Copertina
Autore Danilo Mainardi
Titolo La bella zoologia
EdizioneCairo, Milano, 2008, Saggi , pag. 256, ill., cop.fle.sov., dim. 15x21x1,6 cm , Isbn 978-88-6052-148-4
LettoreSara Allodi, 2009
Classe zoologia , evoluzione , natura , ecologia , animali domestici
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Indice


PER COMINCIARE. Da Dante a Darwin: conoscere          11
                gli animali, bellezza e utilità


PRIMA PARTE. Gli animali sono intelligenti            17

Le falene anti pipistrelli                            20
Traditi dall'istinto: due storie esemplari            23
Canti in play-back                                    26
La faccia dice tutto?                                 29
Conflitto di interessi sessuali                       32
Lo spinarello: ti amo, poi ti odio...                 35
    come nella canzone
Cure paterne                                          38
Il topolino che riconosce i gradi di parentela        40
La riscoperta dei topi canterini                      43
Colombi: quante cose la vita scrive dentro            45
La volpe e la socializzazione secondaria              49
Altri sensi altre menti                               51
La mente raffinata degli animali che si fanno scorte  54
    alimentari
Scimpanzé predatori culturali                         57
Che bella mente avrebbero, se mai l'avessero,         60
    il polpo e la seppia

SECONDA PARTE. Storie e ritratti                      65

La lepre variabile e gli altri «bianchi d'inverno»    68
Due storie di stambecchi                              71
Gli elefanti                                          78
La foca monaca                                        82
I rinoceronti                                         88
I bufali                                              92
Del toro solamente                                    95
I mustang                                            101
Il falco della regina                                106
L'aquila di Riana e Casarola                         109
La premiata ditta F&F                                112
Lo storione                                          114
Il pesce siluro                                      117

TERZA PARTE. Evoluzione e adattamenti                121

Piccoli dinosauri piumati                            126
Ancora sui fossili: quelli di Bolca                  132
Stasi evolutive, gradualismo, saltazionismo,         135
    preadattamento e così via
Arvicole mono e poligamiche: a far la differenza     139
    basta un gene
Indizi sull'origine della proboscide                 143
Adattamento acustico all'ambiente urbano             146
Anticipazioni rettiliane                             148
Granchi e gabbiani in città                          151
Giochi inattesi                                      154
Origine ed evoluzione della comunicazione            156
Migratori adattati ai cambiamenti climatici          161
Adattamenti estremi                                  164
La volpe ne sa tante, una il riccio, importante      167
Il paradosso di Paradoxornis                         170
Speciazioni fulminee                                 172
Quando le esplosioni demografiche sono disadattanti  175

QUARTA PARTE. Intorno all'uomo                       181

Che animale vorresti essere?                         185
L'uomo che parla con gli altri animali               187
Dal cane agli estremofili: allearsi è meglio         189
Cani e padroni                                       192
Quando l'uomo imita la natura                        196
La legge del branco                                  200
Cause prossime, cause remote                         205
Le cure parentali                                    210
Fare scuola                                          214
Seguendo s'impara                                    220
Siamo tutti un po' camaleontici                      223
Vacanze senza tv                                     225
Per Woody-Boris la natura è un enorme ristorante     227
L'uomo, il tartufo e il maiale                       229
Dallo zoo al bioparco                                233
La parola mancante                                   237
Zimbelli da richiamo                                 239
Gli animali del presepe                              242
Dove abita il mostro                                 244
Mamma umana di un cucciolo di cane                   247

Ringraziamenti                                       251

 

 

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Pagina 11

PER COMINCIARE
Da Dante a Darwin:
conoscere gli animali, bellezza e utilità



Il bel verso con cui apro questo saggio, «chi dietro a li uccellin sua vita perde», mi è sempre piaciuto perché descrive alla perfezione la categoria umana cui per mia fortuna appartengo. È infatti da quando ero bambino che, per ricalcare la frase dantesca, perdutamente spendo vita, pensieri e azioni, occupandomi di animali. Uccelli e non uccelli, professionalmente e non professionalmente. E, lo confesso, amo anche molto, sicuramente per affinità elettive, frequentare chi, in un modo o nell'altro, la pensa (la sente) come me.

È pertanto a loro, in prima istanza, che si rivolge questo libro. Non mi dispiacerebbe però fare anche un po' di proselitismo raggiungendo quelli che, in linea di massima, gli animali li ignorano. Per loro, mi pare, è come se il mondo, nella sua complessità, fosse solo quello umano. Il che non è assolutamente vero e, oltretutto, non sanno quel che si perdono. Credo così di far loro un bel regalo, se mai vorranno leggermi, aprendogli un po' gli occhi.

Convincendoli che esistono, oltre all'umana, altre vite e altre intelligenze non solo ricche di fascino ma, per tanti e differenti motivi, di cui alcuni anche pratici, meritevoli d'essere conosciute.

Sempre giocando con Dante ed estendendo un po' la citazione (che, per chi non lo sapesse, apre il canto XXIII del Purgatorio ), è possibile fare un'altra piccola simpatica scoperta. Leggete questa terzina, poi ne parliamo:

Mentre che li occhi per la fronda verde
ficcava io sì come far suole
chi dietro a li uccellin sua vita perde...

L'avete notato? Queste poche bellissime righe descrivono, se concepite nell'ottica attuale, la gente che, beata lei, è solita praticare il bird-watching.

Mi sembra quasi di vederli i miei amici della LIPU e del WWF mentre, armati di binocolo, scrutano nel folto di un bosco, nel chiaro di una laguna, perfino nel cielo intorno al Pirellone di Milano o al veneziano campanile di San Marco sperando di scoprire pellegrini veleggianti, svassi corteggianti, ciuffolotti gorgheggianti. Tanta bella zoologia è disseminata dovunque intorno a noi, basta cercarla e la si trova.

Quella dei bird-watchers, a ogni modo, è solo una delle tante categorie di «curiosi di animali». Esistono, per dirne un'altra, quelli (i whale-watchers) che vanno per mare alla ricerca di balene, capodogli e delfini. Tutta gente che trae da quest'attività godimento, conoscenza, non raramente persino preziose informazioni scientifiche.

La multiforme categoria dei «watchers», infatti, può essere suddivisa non solo per la qualità sistematica degli animali osservati, ma anche per il livello di professionalità raggiunto. Eppure, e questo è il bello, tutti si divertono. I «watchers» sono tutti, perciò, in questo senso dilettanti. Alcuni però stanno, mentre si dilettano, anche seriamente lavorando. Sul campo, come si suole dire, fanno studi e scoperte di carattere zoologico, ecologico, etologico. Tanto per fare un esempio, le ritualizzazioni del corteggiamento degli svassi, tra le prime studiate, e poi quelle, affrontate comparativamente, delle differenti specie di anatre, hanno portato una luce importante sui meccanismi evolutivi per cui un comportamento in origine non comunicativo può trasformarsi in comunicazione. E di esempi così ce ne sono fin che si vuole.

La scienza va avanti anche perché c'è gente che si diverte a osservare anatre e oche con il cannocchiale.

Sempre a proposito della ritualizzazione, penso a quella degli anatidi e ai bellissimi disegni, così perfettamente descrittivi, di Konrad Lorenz. Quasi raccontasse, fotogramma dopo fotogramma, la pellicola d'un filmato naturalistico. E, vi assicuro, Konrad si divertiva moltissimo sia a osservare che a disegnare. D'altronde nessuno meglio di lui seppe spiegare l'importanza degli aspetti ludici intesi come molla e complemento d'ogni ricerca scientifica. C'è, al proposito, una sua eccellente testimonianza: «La stretta parentela che esiste tra gioco e indagine scientifica non mi venne mai così chiaramente sotto gli occhi come in quella felice estate in cui Niko Tinbergen era ad Altenberg e noi due giocavamo con quel comportamento dell'oca selvatica consistente nel fare rotolare le uova – comportamento sul quale scrivemmo poi un lavoro scientifico». L'estate, fondamentale per la storia dell'etologia, era quella del '38 e il lavoro, cioè quel gioco con l'oca e con le uova, risultò determinante per sviluppare l'idea moderna di istinto.

Anch'io studio e, a modo mio, disegno animali. E quando lo faccio mi sento bene. E mi diverto. Mi piace scoprire come la mia mano, tratteggiando in modo decisamente non naturalistico, riesca ugualmente a evocare lo specifico delle differenti entità selvatiche oppure la personale identità dei singoli individui domestici. Quando ci riesce, naturalmente.

Insomma, ciò che con questo libro desidero spiegare è, semplicemente, che la zoologia è una disciplina bellissima, che tanto può regalarci sia di conoscenza che di gioia di vivere. Che può liberamente spaziare dalla cultura scientifica a quella umanistica. E dato che, in modo credo proprio inconsueto almeno per uno zoologo, sono partito nientemeno che da Dante, seguite questo mio piccolo consiglio: andate a leggervi, se vi incuriosisce, soprattutto se vi interessa, l'uso allegorico che il Poeta faceva delle varie specie ornitiche, il gradevole saggio di Valerio Zanone intitolato L'ali alzate. Viaggio nell'ornitologia dantesca (Edizioni dell'Altana, Roma 2004).

E con Dante, ho finalmente terminato (ma sapete com'è con le manie). Torniamo dunque allo scopo che mi sono prefisso: questo saggio, proprio per raccontarvi della bellezza e dell'utilità della zoologia, vi proporrà un florilegio di temi e di casi. Tratterò dell'istinto e dell'intelligenza, racconterò storie peculiari di singole specie, discuterò d'evoluzione e adattamenti e, infine, del rapporto spesso sofferto della nostra specie con le altre. Tutti argomenti, a mio parere, di grande rilevanza.

Mi resta infine da dire che, pur avendo suddiviso il libro in quattro parti, fatalmente (lo scoprirete presto) tra esse non ci saranno confini veramente netti, assoluti. In zoologia, infatti, tutto si lega, o meglio si collega. Natura, si diceva una volta, non facit saltus, e ciò con buona pace dei moderni saltazionisti che, pazienza, scandalizzati faranno un saltino in più. Io, a ogni modo, credo che sia proprio così come si diceva una volta. Quanto ai saltazionisti, che probabilmente molti di voi non hanno mai sentito nominare, scoprirete chi sono e cosa grosso modo pensano quando più avanti parlerò di evoluzione.

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Pagina 38

Cure paterne

A proposito di cure paterne voglio prenderla davvero alla lontana. L'idea è quella, alla fine, di proporvi qualche considerazione sull'evoluzione biologica e culturale della nostra e delle altre specie.

La parola da cui mi diverte partire è, pensate un po', nientemeno che parthénos, che in greco significa vergine. Il Partenone, per la cronaca, viene infatti giù di lì, essendo dedicato ad Athena parthénos. Dato però che è soprattutto la biologia che ci interessa, troviamo – stessa etimologia, stessa partenza – la partenogenesi, fenomeno biologico decisamente interessante. È infatti una forma di riproduzione senza contributo maschile. È sufficiente, nel caso, la femmina, ed è per questa via che si riproducono parecchie specie di invertebrati, nonché alcune di pesci, anfibi e rettili. La prima conclusione, pertanto, potrebbe essere questa: nella natura il maschio altro non è che un optional, seppure di successo. Niente di strano: con gli optional succede.

Vediamo, ora, di capire perché, seppure non sempre indispensabile, il maschio tuttavia, nella storia della vita, ha avuto un così notevole successo. Il motivo, sostanzialmente, è questo: tramite la sua fecondazione l'informazione genetica, che in questo caso è metà di origine femminile e metà di origine maschile, si mescola e si combina in vario modo fabbricando così quella variabilità tra gli individui indispensabile perché la selezione naturale possa agire presto e bene. E ciò facilita i processi evolutivi e di adattamento.

Fin qui per quanto riguarda il successo maschile, ma parliamo ora, in modo mirato, delle cure paterne che, ben lo sappiamo, possono esserci oppure no. E, se ci sono, possono esprimersi con una casistica davvero variegata. Già avrei potuto dirvi dello spinarello, che è davvero un buon papà, ma esistono maschi, come quello del cavalluccio marino, che fanno veramente tutto loro, compresa perfino l'incubazione delle uova in un marsupio. E lo chiamo così perché davvero ricorda la tasca che caratterizza le femmine dei canguri. Si può pertanto assistere a una sorta di pseudo-parto maschile, con tanti piccoli cavallucci che vengono espulsi tutti insieme. Le femmine, invece, non hanno alcun ruolo parentale.

Ci sono poi i colombi e le tortore, che si suddividono ogni cura, perfino il cosiddetto allattamento. I colombidi infatti, forse non tutti lo sanno, producono nel gozzo una specie di colostro e allattano quasi fossero mammiferi. Ed esistono specie, come gli sciacalli dalla gualdrappa e le ghiandaie della Florida, in cui perfino gli zii scapoli danno una mano a tirar su la prole. Per finire, dall'altra parte della barricata, con quei maschi che, come il pavone, il leone marino e tantissimi altri, di parentale non fanno proprio nulla.

Ebbene, ciò che è fondamentale, per tutti questi casi, è che ogni specie abbia, precisa e collaudata, una sua regola. I colombi maschi allattano mentre il gallo non fa assolutamente niente? Va bene così, per gli uni e per gli altri, perché evidentemente la gallina da sola ce la può fare ma non la femmina di colombo. Ed è perciò che ogni specie ha evoluto le cure più appropriate che poi ogni individuo si trova scritte nel suo Dna. Cioè collaudate sul campo, generazione dopo generazione, dalla selezione naturale.

E noi? Ebbene, per noi non è la stessa cosa, perché la nostra specie, nel corso della sua storia evolutiva, ha via via sostituito gli istinti con regole culturali, che degli istinti sono assai più labili e mutevoli. E soprattutto assai meno collaudate. Ai tempi di Gian Burrasca il padre era un castigamatti, poi c'è stato il permissivismo poi, addirittura, l'assenteismo. Ora, a quanto pare, il padre cambia i pannolini e, se l'allattamento è artificiale, a modo suo, e cioè col biberon, perfino allatta. E domani chissà, perché tutto può succedere. Non escluderei, grazie a qualche trucchetto biotecnologico, nemmeno l'allattamento naturale al seno.

Detto tutto ciò viene da pensare che, nella nostra specie, siano culturalmente rappresentate le regole di tutte le altre. Dai padri assenti a quelli sempre presenti, severi oppure teneri, gerarchizzati o paritetici. Il fatto è che l'evoluzione culturale corre sempre più in fretta e sperimenta in ogni direzione. E noi, con la nostra vita comunque temporalmente limitata, siamo sempre più affannati per tenerle dietro, interrogandoci di volta in volta sul reale valore di quanto intanto stiamo facendo. Possibile che non ce la facciamo a capire, una volta per tutte e definitivamente, come è meglio che vengano allevati i nostri figli?

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Pagina 75

Seconda storia. In un centrovisite del Parco Nazionale del Gran Paradiso, a Chanavey in Valle di Rhèmes, si trova il corpo imbalsamato di uno stambecco straordinario. Il suo nome è Sultano. Era imponente, aveva grandi corna a scimitarra, visse a lungo. Oltre a ciò, altre qualità lo dotarono d'un fascino irresistibile, d'un carisma percepito da uomini e animali.

Può sembrare azzardato usare questa parola, carisma, per un animale, ma chi l'ha conosciuto sa che è così. D'altronde Sultano sta diventando una leggenda. Turisti e valligiani si recano ormai, sempre più numerosi, a visitarlo. Un po' come successe – altri tempi – per Barry, il celeberrimo cane di San Bernardo che salvò la vita a tante persone e che dalla sua morte è esposto nel famoso ospizio a 2400 metri d'altezza lungo la strada che va da Aosta a Martigny.

Sultano però fu un animale selvaggio ed elusivo, non compì atti eroici nei confronti della nostra specie. Se è divenuto leggendario è stato per altri, più sottili motivi. È indubbiamente una storia assai peculiare. Ci si trova immersi nell'aria sottile dell'alta quota tra ghiaioni, nevi perenni e cieli azzurri solcati dal volo dell'aquila, in compagnia di gente e animali per i più inconsueti, preziosi. E quegli esseri, umani e non umani, è come se recitassero una commedia, o una tragedia, fuori dal tempo. Sono gli uomini del parco, i valligiani, e poi animali: stambecchi, volpi, camosci, marmotte, ma soprattutto lui, Sultano, perché il perno del racconto è la storia della sua vita.

Molte sono le testimonianze e le immagini fotografiche. Già ammirare queste ultime è un piacere, ma è la lettura delle testimonianze che meglio rendiconta la sapienza di quegli speciali osservatori che, con parole semplici, tracciarono un ritratto, per buona parte scientificamente attendibile, del favoloso stambecco. Certo non erano etologi di professione, ma ciò che scrissero trova una sorprendente corrispondenza con le conoscenze effettive degli studiosi del comportamento animale.

L'esempio più bello è la descrizione che del mitico animale fa Vittorio Peracino, che fu ispettore sanitario del parco: «Sultano? Fiero. Energico. Irruente. Deciso. Uno stambecco capolavoro. Durante la stagione degli amori non aveva neppure bisogno di affrontare in duello i rivali. Li sconfiggeva con il solo apparire. Intelligente? Il fatto di essere riuscito a sfiorare i diciotto anni, guidando un branco, significa che sapeva operare delle scelte: arrivare, per esempio, ai pascoli migliori nel momento più opportuno».

Spiego perché mi piace questa descrizione. Potrebbero sembrare parole che, per eccesso d'ammirazione, lasciano spazio alla fantasia, ma non è così. Tra gli stambecchi, infatti, esiste un fenomeno chiamato assessment, autovalutazione. Si tratta di questo. Con l'esperienza ricavata dai numerosi scontri aggressivi i maschi riescono a stimare quali sono gli individui che possono battere e quali no, e ciò avviene attraverso la reciproca valutazione delle dimensioni delle corna. Così, indirettamente e progressivamente, ogni individuo comprende qual è il suo potenziale aggressivo e con ciò raggiunge una relativa consapevolezza di sé, della sua forza, di quello che rappresenta nell'ambito del gruppo. Se ci si attarda a osservarli durante gli scontri, si scopre che questi mai hanno luogo tra individui diversamente armati: basta uno sguardo e quello dalle corna di minori dimensioni si ritira, risparmiandosi così i traumi di una sconfitta annunciata. Ecco allora che, grazie all' assessment, la frase: «li sconfiggeva con il solo apparire» diviene comprensibile, accettabile.

C'è poi il discorso riguardante l'eccezionale longevità, la capacità di guida, il sapere «operare delle scelte: arrivare, per esempio, ai pascoli migliori nel momento più opportuno». Tutti fenomeni che l'etologia ha studiato. Perché certi animali sanno davvero prendere decisioni, utili per la sopravvivenza, sulla base dell'esperienza e dell'intelligenza.

Parlare del carisma di Sultano non è dunque un azzardo. L'aveva sicuramente nel suo gruppo sociale. Ciò che può stupire è che anche le guardie del parco l'avessero pienamente percepito. Ma quelle guardie sono persone particolari. La consuetudine all'osservazione, alla solitudine, ai tempi lunghi che la montagna regala le ha infatti rese estremamente competenti e sensibili ai fenomeni della natura, che sanno leggere raffinatamente.

Personaggio straordinario fu Provino Chabod, che per primo incontrò Sultano, che gli diede il nome, che lo seguì per tutta la vita. Che, quando giunse il momento della morte dell'animale, non ebbe il coraggio di esserne testimone. E siccome la direzione del parco desiderava averne una documentazione filmata, fu incaricato un suo giovane collega, Stefano Borney. È lui che ci racconta, e ci documenta, quel tragico ultimo giorno. La silenziosa visita – forse l'estremo omaggio – d'alcuni stambecchi; quella, altrettanto rispettosa, del suo pastore tedesco. «E non gli gira attorno eccitato come fa quando s'imbatte in un animale selvatico. Non abbaia, non annusa, non guarda». Gli si siede semplicemente accanto. Fin dove arriva, negli animali, la consapevolezza della morte?

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Pagina 121

TERZA PARTE
Evoluzione e adattamenti



«Una mattina ci siamo svegliati e l'evoluzione non c'era più. Non è che vi fosse stato, prima, un dibattito, una proposta, un avviso, una provocazione, anche solo uno sberleffo: guardate che adesso togliamo Darwin dai programmi delle scuole, il vecchio naturalista inglese barbuto ha i giorni contati. No, nulla di tutto ciò. Abolito, punto. E qui comincia una rocambolesca storia di provincialismo culturale.»

Cose che succedono in Italia, e che Telmo Pievani racconta nel succoso libretto In difesa di Darwin. Piccolo bestiaro dell'antievoluzionismo all'italiana (Bompiani, Milano 2007) che, appunto, fa la cronaca di quando, pochi anni fa, di punto in bianco la storia e la teoria dell'evoluzione furono bandite dalle nostre scuole.

Una storia che ha dell'incredibile, e siccome anch'io rimasi di sasso e, per dirla con parole civili, molto arrabbiato, così scrissi, sul mensile Quark, la «lettera a un bambino» che qui riporto.


Caro bambino italiano che, in questi anni di grazia (si fa per dire), frequenti le elementari o le medie inferiori, lo so che spesso leggi di natura e di animali. Lo so perché lo fanno anche i miei nipotini, che sono come te. Come a te, a loro piace scoprire i fenomeni della natura.

Ti scrivo per parlarti di una tua passione: i dinosauri. Rettili immensi, animali del passato. Conosci i nomi di molti di loro e sai certamente che sono comparsi tanti milioni di anni fa quando già c'era tanta vita sulla terra e che poi, dopo aver conquistato il mondo, si sono estinti. Prima di loro esistevano altri rettili che erano i loro antenati. Da alcuni dinosauri, forse sai pure questo, si sono originati i coccodrilli e gli uccelli. Una fantastica storia evolutiva, forse la più affascinante.

Ciò che non sai, probabilmente, è che da qualche anno i tuoi insegnanti non saranno più obbligati a parlarti d'evoluzione anche se alcuni, almeno lo spero, lo faranno ugualmente. Ebbene, l'esclusione, o quasi, dell'insegnamento dell'evoluzione dai vostri programmi mi preoccupa e cercherò di spiegarti perché.

Si parla molto, oggi, di problemi ambientali. Si desidera insegnarvi – cosa giustissima – il rispetto della biodiversità, ma per far ciò è essenziale spiegare di cosa si tratta. Ebbene, penso che sia impossibile farlo senza introdurre concetti evolutivi. Gli esseri che costituiscono la biodiversità, infatti, vivendo insieme una generazione dopo l'altra per tempi lunghissimi si sono evoluti insieme (il termine esatto è coevoluzione). Ti faccio un esempio: tanto più si raffina la strategia predatoria di un predatore, tanto più, e parallelamente, si raffina quella antipredatoria delle sue prede. L'una, in altre parole, agisce selettivamente sulle altre, e viceversa. Un esempio che ti incuriosirà: i pipistrelli rintracciano le loro prede usando una sorta di sonar. Sparano fuori, cioè, ultrasuoni. Ecco, come contromisura certe falene hanno evolutivamente acquisito, quando percepiscono queste onde ultrasonore, la capacità di lasciarsi cadere di colpo sul terreno, sfuggendo così alla predazione. Questo, vedi, significa biodiversità: organismi adattati l'uno all'altro e che perciò vivono in uno stato di equilibrio in cui è dannoso intervenire. Come si fa, però, a insegnare tutto ciò senza introdurre i concetti base sull'evoluzione? E che dire quando si parla di comportamenti maladattativi della nostra specie? Temo che, se si omette la spiegazione evolutiva, non si possano produrre altro che insegnamenti vuoti di spiegazione, insoddisfacenti. Solo penosamente moralistici.

Penso anche che sia impossibile, per lo stesso motivo, farvi capire qual è il posto dell'uomo nella natura; quali sono i rapporti di parentela che abbiamo con le altre specie, ormai ben noti grazie agli studi sul Dna. E si tratta di conoscenze assai informative (e pertanto formative) per spiegare chi siamo e quali rapporti, anche da un punto di vista etico, sia opportuno mantenere con i nostri affini, umani e non umani. In definitiva utili per comprendere il significato della diversità, il suo grande valore e la conseguente necessità di rispettarla.

Il mio discorso (tutto concentrato in una letterina) forse t'è risultato un po' difficile. So però che, se ti fosse spiegato un po' più ampiamente, soprattutto con alcuni dei tanti bellissimi esempi, come potrebbero fare i tuoi insegnanti, ti sarebbe senz'altro chiaro. E tu saresti un bambino diverso. Un bambino che sa con la ragione, non soltanto che crede.

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Stasi evolutive, gradualismo, saltazionismo, preadattamento e così via

Le tartarughine della Florida che vediamo nei negozi di animali sono tutte bambine, allevate in fattorie per esportarle nel mondo consumista, che poi le brucia come fossero cose. La stragrande maggioranza infatti non raggiungerà mai la mole di mamma e papà: morrà assai prima, piano piano come i rettili sanno fare così bene. Saranno uccise, le piccole, le belle, dai parassiti, dal freddo, dal cibo inadeguato, dall'incuria insomma, o dall'ignoranza, di chi le ha comperate. Tra le residue, molte verrano poi, per noia, lasciate libere in una natura che non è la loro. E sarà un guaio anche quello.

Una volta le catturavano con grandi retate in natura, poi, siccome la specie ne risultava minacciata, hanno pensato di allevarle. Così ora la specie è salva, e salvo insieme anche il commercio. Non si salvano invece quei poveri individui condannati a una morte lenta, né l'educazione naturalistica di chi, per ignoranza, li compra.

Potrei anche dirvi, sempre a proposito di tartarughe, delle immense testuggini marine. Se, mentre siete immersi nell'acqua, le vedeste mentre stanno nuotando, direste: volano. Volano pacate, determinate, automatiche nel liquido azzurro come i grandi uccelli migratori fanno sopra di loro, nel cielo. E anch'esse sono torturate e minacciate dall'uomo.

E potrei dirvi dell'altro e dell'altro ancora, ma c'è una storia, una storia evolutiva, che sovrasta tutto questo. Per me dire testudinati (le tartarughe in genere) significa, infatti, soprattutto stasi evolutiva. Vuole dire, più semplicemente, animali che hanno smesso di evolversi. Animali che forse non sanno più adattarsi.

Dev'essere così. I rettili erano, ragionando sui tempi geologici, comparsi da poco quando s'è andata sviluppando la «novità evolutiva» di quella cornea e ossea corazza. Una grande invenzione, avvenuta ben più di duecento milioni di anni fa. Una volta rinchiusesi lì dentro, però, le tartarughe sono diventate conservatrici. Da allora, praticamente, non si sono mosse più. Qualche passetto – è vero – l'hanno anche fatto. Per esempio qualche forma di fossile, tra le più antiche, aveva ancora i denti, che poi pian piano sono andati persi, perché le attuali hanno tutte una specie di becco. Le tartarughe antiche, inoltre, non sapevano ritrarre la testa nella corazza, mentre le attuali, incurvando il collo a S, lo sanno fare. Si tratta, a ogni modo, di robetta, se si considera che nel frattempo si sono evoluti gli altri rettili, gli uccelli, i primi mammiferi, e da questi ultimi si sono originate forme così diverse come i pipistrelli, le giraffe, le balene, i primati, tanto per dirne alcune. Loro, intanto, tartarughe erano e tartarughe sono rimaste.

È questa la stasi evolutiva, anche se poi una stasi totale in realtà non è perché qualche passetto, appunto, i testudinati l'han sempre fatto. E questa cosiddetta stasi, probabilmente, nasconde una reale impossibilità di fare nuovi concreti passi avanti. Perciò le specie di tartarughe, dal Triassico in cui sono comparse, vanno, come numero di specie, progressivamente diminuendo. La loro specialità, il guscio, sui tempi lunghi è forse una trappola mortale. La loro stirpe un binario morto, per l'evoluzione.

È molto istruttiva questa storia evolutiva. A me ha insegnato, insieme a tante altre, che l'evoluzione viaggia (se viaggia) con differenti velocità. Può andare così adagio da sembrare ferma o correre moltissimo. Può avere sbalzi, accelerate e repentine frenate. Perfino marce indietro. Dipende, quasi sempre, dalle mutevoli pressioni della selezione naturale. Dipende, qualche volta, da un nuovo utilizzo di qualcosa che già c'era ma che serviva ad altro. Quasi fosse un'invenzione, come avvenne per la vescica natatoria dei pesci che si trasformò in polmone, spalancando davanti ai vertebrati divenuti per ciò terrestri un nuovo mondo da conquistare.

L'evoluzione, che in definitiva è un fenomeno unitario, ha però tante facce, tante frecce al suo arco.

Ricordo che quando, negli anni Settanta, Niles Eldredge e Stephen Jay Gould proposero il cosiddetto saltazionismo, rimasi perplesso. Sostenevano, i due grandi paleontologi, che le piccole modificazioni graduali non portavano da nessuna parte e che l'evoluzione non poteva realizzarsi con la gradualità ma soltanto con salti repentini. Esistevano, secondo loro, lunghi periodi di equilibrio punteggiati da periodi brevi ma di grande cambiamento. Quanto alla lunghezza, occorre intendersi, perché per i paleontologi breve significa magari mezzo milione di anni. Il che è un tempo effettivamente breve se lo si confronta con le centinaia di milioni di anni, i miliardi di anni, con cui si misurano i tempi e gli eventi evolutivi.

I saltazionisti, pertanto, affermavano la necessità di salti evolutivi per il realizzarsi di eventi evolutivi di un certo rilievo e ciò innescò una guerra fratricida con i cosiddetti gradualisti. Questi, a loro volta, seppero mostrare esempi consistenti ove il gradualismo davvero funzionava. Il bello è che nessuno dei due schieramenti si sognò mai, per un bel po' di tempo, che entrambi potessero avere ragione, come in effetti finalmente compresero, perché l'evoluzione può essere sia graduale che saltellante. Gradualismo e saltazionismo altro non sono che due modalità dello stesso processo evolutivo perché, gratta gratta, sotto c'è sempre lo stesso meccanismo di mutazione-selezione-adattamenti che, in fin dei conti, Darwin aveva già intuito all'inizio di tutto.

Ci voleva poi tanto a capirlo fin da subito? Il fatto è, temo, che agli scienziati piace sempre moltissimo inventare nuove teorie, nuove spiegazioni e, soprattutto, nuovi nomi possibilmente astrusi. È così, oltretutto (ma questa senza dubbio è una malignità), che si raggiunge la gloria. Se non altro una bella visibilità.

Sempre a proposito di nuovi nomi che, purtroppo, non spiegano niente di nuovo, ho prima accennato alla vescica natatoria dei pesci che s'è evoluta nel polmone, o meglio nei polmoni, dei vertebrati terrestri. Una storia evolutiva straordinaria che dimostra come un organo idrostatico, appunto la vescica natatoria, possa trasformarsi in uno respiratorio. E tutto avviene perché alcune strutture preesistenti hanno reso possibile il cambiamento di funzione. Concretamente: la vescica natatoria era già, fin da subito, ben vascolarizzata, ed è da questa vascolarizzazione che ha potuto prendere origine, in certi pesci, la nuova funzione. Insomma, prima un grande salto (da vescica a polmone primitivo, quello degli anfibi), poi una serie minuta di progressivi aggiustamenti, che si possono ammirare (il che è qualcosa di più del semplice vedere) studiando l'anatomia comparata a partire dai pesci per arrivare ai mammiferi. Bene, queste strutture che, come la vescica natatoria, possiedono al loro interno queste, chiamiamole così, possibilità evolutive basate sul cambiamento di funzione, da molto tempo vengono chiamate (il mio ricordo va indietro almeno agli anni Cinquanta-Sessanta) preadattamenti. Ciò, intendiamoci bene, non in senso finalistico, ma semplicemente per sottolineare l'esistenza di un «qualcosa che potrebbe anche funzionare per fare qualcos'altro». Poi, un bel giorno, ma questa è storia più recente, assisto a una conferenza e sento parlare di una scoperta nuova, denominata in inglese (in realtà in americano) exaptation e faticosamente tradotta in italiano con il veramente orribile exattamento, e ora eccovi la spiegazione letterale della cosiddetta nuova scoperta: «Gli exattamenti (o exaptations) sono dunque quei caratteri nati con una certa funzione e opportunisticamente cooptati per una funzione diversa nel corso dell'evoluzione» (Gould, Vrba 1982; Vrba, Gould 1986). Cioè: né più né meno che i vecchi e cari preadattamenti dell'altrettanto vecchia, cara e purtroppo attualmente un po' troppo trascurata anatomia comparata.

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Adattamenti estremi

Chimico oppure fisico l'inquinamento, come è noto, mette in crisi l'ambiente. È questo un dato di fatto così risaputo e facilmente comprensibile, a causa dei suoi effetti immediati, che raramente ci si sofferma su ciò che sta dietro, in termini generali, al micidiale fenomeno. Sarebbe invece utile, anche per motivi operativi, soffermarsi maggiormente su un concetto che consentirebbe, se percepito nella sua generale validità, una lettura scientificamente più corretta di ogni tipo di inquinamento. Esiste infatti un aspetto che viene quasi sempre ignorato: il fattore tempo. Si tratta di questo: a mettere in crisi la natura, in realtà, non è tanto la qualità del cambiamento indotto dall'inquinamento quanto, piuttosto, la differente velocità tra l'evoluzione culturale umana, che il cambiamento lo induce con estrema rapidità, e la lentezza di quella biologica, che il cambiamento è costretta a subire.

Occorre, a questo punto, parlare di adattamenti. Ogni specie si è adattata all'ambiente in cui vive. Tanto per fare un esempio, la volpe artica, che spende il suo tempo nel gelo, ha orecchie piccolissime, mentre quella del Sahara, il fennec, vivendo in un clima caldissimo, le ha enormi. La grande superficie di questi padiglioni auricolari ha infatti la funzione di disperdere l'eccesso di calore.

Esiste un caso, quello delle specie dette «estremofile», che può offrirci la migliore esemplificazione dell'importante concetto. Queste specie, infatti, evidenziano che, in realtà, non esistono sul nostro pianeta zone che risultino, per le loro caratteristiche fisico-chimiche, veramente, totalmente inabitabili.

Citerò, a titolo d'esempio, alcuni casi significativi.

La salamandra siberiana (Salamandrella keyserlingii), che vive all'estremo Nord del Circolo polare artico, iberna in cuscini di muschio localizzati presso stagni dove la temperatura scende fino a -35°C. Ne sono state trovate, vive seppure completamente congelate, anche sotto 14 metri di neve. Sembrano, quando sono in quello stato, pietrificate. Eppure, quando la tundra si sgela anch'esse riprendono lentamente a scongelarsi fino a riacquisire il loro normale stile di vita ricco di attività. Così, come per incanto, si rimettono a nuotare, a predare, a riprodursi. Il congelamento, effettivamente, può passare su di loro senza causare alcun danno effettivo.

Non è però che questa soluzione sia priva di rischi. Proprio per questo è pratica rarissima, tra gli animali. Perché la salamandra sopravviva i cristalli di ghiaccio devono infatti avere dimensioni veramente minime, così da non perforare le membrane cellulari. Ciò è stato naturalmente ottenuto grazie all'evoluzione di proteine specializzate che vengono sintetizzate, in quegli anfibi, soltanto quando la temperatura inizia la sua drastica discesa. Esiste però, in alternativa, un'altra strategia naturale di sopravvivenza al freddo estremo. È quella, altrettanto straordinaria, evoluta dalla platessa artica (Pseudopleuronectes americanus). Questo pesce osseo, così come alcuni altri, sintetizza addirittura proteine anticongelanti.

Passando dal freddo al caldo, la storia sicuramente più affascinante è quella delle «fumarole nere», scoperte nel 1977 al largo delle coste dell'Ecuador alla profondità di 2500 metri. Si tratta di geiger sottomarini che espellono acqua bollente mista a minerali da camini vulcanici situati sul fondo oceanico. L'acqua viene emessa a una temperatura che può raggiungere i 350°C e, in contatto con quella fredda oceanica, forma grandi volute nere contenenti una miscela di composti di zolfo e di altri minerali espulsi dal camino. Ebbene, sorprendentemente quest'ambiente estremo, del tutto privo di luce, è riccamente e variamente popolato. Il fondamento degli inimmaginabili ecosistemi è invariabilmente rappresentato da microrganismi chemosintetici, esseri cioè che sono in grado di produrre materiale organico pur nella più completa oscurità. Su questa base prosperano anellidi resistenti al calore, anemoni marini, granchi, molluschi bivalvi. In queste acque all'apparenza impossibili fluttuano persino piccole meduse, nuotano alcune specie di pesci.

Essendo le fumarole nere distanti l'una dall'altra, in ognuna s'è evoluta una peculiare biodiversità, caratterizzata dalla presenza di differenti specie diversamente adattate. La loro è una storia evolutiva, pertanto, che si è ripetuta più volte parallelamente ma indipendentemente.

Potrei continuare con l'esemplificazione raccontando l'esistenza di esseri che vivono in ambienti estremamente acidi o alcalini, in concentrazioni di cloruro di sodio che per i più sarebbero letali, oppure in totale assenza di ossigeno. S'è trovata vita perfino nelle rocce oppure in ambienti dove predominano l'acido solfidrico, l'anidride carbonica e il metano.

Generalizzando, questo si può dunque affermare: datele tempo e la vita, comunque, s'adatterà.

È pertanto illuminante rilevare – questo è l'insegnamento che ci viene dalle specie estremofile – come il comportamento umano disastrosamente inquinante sia tale in quanto il cambiamento indotto dalla nostra specie è troppo rapido per consentire all'evoluzione biologica di produrre gli indispensabili adattamenti, le opportune controstrategie, ed è così proprio perché è culturale.

Dovremo farcene una ragione: data l'impossibilità di cambiare le regole della natura, non ci resterà, se vorremo vivere in un ambiente equilibrato e pertanto sano, che adeguare a esse quelle della nostra cultura. Non solo è possibile farlo, ma sarà indispensabile per il nostro benessere, se non per la nostra stessa sopravvivenza.

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