Copertina
Autore Paolo Lombardi
Titolo Streghe, spettri e lupi mannari
SottotitoloL'«arte maledetta» in Europa tra Cinquecento e Seicento
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2008 , pag. 200, cop.fle., dim. 15x23x2 cm , Isbn 978-88-02-07929-5
LettoreLuca Vita, 2009
Classe storia moderna , storia sociale , storia criminale , religione , esoterismo
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Indice


VII Introduzione

  3 Capitolo 1
    Vita, carriera e morte di una strega inglese.
    Il processo di Anne Bodenham

 27 Capitolo 2
    «Se fai attenzione alle parole del testo»: stregoneria
    e interpretazione della Scrittura nell'Inghilterra
    del XVII secolo

 69 Capitolo 3
    Fantasmi e streghe. La controversia sull'apparizione
    degli spiriti in Inghilterra (1669-1691)

 95 Capitolo 4
    L'umore del diavolo. Demonio e melanconia
    nel Cinquecento

125 Capitolo 5
    Uomini e lupi. Note sulla trasformazione degli
    uomini in animali nel XVI secolo

151 Appendice 1
    L'uomo che credeva nelle streghe. Jean Bodin e
    l'ammissibilità della stregoneria in Europa alla fine
    del Cinquecento

167 Appendice 2
    Processo a Gilles Garnier

177 Note
191 Bibliografia
195 Indice dei nomi


 

 

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Pagina VII

Introduzione



Se la storiografia fosse un territorio, la stregoneria sarebbe uno dei luoghi più frequentati. In più di un secolo di intensa e accurata ricerca storica, i testi, gli articoli e i saggi usciti e dedicati all'argomento sono stati tanti davvero. La bibliografia riportata da un recente libro sull'argomento ammonta, per i soli titoli citati sotto le categorie Monografie, Raccolte di Saggi e Articoli sulla Stregoneria, a quasi 400 titoli. Scorrendo la lista, è facile osservare come gli aspetti del fenomeno «stregoneria» già indagati dagli studiosi siano molto ampi e molto vari: le cacce alle streghe; il rapporto con l'eresia; gli apparati giuridici di repressione della stregoneria; le strutture antropologiche sottostanti le credenze nella stregoneria; il ruolo dei generi sessuali nella genesi delle accuse di stregoneria; la demonologia; la relazione tra magia e stregoneria e così via. L'elenco potrebbe continuare molto a lungo. Dunque non solo la bibliografia su quest'argomento è realmente ampia, ma la stregoneria è stata indagata in una tale varietà di prospettive, che pochi fenomeni storici possono vantare una simile attenzione da parte degli studiosi. Stando così le cose, vi è il rischio che ogni nuovo testo su questo tema che pretenda la pubblicazione possa sembrare superfluo; e il meno che si possa esigere è che esso debba giustificare se stesso. Perché, dunque, un nuovo libro sulla stregoneria?

Per sorprendente che possa sembrare a un lettore colto, ma non specialista (tale, insomma, da non leggere professionalmente libri sulla stregoneria), l'esistenza di questa cospicua massa bibliografica non ha impedito, né, verosimilmente, impedirà in futuro, la circolazione di immagini inadeguate della stregoneria — inadeguate e tuttavia ancora piuttosto diffuse. Ce ne dà un esempio un testo uscito di recente, dove la critica letteraria messicana Esther Cohen dipinge la stregoneria rinascimentale come un sapere popolare innocente improntato a una visione magica del mondo. Questo sapere popolare, di cui la strega è la garante e la rappresentante al livello delle classi basse, è antichissimo e profondamente legato ai cicli della natura e alle trasformazioni di quest'ultima, e viene così descritto:

Nel Rinascimento, la strega sembra come il guardiano dell'innocenza di un mondo già perduto nella preistoria del pensiero religioso e, in un futuro prossimo, del pensiero scientifico. Il suo laboratorio è una collezione di rifiuti, nella tradizione di un sapere popolare diffuso e apprezzato, un modo di conoscere e modificare il mondo a partire dalla magia, dove non soltanto íl simile produce íl simile, ma dove la magia opera anche per estensione e per contagio.

Questo semplice e puro sapere verrà brutalmente cancellato in nome di una nuova cultura umanistica, e più tardi scientifica, che, cosciente della propria ambiguità in quanto ancora ospitava in sé alcuni residui magici, tentò di eliminare la versione «popolare» di quella cultura magica: «Quel mondo umanista si fondò su una magia popolare profondamente radicata che, per ciò stesso, si cercò di ridurre al silenzio in nome della nuova scienza e della nascita di un mondo nuovo».

Dunque la persecuzione della stregoneria fu il tentativo cosciente di obliterare un sapere che la ragione umanistica (che poi, secondo la Cohen, sostanzierà la rivoluzione scientifica), in base alla propria irresistibile dialettica interna, dichiarerà demoniaco, cominciando a immaginare e a produrre le streghe, in una vicenda che conduce inevitabilmente ai roghi finali. Non a caso, commentando le tesi della Cohen, Enzo Traverso, nella postfazione al libro di lei, richiama apertamente la «dialettica dell'Illuminismo» e «il legame che ha sempre índissociabilmente intrecciato, nel processo di civilizzazione, progresso e violenza, cultura e barbarie; un legame che trasforma il progresso tecnico e scientifico in regressione umana e sociale».

È proprio così? Fu il Rinascimento a inventare la figura della strega (che nelle epoche precedenti era l'incolpevole portatrice di un sapere naturale e magico) a causa di un progresso del pensiero che si avviava a diventare tecnica e scienza, e quindi brutalità e repressione verso tutto ciò che espungeva da sé?

Grazie a quell'ampio sforzo di studio cui facevo cenno all'inizio, oggi noi sappiamo che quest'immagine della stregoneria, che deve molto alle tesi ottocentesche di Michelet mescolate a idee tratte da Michel Foucault , da Max Horkheimer e da Theodor Adorno , è assai inadeguata. Non solo il Rinascimento non inventò la strega, ma non inventò neppure né il rogo né la caccia alla strega. Nell'816, il vescovo Agobardo di Lione dovette intervenire personalmente per evitare il linciaggio di alcune persone accusate da una folla impazzita di aver messo in pericolo il raccolto tramite mezzi magici; nel villaggio russo di Suzdal, nel 1024, alcuni vecchi furono uccisi durante un tumulto per essere stati riconosciuti come i responsabili di una carestia provocata da un intervento magico. E sarebbe facile moltiplicare gli esempi. Neppure l'idea che la stregoneria sia una caratteristica prevalentemente femminile fu un'invenzione del Rinascimento; a titolo di mero esempio, quest'idea si trova chiaramente espressa nel commento al biblico libro di Ruth, contenuto a sua volta nel complesso di testi cabalistici composti nel corso del XIII secolo e noti come Zohar.

Oltre a ciò, anche ammesso che una simile dialettica sia esistita all'interno del pensiero moderno (o meglio, del pensiero che durante il Rinascimento si avviava a diventare moderno proprio tramite lo sterminio delle streghe), essa fu tutt'altro che irresistibile. Il principale esponente di tale dialettica, l'inquisitore Heinrich Institoris (l'autore del noto trattato Malleus Maleficarum che in qualche modo fissò, alla fine del XV secolo, l'immagine della strega, e cui la Cohen dedica un saggio del suo libro) sperimentò grosse difficoltà nella sua opera dí eliminatore di streghe, difficoltà provenienti non solo dalle autorità politiche delle città in cui operava, come l'arciduca Sigismondo, ma persino da parte delle autorità religiose: quando, nel 1485, Institoris cercò di aprire a Innsbruck un processo per stregoneria a carico di 14 donne, il vescovo della città, Golser, lo costrinse a lasciare la sua diocesi e liberò tutte le imputate. Dunque i processi non finivano inevitabilmente con il rogo; quell'articolazione del nuovo pensiero umanistico che secondo la Cohen produsse in modo necessario tanto le streghe quanto i roghi delle streghe era in realtà così poco necessaria che neppure tutti i religiosi la condividevano, e neppure in presenza di una bolla papale (la Summis desiderantes affectibus) con la quale il papa Innocenzo VIII aveva espressamente autorizzato le attività inquisitorialí di Institoris nelle provincie ecclesiastiche tedesche. Le idee di Institoris sulle streghe erano insomma ben poco trionfanti; e giustamente alcuni studiosi hanno parlato al proposito di «categorie contrastante». Anzi, dagli episodi scatenati dalle attività di Institoris nacque un testo, il De pythonicis mulieribus, che ebbe grande importanza. Sigismondo, arciduca d'Austria, aveva seguito con curiosità mista a preoccupazione le cacce alle streghe svoltesi a Innsbruck e nei suoi domini, e aveva perciò chiesto il parere in materia di Ulrich Molitor, uno dei suoi consiglieri giuridici.

L'esito delle ricerche di Molitor fu appunto il De pythonicis mulieribus, opera la cui prima pubblicazione risale al 1489, e consistente in un dialogo di cui uno dei protagonisti è lo stesso arciduca Sigismondo. Nel De pythonicis mulieribus è Sigismondo stesso ad avanzare forti dubbi relativi alle tesi sostenute da Institoris: viene messa in dubbio l'unione sessuale della strega con il demonio, che invece il Malleus Maleficarum aveva descritto come cosa certa. Molitor era un giurista prudente, che di ogni cosa cercava i precedenti giuridici. Se perciò è vero che la stregoneria è un reato, perché Dio la proibisce nella Bibbia e perché vi sono leggi che la condannano, non tutto ciò che si crede comunemente sulla strega è vero, e in particolare non è vero, come credeva invece Institoris, che la streghe siano trasportate dal diavolo al sabba; non è vero che possano tramutare il loro corpo in quello di un animale; non è vero che le streghe abbiano poteri mirabolanti, ad esempio quello di resuscitare i morti. Si tratta di un inganno che il diavolo tende alle streghe, quando, per irretirle al proprio servizio, fa credere loro di possedere tali poteri, che invece sono soltanto immaginari. Non è dunque vero che l'immagine della strega, così come fissata dal Malleus maleficarum, si diffondesse a macchia d'olio; non è vero che la cultura del tardo XV secolo fosse disposta a ricevere tale figura acriticamente.

Al contrario: una lettura non frettolosa dei trattati di demonologia, rivela che gran parte degli autori che scrissero a favore della repressione della stregoneria si preoccupava molto del fenomeno della caccia alle streghe, che andava limitata in quanto, con l'isteria che provocava, rischiava di versare copioso sangue innocente. Thomas Cooper, autore di un trattato intitolato Sathan Transformed into an Angell of Light, riteneva che il fenomeno della caccia fosse uno degli inganni del diavolo, che così riesce a sollevare le ire popolari e a far versare sangue". Della medesima opinione era George Gifford, che nel 1587 si era detto convinto che chi più odia le stregoneria e più è zelante contro di essa, più è affetto da quest'ultima. Anche Richard Bernard, nel 1629, richiamava la necessità di controllare la repressione della stregoneria in modo da evitare cacce indiscriminate rifacendosi a un atteggiamento religioso: la pietà infatti impone agli uomini di detestare ciò che a Dio è inviso, come la stregoneria, ma l'infuriare e il cercare ad ogni costo vendetta contro chi si sospetta colpevole di stregoneria è anch'esso un atteggiamento detestato da Dio. Demonologi e teologi spesso erano tutt'altro che privi di scrupoli; si rendevano ben conto di che cosa significasse una caccia alle streghe e del pericolo di incontrollabili omicidi di massa. Non di rado, il loro primo pensiero non era come mettere in moto una caccia alle streghe, ma piuttosto come limitare quest'ultima e impedirne i perniciosi effetti.

Quanto all'idea che la stregoneria fosse un sapere popolare magico antico e profondo, spesso la realtà, come opportunamente ci ricorda Oscar di Simplicio in un suo recente studio molto dettagliato su fonti processuali del territorio senese, è assai diversa. Si trattava infatti di un'arte

che allontanandosi dai centri della cultura urbana perdeva ogni spessore culturale, conservandone solo una pallida veste funzionalistica. Le originarie alte finalità conoscitive della magia dotta inesorabilmente si slabbravano in una moltitudine di pratiche mirate al conseguimento di fini utilitaristici.

Del resto, l'idea che le campagne fossero colme di donne portatrici di un sapere naturale antico e profondo, trasmesso intatto di generazione in generazione, fa un po' sorridere il lettore dei verbali dei processi per stregoneria che si trova spesso di fronte a pratiche magiche molto rudimentali. Un semplice confronto con le fonti documentali lo mostra con chiarezza, ad esempio il processo a Joan Peterson, la cosiddetta «strega di Wapping», giudicata in Inghilterra il 7 aprile 1652. La carriera della Peterson sfida ogni distinzione tra «strega buona» e «strega cattiva» (o, se si preferisce, tra «strega bianca» e «strega nera»). Costei infatti agiva senza alcun passaggio di ruolo ora come guaritrice ora come causa di malattie, a seconda della convenienza. Ad esempio fu accusata da un certo Robert Wilson di averlo fatto ammalare. In realtà Wilson era stato curato dalla Peterson, che lo aveva guarito da un malanno di natura magica; Wilson, però, non aveva pagato l'intervento della Peterson, che lo aveva minacciato di farlo ammalare nuovamente. Quando ciò era successo realmente, Wilson aveva accusato la strega. Nel corso del processo, l'attività di guaritrice/provocatrice di malattie svolto da Joan Peterson si approfondisce e si svela come lavoro: il dedicarsi tramite un incantesimo a guarire una malattia anziché farne insorgere una, era una questione di corrispettivo, oppure di semplice antipatia personale. Vi è molto poco di romantico nelle attività della Peterson, molto poco che assomigli a un sapere innocente secolare e profondo, piuttosto che a un'occupazione alquanto meccanica e priva di fascino. Del resto, la qualità del sapere posseduto dalla strega di Wapping non sembra elevata; dal processo sappiamo infatti che costei curava indistintamente, e con gli stessi mezzi, uomini e animali. Si trattava insomma di un sapere onnicomprensivo, che abbracciava tutti gli oggetti e che non distingueva nulla. In fondo, il sapere guaritore della Peterson assomigliava molto al sapere aristotelico che si basava sull'assunto dello scire per causas; se la causa di una malattia è magica, l'analisi attenta dei suoi sintomi non ha alcun significato. Si tratta piuttosto di scoprire chi ha gettato l'incantesimo e provocato la malattia. Tutto sommato, il sapere della Peterson non era una conoscenza profonda della natura, anzi aveva poco a che vedere con la natura. La malattia, in quanto oggetto naturale, non veniva neppure presa in considerazione. Come ricordava John Webster nel suo The Displaying of Supposed Witchcraft (1677), la stregoneria, così come il papato, è estremamente tradizionalista; spesso le presunte streghe si limitavano a impiegare alla lettera ricettari che venivano loro tramandati, da cui traevano formule che non capivano ma che non mettevano in discussione.

Il maggior difetto dell'immagine della stregoneria così come ci è consegnata dal testo di Esther Cohen sta, tuttavia, nel fatto che tale immagine è statica; la strega, in quanto prodotto necessario di una dialettica interna al pensiero che cessa di essere magico e si avvia a diventare scientifico, si presenta con le stesse caratteristiche ovunque tale dialettica si inneschi. Oggi noi sappiamo che invece la stregoneria era un fenomeno dinamico: si presentava cioè con caratteristiche peculiari (all'interno di una cornice generale comune) non solo secondo categorie geografiche (la felice formula del «centro» e delle «periferie» coniata all'inizio del 1990 da Bengt Ankarloo e Gustav Henningsen) ma anche temporali. In altri termini, la figura della strega così come venne dipinta alla fine del XV secolo dal Malleus Maleficarum non era più esattamente identica alla figura della strega così come emerge da lavori successivi di un secolo come La Démonomanie des Sorciers di Jean Bodin o le Disquisitionum Magicarum di Martin del Rio. La stregoneria, più che la manifestazione di una dialettica del pensiero, era un fenomeno fluttuante, suscettibile di modifiche e variazioni; e queste variazioni, oltre alle condizioni locali in cui il fenomeno prendeva corpo, dipendevano da una vasta congerie di fattori.

Proprio la vastità di questa congerie fa sì che ancor oggi sia possibile e fruttuosa un'esplorazione della stregoneria. Un piccolo esempio viene da un libro recente, che fa ampio riferimento alla precarietà del mondo in cui la credenza della stregoneria allignava. Effettivamente, nei secoli XVI-XVII la vita era straordinariamente precaria; come ha efficacemente scritto Robin Briggs, le popolazioni dipendevano in altissimo grado dalla bontà del raccolto e dagli animali, e il perdurare del cattivo tempo poteva significare la perdita del raccolto e la conseguente fame, così come gli animali da fattoria, esseri biologici fragili e sottoposti a malattie improvvise, assicuravano solo un'incerta sicurezza per il futuro. Due elementi così vitali per la sopravvivenza erano dunque totalmente al di fuori del controllo delle popolazioni; ed essi erano appunto tradizionalmente associati al potere delle streghe, che erano accusate di distruggere i raccolti tramite le tempeste provocate per via magica e di uccidere il bestiame tramite lo stesso mezzo. La perdita del raccolto, la morte improvvisa degli animali domestici erano due accidenti molto temuti; e forse era naturale supporre dietro essi, una volta che si verificavano, la presenza di una volontà maligna e ostile: quella della strega. Un altro indizio della grande precarietà della vita quotidiana era l'alto tasso di mortalità, particolarmente nell'età infantile. I bambini infatti iniziavano la loro vita lavorativa molto presto, e mentre venivano mandati da soli a pascolare i greggi erano soggetti a incidenti di ogni tipo. L'umanista Thomas Platter, ad esempio, narra nella sua autobiografia tre episodi in cui, mentre da bambino lavorava come pastore, rischiò seriamente di morire: nel primo caso, cadde dentro un paiolo di latte bollente riportando ustioni indelebili sul corpo; nel secondo, un grande uccello rapace tentò di rapirlo (se vi fosse riuscito, il piccolo Thomas sarebbe scomparso senza lasciare traccia e avrebbe ben potuto essere ritenuto rapito dalle streghe); nel terzo, una valanga di massi superò con un balzo il punto in cui Thomas per fortuna si trovava.

Si trattava insomma di un'epoca in cui la vita e la morte erano molto differenti da quelle cui siamo abituati oggi. La morte era perennemente in agguato e poteva colpire improvvisamente senza alcun preavvertimento. Il mondo stesso era un ambiente ostile, in cui i mezzi per la sopravvivenza dovevano essere conservati a fatica e senza garanzia per la loro sussistenza. Tale era il mondo in cui albergavano le streghe. Ora, esaminando la cronologia della successione delle varie ondate di caccia alle streghe nell'Europa centrale e comparando questi dati con quelli compilati dagli storici del clima, Wolfgang Behringer ha notato una precisa coincidenza temporale tra lo scatenarsi delle peggiori cacce, dagli ultimi anni del secolo XVI, e un rapido e deciso peggioramento del clima, avvenuto nello stesso periodo e così estremo da essere definito, da parte degli storici del clima, come piccola era glaciale. Gli anni intorno al 1600 videro infatti una serie di fenomeni atmosferici decisamente gravi: inverni lunghi e particolarmente nevosi; ghiacciate notturne anche in periodo primaverili; piogge abbondanti e scarsità di sole. L'effetto di tali eventi sui raccolti è facilmente immaginabile. Secondo Behringer, più che alla pubblicazione di influenti manuali di demonologia come quelli di Bodin e del Rio, l'ondata di persecuzioni contro le streghe di quegli anni può essere collegata alla miseria e alla fame provocate dalla piccola era glaciale. L'esempio di Behringer mostra come anche in un campo come quello della stregoneria, ove dopo più di un secolo di inesausta ricerca sembrerebbe impossibile avanzare nuove ipotesi, è ancora possibile incrociare nuovi dati e avanzare nuove interpretazioni.

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Pagina XXI

L'interrogazione che il lettore troverà nelle pagine seguenti, tuttavia, non abbraccerà una storia unica e globale del fenomeno, bensì seguirà il tentativo di mettere in luce singoli aspetti del fenomeno, in modo da far risaltare particolari che in un quadro generale inevitabilmente sfuggirebbero. Perciò il lettore troverà una serie di saggi dedicati a temi specifici, a cominciare dalla storia di Anne Bodenham, una praticona inglese che verso la metà del secolo XVII fu impiccata come strega. Ripercorrendo la carriera di questa donna, dovrebbero emergere (nell'intenzione di chi scrive, almeno) le dinamiche di quel procedimento che, in quel momento e in quel luogo, conduceva una persona a essere identificata come una strega, dinamiche verificate nello scorrere non di un presunto, grandioso trapasso epocale di saperi ma nella realtà concreta di un'esistenza che fu spezzata. Per che cosa lottava Anne Bodenham? Per che cosa lottavano coloro che la volevano strega? Rileggendo quell'antica vicenda come scontro di realtà viventi, anziché come momento di un conflitto tra un sapere popolare e antico e un nuovo sapere, umanistico-scientifico, che si affermava e soppiantava il primo, io spero che emergano elementi più precisi su ciò che era in ballo nell'accusa di stregoneria.

I saggi successivi sono dedicati rispettivamente alla questione del rapporto tra credenza nell'esistenza delle streghe e interpretazione della Bibbia e alla polemica circa l'esistenza degli spettri nell'Inghilterra del XVII secolo. Dell'importanza del primo argomento ho già fatto cenno, e non vi tornerò sopra; quanto al secondo, vorrei avvertire il lettore che, benché il tema possa sembrare marginale, in realtà era fortemente connesso alla questione della stregoneria, e soprattutto alla questione dello scetticismo sull'esistenza delle streghe. Per paradossale che possa sembrare, spesso chi aveva smesso di credere che le streghe esistessero non era favorevole a una filosofia materialistica e meccanicistica; al contrario, poteva essere seguace di Paracelso e credere all'esistenza di veicoli celesti dell'anima e all'alchimia. L'abbandono della fede nell'esistenza delle streghe non fu un processo rettilineo, ma tortuoso e pieno di svolte inaspettate, e la polemica sugli spettri illustra bene questo fatto.

Segue un testo dedicato ai rapporti tra melanconia, intesa come malattia dell'anima, e possessione demoniaca. La stretta dipendenza tra l'umore costituito dalla bile nera, responsabile di quella malattia, e il diavolo, era ben attestata nella tradizione medica e tornò in gioco più volte nella discussione sull'esistenza delle streghe nel XVI e XVII secolo. Lo stesso Wier si servì di idee simili, quando volle tentare di mettere in discussione la prova empirica dell'esistenza delle streghe costituita dalla confessione di queste ultime attribuendo tali confessioni ai deliri provocati appunto dalla bile nera. Ma se tutto ciò è ben noto agli storici della stregoneria, c'è un punto che invece è rimasto più in penombra: il fatto che nel corso del XVI secolo si contrapponessero due posizioni opposte, la prima delle quali, proprio in nome dello stretto rapporto tra azione della bile nera e azione dei diavoli, voleva che la cura di tale malattia (ivi comprese le necessarie somministrazioni farmacologiche) fosse riservata ai sacerdoti e agli esorcisti. A costoro si contrapponevano coloro che invece reputavano che la malattia fosse un fatto naturale e che quindi la sua cura spettasse alla figura del medico così come l'aveva tratteggiato la tradizione ippocratica e galenica. I primi rivendicavano al sacerdote competenze mediche e facevano dell'esorcista la figura chiave di un sapere guaritore di tipo carismatico, che restituiva, sull'esempio di Cristo (che fu il primo esorcista quando, in Matteo 8,28-30, esorcizzò due Gadareni e gettò i diavoli che li avevano posseduti in un branco di porci), la salute all'anima e che estendeva le sue facoltà curative anche al corpo: all'interno di questa concezione, l'esorcista-guaritore era medico dell'intero uomo, sia nella psiche che nel fisico. I secondi invece sottolineavano come la malattia si inserisse in un processo (o meglio nell'interruzione di un processo) naturale; onde la medicina ricadeva sotto la competenza della filosofia naturale e non sotto il potere sovrannaturale di un esorcista. Nella discussione sul rapporto della bile nera con il diavolo che si svolse nel corso del Cinquecento in questione c'era dunque il destino della medicina come disciplina naturale anziché come branca di un sapere carismatico; ma anche qui le cose erano complesse. Non è detto infatti che a sostenere la naturalità della malattia fossero medici, come non è detto che a sostenere l'eziologia diabolica della malattia fossero sacerdoti ed esorcisti; in fondo, il più forte sostenitore della tesi secondo cui la medicina del corpo e quella dell'anima sono divise solo a causa della corruzione introdotta nella natura umana a causa del peccato di Adamo, onde, in una natura purificata dal peccato (come fu appunto quella di Cristo) la medicina e il sacerdozio sarebbero necessariamente riuniti, fu, nei libri De vita, proprio il medico Marsilio Ficino.

Il saggio conclusivo è dedicato alla discussione sui lupi mannari che si svolse nella Francia del Cinquecento. A quell'epoca, i lupi mannari percorrevano ancora i boschi francesi; ma si trattava delle ultime loro corse. Benché ancora in quei secolo esistessero persone convinte di vivere in un mondo in cui i confini tra le diverse specie non erano fissi, e potevano essere varcati (e così un uomo poteva diventare un lupo, e una cosa poteva diventare un'altra), già prendeva campo una visione della natura come entità data una volta per tutte, in cui la divisione tra le specie era netta e sancita dalla volontà divina. In questa nuova visione, la licantropia, la trasformazione di una specie nell'altra non era più possibile, se non come illusione. Nascevano al contrario nuove ansie verso pratiche sperimentali, come la trasfusione del sangue, che rischiavano di mettere a repentaglio la fissità delle specie e di confliggere direttamente con l'ordine voluto da Dio. Tuttavia, l'avvento della concezione del mondo come luogo di forme fisse e non mutevoli, se debellò l'antica credenza nei lupi mannari, non bastò a impedire la persecuzione delle streghe; Boguet, che pure non credeva più alla possibilità della metamorfosi dell'uomo in un lupo per via di stregoneria, non ebbe alcuna esitazione nel condannare gli imputati del suo processo accusati di licantropia. Poteva darsi che costoro si fossero illusi di diventare lupi, cosa impossibile; ma erano nondimeno colpevoli di eresia e di apostasia per essersi dati al diavolo, anche se dal diavolo non avevano ricevuto i poteri che speravano. Dunque di per sé l'avvento di nuove concezioni del mondo poteva essere precondizione necessaria, ma certo non era sufficiente a far abbandonare la convinzione che le streghe esistessero. L'antica querelle sui lupi mannari francesi ci ricorda che l'abbandono di una credenza è un fatto complesso e non lineare.

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Pagina 125

Capitolo quinto
Uomini e lupi.
Note sulla trasformazione
degli uomini in animali nel XVI secolo



Uomini come tigri

Il 3 agosto 2001, l'agenzia Ananova batté la notizia che un uomo stava cercando di trasformarsi in una tigre. Dennis Smith, un programmatore per computer di 43 anni residente a San Diego, negli Stati Uniti, rivelò di essere vicino al completamento del suo sogno di diventare una tigre. A questo scopo, Smith si era già fatto tatuare strisce gialle e nere su tutto il corpo, si era fatto affilare i denti fino a renderli appuntiti come quelli di un predatore, e si era fatto impiantare nel naso e sulle labbra alcune vibrisse di lattice. Tutte queste operazioni erano costate a Smith 100.000 dollari. Ciò che mancava, adesso, era l'impianto chirurgico di una pelle di tigre (che Smith si era già procurato) attorno al suo corpo. Quella sarebbe stata l'ultima trasformazione.

Smith non era un emarginato né un individuo socialmente disadattato. Il suo lavoro gli fruttava 80.000 dollari l'anno. Si trattava di una persona benestante e ben integrata nel suo ambiente sociale. Quell'individuò, tuttavia, aveva deciso di lasciare la forma umana per acquisire quella di un animale. «È così da tanto tempo che mi sono identificato con le tigri, che ho deciso di diventarne una», diceva Smith di se stesso, aggiungendo subito dopo, «Si tratta del mio vero io. Molti uomini si travestono per giocare agli indiani o alla guerra civile. Io invece sono una tigre tutto il tempo». In tal modo, il signor Smith chiariva il punto: ciò che egli intendeva scegliere non era un travestimento da tigre. Egli voleva essere una tigre vera, e non una mascherata.

Com'è facile immaginare, la notizia finì ben presto nella rubrica che Ananova intitolava Bad Taste Stories. Eppure la profondità e la radicalità del desiderio del signor Smith suggeriscono il fatto che, in qualche modo, questa storia non riguardi soltanto la patologia o, semplicemente, il cattivo gusto. Ciò che il signor Smith desiderava, infatti, era niente di meno che l'abbandono dell'umanità e l'approdo a una specie ferina. Un desiderio così radicale dovrebbe essere interrogato in modo meno superficiale. Esso solleva infatti almeno due domande: qual è il confine tra umanità e animalità? E perché un essere umano dovrebbe voler varcare quel confine? Per comprendere la strana storia del signor Smith, occorre rispondere almeno a queste due domande. Tuttavia, non sarà possibile trovare queste risposte senza tenere presente il fatto che la categoria di umano e quella di animale non sono sempre state così nettamente divise che il muoversi dall'una all'altra appaia immediatamente il frutto di una bizzarria o, peggio, di una patologia in atto. È esistito un periodo in cui le divisioni tra uomini e animali non erano così nette; e per capire la storia del signor Smith, non è inutile tornare al periodo storico in cui quella distinzione è stata fissata.


Uomini come lupi

Nel corso del XVI secolo e oltre, nei boschi francesi correvano creature mezzo uomini e mezzo lupi. Queste creature non si limitavano a correre: uccidevano (o almeno erano accusate di farlo) e, se venivano arrestate dalle autorità, venivano immediatamente processate e, spesso, giustiziate. Qui non ha importanza il fatto che quegli uomini fossero realmente colpevoli dei reati loro ascritti; importa solo che vi fosse un ambiente sociale che li reputava tali e che accettava l'idea che il limite tra umano e animale potesse venir varcato da qualcuno.

È quanto capitò a Gilles Garnier, arrestato verso la fine del 1572 presso Dóle, e quindi processato (a partire dal 18 gennaio 1573) dalla locale corte parlamentare presieduta da Henry Camus. Garnier era accusato di essersi mutato in lupo, e quindi aver rapito nel bosco di La Serre una bambina di 10-11 anni per ucciderla e mangiarla. Garnier era insomma accusato di essere un lupo mannaro. Il 9 novembre 1572, secondo l'accusa, Garnier aveva rapito una seconda bambina, che riuscì a strangolare ma che non poté mangiare a causa dell'intervento di tre persone che lo costrinsero ad allontanarsi. Un terzo rapimento, avvenuto il 16 novembre 1572, ebbe invece successo; Garnier poté nutrirsi della sua vittima. Il quarto rapimento, però, gli fu fatale: il lupo mannaro fu rintracciato dai ricercatori della sua vittima e fu da loro catturato in forma umana proprio sopra il corpo del bambino rapito. All'arresto seguì il processo e al processo seguì la condanna al rogo.

Il processo di Garnier fu un processo per stregoneria. Costui era infatti una sorta di eremita, che era andato a vivere nei boschi dopo la rovina economica della sua famiglia, e dove, secondo gli atti del processo, aveva incontrato il diavolo. Fu il diavolo a fornire a Garnier un unguento, cospargendosi del quale costui era capace di assumere la forma di un lupo. Cedendo alla tentazione diabolica e utilizzando il dono del diavolo allo scopo di compiere il male, Garnier si era reso colpevole di stregoneria. Perciò la condanna al rogo era più che adeguata.

La sorte di Garnier non fu un caso unico in quel secolo. Nel 1521, presso Poligny (nei dintorni di Besançon), Pierre Burgot e Michel Verdun erano stati arrestati con la stessa accusa di licantropia; e un altro caso era avvenuto in Borgogna, a Saint Claude, dove, durante una caccia alle streghe iniziata nel 1584, il giudice Boguet aveva scoperto ben quattro licantropi tra le file dei suoi sospettati. Costoro confessarono l'assassinio di numerosi bambini e furono tutti condannati al rogo. Nel 1604 vi fu un nuovo episodio di licantropia presso Losanna. Il caso forse più celebre fu però quello di Jean Grenier, arrestato nel settembre del 1603 presso Bordeaux. Sottoposto a perizia medica dopo l'arresto, Grenier fu giudicato un indemoniato da uno dei due medici della commissione, mentre il secondo medico lo riteneva piuttosto uno squilibrato e un melanconico. Condannato in prima istanza assieme al padre, da lui stesso accusato di essergli complice nelle sue scorribande notturne sotto forma di lupo, Grenier fu sottoposto a un secondo grado di giudizio quando il padre interpose appello, e questa seconda corte richiese il parere di un noto e dotto ecclesiastico, Jean Filesac, il cui manoscritto ci ha conservato questa storia. Conformemente alla raccomandazione di Filesac, Grenier non fu condannato, come i suoi predecessori, al rogo, ma fu rinchiuso in un convento di cordiglieri. In quel convento si recò a trovarlo, nel 1610, Pierre de Lancre, il giudice che in quegli anni conduceva nella regione di Bordeaux un'intensa caccia alla streghe. Agli occhi di de Lancre, Grenier apparve come un ventunenne psicolabile che aveva i denti marci e le unghie lunghe e nere. Grenier disse a de Lancre di essere stato mosso dal desiderio di mangiare carne umana cruda e che ancora 7 anni dopo le sue corse nella foresta, in convento, provava ancora del desiderio, ma di contentarsi di interiora di pollo o di pesce. Poco dopo quell'incontro, Grenier morì; era l'inizio del novembre 1610. De Lancre ci informa che egli trapassò da buon cristiano.

Nell'eccezionale esperienza di Garnier, Grenier e dei loro simili cominciano a rivelarsi le condizioni che la cultura del loro tempo riteneva accessorie alla perdita della forma umana: il desiderio di correre a quattro zampe, di nutrirsi di carne umana, di strangolare il bestiame e in generale di mostrarsi nemici della razza umana. Chi perde la forma umana assume desideri bestiali, impellenti perché incontrollabili, o meglio: chi assume desideri bestiali, prima o poi perde anche la forma umana. La struttura del desiderio di Grenier, che gli faceva desiderare di correre nella foresta a quattro zampe (nella tradizione umanistica cui de Lancre stesso fa cenno, la locomozione bipede con la testa in alto è il segno della superiorità dell'uomo sugli animali, in quanto l'uomo è l'unico a poter levare gli occhi verso il cielo) era il segno del suo abbandono di quegli impulsi celesti che invece sostanziano la natura stessa dell'essere umano e lo distinguono dagli altri animali. In quanto sottomette se stesso, con ragione e fede, alla ricerca del cielo, l'uomo soltanto è degno di se stesso; se invece si lascia prendere da impulsi selvaggi e irrazionali, che lo pongono al livello degli animali, l'uomo smarrisce se stesso e poco dopo non è più uomo, ed è sufficiente un unguento diabolico per fargli perdere perfino la forma umana, ultimo retaggio dell'umanità cui appartenne.

Tutto ciò emerge con chiarezza dai documenti e ci fa certi della distinzione tra umano e animale che nella Francia del XVI secolo le corti di giustizia (e i dotti che attorno ad esse ruotavano) adottavano. La questione è tuttavia più intricata, perché Garnier, Grenier e soci non si limitavano a diventare moralmente degli animali, ad assumere desideri ferini; essi si trasformavano fisicamente in lupi. A rischio non era dunque la sola condizione eccellente degli esseri umani rispetto a tutte le altre creature, ma perfino la distinzione tra le specie. I casi di Garnier e Grenier ci restituiscono un mondo in cui le anime dei morti vagavano tra i vivi, le specie si tramutavano le une nelle altre, e insomma la vicenda delle forme era tale per cui non esistevano separazioni definitive tra le cose. Eppure fu in quel secolo che i morti furono ricacciati nelle loro tombe, i lupi mannari cessarono di correre nei boschi e gli esseri umani di tramutarsi in altri organismi, relegando così il sogno del signor Smith tra le bizzarrie del nostro tempo (laddove invece, per le corti che li processarono, le trasformazioni di Garnier e Grenier suscitarono orrore ma non meraviglia: erano insomma ritenute possibili). Come avvenne ciò?

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