Copertina
Autore Claudio Magris
Titolo Alfabeti
SottotitoloSaggi di letteratura
EdizioneGarzanti, Milano, 2008, Nuova biblioteca 69 , pag. 494, cop.ril.sov., dim. 14,5x22x3,5 cm , Isbn 978-88-11-74082-7
LettoreFlo Bertelli, 2009
Classe critica letteraria
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Indice


Libri di lettura                              9
Alcesti indiana                              16
Rami di un medesimo tronco                   21
L'alfabeto del mondo                         26
Lo stupro del Nulla                          30
Il romanzo senza famiglia?                   33
Sono solo il fratello                        39
Felicità                                     43
L'ira, non sempre funesta                    49
Del coraggio                                 56
La guerra, epopea impossibile                62
L'ultimo sguardo                             67
Malinconia e modernità                       72
Filemone, falsario e martire                 76
Disperazione e ombra                         79
Robinson e i Robinson                        82
Schiller, genio classico
  della modernità anticlassica               89
Sempre verso casa                            94
L'ombra e la fiamma                          98
La bambina allo specchio                    104
I deficit dell'amore                        109
Il tempo non è denaro. L'anticapitalismo
  nella letteratura austriaca               115
Fruste in famiglia                          129
La fede dei nichilisti                      135
Sologub e la meschinità del male            140
Le gioie del declassato                     145
Praga al quadrato                           161
Fontane, la vecchia Prussia e il futuro     210
L'idillio del Nordland                      216
Pretendere di vivere                        232
Città e malinconia                          238
Avanguardia e metropoli                     245
Conrad: nascere è cadere in mare            249
Fra i raggi della ruota                     254
Attualità e classicità di Brecht            272
I santi che ridono di Dio                   275
L'epigono precursore                        279
Il circo e l'esilio                         297
Un'antipolitica dal volto umano             310
L'impotenza del potere assoluto             304
Un'aurora di sangue                         308
Un uomo vivo nella città dei morti          313
Il farmacista di Auschwitz                  322
Ritorno dall'inferno                        326
Il bugiardo che dice la verità              331
Nel tempo dell'eclissi                      337
Ernesto Sábato e le due scritture           340
Elogio della follia: Plaza de Mayo          348
L'arte dell'assenza                         353
Apocrifi e verità                           357
Dalla prua di una nave che affonda          362
Genio e meschina controfigura di sé stesso  366
Il colore del tuono                         370
Il Sud della letteratura                    375
Un mondo che crolla e che sorge             381
Zona d'ombra                                384
Anche il mare è ferito a morte              387
Là dove muoiono le metafore                 392
«Resistere all'aria del tempo»              400
Le mani di Paolo VI                         403
Poeta e scienziato dei disguidi             407
Un narratore clandestino                    410
L'antologia dimenticata                     417
La guerra degli storni                      420
Lezioni di tenebre                          426
Il nulla non fa più male a nessuno          430
Il passo veloce della storia                438
Avanguardia, rivoluzione e pubblicità       441
Letteratura e bestseller                    445
Dieci copie vendute                         451
Omero digitale                              455
Se l'opera d'arte non porta firma           460
Letteratura & veleni                        463
I dogmi della scienza                       468
Come un pugno                               471
Letteratura e impegno:
  il cuore freddo degli scrittori           475

Indice dei nomi                             481


 

 

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Pagina 21

RAMI DI UN MEDESIMO TRONCO



Molti anni fa Carlo Cassola polemizzava con Italo Calvino, perché questi aveva dichiarato che Galileo era uno dei più grandi scrittori italiani; io credevo – ribatteva Cassola – che Galileo fosse il più grande scienziato italiano. Aldilà della diversa poetica dei due narratori, quella schermaglia mette in luce uno dei tanti e fondamentali problemi di ogni storia letteraria: chi ne fa parte di diritto, di chi il suo storiografo deve parlare? In passato, l'unità del sapere (in particolare, ma non solo di quello umanistico) ignorava tali scissioni: grandissimi storici quali Tucidide e Tacito fanno parte della letteratura greca e latina e i testi dei presocratici sono insieme filosofia, poesia e scienza. Pure Machiavelli è grande scrittore non solo in un'opera di fantasia come la Mandragola, ma anche – e forse ancora di più – in un trattato politico come Il Principe. D'altronde perfino i più fervidi ammiratori politici di Churchill – e pure della sua prosa nobilmente retorica e causticamente pregnante – restano interdetti dinanzi al Premio Nobel conferitogli per la letteratura.

Condividendo il destino di molte altre discipline nell'età contemporanea, la storia letteraria non sa più bene quale sia il suo preciso oggetto. Se dovesse essere una raccolta di ciò che, in varia misura, è degno e anzi esige di essere salvato per la sua qualità poetica, ovvero se si fondasse sulla crociana distinzione fra poesia e non poesia, cesserebbe di esistere, si risolverebbe in una serie di monografie e medaglioni di singoli autori, come voleva Croce, anche se egli stesso, con una di quelle contraddizioni che inficiano il suo pensiero ma salvano tante sue pagine, ha ribadito in altre circostanze l'unità della vita, in virtù della quale «la storia dell'arte è inseparabile dalla storia sociale e dalla filosofica». D'altra parte, paradossalmente, sarebbe proprio una storia letteraria intesa quale antologia di isolate perle poetiche a dover accogliere Galileo anziché tanti lirici e prosatori, i cui testi sono infinitamente meno poetici della sua asciutta e incantevole pagina.

Una simile concezione della storia letteraria è oggi improponibile e lo è sempre stata, perché perderebbe quel «nesso della vita costituito da tutta la storia umana», come diceva Croce, e le singole perle, le monografie sull'uno o sull'altro autore, rimarrebbero astratte e statiche, morte; perderebbero la loro concreta bellezza, conclamata e predicata ma non trasmessa dal critico, come accade in certi saggi crociani godibilissimi da leggere ma tautologici, perché non fanno altro che ribadire l'assunto da cui sono partiti ossia la bellezza poetica di un testo: il saggio crociano su Ariosto è molto bello, ma non dice granché di più di quello che sappiamo già la prima volta che leggiamo Ariosto ovvero che è un grande poeta.

Oggi una storia della letteratura tende a essere, proprio per non perdere l'unità e il nesso della storia affermati da Croce, una storia «dell'attività letteraria», come dice un titolo di Giuseppe Petronio, e cioè si propone di tener conto di tutto il processo, sempre più vasto e complesso, della produzione espressiva. Come quest'ultima sfuma talora in una artisticità così diffusa ed effusa da distinguersi a malapena da tutto il resto, la storiografia letteraria, specie negli anni appena trascorsi, ha esasperato questa robusta e concreta concezione storico-sociale sino al ridicolo, dissolvendo ogni specificità del testo letterario in un sociologismo indifferenziato che pone sullo stesso piano Leopardi e gli spot pubblicitari, entrambi indubbiamente fatti espressivi, sommergendo e perdendo in quel flusso indistinto ogni individualità.

A far capire cos'è la letteratura, in questi decenni, è stata soprattutto la critica formale, filologica, la vera lettura concreta, e dunque pure storica e sociale, di un testo. Una storia della letteratura può essere l'Albo dell'Ordine degli scrittori regolarmente abilitati o l'affresco epico e totalizzante che individua – nel fluire di vicende, di vite, di fantasie e di parole che costituisce l'esistenza di una comunità umana – un filo rosso, un'idea-guida o idea-forza, un itinerario che, come il corso di un fiume, dia senso allo scorrere delle onde, grandi e piccole. Così la storia della letteratura diviene la ricostruzione – o costruzione – di un'identità nazionale, matrice e insieme specchio di questa identità e del processo del suo divenire, inteso quale progressiva realizzazione dell'identità medesima. Per nessuna nazione, ha osservato Cesare De Michelis, questo è stato vero come per l'Italia, come dimostra la Storia di Francesco De Sanctis, opera epica prima ancora che critica, che contribuisce in qualche modo a creare quel divenire nazionale nell'atto stesso in cui lo interpreta.

Prima di De Sanctis, già Mazzini – la cui grandezza, liberata dagli elementi più datati, è destinata a emergere sempre di più – aveva auspicato e insieme constatato l'avvento di una nuova storiografia letteraria, capace di cogliere «il vincolo che annoda in un popolo le istituzioni, le lettere e i progressi della civiltà». Può darsi che questo sia, come in De Sanctis, un postulato, un'esigenza morale, un pensiero – ma un pensiero che è già azione, creazione di realtà. Ogni vera storia della letteratura necessita di una prospettiva, di un angolo visuale da cui inquadrare la realtà. Questa è la sua grandezza e il suo limite: capire la realtà implica selezionarla, ordinarla, sfoltirla, privilegiare nella selva dei suoi innumerevoli fenomeni alcuni a scapito di altri, vederla in una certa luce e non in un'altra.

Ogni grande prospettiva – quella democratico-risorgimentale di De Sanctis, quella marxista di Lukács – fa violenza al reale, ne esclude certi aspetti. Ma senza prospettiva, senza unità pur ottenuta a prezzo di imposizioni ed esclusioni, non c'è nulla; c'è solo un pulviscolo confuso di dettagli, un'anarchia di atomi. Anche – forse e soprattutto – la storia della letteratura ha bisogno di un'idea-forza. Non è necessario che sia una visione ideologica: può essere una costante stilistica (la «funzione Gadda» privilegiata da Contini) oppure – per fare solo un altro esempio fra i tanti – un'antitesi etico-estetica come quella che i vociani triestini si ostinavano a porre fra la «linea Dante» e la «linea Petrarca».

Una storia della letteratura impone o quanto meno presuppone un canone, il quale per altro è destinato a venire continuamente contestato, modificato e riassestato, mentre parallelamente il corso della letteratura viene spostato come quello di un fiume; c'è una letteratura italiana centralista imperniata sulla fiorentinità, grande e piccina, ce n'è una che enfatizza le periferie, siciliane o triestine che siano, sino a degenerare nell'odierno particolarismo, secondo il quale nella Venezia Giulia gli studenti dovrebbero imparare La mula de Parenzo piuttosto che il canto di Paolo e Francesca. C'è una storia letteraria che vede la propria spina dorsale nelle tensioni etico-politiche e nei processi sociali e una che punta tutto sulle invenzioni e la trasgressione linguistica, sull'innovazione sperimentale d'avanguardia.

Anche la più completa e intelligente storia letteraria ha le sue chiusure; l'ideale etico-civile-passionale di De Sanctis non potrebbe mai rendere giustizia a Kafka e ai reietti e randagi poeti dell'assenza, colonne della letteratura moderna, costituita da frammenti laterali e priva di un saldo centro, e di cui forse non si può fare storia nel modo classico. Ogni storiografia letteraria è destinata a generare i «grandi dimenticati» rivendicati con tanta forza da Ermanno Paccagnini e destinati a riemergere nella loro grandezza, come i molti autori ritrovati da Guido Davico Bonino in quel felice «prontuario» che è il suo Novecento italiano.

Come dimostra quel capolavoro critico che è la Storia delle storie letterarie di Giovanni Getto, ognuna di queste ultime è forse già superata al momento del suo apparire, impari al divenire che ha nel frattempo mutato pure i criteri di giudizio. Ma questa è la poesia delle storie letterarie, la loro lotta per scoprire le voci che resistono al tempo; una lotta che a sua volta soggiace al tempo, esprimendo così un appassionato sentire dell'universale mortalità di uomini, opere e cose. Fin da ragazzo amavo i manuali anche più aridamente compilatori di tutte le letterature, pure quelle minori e più lontane; eruditi repertori di nomi e di titoli che sono una manzoniana guerra illustre contro il tempo e che, pur nel grigiore dell'elenco, trasmettono il senso dell'unità dell'umano e dell'immaginario nella varietà delle sue forme. La storia della letteratura fonda e crea un'identità nazionale che si allarga oltre frontiere sempre più vaste, mostrando, scriveva Mazzini nel 1828, «qual debito di gratitudine corra tra popolo e popolo, onde imparino le famiglie umane, tutte esser rami d'un medesimo tronco».

«Corriere della Sera», 29/8/2005

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Pagina 161

PRAGA AL QUADRATO



«Sono hinternazionale», scrive Johannes Urzidil nel Trittico di Praga (1960), parlando della propria infanzia in terza persona. «"Hinter", e cioè "dietro" le nazioni – e non al di sopra o al di sotto di esse – si poteva vivere e abbandonarsi a scorrerie per le strade... gli era del tutto indifferente se la sua palla fracassava il vetro di una finestra ceca, tedesca, ebrea o della nobiltà austriaca.» Le definizioni e le rievocazioni della «magica» o «conturbante» Praga dalle cento torri, crogiolo di civiltà e amalgama di culture, costituiscono uno dei più forti cataloghi tematici della letteratura moderna, una miniera di testimonianze interscambiabili eppure ogni volta diverse nelle sfumature, una riserva di topoi letterari rinnovati o ripresi con inesauribile fedeltà e invenzione, ma sostanzialmente statici nella loro repetitio variata. Il fascino di Praga, affidato all'indefinibile e all'allusione, è il fascino di una nostalgia che crede di rivolgersi alla vita – una vita che appare sempre perduta e mai afferrata nel presente – e si rivolge invece spesso alla rappresentazione della vita, al suo ritratto fantastico o meglio alla solidale tradizione dei suoi ritratti fantastici, che si assomigliano tutti perché tutti sono o si proclamano unici ed eccezionali, grotteschi ed eccentrici.

Lo scrittore praghese – soprattutto, ma non soltanto, quello tedesco-praghese – descrive sovente nelle sue pagine non già una Praga storica e reale, del passato o del presente, bensì una Praga creata dalla letteratura e diventata a sua volta cliché letterario, paesaggio fittizio e convenzionale accettato quale mondo autentico contro il quale stagliare i propri personaggi. La mitica e composita Praga è, almeno in parte, il prodotto della fantasia di alcuni scrittori – grandi, mediocri o minimi – i quali hanno trasfigurato in un regno stregato la loro difficoltà di capire le contraddizioni che li circondavano, fornendo ai loro successori – grandi, mediocri o minimi – un vastissimo arsenale, che ha permesso e permette a questi ultimi di vivere largamente di rendita. Quando Bohumil Hrabal pubblica nel 1964 il suo volume di racconti, ambienta le sue storie ciarliere e vagabonde – specialmente nella raccolta Vuoi vedere Praga d'oro? – su uno sfondo ambientale che è la Praga descritta nei racconti di Karel Capek, a sua volta genialmente ricalcata su quella ottocentesca immortalata da Neruda.

Letteratura che fa ossessivamente oggetto di sé stessa la propria tradizione, quella praghese ne dimostra in tal modo la tenace e ricca vitalità. Tale tradizione si articola in una serie di motivi ricorrenti, derivati dalla situazione storica, ma soprattutto dalla sua trasfigurazione fantastica, tante volte studiata dalla critica: il mosaico plurinazionale mitteleuropeo, il triplice ghetto che serrava in un vicolo cieco l'ebreo tedesco di Praga all'interno della comunità tedesca a sua volta isolata nella città ceca, l'incrocio di lingue e di culture, la condizione di artificio e di serra in cui viveva la cultura tedesca (costretta così ad avvertire, forse prima di altre, l'inautenticità e lo sradicamento propri a tutta la civiltà europea), la spettralità quotidiana e il grottesco umorismo cimiteriale, la mistica dell'oggetto e la rivolta delle cose, il fasto sovraccarico di orpelli e di chincaglierie nel quale la Storia appare come un museo o una bottega di suppellettili usate, i parchi crepuscolari e l'epica ribalda delle combriccole di periferia e delle chiacchierate di bettola.

Praga è l'esempio per eccellenza di una letteratura di frontiera che induce a un tentativo paradossale, quello di trasfigurare l'irresolubilità dei conflitti quale loro superamento. La frontiera – ossia lo scontro di forze storiche, culturali e sociali – costituisce un bruciante problema; non potendo risolverlo, si fa del problema la propria ragione di vita e si cerca una identità nell'infinito prolungamento delle contraddizioni che la lacerano. Urzidil dice che Praga era più όbernational (sovrannazionale) d'ogni altra città tedesca, Willy Haas nella sua Literarische Welt racconta di Weissenstein Karl, scrittore praghese divenuto protagonista della novella centrale del Trittico di Urzidil, per ricordare come egli parlasse egualmente il tedesco, il ceco, lo jiddisch, e farne un simbolo della città.

Come ogni mito, pure quello letterario praghese insegue una identità essenziale aldilà del mutamento storico, anche se si nutre di un ricchissimo e stratificato materiale storico. Negli anni Sessanta gli scrittori che rievocano Praga la mitizzano negli stessi termini in cui essa era stata mitizzata cinquant'anni prima. La prospettiva di Urzidil – o delle memorie di Max Brod, o dei racconti di Paul Adler – è analoga a quella con la quale Kubin o Meyrink, o gli stessi Urzidil e Brod da giovani, guardavano al loro mondo. La loro nostalgia non va alla Praga perduta, bensì alla nostalgia con la quale, negli anni della «Praga d'oro», i suoi figli si erano rivolti alla sfuggente identità del loro mondo. Il mito di Praga è nostalgia della nostalgia, rimpianto cartaceo per l'immagine di carta, ormai squarciata dalla Storia, della propria realtà mai posseduta.

Questa nostalgia al quadrato può tradursi, come si è tradotta, in grande e struggente poesia, anche perché la nostra più vera condizione, da molti anni, è proprio questo commiato perennemente prolungato e insieme differito, questo congedo al congedo da una totalità ricca di significato, da una vita unitaria e armoniosa. La letteratura praghese, con le ombre dei suoi giardini e la familiare solitudine dei suoi caffè, ha offerto – anche mediante la sua automitizzazione – un volto e una voce al tramonto della vecchia Europa e dell'individualismo borghese. Frontiera significa anche questa soglia, questa striscia finale, questa terra di nessuno, del non più e del non ancora.

Corrivo rapsodo di Praga, Urzidil è stato geniale nel definirla «autarchica»: mancanza che si fa rimedio a sé stessa capovolgendosi in autosufficienza, estraneità che vuoi proporsi a modello, eccezione che vuol presentarsi quale eccezione tipica. Non solo gli scrittori praghesi, ma anche la storiografia letteraria che li ha indagati criticamente è finita spesso per soggiacere volentieri a quel mito e per accettarlo come un dato reale, per commisurare tutta la letteratura tedesco-praghese col metro di Kafka. Di Kafka, della sua grandezza eccezionale, si è voluto spesso fare un'eccezione tipica, come se egli fosse l'espressione massima di valori generalmente espressi, sia pure a vari livelli, dalla letteratura praghese. Forse indebitamente, si è posta la sua gigantesca figura in modo che la sua ombra venisse proiettata su tutti gli altri, imponendo loro un significato riflesso.

La grandezza di Kafka ingrandisce così la minore statura di Meyrink o di Leppin, di Oskar Wiener o di Leo Perutz. Anche i grandi testi critici non sfuggono alla suggestione praghese: lo splendido saggio di Baioni su Kafka pone genialmente in risalto il rapporto fra lo scrittore e Praga, ma accetta l'immagine di quest'ultima fornita dalla letteratura praghese; quando Mittner parla della sua «conturbante atmosfera slavo-tedesca-ebraica», egli indulge inavvertitamente, nella mirabile ricreazione d'atmosfera, alla suggestione letteraria di quell'atmosfera stessa. Per Ripellino, Praga è «magica», è accettata a priori nel suo fascino composito e stratificato, sicché l'indagine critica diviene un'immedesimazione con quella fantasia poetica che ha accatastato tante immagini di merciai del ghetto e maestri d'alchimia. La critica diviene una rapsodia volutamente «sconnessa e sbandata», come dice l'autore, dei vicoli e delle bettole della leggendaria città, un caleidoscopio affine a quello di Oskar Wiener o di altri aedi innamorati di quella Praga che li soffoca, o meglio proprio del fatto ch'essa li soffoca.

Nel suo saggio Questa mammina ha grinfie Heinz Politzer analizza con estrema finezza la spettralità di Praga vissuta quale destino cui non si sfugge, e pone in risalto la deformazione della realtà praghese compiuta dagli scrittori di lingua tedesca che la conoscevano in fondo così poco, ma anche la sua affascinante prospettiva si inserisce nel paesaggio che essa interpreta: la sua Praga, ch'egli contrappone a quella della rielaborazione letteraria, assume i connotati di quest'ultima.

La malia di Praga induce ogni studioso della letteratura praghese a diventare una sua voce, a riprendere e a variare la mitizzazione, anche se il sobrio e acuto profilo di Wagenbach ha messo le cose nella loro giusta luce. I dati negativi, messi in rilievo, vengono tacitamente avvolti da un'aura che li rovescia di segno, facendone non già antitesi bensì componenti del mito «hinternationale». Urzidil ricorda che suo padre era un convinto antisemita, pur avendo sposato un'ebrea, e inoltre un deciso Tschechenfresser («mangiacechi»), ma questo elemento di dissidio o d'incomunicabilità etico-sociale diviene nella sua pagina un ingrediente di quell'unità ottenuta mediante l'accumulazione dei contrari che la compongono.

La celebrazione non esclude infatti per nulla la negatività, procede anzi sovrapponendo una serie di elementi negativi: Ripellino descrive la sua Praga magica anche e soprattutto come una città sonnolenta e provinciale, culturalmente arretrata rispetto alle grandi città tedesche, votata a un lento e opaco tramonto. Pure questa presenza è una costante del modello praghese: gli scrittori che nel secondo dopoguerra rievocano nostalgicamente una perduta città d'oro, piangendone la desolazione presente rispetto al passato, chiamano età dell'oro una stagione – quella degli inizi del secolo – in cui gli scrittori praghesi avevano lamentato il torpido provincialismo della loro città, la mancanza di cultura viva, il suo ritardo epigonale e periferico. L'intensità di vita viene cercata e trovata nella denuncia e nella consapevolezza dello svuotamento e dell'inaridimento della vita.

[...]


3. Perché lei è nato a Praga?

Tutta la vita letteraria praghese è scandita da partenze – reali o sognate, ossessivamente desiderate o temute. Rilke lascia Praga nel 1896, Werfel nel 1912, Urzidil nel 1938; Kafka non la abbandona mai e lamenta, nella celebre lettera a Oskar Pollak, che gli artigli della mammina – della città natale – non permettano a lui e all'amico di sfuggire alle sue grinfie. Praga è anzitutto una Literaturstadt (città letteraria), come diceva nel 1922 l'inchiesta del «Prager Tagblatt» ripresa da Kurt Krolop nel suo saggio; è un Dichterschicksal (destino di poeta), secondo la famosa espressione di Pavel Eisner. L'espressione ha un duplice significato: destino indica anzitutto una condizione passiva e fatale cui non si sfugge, uno spazio e un movimento del proprio agire inesorabilmente circoscritto e determinato. La poesia e la letteratura connesse a tale destino indicano la sede in cui avvengono queste avventure predeterminate e sottolineano specialmente la sublimazione del vicolo cieco, la radicale decisione di assumerlo a mitico senso e centro della propria vita, di farne la misteriosa e nascosta luce che illumina, non vista, il disagio.

Le famose battute, più volte ricordate, che ponevano in risalto l'indissolubilità di essere praghesi ed essere scrittori («Quando un berlinese fa la conoscenza dì un praghese, che si tratti di un commesso viaggiatore o di un addetto d'ambasciata, gli chiede in ogni caso: "Che cosa sta scrivendo?"», oppure «Θ difficile crederlo, non sono di Praga eppure vengo pubblicato») mettono in evidenza, in chiave paradossale, un dato essenziale. Le contraddizioni di Praga sono risolubili o affrontabili in un unico luogo, quello della letteratura. Le tre impossibilità menzionate da Kafka riguardano tutte la scrittura, e si risolvono tutte in un'unica e coatta possibilità, quella di scrivere.

La scrittura è un'essenza della realtà che può fare a meno della realtà, che può sostituire ciò che non esiste e rappresentare un'assenza, costringere la realtà o la natura assente a presentarsi nella sua inafferrabilità. Se non può totalmente ignorare, come è invece lecito all'inconscio, il principio di non contraddizione, può fare della compresenza degli opposti la ragione del proprio essere. Gli opposti inconciliabili sono, sul piano reale, i dissidi storici, nazionali e sociali; sono le antinomie della frontiera. Il movimento della letteratura praghese è un viaggio che può assumere, come hanno notato Deleuze e Guattari, una scrittura circolare – sino a rinchiudere l'anello apertosi col punto di fuga della crisi iniziale e dunque a rinchiudersi nella regressiva armonia dell'oscillazione irrisolta e gratificante – oppure una struttura rettilinea, una direzione che prosegue all'infinito in avanti, senza voler cedere alla tentazione del ritorno edipico, della chiusura che serra il cerchio. Rilke che fugge e Kafka che rimane hanno trovato questa seconda via, liberatrice o addirittura rivoluzionaria; Leppin che resta e Urzidil che parte ripercorrono invece, intellettualmente, il circolo costituito dal cordone ombelicale.

[...]

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Pagina 245

AVANGUARDIA E METROPOLI



«Non diamo dunque particolare importanza al nome della città. Come tutte le metropoli era costituita da irregolarità, avvicendamenti, precipitazioni, intermittenze, collisioni di cose e di eventi; e, frammezzo, punti di silenzio abissali; da rotaie e da terre vergini, da un gran battito ritmico e dall'eterno disaccordo e sconvolgimento di tutti i ritmi; e nell'insieme somigliava a una vescica ribollente posta in un recipiente materiato di case, leggi, regolamenti e tradizioni storiche.»

La città senza nome è Vienna, all'inizio dell' Uomo senza qualità di Musil: paesaggio disorganico e polimorfo di quella realtà postmoderna – raffazzonata, creativa e campata in aria – di cui Musil rimane il più grande interprete. Ma se nel suo romanzo Vienna appare un teatro per eccellenza della tentacolare sconnessione contemporanea, sicché la sua topografia è quasi una Tac della psiche del nuovo uomo «senza qualità», alcuni anni dopo, osserva Claudia Sonino in un acuto saggio, un altro scrittore austriaco, Heimito von Doderer, raffigura Vienna non quale proliferante e anonima metropoli, bensì quale grande ma familiare città di provincia, le cui piazze e vie scandiscono un'esistenza tradizionale e ordinata, basata su rapporti personali, consuetudini di lunga durata, ripetizione quotidiana.

La città è anzitutto lo sguardo che la osserva e l'animo che la vive; anche per questo essa, capitale della storia moderna e del suo sviluppo, è pure una capitale della letteratura; è divenuta non solo uno scenario, bensì una struttura e una forma del romanzo. La Città dell'antichità, anche quando è il centro di un potente impero, appare in una luce di gloria inseparabile dalla caducità, dall'eterno destino di vanità delle cose umane: Ninive, Persepoli o Babilonia evocano grandezza e rovina, indissolubili come le due facce di una moneta; così i fuochi che si spengono e le opulente città morte della giungla nei racconti di Kipling, il vento fra templi deserti. Non a caso, fin dai tempi antichi, sin dall'impero caduto di Ur e di Lagash, le capitali sumere, esiste un vero genere letterario che si protrae sin nel Medioevo, specialmente anglosassone, l'elegiaco lamento per la Città imperiale distrutta dai barbari e dal tempo, colonne abbattute e regge invase dall'erba.

Atene, culla della civiltà e della politica mondiale, è la polis, la città in cui i rapporti umani sono personali e concreti e tutto è visibile e tangibile, pure il meccanismo della vita sociale e del potere. Solo Roma - la Roma imperiale e promiscua del Satyricon - è una metropoli nel senso moderno, più simile a Londra o a New York che alle città greche, egizie o orientali dell'antichità. Nella modernità, la città si identifica con la borghesia - più tardi col proletariato industriale - e col genere letterario che esprime il tumultuoso, disordinato, brutale e vitale sviluppo della nuova società. La Parigi di Balzac o la Londra di Dickens - ma già, molto prima, quella di Defoe - sono inseparabili dalle vorticose e travolgenti vicende romanzesche che hanno luogo nelle loro vie; la città, con le sue trasformazioni che sventrano e smontano il passato, è il movimento stesso delle sorti e dei sentimenti umani, il ritmo della vita e della storia che la racconta.

La metropoli - come è stato più volte osservato in grandi saggi, a cominciare da quelli di Simmel - cambia la sensibilità e la percezione dell'individuo, diviene una sua pelle sensibilissima che reagisce, anche e soprattutto subliminalmente, al continuo bombardamento di stimoli veloci ed effimeri; la pittura impressionista, è stato detto, nasce anche dal fluire metropolitano che scorre rapido e ininterrotto, permettendo all'occhio di cogliere non salde e compatte figure isolate, ma la scia sfumata del continuo trascorrere. Almeno a partire da Baudelaire, metropoli e poesia sono strettamente legate; il poeta è un flβneur, un viandante che passeggia ozioso per la città come in una foresta del Moderno, osservando le crepe della storia e le tracce della malinconia.

La Germania - arretrata nel suo sviluppo politico e sociale rispetto alla Francia e all'Inghilterra e frazionata in un particolarismo regionale - non ha, sino alla fine dell'Ottocento, alcuna città moderna; la Berlino dei romanzi di Fontane è ancora una città di provincia. E agli inizi del Novecento che Berlino diviene - economicamente, politicamente, urbanisticamente - una metropoli (straniante, minacciosa e liberatoria, come è la metropoli rispetto al feroce e persecutorio idillio della provincia) e diviene un capitolo della poesia moderna: metropoli che si fa poesia, esperimento d'avanguardia, mistero cubista, grido espressionista.

Da questa Berlino nasce non solo tanta grande lirica tedesca - basti, fra ì molti, il nome di Heym - ma pure il più grande romanzo metropolitano, Berlin Alexanderplatz di Alfred Dφblin. Già nell' Ulysses di Joyce, Dublino - perfino con i percorsi e i biglietti dei suoi tram - aveva fornito al romanzo una spina dorsale, come New York in Manhattan Transfer di Dos Passos; in Berlin Alexanderplatz la città è esterna e interna, costruzione-distruzione del mondo e sistema nervoso dell'uomo, Babele e grido di Giobbe che si alza dal frastuono del traffico, violenza e avventura, passione e desolazione, paesaggio biblico di un deserto contemporaneo, cose ultime cercate là dove soltanto si possono trovare, nel fugace polverio dell'esistenza.

Si potrebbe scrivere una storia della letteratura contemporanea articolata in guide di città, da quelle fascinosamente bloccate e interrotte dalla storia - Praga, Napoli, Trieste - alla New York di Paul Auster, per citare a caso solo alcuni esempi.

L'ultima superba prova di questo genere è Il crollo delle aspettative di Luca Doninelli, un libro straordinario e possente che appartiene a quella fiction-non fiction, teorizzata da Truman Capote, la quale è forse oggi la più vitale forma narrativa. In questo libro Doninelli legge – racconta, commenta, interpreta, scava, vive – Milano così come si vive un corpo umano (ora desiderabile ora scostante ora ributtante, ma sempre amato) che nella sua carne, nei suoi lineamenti, nelle sue rughe e cicatrici reca incisi i graffiti della sua storia, dei suoi eccessi e delle sue ferite, della sua passione. La lettura e il racconto di quei graffiti trasformano la città in un romanzo, quello che si vive ogni giorno, spesso inconsapevolmente.

Il sottotitolo dice «scritti insurrezionali su Milano»: la prospettiva carnalmente cristiana di Doninelli non può indulgere né alla rivoluzione, grandioso orgoglio di impadronirsi del destino e ricreare il mondo, né alla ribellione, protesta conservatrice che vuol restaurare l'ordine tradizionale violato da chi dovrebbe garantirlo, come scriveva Vittorio Mathieu. La prospettiva di queste pagine è quella anarchica, umile, disperata e riottosa dell'insurrezione, resistenza senza ideologia, protesta senza superbia né certezze metafisiche, violenza che nasce dalla partecipe pietà.

Forse solo questa prospettiva insurrezionale poteva darci la mirabile, sconvolgente descrizione della Stazione Centrale di Milano, che con questo libro diviene uno dei grandi luoghi della letteratura, un paesaggio infero che, dantescamente, è necessario attraversare per raggiungere la salvezza.

«Corriere della Sera», 9/9/2005

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UN'ANTIPOLITICA DAL VOLTO UMANO



Il socialismo dal volto umano, proclamato dalla primavera praghese che voleva conciliare comunismo e democrazia, è stato stroncato dalla repressione sovietica del '68. Ma il socialismo si è sempre presentato con quel volto, come l'immagine stessa di una fraterna e universale umanità, colta e difesa in ogni individuo; forse questo suo afflato così ampio è stato pure la sua debolezza, ciò che ha permesso ai movimenti e agli uomini politici più diversi di fregiarsi e di abusare del suo nome. Nonostante questo, il socialismo è stato finora l'ultima visione del mondo che pareva offrire una speranza di governare umanamente il selvaggio divenire del mondo stesso. La sua attuale eclissi è innegabile, ma non implica necessariamente la sua morte definitiva, come crede chi ritiene, ogni volta, che lo stato delle cose in quel momento sia lo stadio finale e immutabile della storia, la quale invece riserva tutte le sorprese possibili, in bene e in male.

Nei Paesi dell'Europa centro-orientale soffocata per decenni dal «socialismo reale» dei regimi di marca sovietica, i dissidenti che hanno difeso la libertà l'hanno fatto, molto spesso, in nome dell'umanesimo appreso dal socialismo, in nome del socialismo dal volto umano, così come la rivoluzione ungherese del '56 l'hanno fatta soprattutto gli operai socialisti, come scriveva allora sul «Corriere» Montanelli destando lo scandalo dei retrivi benpensanti. Θ per questo che nei decenni passati il più autentico retaggio dell'umanesimo europeo, dei suoi valori «universali-umani», si trovava nei Paesi dell'Est, fra gli oppositori, spesso socialisti, del socialismo reale, uomini ancora classici, individui nel senso forte del termine, ben diversi dalla gelatinosa folla senza volto che stavamo e stiamo divenendo.

Gyφrgy Konrád è una di queste figure che – con la dirittura e il coraggio della loro vita e della loro opera – aiutano a guardare in faccia con meno paura la storia e ad affrontare la sfinge con cuore più forte. Celebrato in tutta Europa e specialmente in Germania, Konrád, diversamente dai petulanti contestatori da salotto e dai supponenti ultra anarco-liberisti – che da noi sono così frequenti e sono spesso, a distanza di pochi anni, le stesse persone – non ha potuto prendersi il lusso di nessuna civetteria intellettuale. Nato Debrecen nel 1933 da una famiglia ebraica, ha conosciuto la guerra, l'occupazione hitleriana, l'efferato antisemitismo dei nazisti e dei loro sgherri ungheresi, i «crociofrecciati» lo sterminio che ha colpito pure la sua famiglia e di cui ha scritto con potenza poetica anche nel suo romanzo Fortuna asciutto e struggente racconto del sopravvissuto e della vita mutilata e spenta da quell'orrore.

Fedele agli ideali di giustizia e di libertà, trovati nel socialismo e poi nel dissenso dal regime comunista, Konrád è stato un oppositore fermo ed esemplare di quel regime, pagandone un difficile prezzo e senza venirne scalfito nella sua fraterna e calda umanità. Scrittore complesso e inquietante, egli rappresenta con grande intensità gli indecifrabili labirinti del reale, come rivela il suo capolavoro Il visitatore; è uno scrittore che fa vedere pure il rovescio delle cose, l'umanità – come dice il romanzo Il perdente – seduta sulla panchina davanti al manicomio. Konrád incarna, come pochi altri, la Mitteleuropa, col suo umanesimo ironico, esperto del disagio e del grottesco della storia e così capace di resistervi. Non a caso il suo libro Antipolitica – ripreso e rielaborato nel più recente volume Il terzo sguardo. Considerazioni di un antipolitico – reca come sottotitolo «Meditazioni mitteleuropee».

In questo saggio Konrád difende l'umano, l'individuale, il particolare dall'aggressione totalizzante della politica; non solo di quella dei regimi tirannici, ma della politica in sé, che tende a inglobare interamente l'uomo, a invadere e occupare integralmente il territorio della sua vita. In questa guerriglia dell'individuo contro ogni assorbimento totalitario della sua persona c'è il sale della Mitteleuropa e c'è quel «volto umano» affermato dal socialismo. Quest'ultimo è a terra e la civiltà mitteleuropea sta scomparendo; angariata e immiserita dal comunismo, sembra ansiosa di cancellare la propria plurisecolare diversità e di scimmiottare senza dignità i nuovi ricchi e i nuovi potenti. Come scriveva anni fa Havel, quand'era in una prigione comunista, quella falsificazione che aveva luogo allora in quei Paesi era un memento che mostrava pure il latente, futuro destino dell'Occidente. Oggi – ha detto un altro grande dissidente che ha passato anni nelle carceri comuniste, Adam Michnik – ci sarebbe bisogno di un «anticomunismo dal volto umano», che però, se ci si guarda in giro, si vede assai poco.

«Corriere della Sera», 8/5/2003

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