduce alla dimensione criminale e neppure a una dimensione di terrore e di repressione», lo ha rappresentato come una sorta di regno del Male. Ma in quello conclusivo ha introdotto importanti elementi di analisi storica.

Rifacendosi al marxista Karl Kautsky, Courtois ha visto nella Grande Guerra la causa prima di una intensa violenza che durò quattro anni e coinvolse militari e civili. Kautsky aveva addebitato alla guerra la nascita di una generalizzata «tendenza alla ferocia», che aveva permeato tutta la popolazione e, in specie, le decine di milioni di combattenti: «Coloro che tornavano erano fin troppo predisposti dagli usi della guerra a difendere in tempo di pace le loro rivendícazioni e i loro interessi con atti sanguinari e violenze verso i propri concittadini. Ciò costituì uno degli elementi della guerra civile». Il fatto che Courtois individui la madre delle tragedie che hanno insanguinato il XX secolo nella Grande Guerra, per la quale nessuna responsabilità può essere attribuita non solo ai marxisti ma nemmeno ai comunisti, è in contraddizione con l'impostazione data al Libro nero del comunismo.

Per essere coerente, infatti, Courtois avrebbe dovuto riconoscere che l'origine delle stragi del XX secolo non deve essere cercata nel comunismo, ma nell'implosione dell'Occidente, di cui la Grande Guerra fu la prima manifestazione. La seconda, in ordine cronologico, fu la trasformazione del marxismo in comunismo «asiatico». Questa trasformazione è stata una tragedia per l'intero Occidente, sia perché, al suo interno, ha dato forza al fascismo prima e al nazionalsocialismo poi, sia perché gli ha sottratto un filone politico-culturale che è parte essenziale della sua storia.

D'altra parte, lo stesso Courtois ha assolto Marx da ogni colpa. Ha negato l'innocenza dell'ideologia, la possibilità di separarla dalla politica, ma ha ricordato che Marx era contrario alla violenza terroristica e che, alla vigilia della Grande Guerra, essa non era accettata dai marxisti, tranne che da Lenin, legato alla tradizione russa della rivolta violenta di Sergej Necaev, speculare al dominio violento dello zarismo. Fu con Lenin che, secondo Courtois, «il volontarismo di Necaev ebbe la meglio sul determinismo di Marx». La separazione tra marxismo e comunismo, definito anche «asiatico», ha spinto Courtois a non coinvolgere il primo (e il socialismo che ne è derivato) nella condanna totale del secondo.

A Marx ha reso omaggio anche uno dei più illustri rappresentanti del cosiddetto revisioniamo, François Furet:

Marx in fatto di dimostrazione delle leggi della storia è insuperabile. Può piacere sia agli spiriti eletti, sia ai poveri di spirito, a seconda che si legga il Capitale o il Manifesto. A tutti sembra rivelare il segreto della divinità dell'uomo, venuta dopo quella di Dio: agire nella storia senza le incertezze della storia, se è vero che l'azione rivoluzionaria rivela e realizza le leggi dello sviluppo. La libertà e insieme la scienza della libertà: per l'uomo moderno privo di Dio non vi è pozione più inebriante.

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Pagina 52

Negli Ultimi giorni dell'umanità Karl Kraus ha collocato la follia tra le cause fondamentali della guerra, come aveva fatto Jaurès: è follia «fabbricar corazzate quando si costruiscono torpediniere per affondarle, costruire mortai quando per difendersi si scavano trincee dove è perduto chi mette soltanto la testa fuori per primo». E ha indicato tra esse anche una sorta d'infantile stupidità: «L'intelligenza non fa che risparmiarsi la fatica di pensare [...]: la guerra trasforma la vita in un asilo infantile, dove è sempre l'altro che ha cominciato [...]». Ma ammettere che c'erano state quasi trenta milioni di vittime, tra morti e feriti, per i calcoli errati dei politici e per la stupidità dei generali era un po' troppo anche per alcuni degli scrittori che denunciavano gli uni e l'altra. Il più famoso tra loro, Barbusse, cercò di dare un senso alla Grande Guerra, vedendola come il preludio della rivoluzione. Alla guerra giusta in cui aveva creduto ancora nell'agosto del 1914, contro l'imperialismo e il militarismo tedeschi, contro «la sciabola, lo stivale e la corona», sostituì la rivoluzione giusta. Nella scena finale della sua opera più famosa, Il fuoco, i soldati si risvegliano lentamente, dopo una notte in cui c'è stato uno spaventoso diluvio che ha sommerso tutto. C'è ancora l'orrore della guerra, e tuttavia c'è anche speranza, perché nel cielo, tra le nuvole, appare una striscia di luce. Anche Dix, in Flandern, raffigurò le trincee trasformate in acquitrini, ma illuminate dall'alto dal sole che stava sorgendo. Per Barbusse, che sarebbe diventato comunista, solo se avesse dato origine a una rivoluzione il conflitto che aveva devastato l'Europa avrebbe potuto assumere un senso.

Gli storici hanno bisogno di dare un senso agli avvenimenti e per la Grande Guerra hanno fatto ricorso a tutte le spiegazioni possibili: l'atavismo, l'imperialismo, il nazionalismo. Ma, facendo appello alle ragioni della storia, non sono arrivati a spiegare perché gli uomini diedero inizio a un conflitto che rappresentò la prima grande tragedia collettiva dell'intera umanità. Oggi essi ammettono che non esiste una spiegazione convincente, che sono misteriosi sia le origini della Grande Guerra che il suo svolgimento e che essa era evitabile, perché le successioni degli avvenimenti che portò al suo scoppio poteva essere interrotta in qualsiasi momento.

La Grande Guerra fu, in realtà, la madre di tutte le guerre del XX secolo e anche delle rivoluzioni, sia di sinistra che di destra: conteneva il codice genetico di tutte le sue tragedie. Da essa nacquero il bolscevismo, il fascismo e, più tardi, il nazionalsocialismo. Con una rilevante differenza: per Mussolini e per Hitler bisognava far nascere stirpi di guerrieri, in grado di alimentare nuove guerre; per Lenin, invece, la rivoluzione avrebbe dovuto porre fine a esse per sempre. Ma si sbagliava: i morti afferrarono i vivi e, come in una danza macabra del Medioevo, li trascinarono a decine di milioni in un abisso.

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Pagina 98

Italia, Germania e Giappone fondarono la loro propaganda sul tema della guerra dei popoli ricchi contro i popoli poveri, del sangue contro l'oro. Il richiamo al sangue era collegato alla celebrazione della razza ariana. L'oro, secondo Hitler, era il simbolo maledetto delle plutocrazie «giudaiche», le quali, grazie alla solidarietà di razza degli ebrei, erano riuscite ad aggiogare anche il bolscevismo.

Il Nuovo Ordine immaginato per l'Europa e per il mondo si fondava su una concezione negativa della ricchezza. In esso, infatti, l'economia avrebbe dovuto essere governata rigidamente dalla politica: al libero mercato mondiale si sarebbero sostituiti gli scambi in compensazione, dove il lavoro avrebbe potuto essere scambiato con altri beni. Si contrapponevano così un Occidente chiuso, nel quale la civiltà europea era fondata sulla cultura tradizionale e sull'identità biologica ed era destinata a dominare attraverso la conquista politico-militare, e un Occidente aperto, nel quale la civiltà europeo-nordatlantica era intesa come processo di civilizzazione. Anch'esso si poneva l'obiettivo del dominio mondiale, ma in termini essenzialmente economici.

Per combattersi meglio, tutte e due le parti dell'Occídente cercarono appoggi esterni. I tentativi più consistenti da parte del fascismo e del nazionalsocialismo furono fatti in direzione del mondo islamico, dove fu ottenuto il più appariscente, ma anche del tutto effimero, successo, con la formazione in Irak di un governo favorevole all'Asse. La propaganda anticolonialista della Germania e del Giappone ottenne adesioni in Africa, nel Medio e nell'Estremo Oriente, ma esse non si trasformarono in un effettivo sostegno. Le colonie si schierarono a favore dell'affeanza antifascista, anche grazie all'attività svolta dai partiti comunisti.

La seconda guerra mondiale provocò un numero di vittime molto superiore a quello della prima. In questa i morti erano stati circa 8 milioni e mezzo, 1.700.000 in Germania e in Russia, 1.300.000 in Francia, 1.200.000 in Austria-Ungheria. I feriti erano stati 21.000.000. Nella seconda guerra mondiale ci furono quasi 15 milioni di morti e 26 milioni e mezzo di feriti. La sola Unione Sovietica ebbe 6.000.000 di morti e 14.000.000 di feriti, circa il doppio delle perdite tedesche e quasi la metà di quelle di tutti gli altri paesi. Queste vittime non possono essere attribuite al comunismo, e nemmeno al capitalismo. La causa prima del conflitto furono le rivendicazioni nazionalistiche, non solo della Germania ma anche di altri Stati: troppo spesso si dimentica che la spartizione della Cecoslovacchia fu attuata dalla Germania, dall'Ungheria e dalla stessa Polonia, che un anno più tardi sarebbe stata spartita a sua volta. In questo, la seconda guerra mondiale fu veramente la prosecuzione della prima.

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Il raggiungimento dell'«equibbrio del terrore» rese meno importante per l'URSS la funzione del Cominform. Di qui, oltre che da un progressivo radicamento dei partiti comunisti nelle realtà nazionali europee, il suo declino, che comunque non significò la fine dei legami esistenti tra i partiti comunisti occidentali e l'URSS. C'erano i rapporti finanziari, molto consistenti, e quelli ideologici, ancora più importanti. L'Unione Sovietica continuò a rappresentare un modello per ampi strati di operai e contadini, almeno fino a quando sembrò avere trovato una soluzione per due problemi che in Europa restavano irrisolti: la disoccupazione e la garanzia di un minimo livello di sussistenza per tutti. Nelle condizioni di vita del dopoguerra erano sembrati traguardi importanti e tali rimasero fino alla metà degli anni Cinquanta, quando anche in Europa l'economia cominciò a svilupparsi a ritmi elevati e a scavare il terreno sotto la politica.

I partiti comunisti non scomparvero; conobbero, anzi, ulteriori successi. È stato detto, in maniera molto efficace, che la rivoluzione si trasformò in tradizione e il comunismo occidentale, più che di prospettive, visse del proprio patrimonio. Ma va aggiunto che visse anche della capacità di guidare le lotte di classe in Occidente, nel momento in cui in Francia e in Italia altri partiti di sinistra erano costretti a scendere su questo terreno a frequenti compromessi, a causa della limitatezza delle loro forze, che, negli schieramenti di governo, li rendeva incapaci di imporre una loro linea politica. Anche se tra i dirigenti comunisti dell'Europa occidentale alcuni sognarono di passare dagli scioperi e dagli scontri parlamentari alla rivoluzione, la grande maggioranza non ebbe questa tentazione. D'altra parte, la rivoluzione nell'Europa occidentale non rientrava nei piani di Stalin e dei governanti sovietici che gli succedettero, perché era considerata pericolosa: avrebbe potuto rompere l'equilibrio che consentiva all'URSS di rafforzare il proprio predominio all'interno del campo socialista.

In Occidente, la prospettiva della realizzazione di una società comunista si andò cosí sempre più allontanando, senza però che ci fosse mai un'aperta e definitiva rinuncia. Spostata in un tempo molto futuro, si trasformò lentamente in vaga aspirazione. Ma in questo modo si produsse un forte scarto tra l'obiettivo finale e la concreta attività politica, che si socialdemocratizzava: data l'impossibilità di conquistare il potere centrale, il PCF e il PCI concentrarono, infatti, le loro forze nell'amministrazione delle realtà locali e nell'attività sindacale. Come era avvenuto già per l'URSS durante la seconda guerra mondiale, quando, resistendo alla Germania di Hitler, aveva dato un contributo essenziale alla salvezza della democrazia in Occidente, i due più forti partiti comunisti dell'Europa occidentale, lottando per il benessere dei lavoratori, contribuirono in misura determinante al rafforzamento delle strutture portanti della società democratica. Ma così essi allontanarono definitivamente la prospettiva di una rivoluzione. Grazie alla loro azione, rivolta non a esasperare i conflitti, ma a utilizzarli per migliorare le condizioni vita e di lavoro delle classi popolari, queste, a partire dagli anni Cinquanta, ebbero da perdere ben più che le loro catene. Andò anche via via indebolendosi la distinzione tra democrazia sostanziale e formale: la pratica fece diventare anche quest'ultima parte importante del patrimonio ideologico dei partiti comunisti dei paesi occidentali. Il ricorso alla forza rimase solo come ipotesi di reazione a un eventuale colpo di mano della destra o allo scoppio di una terza guerra mondiale.

Il maggior teorico delle vie nazionali al socialismo e poi anche della democratizzazione del comunismo, fu considerato Antonio Gramsci. In realtà, Gramsci aveva della democrazia una concezione ben diversa da quella liberaldemocratica e, pur criticando Stalin (ma non Lenin), rimase sempre un comunista. Il «centralismo democratico», che Gramsci riprendeva probabilmente da Rosa Luxemburg, contrapponendolo a quello «burocratico» di Stalin, restava nell'ambito di una società governata dal partito unico, il «moderno Principe». Gramsci voleva una «democrazia organica», che doveva realizzarsi non sul piano individuale, ma all'interno della «personalità collettiva» delle classi. Per Gramsci il punto di partenza era nazionale, ma lo sviluppo era l'internazionalismo. La guerra di posizione richiedeva però un'accuratissima ricognizione del territorio dove si sarebbero svolte le battaglie nazionali e, per l'Italia, un'analisi molto attenta della sua realtà sociale e culturale. E tuttavia, fino agli ultimi giorni della sua vita, nonostante momenti di crisi, Gramsci continuò a considerare questa battaglia come un episodio di una guerra che si svolgeva in tutto il mondo e aveva nell'Unione Sovietica la fortezza dove ritirarsi, per preparare l'offensiva finale. Il gramscianesimo che si diffuse in Occidente somigliò al pensiero originale di Gramsci quanto il marxismo somigliava a quello di Marx. La sua fortuna in Italia e nel mondo occidentale può comunque essere compresa se si ricorda che Gramsci sentiva che la sua cultura e il suo mondo erano «fondamentalmente» italiani e che egli apparteneva, senza ombra di dubbio, al marxismo dell'Occidente.

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Per Marx ed Engels nessuna società comunista, che non fosse l'immaginario «comunismo primitivo», sarebbe potuta nascere sulle rovine della società occidentale. Nel discorso pronunciato il 4 marzo 1918, Lenin, come abbiamo già visto, aveva modificato questa posizione, sostenendo che le distruzioni, per quanto grandi potessero essere, non cancellavano la civiltà dalla storia. Mao Zedong compì un ulteriore passo avanti, perché ritenne che bastasse la sopravvivenza degli uomini a rendere possibile la costruzione del comunismo.

Il punto culminante della crisi con l'URSS fu raggiunto nel 1968-1969. Prendendo spunto dall'invasione sovietica della Cecoslovacchia, i cinesi caratterizzarono l'espansionismo sovietico come socialimperialismo, da combattere insieme con l'imperialismo classico. Nel marzo 1969, al confine tra l'URSS e la Repubblica popolare cinese, sul fiume Ussuri, si verificarono due incidenti, che portarono a scontri armati. Nelle maggiori città cinesi si svolsero imponenti manifestazioni patriottiche. La crisi, in realtà, nasceva da contrasti che riguardavano non tanto l'ideologia quanto la geopolitica, e i cinesi trovarono una soluzione ispirata proprio da questa e consistente in un lento, ma progressivo avvicinamento all'Occidente e agli stessi Stati Uniti. Le affinità ideologiche non contavano più di fronte all'esistenza di superpotenze che attuavano politiche imperialistiche. I rapporti tra Repubblica popolare cinese e USA diventarono normali con il viaggio compiuto in Cina dal presidente americano Richard Nixon nel febbraio del 1972, nonostante molti problemi restassero aperti, specialmente quello di Taiwan.

Alla fìne del XX secolo la Repubblica popolare cinese conservava un regime politico comunista, pur aprendo la sua economia al capitalismo, in misura sempre più rilevante. I suoi governanti applicavano così il proverbio «non importa se i gatti siano neri o bianchi, purché prendano i topi». Il partito comunista avrebbe dovuto mantenere saldamente il potere, per provvedere, almeno nelle intenzioni, a una distribuzione egualitaria della ricchezza. Ma questa, nella misura necessaria a far migliorare le condizioni di vita della popolazione, poteva essere prodotta solo da un'economia con forti elementi di capitalismo, come avevano mostrato i ripetuti fallimenti di quella collettivistica, dal Grande Balzo alla rivoluzione culturale. Era, in fondo, il capovolgimento della linea applicata da Gorbacëv: questi aveva cominciato a realizzare la glasnost, ma non era riuscito ad avviare la perestrojka. Il partito comunista cinese tentò, invece, di attuare una perestrojka senza glasnost. Apparentemente, per avere capito il peso determinante dell'economia, era più vicino alle posizioni di Marx. In realtà, ancora una volta, sia pure a termini invertiti, si verificava un completo scollamento tra politica ed economia, che era quanto di meno marxista si potesse immaginare.

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11.
Marx e l'Occidente



Quando Marx morì, nel 1883, si stava aprendo nella storia dell'Occidente l'epoca dell'espansione coloniale. Agli inizi del Novecento essa gli aveva dato il controllo politico sul 44 per cento della popolazione mondiale e sul 38 per cento del territorio. Alla fine del secolo il predominio occidentale si è ristretto, rispettivamente, al 13 e al 25 per cento; resta, invece, assoluto in campo economico.

È un Occidente che sembra avere scelto la sua strada definitiva. La guerra combattuta al suo interno dal 1939 al 1945 aveva avuto una posta altissima: si era trattato di decidere quale delle due parti in cui si era andato dividendo negli anni precedenti avesse il diritto di rappresentarlo. Il Nomos della Terra era stato contrapposto al Nomos del Mare, la Kultur alla Zivilisation. Per rendere il senso più profondo della seconda guerra mondiale, Carl Schmitt aveva infatti elaborato, già mentre essa era in corso, il mito della lotta della Terra contro il Mare. Schmitt considerava l'intera storia del mondo moderno come storia «di potenze marinare contro potenze di terra e di potenze di terra contro potenze marinare». La guerra giusta, secondo Schmitt, è possibile solo sulla terra, perché riguarda le relazioni tra gli Stati e può in qualche modo essere limitata; quella condotta dalle «schiume di mare» è da pirati, perché «nemico è [...] non solo l'avversario combattente ma ogni cittadino dello Stato nemico e perfino ogni neutrale che commercia con il nemico e ha con lui relazioni economiche». La mitizzazione era abbastanza forte da dare all'opera di Schmitt il distacco di un classico. Ma nel momento in cui aveva commciato a elaborare questa interpretazione generale della storia, nel 1942, i riferimenti apparivano, a lui e ai suoi lettori, molto più chiari: l'Inghilterra era il Leviatano, la bestia del mare, che cercava di soffocare Behemoth, la bestia della terra, cioè la Germania nazionalsocialista, grazie al blocco navale delle coste europee. Ancora nel 1954, del resto, Schmitt avrebbe scritto che l'uomo era «un figlio della Terra».

Lo scontro tra la Terra e il Mare può essere visto anche come scontro tra Kultur e Zivilisation. La Kultur, intesa come civiltà, cioè come «tutto ciò che un gruppo di uomini ha conservato e trasmesso di generazione in generazione come il proprio bene più prezioso, attraverso una storia tumultuosa e spesso tempestosa», è figlia della Terra, ha la sua solidità, ispira lo stesso senso di sicurezza. Essa ha avuto la sua massima celebrazione nella Germania. La Zivilisation, intesa come processo d'incivilimento, l'ha avuta nei paesi anglosassoni.

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Presso gli antichi, notava Marx, era stato l'uomo, non la ricchezza, lo «scopo della produzione». Nella società moderna, invece, la produzione si presenta «come scopo dell'uomo e la ricchezza come scopo della produzione». Ciò potrebbe far sembrare «l'infantile mondo antico» come «qualcosa di più elevato», mentre, in realtà, era più limitato, anche perché comportava la soddisfazione, mentre quello moderno «lascia insoddisfatti». Nessuna condanna, dunque, da parte di Marx per il fatto che tutto si trasforma in denaro, diventa vendibile e acquistabile nella società moderna. Questa, «che già dalla sua prima infanzia ha preso Plutone per i capelli, e lo va traendo fuori dalle viscere della terra, saluta nell'aureo Graal la splendida incarnazione del suo principio di vita più proprio».

Marx voleva abolire la «forma borghese» assunta dalla «ricchezza», che considerava una limitazione, perché riteneva che portasse a una completa oggettivazione della natura interna dell'uomo, fino a farla diventare alienazione totale. Una volta abolita questa forma,

che cosa è la ricchezza, se non l'universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive, ecc. degli individui, creata nello scambio universale? Che cosa è se non il pieno sviluppo del dominio dell'uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l'estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su un metro già dato? Nella quale l'uomo non si riproduce in una dimensione determinata ma produce la propria totafità?

A spaventarsi per il dominio dell'aureo Graal e a rifiutare la ricchezza come scopo della produzione sono, invece, altri. Tra i più illustri, Arnold J. Toynbee, che nel 1976, a conclusione delle sue quarantennali ricerche sulla storia delle civiltà, scrisse:

L'uomo occidentale ha formalmente onorato, dal XIII secolo in poi, Francesco Bernardone, il santo che rinunciò a ereditare una ben avviata azienda familiare e fu ricompensato con le stimmate di Cristo per le sue nozze con Madonna Povertà. Ma l'esempio che l'uomo occidentale ha in realtà seguito non è stato quello di San Francesco, ma quello del padre Pietro Bernardone, il ricco mercante di tessuti. A cominciare dall'esplosione della rivoluzione industriale, l'uomo moderno si è dedicato, più o meno ossessivamente di tutti i suoi antenati, al raggiungimento dell'obiettivo propostogli nel primo capitolo del Genesi. Sembra che l'Uomo non sia capace di salvarsi dalla nemesi di questa demoniaca potenza materiale, di questa non meno demoniaca avidità, a meno che non si sottoponga ad un cambiamento del cuore che lo spinga ad abbandonare l'obiettivo presente ed a sposare l'ideale contrario.

In realtà, il padre di Francesco apparteneva alla numerosa schiera di uomini che stavano facendo uscire l'Europa dalla povertà dei secoli precedenti, gettando le fondamenta del mondo moderno. Il fatto che non fosse onorato anche formalmente era dovuto, allora e oggi, all'ipocrisia sociale e alla preferenza, radicata nella cultura cristiana, per chi allevia le conseguenze della povertà (considerata un elemento permanente della storia dell'umanità), invece di cercare di eliminarla, o, quanto meno, di diminuirla.

Marx è molto più vicino a Pietro Bernardone che a Francesco, perché più di ogni altro pensatore ha legato l'esistenza del «regno della libertà» al presupposto del raggiungimento di un elevatissímo livello di benessere. Prima che esso possa nascere, l'uomo dovrà sottrarsi alla maledizione biblica del lavoro, non dovrà più lavorare col sudore della fronte, ma diventare «sorvegliante e regolatore» del rapporto di produzione. Allora la «creazione della ricchezza reale» non dipenderà più «dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato», ma dallo «stato generale della scienza», dal «progresso della tecnologia», e dall'applicazione della scienza alla produzione.

Può darsi che, in questo, Marx abbia anticipato la storia non di centocinquant'anni, come ha fatto per la globalizzazione, ma di trecento. Può darsi che l'Eden laico sia solo un'utopia. Ma, in ogni caso, è la più affascinante metafora della civilizzazione. Sembra, invece, che l'obiettivo dei neorivoluzionarí e degli epigoni del terzomondismo sia l'eguaglianza nella miseria. Di qui la celebrazione della povertà, come mezzo per realizzare un mondo a misura d'uomo. Ha scritto uno dei più noti rappresentanti di questa tendenza, Serge Latouche:

La crisi dell'ordine «occidentale» è la condizione che consentirà un eventuale fiorire di nuovi mondi, di una nuova civiltà, di una nuova era. Le resistenze alla tentazione dell'Occidente sono una fonte di speranza. Fanno prevedere che la morte dell'Occidente non significherà necessariamente la fine del mondo... I poveri sono molto più «ricchi» di quanto si dica o credano essi stessi.

Le tre risposte alla sfida della mondializzazione dovrebbero essere, secondo Latouche, «la sintesi ideale dei profeti di fronte alla crisi di significato, la costruzione di una rete neo-tribale di fronte allo sfaldamento del patto sociale, l'economia tradizionale di fronte al fallimento dello sviluppo». Questo dovrebbe portare, per riprendere una definizione di Marx, a «qualcosa di più elevato». In realtà, si tratterebbe per l'Africa di un tragico arretramento nelle condizioni di vita ed è difficile pensare che i governanti e i cittadini degli stati africani, che hanno molto più buon senso dei teorici africanisti, l'accetterebbero.

Quanto al mondo economicamente sviluppato, che Latouche proclama ormai arrivato al tramonto, le sue tesi non possono riguardarlo. Il discorso che sta portando avanti da tempo appare privo di senso per l'Occidente e si stenta a credere che egli voglia farlo uscire dal gioco retorico per dargli il valore di un'indicazione politico-pratica. In questo teorico del rifiuto dello sbocco (di mercato) e del ritorno alla picchia, la contrapposizione ragionevolezza-razionalità assume un carattere assoluto: la prima andrebbe cercata fuori del mondo occidentale, per esempio in Africa; la seconda è patologicamente propria dell'Occidente capitalistico. La «ragionevole» irrazionalità africana diventa il nuovo modello, che dovrebbe salvare la civiltà umana dalla catastrofe.

Marx avrebbe accolto queste acrobazie intellettuali con una risata. E lo avrebbero fatto sorridere i movimenti che individuano nella globalizzazione il nemico più pericoloso, chiedono trasformazioni dell'economia tanto verbalmente radicali quanto poco chiare e danno vita a una sorta di luddismo ludico. Marx non avrebbe mai scritto l'elogio della povertà e non si sarebbe mai lasciato trascinare da sensi di colpa o dal timore del futuro a rinnegare la «ricchezza», il «principio più proprio» della società moderna, solo possibile fondamento di una civiltà universale.

Certo, il Marx che ha ancora molto da insegnare non è il teorico della rivoluzione, della violenza «levatrice della storia», che finora, invece di aiutare i bambini a nascere, ha provocato soltanto aborti. Si potrebbe obiettare che, se gli si toglie la rivoluzione, Marx si riduce a poco: in questo stesso saggio la parola ritorna continuamente. Ma nel mondo occidentale la rivoluzione non può essere attuale, se le si dà il significato leninista. E lo è ancora meno, se le si attribuisce quello, peraltro molto confuso, che le danno i teorici del residuo terzomondismo o dell'islamismo radicale. Uno dei più gravi errori commessi dai comunisti occidentali nella seconda metà del XX secolo, è stato non di avere progettato la rivoluzione, perché, saggiamente, non lo hanno fatto, ma di avere creduto, fino alla più acritica celebrazione, in tutti coloro che si presentavano nella veste di rivoluzionari. Persino, agli inizi, in Khomeini.

L'unica rivoluzione che sta oggi, concretamente, operando all'interno dell'Occidente è proprio la globalizzazione (che va ben oltre la new economy). Al di fuori e contro di esso, c'è solo l'islamica, che rappresenta senza dubbio la più forte sfida alla civiltà occidentale, perché ne mette in discussione i fondamenti storici (il Giappone, l'India e la stessa Cina stanno piuttosto cercando d'imitarla). L'Occidente la perderà, se contrapporrà fede a fede, quella cristiana più tormentata e perciò più debole, a quella islamica, che non sembra conoscere dubbi ed è perciò più forte e aggressiva. Per rispondere a essa in maniera efficace, ha bisogno, invece, di tutte le risorse della sua tradizione laica, di cui Marx è parte essenziale.

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