Copertina
Autore Mario Livio
Titolo L'equazione impossibile
EdizioneRizzoli, Milano, 2005 , pag. 416, ill., cop.ril.sov., dim. 135x188x28 mm , Isbn 978-88-17-00400-8
OriginaleThe equation that couldn't be solved [2005]
TraduttoreSara Beltrame, Emanuela Cervini, Andrea Zucchetti
LettoreRenato di Stefano, 2005
Classe matematica , storia della scienza , fisica
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Indice

    Prefazione                               9

 1. Simmetria                               13

 2. etnem alled oihcco'llen airtemmiS       47

 3. Non dimenticatevi mai di questo
    nel mezzo delle vostre equazioni        74

 4. Il matematico povero                   120

 5. Il matematico romantico                147

 6. I gruppi                               197

 7. Le regole della simmetria              248

 8. Chi è il più simmetrico?               290

 9. Requiem per un genio romantico         326


    Appendici                              343
    Note                                   357
    Bibliografia                           373
    Referenze fotografiche                 407

 

 

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Pagina 9

PREFAZIONE



Sin dai tempi della scuola superiore, sono stato affascinato da Évariste Galois. Il fatto che un ventenne abbia potuto inventare una nuova, emozionante branca della matematica ha rappresentato per me una fonte di autentica ispirazione. Alla fine dei miei anni di università, tuttavia, il giovane romantico francese era diventato anche causa di profonda frustrazione. Ti puoi forse sentire altrimenti quando ti rendi conto che all'età di ventitré anni non hai ancora compiuto nulla di altrettanto grande? Il concetto introdotto da Galois — la teoria dei gruppi — è oggi riconosciuto come il linguaggio «ufficiale» di tutte le simmetrie. E poiché la simmetria permea discipline che vanno dalle arti visive alla musica, dalla psicologia alle scienze naturali, non si corre certo il rischio di enfatizzare troppo l'importanza di questo linguaggio.

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Pagina 47

CAPITOLO 2
etnem alled oihcco'llen airtemmiS



Di tutti i sensi umani, la vista è di gran lunga il più importante veicolo della percezione. Tuttavia, gli occhi sono soltanto dispositivi ottici; la percezione richiede la partecipazione del cervello. La percezione visiva è un complesso di processi cerebrali, che combinano le sensazioni provenienti dal mondo esterno per creare un'immagine informativa. L'ambiente che ci circonda produce molti più segnali di quelli che siamo in grado di analizzare. Di conseguenza, la percezione vaglia i dati in nostro possesso e li seleziona in base alle caratteristiche più utili. Quando i giocatori di scacchi riflettono sulla mossa successiva, non prendono in considerazione ogni possibile mossa sulla scacchiera. Si concentrano su quelle poche che appaiono come le più vantaggiose sulla base delle informazioni accumulate — ciò che chiamiamo memoria. Nel film di Woody Allen La maledizione dello scorpione di giada, Dan Aykroyd, che interpreta il capo di un'agenzia d'assicurazioni, in una scena dice a uno dei suoi investigatori (impersonato da Allen): «C'è un termine per le persone che credono che tutti congiurino contro di loro». Al che Woody Allen replica: «Sì, certo... intuitivo!». In realtà, naturalmente, la paranoia rappresenta una distorsione della percezione.

A giudicare dalle apparenze, la percezione visiva deve compiere un'impresa impossibile. Deve trasformare l'impatto fisico di unità di energia luminosa (chiamate fotoni) sui recettori in fondo all'occhio in immagini mentali degli oggetti. Come vedremo presto, la simmetria dà un importante contributo alla realizzazione di questo obiettivo.

Per prima cosa, però, dobbiamo capire quali difficoltà occorre superare. L'astronomia può darci una mano a illustrare uno dei molteplici ostacoli insiti in questo processo – nello specifico, la percezione della distanza. La figura 16 mostra una foto scattata dal telescopio spaziale Hubble, scrutando nello sferico alone di stelle che circondano la galassia di Andromeda (conosciuta dagli astronomi come M31). Una galassia è un vasto sistema formato da qualche centinaio di miliardi di stelle come il Sole. M31, che dista approssimativamente 2,3 milioni di anni luce da noi, è una delle nebulose più vicine alla nostra Via Lattea. (Un anno luce equivale a circa 9463 miliardi di chilometri.)

L'immagine nella figura 16 contiene circa diecimila stelle di M31 e un centinaio di altre galassie, che sono visibili sullo sfondo (alcune appaiono come oggetti estesi e sfocati). Qui, tuttavia, sorge il problema. Osservando semplicemente l'immagine, non c'è modo di affermare che le stelle sono molto vicine, parlando non in senso assoluto (a una distanza di 2,3 milioni di anni luce), mentre alcune delle galassie sono lontane più di dieci miliardi di anni luce! In maniera analoga, quando guardiamo il mondo attorno a noi, l'occhio riconosce solamente la direzione del raggio di luce su cui ha viaggiato un fotone. Poiché l'immagine è proiettata su una superficie bidimensionale (la retina), senza qualche informazione aggiuntiva il cervello non ha indizi per stabilire a che distanza ha avuto origine il fotone. Nel caso di una stella relativamente vicina, gli astronomi risolvono il problema della determinazione della distanza utilizzando un metodo noto come parallasse trigonometrica. Osservano l'astro da due diversi punti lungo l'orbita della Terra intorno al Sole (figura 17). Nel corso dell'anno, la stella sembra allontanarsi e avvicinarsi sullo sfondo dei corpi celesti (fissi) che sono molto distanti. Misurando l'angolo collegato a questo apparente spostamento, conoscendo il diametro dell'orbita terrestre e applicando semplici operazioni trigonometriche, è possibile calcolare la distanza della stella.

Gli uomini usano i loro due occhi esattamente allo stesso modo per acquisire consapevolezza spaziale. Potete scoprire questo meccanismo, noto come visione stereoscopica, con un semplice esperimento. Tendete il braccio, sollevate un dito e guardatelo su uno sfondo qualsiasi. Se chiudete alternativamente l'occhio destro e quello sinistro, vi sembrerà che il dito si sposti avanti e indietro. Avvicinando un po' di più il dito agli occhi, noterete che il salto tra le due posizioni aumenta. Questo apparente spostamento (parallasse) avviene perché i vostri due occhi osservano il dito da due punti di vista diversi. Poiché la parallasse dipende dalla distanza dell'oggetto, misurando l'angolo tra le posizioni apparenti e conoscendo l'intervallo tra gli occhi, il cervello «trigonometrizza» la distanza dell'oggetto. Se avete familiarità con la relativa perdita della percezione della profondità dovuta al fatto di chiudere un occhio, forse penserete che il ruolo degli occhi nella visione stereoscopica sia noto sin dall'antichità. Sorprendentemente, persino ad alcuni dei più grandi ricercatori nel campo della prospettiva sfuggì il concetto di visione stereoscopica. Matematici come Euclide nell'antica Grecia, gli architetti Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti nel Rinascimento, i pittori Piero della Francesca, Paolo Uccello e Albrecht Diirer, e addirittura il grande Isaac Newton, consideravano gli occhi come una mera manifestazione di simmetria bilaterale, senza altre funzioni speciali. Il primo a rilevare che due occhi possono offrire qualcosa in più di uno solo fu la quintessenza dell'uomo rinascimentale: Leonardo da Vinci (1452-1519). Leonardo notò che quando guardiamo un oggetto con entrambi gli occhi, l'occhio destro riesce a catturare parte dello spazio dietro l'oggetto alla sua destra, mentre quello sinistro vede dietro l'oggetto a sinistra. Ne concluse perciò che «l'oggetto [...] visto con ambedue gli occhi diviene, per così dire, trasparente [...] ma ciò non può accadere quando un oggetto [...] è visto da un solo occhio». Malgrado questa intuizione, limitando la sua attenzione alle sfere, Leonardo perse l'opportunità di scoprire che non era soltanto nello sfondo, ma anche nell'oggetto stesso, che gli occhi coglievano due immagini differenti. Chi stabilì l'importanza della visione binoculare per la percezione della distanza fu l'astronomo tedesco Keplero (Johannes Kepler, 1571-1630). In due ragguardevoli opere, Astronomiae Pars Optica (La parte ottica dell'astronomia), pubblicata nel 1604, e Dioptrice (Diottrica, la parte dell'ottica che si occupa della rifrazione), del 1611, Keplero fornì una particolareggiata descrizione dell'ottica dell'occhio, spiegò il funzionamento delle lenti e sviluppò una teoria della visione stereoscopica. Per qualche motivo, il suo lavoro passò relativamente inosservato, e persino Charles Wheatstone, che nel 1838 riscoprì il meccanismo della percezione della profondità, sembrò ignorarne l'esistenza.

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Pagina 63

Le regole del gioco



Che cosa sono le leggi di natura? Il biologo Thomas Henry Huxley (1825-1895), il più appassionato difensore della teoria dell'evoluzione e della selezione naturale di Darwin, fornì la seguente spiegazione:

La scacchiera è il mondo, i pezzi sono i fenomeni dell'universo, le regole del gioco sono ciò che definiamo le leggi di Natura. Il giocatore dall'altro lato è nascosto alla nostra vista. Sappiamo che il suo modo di giocare è sempre leale, onesto e paziente. Ma sappiamo anche, a nostre spese, che non perdona mai un errore, né fa la minima concessione all'ignoranza.

Questa definizione, proposta dall'uomo che era soprannominato il «bulldog di Darwin», difetta di ambizione secondo gli standard moderni. Ai fisici di oggi piacerebbe che le leggi di natura non solo rappresentassero le regole del gioco, ma spiegassero anche l'esistenza e le proprietà della scacchiera e dei pezzi!

Fino al XVII secolo, per gli esseri umani la possibilità che esistessero alcune leggi in grado di spiegare tutti i fenomeni naturali non era che un sogno. Galileo Galilei (1564-1642), Cartesio (1596-1650) e Isaac Newton (1642-1727) dimostrarono per la prima volta che una manciata di leggi (come le leggi di gravità e del moto) potevano dar conto di un'infinità di fenomeni, dalle mele che cadono alle maree sulle spiagge al movimento dei pianeti.

Altri seguirono le loro titaniche orme. Nel 1873, il fisico scozzese James Clerk Maxwell (1831-1879) pubblicò il suo Trattato sull'elettricità e il magnetismo, un'opera monumentale che riuniva tutti i fenomeni elettrici, magnetici e luminosi sotto l'ombrello di quattro sole equazioni matematiche. Basandosi sui risultati degli esperimenti del fisico inglese Michael Faraday (1791-1867), Maxwell fu in grado di provare che, così come la forza che mantiene i pianeti nelle loro orbite e quella che trattiene gli oggetti sulla superficie terrestre sono in realtà una sola, l'elettricità e il magnetismo sono semplicemente diverse manifestazioni di una singola entità fisica. Il XX secolo ha visto la nascita di non una, ma ben due grandi rivoluzioni scientifiche. In primo luogo, le teorie della relatività ristretta e della relatività generale di Einstein cambiarono per sempre il significato dello spazio e del tempo, due concetti, questi ultimi, inestricabilmente legati nell'entità nota oggi come spazio-tempo. La relatività generale suggeriva inoltre che la gravità non è una forza misteriosa che agisce da lontano, ma semplicemente una manifestazione dello spazio-tempo che viene curvato dalla materia, come un telo elastico che s'incurva sotto il peso di una palla di cannone. Tutto ciò che si muove attraverso questo spazio incurvato – come i pianeti nel loro corso – non procede lungo linee rette, ma segue traiettorie curve. In secondo luogo, su un altro fronte, ogni speranza di un mondo completamente deterministico venne infranta dall'avvento della meccanica quantistica. Nella meccanica newtoniana, e anche nella relatività generale, se in qualche modo conosceste la posizione di ogni singola particella nell'universo in un dato momento, e a quale velocità e in che direzione si sta muovendo in quell'istante, potreste sia predire con chiarezza il futuro dell'universo sia raccontare l'intera storia passata del cosmo. Le uniche limitazioni riguarderebbero le rare circostanze in cui la relatività generale non funziona, come nel caso degli oggetti collassati noti come buchi neri. La meccanica quantistica cambiò tutto questo. Nemmeno la posizione e la velocità di una singola particella possono essere stabilite con precisione. Gli unici elementi deterministici in relazione all'universo sono le probabilità di vari esiti, non gli esiti stessi. Anche se per ragioni alquanto diverse, l'universo è simile al tempo: il meglio che si possa fare è prevedere la possibilità che domani piova, non se pioverà davvero oppure no. Dio gioca a dadi.

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Pagina 147

CAPITOLO 5
Il matematico romantico



La mattina del 30 maggio 1832, un solo colpo sparato da venticinque passi di distanza raggiunse Évariste Galois allo stomaco. Benché ferito a morte, il matematico non spirò subito, ma rimase disteso per terra finché un buon samaritano di cui non si conosce il nome (forse un ex ufficiale dell'esercito o un contadino) non lo trovò e non lo portò all'ospedale Cochin di Parigi. Il giorno seguente Galois morì di peritonite. Poco prima di spegnersi, Évariste disse al fratello accorso al suo capezzale: «Non piangere. Ho bisogno di tutto il mio coraggio per morire a vent'anni».

Questo fu il triste epilogo della vita di uno dei matematici più visionari, l'incredibile combinazione di un genio come Mozart e di un romantico simile a Lord Byron, il tutto nella cornice di una storia tragica che eguaglia quella di Romeo e Giulietta.


Galois: la gioventù

Évariste Galois nacque la notte del 25 ottobre 1811 e fu chiamato così in onore del santo celebrato il giorno successivo (l'Appendice 5 presenta l'albero genealogico della famiglia estesa). Il matematico era figlio di Nicolas-Gabriel Galois, un uomo istruito che a quel tempo dirigeva una scuola maschile di buona reputazione a Bourg-la-Reine (oggi quartiere periferico di Parigi), come aveva fatto anche il padre. Nel tempo libero, Nicolas-Gabriel si dilettava a comporre versi arguti e divertenti opere teatrali. Proprio per questa sua attività egli era spesso un gradito ospite ai ricevimenti. La madre di Évariste, Adélaide-Marie Demante, figlia di un giureconsulto della facoltà di legge di Parigi, era molto versata per gli studi classici. La famiglia Demante viveva quasi di fronte al numero 54 di Grand Rue, dove si trovava la casa dei Galois.

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La nascita di un matematico


Galois dovette affrontare il primo, umiliante ostacolo nell'autunno del 1826, nel corso di retorica. Mentre gli encomiabili sforzi di Évariste erano stati generalmente apprezzati dall'insegnante (anche se non portavano ai risultati sperati), il preside ultraconservatore Pierre-Laurent Laborie aveva un'opinione del tutto differente. Secondo costui, il ragazzo era troppo giovane per questo corso di livello avanzato, per il quale era richiesto un «giudizio che può essere raggiunto solo con la maturità». A gennaio Galois fu quindi costretto a ripetere il terzo anno, con grande disappunto suo e del padre. Espressioni come «originale e bizzarro» e «buono ma insolito» cominciarono a essere usate nelle pagelle per descrivere il carattere dello studente. La sgradevole esperienza con la retorica si rivelò tuttavia una vera e propria benedizione, perché fu proprio in questo periodo che Évariste scoprì la matematica (la figura 43 mostra un ritratto di Galois in quegli anni, realizzato da un compagno di classe).

L'insegnante del corso di matematica propedeutica, Hippolyte Vernier, decise di introdurre un nuovo libro per lo studio della geometria. Si trattava degli Elementi di geometria di Legendre, apparsi per la prima volta nel 1794 e divenuti rapidamente il testo preferito in tutta Europa. Quest'opera, già all'epoca un vero e proprio classico, si distaccava dalla noiosa geometria euclidea insegnata alle scuole superiori. Si narra che Galois, affamato di matematica, letteralmente divorò il libro del grande studioso francese, in origine pensato per un corso di due anni, in soli due giorni. Benché sia impossibile verificare la fondatezza di questa storia (con ogni probabilità esagerata), non c'è alcun dubbio che già nell'autunno del 1827 Évariste avesse perduto l'interesse per le altre discipline innamorandosi follemente del mondo dei numeri. In un primo momento l'insegnante di retorica non comprese l'atteggiamento indifferente del ragazzo in classe e descriveva così i suoi risultati tutt'altro che lodevoli: «Nel suo lavoro non si può riscontrare altro che strane fantasie e negligenza». Successivamente, il docente modificò il suo giudizio sottolineando che Galois subiva «il fascino della matematica. Penso che per lui sarebbe meglio se i genitori gli facessero studiare esclusivamente questa materia». Il terzo semestre confermò il giudizio: «[...] dominato dalla passione per la matematica, ha trascurato completamente tutto il resto».

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Pagina 154

Nel 1829, Galois pubblicò il suo primo saggio di carattere matematico. Questo lavoro di importanza limitata, che trattava degli oggetti matematici conosciuti con il nome di «frazioni continue» e trovava applicazione nelle equazioni di secondo grado, apparve sulla rivista «Annales de Mathématiques pures et appliquées» (detto per inciso, Abel morì cinque giorni dopo la pubblicazione del primo saggio di Évariste). Per il ragazzo questa prima incursione nella ricerca matematica si trasformò presto in un'esplosione di nuove idee. Il diciassettenne stava per rivoluzionare l'algebra. Anche se Niels Henrik mostrò in modo univoco che non si può trovare la soluzione di un'equazione di quinto grado generica utilizzando una formula basata sulle operazioni aritmetiche e sull'estrazione di radice, la sua morte prematura lasciò aperti problemi ben più grandi, ad esempio: come si può determinare se ogni espressione algebrica data (di quinto grado o superiore) è risolvibile per radicali o no? A questo proposito bisogna ricordare che è invece possibile trovare la soluzione delle equazioni particolari. In poche parole, la dimostrazione di Abel prevedeva ancora la possibilità che ogni espressione algebrica specifica potesse essere risolta con una formula.

Per sciogliere il dubbio sulla risolubilità delle equazioni, Évariste non solo introdusse il concetto fondamentale di gruppo, ma formulò anche un ramo completamente nuovo dell'algebra conosciuto oggi come teoria di Galois. Come punto di partenza, il matematico francese riprese la teoria delle equazioni da dove l'aveva lasciata Lagrange e fece ricerche approfondite sulle relazioni tra le soluzioni ritenute tali pur senza esserlo veramente (come x1x4 = 1, che lega due delle quattro soluzioni x1, x2, x3, x4 dell'equazione di quarto grado x^4 + x^3 + x^2 + x + 1 = 0) e le permutazioni di queste soluzioni in cui le relazioni rimangono immutate (si vedano le note per un esempio). Ed è proprio qui che si manifesta pienamente il genio del ragazzo. Évariste riuscì ad associare a ogni espressione algebrica una sorta di «codice genetico» (il cosiddetto gruppo di Galois) e a dimostrare che le proprietà di quest'ultimo determinano la risolubilità di un'equazione per mezzo di una formula. Il concetto chiave della nuova teoria era la simmetria, che poteva essere misurata direttamente mediante il gruppo di Galois (descriverò i principi fondamentali della brillante dimostrazione di Évariste nel Capitolo 6). Richard rimase così colpito dalle idee del giovane da richiedere la sua ammissione alla École Polytechnique senza esame. Per cercare di raggiungere il suo ambizioso obiettivo, l'insegnante incoraggiò lo studente a esporre la sua teoria in due memorie, che sarebbero poi state date al grande Cauchy per essere sottoposte all'attenzione dell'Accademia delle Scienze. I due scritti furono di fatto consegnati il 25 maggio e già il 1° giugno 1829 vennero presentati brevemente dal famoso matematico francese e affidati a Joseph Fourier (il segretario dell'Accademia), ai fisici matematici Claude Navier e Denis Poisson e allo stesso Cauchy per essere giudicati.

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Pagina 166

Una vita inquieta


Espulso dalla scuola e libero di inseguire i propri sogni liberali, Évariste si arruolò nell'artiglieria della Guardia nazionale. Anche se era orgogliosa di avere una propria uniforme, questa squadra di soldati era più simile a una milizia. Il ragazzo continuò a indossare la divisa persino dopo che il corpo venne sciolto e la Guardia nazionale riorganizzata (poteva arruolarsi solo chi pagava le tasse, e Galois non faceva parte di questo gruppo). Ora il giovane non era più uno studente, e questa situazione aveva un suo prezzo. Évariste non poteva contare su alcun mezzo di sostentamento. Per far quadrare i conti, il ragazzo decise quindi di dare lezioni di matematica. A tale scopo, un amico libraio gli permise di usare una stanza nel suo negozio al numero 5 di Rue de la Sorbonne. Galois mise un'inserzione sulla «Gazette des Écoles» in cui annunciava che avrebbe tenuto un corso di algebra. Le lezioni erano rivolte a quegli studenti che «erano coscienti di quanto incompleto fosse lo studio dell'algebra nelle università e che desideravano approfondire la loro conoscenza di questa materia». Non era di sicuro il metodo migliore per guadagnare un po' di denaro. Alcuni amici repubblicani di Évariste vi parteciparono, più che altro come gesto di cortesia, ma si ritirarono rapidamente a causa del livello avanzato degli insegnamenti. Le attività politiche del giovane non contribuirono alla causa perché occupavano la maggior parte del suo tempo. Galois fu quindi costretto a ridimensionare le proprie ambizioni e a ripiegare su un posto da insegnante privato di livello più basso.

Il 1831 si aprì con un evento incoraggiante dal punto di vista della ricerca, destinato però a trasformarsi in una nuova delusione. A Évariste fu chiesto di riconsegnare la sua memoria all'Accademia. La nuova versione del saggio Sulle condizioni per cui un'equazione è risolvibile per radicali fu presentata il 17 gennaio. Questa volta l'incarico di valutare il lavoro fu affidato ai matematici Denis Poisson (1781-1840) e Sylvestre Lacroix (1765-1843). Passarono due mesi, ma dall'Accademia non arrivava alcuna notizia. Il povero Galois diede sfogo alla sua insofferenza inviando, il 31 marzo 1831, una lettera di spiegazioni al presidente in cui aggiungeva sarcasticamente: «Signore, le sarei grato se potesse alleviare la mia ansia invitando i signori Lacroix e Poisson a dirmi se hanno perso la mia memoria [come fece Fourier] o se intendono invece farne un resoconto all'Accademia». Anche questa lettera provocatoria non sortì però alcun effetto.

Nel frattempo gli eventi politici iniziarono ad avere un grande impatto sulla vita di Évariste. La famosa matematica Sophie Germain (1776-1831), la prima donna a essere riuscita a superare le enormi barriere legate al sesso e a inserirsi nel «club degli uomini», definì il comportamento del ragazzo come un'«abitudine all'insulto». La studiosa aggiunse anche un triste commento: «Dicono che diventerà completamente matto e temo che abbiano ragione». In aprile, i diciannove membri dell'artiglieria della Guardia nazionale che si erano rifiutati di disarmarsi quando la loro unità era stata sciolta vennero portati in giudizio. Uno di loro era Pescheux d'Herbinville, il cui nome ricomparirà in relazione alla morte di Galois. Il 16 aprile, con grande piacere dei repubblicani, tutti gli uomini vennero assolti in un processo molto pubblicizzato conosciuto come «processo dei diciannove». La Società degli amici del popolo organizzò un grande banchetto al ristorante Aux Vendanges de Bourgogne per festeggiare l'evento. Duecento attivisti parteciparono alla serata (9 maggio). Tra questi si ricordano il celebre scrittore Alexandre Dumas (1802-1870), il biologo-politico Raspail, Galois e molti altri. Stando alle parole del creatore dei Tre moschettieri: «Sarebbe stato difficile trovare in tutta Parigi duecento ospiti più ostili al governo di quelli». Alla fine della cena, quando cominciarono a scorrere fiumi di champagne, furono proposti numerosi brindisi: alle rivoluzioni del 1789 e del 1793, a Robespierre e a molti altri ancora. Uno particolarmente articolato dal punto di vista intellettuale venne fatto dallo stesso Dumas, il quale dichiarò: «Bevo all'arte! Possano la penna e il pennello contribuire al pari della pistola e della spada al rinnovo sociale a cui abbiamo dedicato le nostre vite e per cui siamo pronti a morire». A un certo punto Galois, seduto a un'estremità del tavolo, si alzò in piedi e propose a sua volta un brindisi. Tenendo un bicchiere di vino e un coltello a serramanico aperto nella stessa mano gridò: «A Luigi Filippo!». Il fatto venne in seguito descritto dallo scrittore più nel dettaglio:

All'improvviso, nel bel mezzo di una conversazione privata tra me e la persona seduta a sinistra, le mie orecchie sentirono il nome di Luigi Filippo, seguito da cinque o sei fischi. Mi voltai. A quindici o venti posti di distanza da me si stava svolgendo una delle scene più animate della serata.

Un giovane che teneva nella stessa mano un bicchiere e un pugnale aperto stava cercando di farsi sentire dagli altri. Si trattava di Évariste Galois, in seguito ucciso da Pescheux d'Herbinville, il ragazzo affascinante che costruì cartucce di seta legate con nastri rosa.

Évariste aveva appena ventitré o ventiquattro anni all'epoca. Era uno dei repubblicani più appassionati. Il rumore era tale che la causa vera e propria divenne incomprensibile.

Riuscii a percepire solo che si trattava di una minaccia e che era stato pronunciato il nome di Luigi Filippo. Il coltello aperto lasciava trasparire le intenzioni del giovane.

Questo andava oltre la mia sensibilità repubblicana. Resistetti alle pressioni della persona seduta alla mia sinistra che, come uno dei buffoni di corte, non si curava di compromettersi e, saltando sul davanzale, raggiunsi il giardino.

Ritornai a casa alquanto preoccupato. Era chiaro che quell'episodio avrebbe avuto delle conseguenze. E infatti due o tre giorni dopo Évariste Galois fu arrestato.

Ci sono fastidiose imprecisioni nella descrizione di Dumas (ad esempio, quella riguardante l'età) e ritornerò in seguito sulla questione dell'identità dell'uccisore di Galois. I fatti principali sono comunque sicuramente corretti. La «Gazette des Écoles», che aveva sostenuto Évariste in occasione dei suoi violenti scambi con Guigniault, pubblicò la sua versione dei fatti nel numero del 12 maggio: «Sono stati proposti molti brindisi. Pare che un attivista, probabilmente uno studente, si sia alzato in piedi, abbia estratto un pugnale e, brandendolo, abbia detto: "Ecco come farò prestare giuramento a Luigi Filippo"». Il suo agitare l'arma nell'aria venne percepito come una minaccia alla vita del re. Galois fu per questo prelevato il giorno seguente dalla casa della madre e costretto alla carcerazione preventiva nella prigione di Sainte-Pélagie. Fu quindi portato in giudizio il 15 giugno 1831.

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CAPITOLO 7
Le regole della simmetria



La natura è stata buona con noi. Essendo governata da leggi universali, anziché da leggi particolari, ci ha concesso l'opportunità di decifrare il suo grandioso disegno. A differenza di quanto accade nel settore immobiliare, dove quello che conta è la posizione, né la nostra posizione nello spazio né il nostro orientamento rispetto alla Terra, al Sole o alle stelle fisse fanno qualche differenza per le leggi naturali che deduciamo. Se non fosse per la simmetria per traslazione e rotazione di queste leggi naturali, gli esperimenti scientifici dovrebbero essere ripetuti in ogni nuovo laboratorio del mondo e bisognerebbe abbandonare per sempre la speranza di comprendere le regioni più remote dell'universo. Una cosa non da poco. Quando Newton avanzò per la prima volta l'idea che la dinamica dei corpi celesti fosse descrivibile tramite formule matematiche e che per di più tali formule esprimessero leggi universali, suscitò reazioni comprensibili in tutta Europa. Difficilmente la spiegazione delle mele che cadono sarebbe bastata a suscitare tanto scalpore. D'altra parte, il moto dei pianeti era sempre stato considerato opera indubbia della mano di Dio. Il poeta ottocentesco Alexander Pope espresse probabilmente lo stato d'animo di molti quando scrisse:

La Natura e le sue leggi giacevano nascoste nella notte
Dio disse «Sia Newton!» e tutto fu luce.

Lo stesso Newton, uomo molto devoto, non intendeva affatto mettere in dubbio l'onnipresenza di Dio. Nei Principia, il suo capolavoro scientifico (la figura 62 ne mostra la prima pagina), scrisse: «Questa elegantissima compagine del Sole, dei pianeti e delle comete non poté nascere senza il disegno e la potenza di un Essere intelligente e potente. E se le stelle fisse sono centri di analoghi sistemi, tutti questi, essendo costruiti secondo il medesimo disegno, saranno soggetti alla potenza dell'Uno».

Ciononostante, l'idea dell'universo come macchina fu ripresa anche in alcune opere d'arte contemporanee, come l'impressionante dipinto A Philosopher Lecturing on the Orrery (Un filosofo tiene una lezione sul planetario meccanico) di Joseph Wright of Derby (figura 63). Faceva parte del passaggio dall'universo organismico dei greci, che consideravano il cosmo un organismo biologico, all'universo meccanicistico.

Il mondo che ci circonda sembra mutevole come le nuvole. La storia del genere umano, della Terra, del sistema solare, della Via Lattea e dell'universo intero è caratterizzata da cambiamenti inarrestabili e talvolta violenti, anche se su diverse scale temporali. Per fortuna, le leggi della natura sono meno transitorie. La luce che entra nel telescopio di un astronomo nel momento stesso in cui questo osserva una galassia distante miliardi di anni luce ha affrontato un viaggio di miliardi di anni. In altre parole, i telescopi sono vere e proprie macchine del tempo: ci permettono di gettare uno sguardo nel lontano passato dell'universo. Per quanto ne sappiamo, madre natura non permette emendamenti alla sua costituzione: le leggi naturali non hanno subito alcuna modifica degna di nota, almeno non da quando l'universo aveva solo un secondo di vita. Leggi più effimere avrebbero reso molto difficile per i fisici (semmai fossero esistiti) dipanare la storia del cosmo.


Lo spazio-tempo

La simmetria delle leggi naturali va ben oltre semplici traslazioni e rotazioni. Alle leggi non interessa, ad esempio, con quale velocità o in quale direzione ci muoviamo. Vi sarà sicuramente capitato di assistere, in una stazione ferroviaria, alla più semplice manifestazione di questo fatto. A volte è difficile dire se sia il nostro treno a muoversi o quello sul binario adiacente. Due osservatori che si muovono a velocità costante (vale a dire che né la velocità né la direzione del movimento cambiano) scopriranno che la natura rispetta le stesse leggi, a prescindere dal fatto che un osservatore si trovi in un futuristico razzo sparato verso il cielo al 99 per cento della velocità della luce e l'altro sia pigramente seduto sul dorso di una tartaruga gigante. Galileo e Newton avevano già riconosciuto questa importante simmetria fra osservatori che si muovono a velocità costante, ma fu Einstein a darle un enorme rilievo e una svolta del tutto imprevista nella sua teoria della relatività ristretta. Parte di questa simmetria è piuttosto semplice. La domanda «quando ferma New York a questo treno?» può sembrare formulata in modo surreale, ma in realtà è assolutamente valida anche nella fisica newtoniana. Una persona potrebbe tranquillamente pensare che il treno su cui si trova sia fermo e che sia tutto il resto a muoversi. In ogni caso, Einstein formulò questa simmetria in modo che si accordasse con l'inatteso risultato sperimentale secondo cui la luce viaggia sempre alla stessa velocità, indipendentemente da come si muova la sua fonte o l'osservatore. In altre parole, alla simmetria in virtù della quale le leggi della fisica (comprese quelle dell'elettromagnetismo e della luce) dovrebbero apparire uguali a tutti gli osservatori in moto uniforme, Einstein ne aggiunse un'altra: la velocità della luce è esattamente la stessa per tutti gli osservatori.

La costanza di una velocità della luce assoluta era una caratteristica implicita delle equazioni di Maxwell (teoria dell'elettromagnetismo). A prima vista, però, è decisamente controintuitiva. In effetti, mette a dura prova il nostro buonsenso. Ammettiamo che qualcuno lanci in avanti una mela mentre è alla guida di una decappottabile (per fortuna, non sono in molti a farlo); la velocità della mela rispetto al suolo sarà pari alla somma della velocità dell'auto e della velocità a cui viene scagliata la mela. Analogamente, se la decappottabile stesse procedendo proprio nella nostra direzione, ci aspetteremmo che la velocità della luce emessa dai fanali anteriori fosse pari alla somma della velocità della luce (circa trecentomila chilometri al secondo) e della velocità dell'auto. Tuttavia Einstein afferma, e numerosi esperimenti lo confermano, che non è affatto così. Anche se l'auto procedesse incredibilmente al 99,99 per cento della velocità della luce, la velocità della luce dei fanali anteriori rimarrebbe invariata, trecentomila chilometri al secondo.

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Emmy Noether nacque a Erlangen, Germania, dove il padre era professore di matematica. Inizialmente intenzionata a diventare insegnante di francese e inglese, all'età di diciotto anni decise invece di studiare matematica, il che non si rivelò così semplice. Mentre in Francia le donne potevano iscriversi all'università dal 1861, nella Germania conservatrice del 1900 questo non era ancora ufficialmente consentito. Nel 1898, il senato accademico dell'Università di Erlangen dichiarò che l'ammissione di studenti di sesso femminile avrebbe «sovvertito l'ordine accademico». Ciononostante, Emmy ebbe un permesso speciale per frequentare alcuni corsi. Dopo aver superato brillantemente gli esami a Norimberga, Gottinga ed Erlangen, e aver beneficiato dei lenti ma progressivi cambiamenti in fatto di discriminazione tra i sessi, nel 1907 ottenne il dottorato in matematica. Le sue battaglie con l'establishment accademico tedesco, però, non finirono qui. Nel 1915, David Hilbert e Felix Klein le chiesero di entrare a far parte della facoltà di Gottinga; i due famosi matematici dovettero però lottare con le autorità universitarie per altri quattro anni prima che alla Noether fosse formalmente permesso di insegnare. Durante il periodo caratterizzato da scambi di lettere e scaramucce verbali con l'amministrazione, Hilbert mise nel sacco i burocrati consentendo a Emmy di tenere corsi ufficialmente promossi con il suo nome.

La Noether dimostrò il teorema che oggi porta il suo nome nel 1915, poco dopo l'arrivo a Gottinga. Cominciò studiando le simmetrie continue, cioè simmetrie per trasformazioni che possono variare continuamente, come le rotazioni (dove l'angolo di rotazione può cambiare continuamente). La simmetria di una sfera, ad esempio, vale per rotazioni arbitrariamente piccole; la simmetria discreta di un fiocco di neve, invece, vale solo per rotazioni di multipli di 60 gradi. La Noether ottenne un risultato sorprendente: dimostrò che a ogni simmetria continua delle leggi fisiche corrisponde una legge di conservazione e viceversa. In particolare, la ben nota simmetria per traslazione delle leggi corrisponde alla conservazione della quantità di moto, la simmetria rispetto al tempo (le leggi non cambiano col passare del tempo) corrisponde alla conservazione dell'energia e la simmetria per rotazione corrisponde alla conservazione del momento angolare. Il momento angolare è una grandezza che indica la quantità di rotazione di un oggetto o un sistema (nel caso di un oggetto puntiforme, è il prodotto della quantità di moto per la distanza dall'asse di rotazione). Una manifestazione comune della legge di conservazione del momento angolare è visibile nel pattinaggio artistico: quando il pattinatore avvicina le braccia al corpo, ruota molto più velocemente.

Il teorema di Noether fuse simmetria e leggi di conservazione; in realtà, questi due importanti pilastri della fisica non sono altro che aspetti diversi della stessa proprietà fondamentale.

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L'armonia delle stringhe


Come amano far notare gli storici, molte, se non tutte, le rivoluzioni sociali sono state errori, giudicate col senno di poi. Per contro, le due rivoluzioni scientifiche del XX secolo sono state un innegabile successo. La teoria della relatività generale ha predetto la curvatura della luce da parte degli oggetti astronomici, l'esistenza degli oggetti collassati che chiamiamo buchi neri e l'espansione dell'universo, tutte cose che sono state poi confermate dalle osservazioni. La teoria quantistica è stata confermata in elettrodinamica con una precisione sorprendente e la sua punta di diamante, il modello standard, ha colto e previsto con successo tutte le proprietà delle particelle subatomiche conosciute. Qui, però, sta il problema. Abbiamo una teoria estremamente riuscita per le scale astronomiche più grandi (stelle, galassie, universo) e un'altra per le scale subatomiche più piccole (atomi, quark, fotoni). Questo sarebbe stato accettabile se i due mondi non si fossero mai incontrati. Tuttavia, in un universo che ha cominciato a espandersi dal «big bang», uno stato estremamente caldo e compatto, era inevitabile che prima o poi le strade della relatività generale e della meccanica quantistica si sarebbero incrociate. Molte prove, tra cui la formazione degli elementi della tavola periodica, fanno pensare che, una volta, anche il grande era piccolo. Inoltre, alcune entità, come i buchi neri, esistono sia nel campo astronomico sia in quello quantistico. Di conseguenza, sulla scia degli infruttuosi tentativi di Einstein di unire la relatività generale e l'elettromagnetismo, molti fisici si sono lanciati nel più grande sforzo di unificazione di tutti i tempi, quello tra relatività generale e meccanica quantistica.

L'ostacolo principale all'unificazione è sempre stato il semplice fatto che, in apparenza, relatività generale e meccanica quantistica sono davvero incompatibili. Va ricordato che il concetto fondamentale della teoria quantistica è il principio di incertezza. Quando si tenta di dimostrare una posizione con un potere di ingrandimento via via crescente, la quantità di moto (o velocità) comincia a oscillare violentemente. Sotto una certa lunghezza, nota come lunghezza di Planck, il principio di uno spazio-tempo piatto viene meno. Questa lunghezza (pari a 10^-33 centimetri) determina in quale scala la gravità debba essere trattata dal punto di vista quantistico. Nelle scale inferiori, lo spazio si trasforma in una «schiuma quantica» in continua fluttuazione. La teoria della relatività generale è però basata sulla premessa fondamentale dell'esistenza di uno spazio-tempo che si curva dolcemente. In altre parole, le idee fondamentali della relatività generale e della meccanica quantistica sono inconciliabili quando si tratta di scale molto piccole.

Attualmente, la soluzione migliore per una teoria quantistica della gravità sembra essere una qualche versione della teoria delle stringhe. Secondo questa teoria rivoluzionaria, le particelle elementari non sono entità puntiformi prive di struttura interna, come farebbe pensare il modello standard, bensì minuscole stringhe vibranti. Queste stringhe sottilissime, simili a elastici, sono così piccole (dell'ordine della lunghezza di Planck; circa cento miliardi di volte più piccole di un protone) che con il potere di risoluzione degli esperimenti odierni appaiono come punti. Il bello dell'idea centrale della teoria delle stringhe è che tutte le particelle elementari note rappresentano solo modi di vibrazione diversi della stessa stringa. Così come una corda di violino o di una chitarra può essere pizzicata per produrre armoniche differenti, i diversi modi di vibrazione di una stringa corrispondono a particelle di materia distinte come elettroni e quark. Lo stesso vale anche per i vettori della forza. Mediatori come i gluoni e le particelle W e Z devono la loro esistenza ad altre armoniche. In parole povere, tutte le particelle di materia e di forza del modello standard fanno parte del repertorio delle stringhe. Cosa più importante, è stata scoperta una particolare configurazione di stringa vibrante con proprietà che corrispondono esattamente al gravitone, il mediatore della forza gravitazionale di cui era stata prevista l'esistenza. Per la prima volta, le quattro forze fondamentali della natura sono state riunite, seppure in modo provvisorio, sotto lo stesso tetto.

Forse avrete pensato che un successo di tale portata, letteralmente il santo Graal della fisica moderna, sia stato immediatamente festeggiato dall'intera comunità dei fisici. In realtà, la reazione a metà degli anni Settanta fu piuttosto diversa. Anni di frustrazione e fallimenti nell'unificare relatività generale e meccanica quantistica avevano eretto uno spesso muro di scetticismo. Quando i fisici John Schwarz, del California Institute of Technology, e Joél Scherk, della École Normale Supérieure francese, affermarono che gravità e forza forte erano state finalmente unificate dalla teoria delle stringhe, nessuno ci fece caso. Questa situazione si protrasse per oltre un decennio. In questo periodo, quasi ogni passo avanti fu seguito dalla scoperta di una sottile difficoltà, che vanificava per nove decimi il passo avanti. La svolta arrivò nel 1984, quando i fisici Michael Green, allora del Queen Mary College, e John Schwarz dimostrarono che la teoria delle stringhe poteva davvero portare all'unificazione che tutti stavano cercando. Ne derivò un periodo di attività frenetica, alcuni dei migliori teorici si gettarono a capofitto nella ricerca di quella che sembrava essere la tanto agognata teoria del Tutto, il fondamento di tutta la fisica. Come spesso accade in ambito scientifico, però, questo eccesso di entusiasmo (la cosiddetta «prima rivoluzione delle superstringhe») lasciò ben presto il posto a una fase di duro lavoro pieno di frustrazioni. Mentre nel caso di SU(3) tutti gli strumenti matematici esistevano già e i fisici dovettero solo usarli, i teorici delle stringhe dovettero sviluppare i loro strumenti strada facendo. Ciononostante, come vedremo tra poco, i gruppi si rivelarono ancora una volta adatti a descrivere i modelli soggiacenti.

In che modo la teoria delle stringhe si propone di risolvere il conflitto di fondo tra la geometria regolare della teoria della relatività generale e le violente fluttuazioni della meccanica quantistica? Conferendo allo spazio-tempo un po' di indeterminatezza, come quella che la meccanica quantistica trasmette alla posizione e al moto delle particelle.

Immaginiamo che vogliate disegnare una nuvola. Se quella che scegliete come modello è relativamente distante, vicina all'orizzonte, probabilmente sarete in grado di riprodurne la forma in modo abbastanza preciso. Se però la nuvola è relativamente vicina a voi, sarà più difficile rendere fedelmente il suo contorno irregolare. Zumando ulteriormente, fino alla scala submolecolare, ogni tentativo di riproduzione diventerebbe impossibile. La teoria delle stringhe afferma che, trattando le particelle elementari e i vettori della forza come oggetti puntiformi privi di dimensione, la fisica tentava di studiare l'universo su scale così piccole da risultare insensate. In altre parole, dato che le stringhe, i costituenti fondamentali dell'universo, sono oggetti estesi con dimensioni dell'ordine della lunghezza di Planck, le distanze inferiori a questa lunghezza non rientrano nel campo della fisica. Concentrandosi solo su scale superiori alla lunghezza di Planck, è possibile eliminare le violente fluttuazioni ed evitare il conflitto. Nessuna meraviglia che l'indeterminatezza del sistema di riferimento della teoria delle stringhe cambi la natura degli eventi spaziotemporali. Mentre nel modello standard qualsiasi interazione tra due particelle avviene in un punto ben definito dello spazio-tempo, su cui concordano tutti gli osservatori, la situazione nella teoria delle stringhe è diversa (figura 71). Data la natura estesa delle stringhe, non è possibile dire con precisione quando e dove due stringhe interagiscono. Sia la posizione sia il momento dell'interazione sono «sfumati».

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