Autore Marco Malvaldi
Titolo L'architetto dell'invisibile
Sottotitoloovvero come pensa un chimico
EdizioneCortina, Milano, 2017, Scienza e ideee 282 , pag. 206, ill., cop.fle., dim. 14x22,5x1,5 cm , Isbn 978-88-6030-946-4
LettoreGiorgio Crepe, 2018
Classe chimica , fisica , scienze naturali , storia della scienza












 

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Indice


Premessa. Un linguaggio universale                   11


1. Gli atomi esistono                                19

2. Una vetrina sempre di moda                        43

3. Le strutture molecolari: utensili di pensiero     59

4. I due motori                                      85

5. Piccoli scambi con enormi conseguenze            111

6. Un panettone di elettroni (con canditi nucleari) 131

7. E pluribus unum                                  163


Piccola bibliografia ragionata                      201
Indice analitico                                    205


 

 

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Pagina 11

PREMESSA
UN LINGUAGGIO UNIVERSALE



                                        La chimica non è solo disciplina
                                        scientifica, ma anche avventura ed
                                        esperienza estetica. I suoi seguaci
                                        cercano di trovare le cause nascoste ai
                                        sensi che causano la trasformazione del
                                        nostro mondo in continuo cambiamento, di
                                        imparare l'essenza del colore della
                                        rosa, della fragranza del lillà e della
                                        robustezza della quercia, e di capire i
                                        sentieri segreti attraverso i quali la
                                        luce del sole e l'aria creano queste
                                        meraviglie.

                                                            SIR C.N. HINSHELWOOD



Oggi, quasi sicuramente, avete ingerito qualcosa che potrebbe uccidervi. Non sto parlando di polveri sottili, che potrebbero causarvi il cancro, né di terribili pesticidi di sintesi, o di pericolosissimi conservanti. No, è qualcosa di molto più comune.

L'acqua.

Assunta in dosi adeguate — dieci, quindici litri in un giorno — questo terrificante agente chimico è in grado di diluire pericolosissimamente la concentrazione di sodio nel vostro sangue, causando una condizione, l'iponatremia, che risulterà in una encefalite fulminante e, quasi sicuramente, letale.

Non sto scherzando. Quello che ho detto è assolutamente vero e verificabile.

Detto questo, qualcuno di voi ha intenzione di smettere di bere acqua?

Un chimico, quando ragiona, segue molte e diverse linee guida. La prima che impara, però, è che la chimica è fatta di quantità e qualità, e che questi due aspetti sono entrambi fondamentali. Presa in eccesso, anche l'acqua può essere letale; assunto in dosi minime, anche il cianuro può risultare innocuo. Una cosa che avevano ben capito gli antichi Greci, che per designare il veleno e la medicina usavano lo stesso termine, phármakon. Non si possono, quindi, ignorare le quantità. Fare ragionamenti chimici senza considerare quanto aggiungo di una data sostanza, o quanto ne tolgo, semplicemente non ha senso. Non è un ragionamento, è una parodia.

Oltre che in termini di quantità, però, il chimico ragiona in termini di qualità, e non di rado questa è legata alla bellezza. Vedremo, per esempio, che per il chimico la simmetria delle molecole svolge un ruolo fondamentale per capire come una molecola possa interagire con la luce o con altre molecole, ma in generale la chimica è una disciplina che ha bisogno dei sensi. La vista, per distinguere i colori che ci dicono quando una reazione è avvenuta; l'olfatto, grazie al quale individuiamo gli odori delle molecole aromatiche (in chimica "odorose", e non è detto che l'odore sia gradevole) e siamo in grado, se ben allenati, non solo di distinguere la fragranza gradevole degli eteri dal tanfo dantesco dei seleniuri, ma anche di inferire la struttura molecolare di alcune di esse – si favoleggia che Piero Pino, mitologico professore del secondo dopoguerra, fosse in grado di dire in che posizione si trovasse il doppio legame di un idrocarburo insaturo semplicemente annusandolo.

Un altro concetto base, nel pensare come un chimico, è quello di processo: inteso come azione che porta alla modifica chimica o fisica di un sistema, di un pezzetto di universo. Una molecola come la nitroglicerina può essere dannosa o benefica: se la ingerisci, è utilissima nel trattamento dell'angina pectoris o dell'infarto, ma se la prendi a martellate, anche se sei sano di cuore, rischi di fare una brutta fine. Pensare a un materiale, a una molecola, senza considerare il processo necessario per ottenerla o conservarla rischia di portare al ragionamento dell'idealista di Ennio Flaiano , per cui, visto che la rosa ha un odore migliore di un cavolo, allora vuol dire che anche il brodo che se ne ricava sarà più buono.

Uno dei termini attraverso i quali un chimico, invece, non ragiona è la distinzione tra naturale e artificiale. Ci sono molti buoni motivi per ignorare pressoché del tutto questa differenza. Primo, perché una molecola non dipende assolutamente da quella che è la storia, la provenienza, degli elementi che la compongono. Sostenere che una data molecola di sintesi ha una diversa funzionalità rispetto alla stessa molecola distillata dalla pianta è come dire che la parola "fungo", stampata in caratteri a piombo, ha due diversi significati a seconda che sia stata stampata con caratteri nuovi di zecca oppure comprati al mercatino dell'usato.

Secondo, bisogna intendersi sul significato di "artificiale". Se non esiste in natura, qualsiasi miscuglio o composto chimico prodotto mediante un processo riproducibile può essere tranquillamente definito artificiale. Sin dal giorno in cui abbiamo iniziato a cuocere la carne, per esempio, abbiamo cominciato a produrre molecole che di naturale hanno ben poco. Esponendo ad alte temperature – cioè, mettendo sopra un fuoco o una brace – la carne o un miscuglio di farina e acqua, i carboidrati e le proteine naturalmente presenti nella carne reagiscono tra loro, secondo un meccanismo che venne studiato per primo dal francese Maillard, producendo un'enorme quantità di sostanze – pirazine, alchilpiridine, tiofeni e roba dal nome ancor più minaccioso – che formano la crosticina bruna, croccante e profumatissima tipica della carne arrostita e della crosta di pane. Roba artificialissima, ma non per questo dannosa, a patto che le temperature di cottura non diventino troppo elevate, nel qual caso le reazioni di Maillard progrediscono verso prodotti aromatici più di nome che di fatto, e ben più pericolosi – siamo in grado di fabbricare molecole cancerogene semplicemente cuocendo troppo il filetto, senza alcun bisogno di laboratori e provette. Anche la distillazione di liquori da tradizionali erbe colte da sapienti monaci benedettini e cose simili prevedono, in seguito all'innalzamento della temperatura, reazioni chimiche che producono a tutti gli effetti molecole che in natura non esisterebbero.

Infine, "naturale" non significa "di sicuro giovamento all'organismo". La cicuta, pianta che cresceva spontanea già nell'antica Grecia, ben prima che venissero costruiti laboratori chimici di una qualche rilevanza, è senza dubbio un oggetto naturale, che la mano dell'uomo non ha contribuito a sviluppare in alcun modo; un decotto di tale pianta contiene solo ingredienti naturali, quindi. Eppure ci sono testimonianze attendibilissime (anche a livello umanistico, per chi non crede nella chimica – chiedere a Socrate per conferma) che tale decotto sia letale. Mettere la mano in un vaso pieno di scorpioni può essere da coraggiosi; farsi pungere da uno scorpione "perché tanto il veleno dello scorpione è naturale" è da imbecilli.

Un caso particolare? Senza dubbio. Ci vorrebbero studi più generali, come quello fondamentale pubblicato nel 1994 da Bruce Ames, il quale mostrò che circa il 50% dei pesticidi di sintesi sono cancerogeni. Ora, un pesticida non è per forza un oggetto di sintesi, cioè prodotto in laboratorio; molte piante producono già da sé sostanze che sterminano i parassiti senza bisogno di andarle a comprare al consorzio agrario. E, sorpresa sorpresa, circa il 50% dei pesticidi naturali sono cancerogeni. Una buona metà delle specie molecolari che le piccole, innocenti piantine sintetizzano in modo naturale per difendersi dagli afidi, dalle lumache e da altre specie abituate a pasteggiare con i loro germogli sono in grado di farci venire metastasi a mazzi – come le aflatossine, probabilmente la specie molecolare più cancerogena che si conosca, e che non ha bisogno di alcun laboratorio chimico per essere prodotta: basta comprarsi un sacchetto di noccioline biologiche.

C'è infine un altro aspetto di cui bisogna tenere conto, se uno volesse valutare la funzione sociale della chimica, ed è il concetto di rapporto fra costo e beneficio. Per capire meglio cosa intendo, credo che la cosa migliore sia parlare della vita e della carriera di uno dei personaggi più bui e tristi della mia disciplina, il tedesco Fritz Haber. Premio Nobel per la chimica nel 1919, Haber deve la sua fama a due filoni di ricerca distinti. Il primo è lo studio delle reazioni dell'azoto, l'elemento chimico che compone il 70% circa dell'aria che respiriamo. L'azoto è fondamentale per la vita vegetale, in quanto è l'elemento fertilizzante per eccellenza; le piante hanno bisogno di azoto quanto noi di vitamine.

Purtroppo, questo elemento è così contento di se stesso e della sua importanza che raramente scende a patti con altri elementi o composti per reagire, e questo lo rende difficile da maneggiare. Per avere abbastanza azoto, le piante ricorrono di solito a interventi esterni. Le piante carnivore lo mangiano, sotto forma di insetti; le piante domestiche lo assumono sotto forma di fertilizzante solido, ovvero, prima del 1900, letame. Una tazza di letame contiene più o meno la stessa quantità di azoto di un metro cubo d'aria – i fertilizzanti solidi o liquidi sono molto più densi, e quindi più efficienti, della semplice atmosfera. Θ grazie al processo sviluppato da Haber, però, che l'azoto – riscaldato, compresso con gas idrogeno e con l'aggiunta di uno zinzino di osmio – può essere fatto reagire e trasformato in ammoniaca, NH3: la madre di tutti i fertilizzanti. Da qui i raccolti più grandi, le messi più rigogliose, le patate enormi. Risultato? Già nel 1914 si stimava che i fertilizzanti di sintesi avessero salvato dalla morte per inedia qualcosa come un milione di persone.

Purtroppo, il 1914 ricorda anche un altro evento, che di vite umane ne spense molte. Anche di questo evento Fritz Haber fu protagonista assoluto, volontario e, questa volta, negativo. La fama di Haber convinse infatti gli alti papaveri della Grande Germania ad affidargli il compito di produrre armi non convenzionali in grado di aggirare la convenzione dell'Aia, che proibiva esplicitamente – ma non troppo efficacemente – l'uso di armi chimiche. Haber, con piglio deciso, si mise al lavoro, e i risultati non tardarono ad arrivare. Il primo dei prodotti dell'ingegno di Haber, proiettili gravidi di bromuro di xilile, era pronto già nel 1915; sarebbero seguiti altri composti, a base di cloro, culminanti nel gas urticante Gelbkreuz (croce gialla), detto anche "gas mostarda" che, nella sola battaglia di Ypres, da cui poi il nome iprite, fece cinquemila vittime tra i francesi. Questo risultato fu ottenuto grazie alla competenza dei soldati tedeschi, guidati sul campo dallo stesso Haber che, noncurante dei giudizi morali dei suoi colleghi e della famiglia – la moglie si suicidò subito dopo la battaglia di Ypres, sconvolta dalla vergogna per quello che aveva fatto il marito –, era evidentemente entusiasta del suo nuovo ruolo di "angelo sterminatore".

Sul fatto che Fritz Haber fosse, perdonate il francesismo, un enorme stronzo, ci sono pochi dubbi sul piano storico; sul fatto che si sia reso responsabile di migliaia di morti, anche; sul fatto che i concimi di sua invenzione abbiano risparmiato la morte per inedia a milioni di persone, pure. Non è giusto, né onesto, mettere dei cadaveri su una bilancia per giudicare l'operato di una disciplina, ma è necessario ricordare che i progressi della chimica, oltre ad aver avvelenato molte persone, hanno anche salvato la vita a molte altre. Una piccola molecola come l'ammoniaca, foriera della possibilità di concimare il proprio campo senza dover più possedere delle vacche e il loro letame, è la principale ragione del fatto che oggi, sulla Terra, siamo circa sette miliardi di persone.

C'è poi un secondo fatto da considerare. L'iprite, o gas mostarda, tecnicamente si chiama tioetere di cloroetano e ha effetti devastanti sul nostro corpo, particolarmente sul midollo osseo. In pratica, l'organismo diventa quasi incapace di produrre globuli bianchi. Fu osservando questa caratteristica nei militari statunitensi che due ricercatori loro compatrioti, Louis Goodman e Alfred Gilman, si chiesero se, per caso, la cosa avrebbe potuto avere effetto anche sui globuli bianchi non autorizzati: le leucemie. Fu così che provarono a somministrare a un paziente oncologico quantità minime di un derivato meno volatile dell'iprite, la ciclofosfamide, dove l'atomo di zolfo viene sostituito da un fosfato ciclico. Il tumore scomparve, o quasi. I tumori maligni, però, sono furbi, e il male ricomparve circa sei mesi dopo. Il paziente morì; ma sei mesi prima era nata, ufficialmente, la chemioterapia.

Molto spesso, quando si giudica il progresso, ci si sofferma – giustamente – sui suoi aspetti negativi. Θ necessario farlo: si migliora solo rendendosi conto dei problemi che generiamo, oltre che di quelli che già abbiamo. Ma sovente abbiamo la tendenza a non considerare, o a trovare assolutamente normali, quelli positivi. Θ per noi naturale, oggi, curare malattie un tempo letali con una semplice iniezione, subire operazioni chirurgiche sotto anestesia generale e non vedendoci mettere in mano un bicchiere di rum e una pallottola da mordere. Molti dei bambini nati con parto cesareo, che giocano felici in braccio alla loro mamma, probabilmente oggi porterebbero fiori su una tomba, senza una piccolezza del genere.

In questo libro tenterò di chiarire (a me stesso, prima che a chi legge) il modo in cui un chimico pensa. Perché un chimico non fa solo mescoloni in laboratorio – o meglio, se lo facesse durerebbe poco – ma, prima di tutto, interagisce in modo astratto con la materia che andrà a trattare cercando di prevedere cosa succederà. E, per farlo, ha bisogno di un vocabolario particolare, fatto di lettere (gli atomi), di parole (le molecole), di frasi (i processi chimici) e di storie (i materiali finali). Cercherò di spiegare in che modo si tenta di prevedere il comportamento della natura, e come lo si può modificare. E cercherò di spiegare in che modo il piccolo si collega al grande, e quali strutture di pensiero, sia chimiche (quelle caricature della realtà che chiamiamo molecole) sia astratte (il nostro modo di mettere i pensieri in fila, o di collegarli in una rete), siano le più utili per compiere questa operazione.

Nel nostro percorso, procederemo per gradi, dal piccolo al grande. Per prima cosa, cercherò di convincervi che gli atomi esistono; non è così scontato come sembra. Poi, andremo a vedere in che modo gli atomi si combinano fra loro a formare le molecole e come si possa studiare tale fenomeno. Vedremo quindi cosa succede quando prendiamo un numero di molecole molto grande e lo mettiamo insieme per formare un materiale – liquido, solido o gassoso che sia. Infine, osserveremo le strutture più belle della chimica macromolecolare, quello che succede quando le molecole diventano lunghe, lunghissime, enormi.

Un ultimo avvertimento, per essere onesto. Io sono un chimico fisico, e questo libro ha un taglio prettamente chimico fisico. Questo per un motivo molto semplice: ho scelto di parlare diffusamente di quello che so bene e di non soffermarmi troppo su quello che non conosco a sufficienza per non dover convincere anche me stesso di aver capito. Pertanto, parleremo molto di molecole, ma poco di reazioni chimiche, molto di proprietà meccaniche e termiche, e meno di come si interroghino le molecole, cioè di chimica analitica. Questo libro è quindi, oltre che volutamente incompleto, anche pesantemente orientato secondo i gusti personali dell'autore. Se non ne foste soddisfatti, il mio consiglio è semplice: continuate a leggere libri sull'argomento. Se siete come me, non ve ne stancherete mai. Dei molti aggettivi che si possono associare alla chimica – difficile, puzzolente, pericolosa, cattiva – ce n'è uno che non le si può applicare in alcun modo: noiosa.

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UNA REGIONE DI TRANSIZIONE



Da sempre, l'ostentazione di ricchezza è uno dei metodi preferiti dai potenti della Terra per mostrare concretamente la propria importanza. E i metalli preziosi, così lucenti, così duraturi, sono uno degli elementi preferiti per farsi belli agli occhi dei popoli. Per esempio, nei banchetti di Napoleone III gli invitati normali pranzavano con posate d'oro, mentre quelli di maggior rango, che sedevano alla tavola dell'imperatore, usavano suppellettili di un metallo ben più prezioso: l'alluminio.

Sì, avete letto bene. L'alluminio venne isolato dalla lavorazione della bauxite solo nei primi anni dell'Ottocento, e solo verso la metà di quel secolo si mise a punto un laborioso processo industriale per separarlo dal minerale; un processo costosissimo, dal quale si ricavava un metallo leggero, per nulla robusto, non troppo lucente, ma che solo i ricchi potevano permettersi. Fu quindi tutto un fiorire di gioielli in alluminio, posate in alluminio, ninnoli in alluminio; partì un torneo internazionale di esibizionisti a cui si iscrissero varie nazioni e, come spesso capita, risultarono vincitori gli Stati Uniti, che installarono sulla cima dell'obelisco che campeggia sul monumento a Washington una piramide di alluminio alta 22 centimetri. Quando il monumento venne iniziato, nel 1848, il metallo costava più dell'oro; quando venne terminato, nel 1885, più o meno come l'argento; un anno dopo, poco meno del rame.

Cos'era successo? Semplice. Fu colpa di un americano, Charles Martin Hall, e di un francese, Paul Héroult, che misero a punto un sistema per produrre l'alluminio dalla bauxite usando un processo elettrochimico, e non puramente chimico. Come abbiamo spiegato, un elemento chimico è un elemento chimico, e non dipende (se non in casi particolarissimi, per via della purezza) dal processo industriale con cui è stato prodotto; l'alluminio di nuova produzione costava cento volte meno, ma era comunque alluminio. Snobbato da gioiellieri e principi, poté finalmente entrare a far parte del mondo di tutti i giorni grazie alla sua principale caratteristica: la leggerezza. Questo lo distingueva dal ferro, che aveva più o meno le caratteristiche chimiche del suo parente più lucido, ma che era molto, molto pesante. Come quasi tutti i metalli di transizione.





I metalli di transizione, quella lunga striscia spessa quattro quadretti che separa gli Stati Uniti della tavola periodica dalla Russia e dall'Estremo Oriente, sono tutti strettamente imparentati tra loro, sia per riga sia per colonna, ma ognuno ha le sue caratteristiche. Anche qui, le similitudini comportamentali vengono dal modo in cui i metalli condividono gli elettroni. Abbiamo visto sopra che il comportamento chimico è questione di elettroni; i gas nobili li tengono in vetrina e li contemplano, gli alogeni sono smaniosi di accaparrarsi quel singolo elettrone che gli manca per completare la collezione, e i metalli alcalini non vedono l'ora di liberarsi del loro elettrone spaiato. Rispetto agli elettroni, i metalli di transizione hanno un atteggiamento molto più equilibrato. Li condividono volentieri con gli altri elementi, e se li prestano anche fra loro, senza quella smania vendicatrice degli estremisti di destra e di sinistra; ne risulta che i metalli di transizione formano facilmente blocchi di elementi puri – lingotti di ferro, oro, rame, piombo, tungsteno – che sono più stabili, molto più stabili, degli altri elementi. Il motivo è, appunto, che gli elettroni dei metalli di transizione sono facili da prestare, e da scambiare; un'immagine efficace per rappresentarsi i metalli di questo tipo è quella degli ioni (atomi che hanno perso uno o più elettroni e quindi carichi positivamente) immersi in un mare formato da quegli stessi elettroni che scorrono, liberi e indipendenti. Questa facilità di scorrimento degli elettroni li rende spesso, per esempio, ottimi conduttori di elettricità; la presenza di un reticolo cristallino così particolare, più simile a una disposizione regolare di uvette nel panettone che a una costruzione fatta di mattoncini Lego, come i cristalli ionici, rende questi metalli lavorabili, forgiabili; al tempo stesso, la stabilità intrinseca del metallo puro fa sì che si possano fondere senza che reagiscano (provate a fondere del carbone, e fatemi sapere se non succede qualcosa prima) e siano duraturi.

Già, duraturi.

Il motivo per cui l'oro era considerato così prezioso fin dai tempi antichi è che non si annerisce e non viene attaccato dagli acidi. Secondo gli alchimisti l'argento (che è lucente quasi come l'oro, ma che, ahimè, si annerisce facilmente) era quasi oro, ma gli mancava il giallo; per questo, tentavano di ottenere l'oro dall'argento ingiallendolo con ogni cosa gialla gli venisse in mente. Tuorlo d'uovo, rame, zolfo... e sì, anche quella.

All'interno della striscia dei metalli di transizione, pur sempre dentro il comportamento metallico, si trova di tutto. Anche la parentela per colonne; i metalli nobili, infatti, quelli che resistono alla corrosione, si trovano tutti sulla stessa colonna (undicesima).

Fu proprio l'abilità di trovare un posto ai metalli di transizione a dare forma definitiva alla tavola periodica, e gloria immortale al suo definitivo organizzatore.

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CHE COS'Θ LA TAVOLA PERIODICA?



Ogni anno, l'Università di Harvard assegna i cosiddetti premi IgNobel , destinati alla ricerca scientifica "che non può, o non dovrebbe, essere riprodotta". Con il tempo, il significato del premio è mutato, e oggi il premio viene assegnato sia a risultati – diciamo così – discutibili, o non auspicabili, sia a genuine ricerche scientifiche non prive di un risvolto comico o grottesco.

Per la chimica sono stati assegnati alcuni degli IgNobel più rappresentativi. Il mio preferito resta il riconoscimento ottenuto nel 2009 da Javier Morales e colleghi, dell'Universidad Nacional Autónoma de México, "per aver sintetizzato diamanti a partire dalla tequila", ma devo riconoscere che è in ottima compagnia. Significativo il risultato di Callum Ormonde e colleghi "per aver inventato una procedura chimica per far tornare crudo un uovo sodo" (2015), ma sono notevoli anche premi come quello conferito a Yukio Hirose "per aver studiato la composizione chimica di una statua di bronzo, nella città di Kanazawa, che viene ignorata dai piccioni", o quello tutto nostrano dato a Donatella Marazziti, Alessandra Rossi e Giovanni B. Cassano "per aver mostrato che, da un punto di vista biochimico, l'amore romantico è indistinguibile da una patologia ossessivo-compulsiva grave".

Nel 2002, invece, il premio è andato allo statunitense Theodore W. Gray, per aver collezionato campioni di elementi appartenenti alla tavola periodica e averli assemblati insieme in una autentica tavola periodica – cioè, un tavolo fatto a tavola periodica, con quattro gambe.

Theodore W. Gray non è esattamente un fessacchiotto qualunque. Insieme a Stephen Wolfram, è l'autore e lo sviluppatore principale del software Mathematica ed è una delle persone più sinceramente interessate allo sviluppo tecnologico che io conosca. Perché mettersi a fabbricare un tavolo a forma di tavola periodica, con gli elementi dentro? (Intendo, davvero con gli elementi dentro: sotto lo sportellino Tungsteno trovate un pezzetto di tungsteno, nella sezione Oro c'è davvero dell'oro sotto varie forme, e simpatiche boccette a chiusura ermetica contengono idrogeno, ossigeno e cloro sotto forma gassosa. Ignoro cosa ci sia sotto lo sportello Uranio, ma spero per Gray e per i suoi collaboratori che sia uno di quelli rimasti vuoti.)

Gray sostiene che la cosa brutta della tecnologia è che ha perso il contatto con ciò che possiamo capire. Negli anni Venti, un bambino poteva da solo, in casa, fare un dolce o un piccolo vagone di legno altrettanto bello e funzionale di quelli che poteva comprare. Questo, secondo Gray, aiutava i bambini a sviluppare il senso del fatto che un giorno avrebbero preso il loro posto nel mondo. Ma oggi come oggi gli oggetti di uso comune hanno oltrepassato il confine di quello che possiamo capire da bambini. Guardare dentro un televisore, o un computer, ha un che di mistico, proprio a causa della sua incomprensibilità. Come fare, allora, per ricreare questo contatto tra ciò che posso capire e ciò che posso usare?

In che modo un bambino può provare, giocando, a misurare la distanza che c'è tra quello che può fare e quello che si trova intorno?

Secondo Gray, uno dei modi è andare nella direzione opposta – ottenere e riconoscere gli elementi a partire dagli oggetti di tutti i giorni. L'idrogeno che trovate nella sua tavola periodica è idrogeno fatto in casa (bastano una pila, due graffette, un po' d'acqua e un po' di sale), mentre nel cassettino "litio" trovate una pila, delle pastiglie per la depressione, dei minerali e del grasso industriale (che contiene litio, ignoro il perché: presumo per far evaporare eventuale acqua non richiesta, ma la mia è solo un'ipotesi).

In pratica, fabbricando una tavola periodica reale contenente oggetti reali, Gray sottolinea che cosa è realmente la tavola periodica: un oggetto concettuale, una costruzione astratta del nostro pensiero che contiene a sua volta rappresentazioni astratte – gli atomi. Questa costruzione, una volta che si sia imparato a usarla, contiene un gran numero di informazioni, ma è una costruzione astratta, un frutto dell'ingegno umano. Anche se a me, quando l'ho vista per la prima volta, al liceo, una cosa così bella, precisa e pulita dava l'impressione di esserci sempre stata, la realtà è ben diversa. Dobbiamo questa costruzione agli uomini: principalmente a due, anche se in genere ce ne ricordiamo uno solo.

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UN RAGIONAMENTO PER INDUZIONE



Due osservazioni furono cruciali per Lavoisier. La prima era che il diamante e il carbonio, così diversi, sembravano condividere lo stesso elemento naturale di partenza. La seconda era che il peso dell'insieme vaso + combustibile, pur passando da solido a gas, non cambiava.

A partire da questa osservazione, da questo fenomeno noto e accertato, Lavoisier formulò la regola base per affrontare l'ignoto: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.

In pratica, quello che Lavoisier capì era che la chimica era una questione di organizzazione e riorganizzazione; che i corpi elementari, gli atomi, non si creavano né si annichilivano, ma semplicemente cambiavano le relazioni tra loro. Gli atomi si organizzavano in altri modi nello spazio, ma la loro natura non mutava; semplicemente, così come le lettere dell'alfabeto sono in grado di dare parole di significato diverso se combinate in modo differente, allo stesso modo gli atomi combinati e organizzati in modo diverso danno luogo a corpi differenti tra loro.

Questa totale accettazione della realtà è il punto di partenza di Lavoisier come scienziato, esattamente come degli altri pionieri della chimica, ma è talmente importante che il francese trova necessario spiegare che a suo parere quello è l'unico modo per affrontare il mondo della chimica: un ignoto invisibile, sfuggente, i cui elementi costitutivi stanno al di là dei sensi.

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LE PAROLE DELLA CHIMICA



Se gli atomi sono le lettere dell'alfabeto, nel linguaggio della chimica, le molecole sono le parole. A partire da un numero di atomi limitato, è infatti possibile formare una varietà sterminata di molecole. Questo dizionario, esattamente come il suo corrispondente nel linguaggio naturale, è in continua evoluzione: ogni anno, man mano che le nostre conoscenze scientifiche e tecnologiche aumentano, siamo in grado di sintetizzare molecole sempre nuove, le cui caratteristiche possono essere determinate a livello sartoriale per conferire loro le funzionalità che desideriamo.

Esattamente come le parole, le molecole possono assumere funzionalità molto diverse da quella originaria o più conosciuta: questo perché le molecole, ahimè, non sono consapevoli delle nostre volontà e dei nostri desideri, ma sono costrette a soggiacere alle antipatiche e pignole leggi della fisica.

L'esempio più noto, a livello sintetico, è quello dell'aspirina. Nata come analgesico per acetilazione di un composto naturale (l'acido salicilico), questa molecola può essere usata anche come antipiretico (per abbassare la febbre), antinfiammatorio, fluidificante del flusso sanguigno e, se proprio uno vuole, come veleno – un po' come tutte le molecole, basta assumerne una quantità esagerata per avere sgradevoli effetti collaterali, come vomito, diarrea, vertigini, allucinazioni, morte, e mi fermerei qui. Per questo è necessario capire da dove vengono le caratteristiche chimiche e fisiche di una molecola, e a che livello di dettaglio bisogna scendere per sapere quale sarà il suo comportamento in una data situazione.




LE STRUTTURE CHIMICHE:
CARICATURE DELLA REALTΐ



Uno dei libri più curiosi di Jorge Luis Borges è senza dubbio Cronache di Bustos Domecq , una distopica antologia di articoli di giornale scritta a quattro mani con Adolfo Bioy Casares nella quale i due scrittori argentini si immaginano un critico d'arte che riporta le cronache di mostre, presentazioni e vernissage. In uno di questi articoli si parla del poeta Urbas, che a un concorso di poesia avente per tema "La rosa" si presentò con in mano una vera rosa. "Le parole, figlie degli uomini, non poterono competere con la rosa, figlia di Dio", scrivono Borges e Casares, e Urbas vinse il premio.


Lo scopo della chimica è mettere d'accordo le quantità macroscopiche (la pressione, la temperatura, la durezza, il colore) che possiamo controllare e misurare con le caratteristiche microscopiche, la forma delle molecole, gli atomi che contengono e le relazioni esistenti tra loro. Per fare questo, è necessario fare collegamenti con oggetti che siano facili da maneggiare per il nostro pensiero. Questi oggetti, come abbiamo detto, sono le molecole.

Esattamente come nel racconto di Borges e Bioy Casares, dove la parola "rosa" non può competere con la rosa al naturale, anche nel mondo dei chimici la parola è un simbolo, e non ha tutte le proprietà della molecola; non basta dire "alcol etilico" per ubriacarsi, esattamente come non basta – fortunatamente – dire "Falqui" per avere gli effetti tipici del confetto. Anche le strutture chimiche, i simboli astratti che usa un chimico per indicare le molecole vere e proprie, non hanno tutte le proprietà che la molecola vera possiede, ma sono solo approssimazioni, caricature sempre più raffinate, in certi casi fotografie, che contengono sempre più informazioni riguardo alla molecola in questione, senza mai – in nessun caso – poter essere descrizioni complete delle sue potenzialità.

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IL LIVELLO DI DESCRIZIONE



Abbiamo, a questo punto, una descrizione della molecola piuttosto versatile e abbastanza dettagliata da permetterci di ragionare. Ogni descrizione ci permetterà un diverso livello di ragionamento.

Vogliamo sapere la massa della molecola? Basta la formula bruta.

Vogliamo sapere come una molecola si scioglie in acqua o quali aggregati forma? Allora occorre sapere sia la sua forma sia la sua struttura elettronica. Sapere quindi sia come sono disposti gli atomi, sia come sono distribuite le cariche su di essi.

Vogliamo, infine, conoscerne le proprietà ottiche? Per questo sarà necessario conoscerne la struttura elettronica in modo dettagliato.

Vogliamo sapere come reagisce? Allora sarà necessario andare ancora più nel dettaglio, e unire l'elettrodinamica alla meccanica quantistica; non ci sarà alcun bisogno di contraddire nessuna delle due, solo di usarle insieme.

Il che porta a un'ulteriore, necessaria osservazione.


Per sapere cosa combina un sistema chimico, l'abbiamo detto e lo ribadiamo, è sufficiente descriverlo in termini di cariche elettriche. Ovviamente, per fare questo dovremmo essere in grado di risolvere il nostro sistema in toto – considerare tutti i protoni e tutti gli elettroni del pezzetto di universo di cui voglio conoscere il destino, e questo può essere un problema.

Per descrivere perfettamente la dinamica di un sistema chimico, sarebbe necessario descrivere la dinamica di un sistema con decine di centinaia di miliardi di elettroni e protoni; il che è abbastanza problematico, visto e considerato che quando un problema fisico riguarda più di due corpi non siamo in grado di risolverlo analiticamente.

Per questo il chimico usa gradi di descrizione a livello di approssimazione crescente; perché molto spesso, per risolvere un determinato problema, basta fermarsi a un livello di descrizione che sia adeguato, senza essere esageratamente dettagliato. Quello che è importante ricordarsi, in questo continuo saliscendi tra livelli di descrizione, è che esiste una gerarchia tra le discipline che usiamo, e che tale gerarchia deve essere considerata con rispetto.

Al livello più alto della gerarchia, in tutte le scienze, c'è la più astratta delle nostre conoscenze, la matematica – il che significa che se la nostra teoria non può essere inserita coerentemente nella matematica che conosciamo, c'è qualcosa che non va. Se la nostra teoria, per esempio, funziona a patto di assumere che cinque sia maggiore di otto, è evidente che abbiamo un problema.

Al livello immediatamente inferiore c'è la fisica, intesa come insieme di leggi che regolano le interazioni fra i mattoncini di universo che scegliamo come enti elementari, e che è un insieme mirabilmente coerente di regole e relazioni che vengono soddisfatte tutte contemporaneamente quando descriviamo un fenomeno in maniera corretta.

Per questo, quando ci sembra di trovare delle regole dall'osservazione della natura, è necessario verificare che siano coerenti con quello che già sappiamo; perché a volte, e più facilmente di quanto sembri, l'essere umano scambia un'oscillazione per una tendenza, o un pezzo molto circoscritto di curva per una retta.

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I chimici, nella loro visione della natura, usano un criterio molto simile: immaginano ogni possibile processo, ogni possibile disposizione delle molecole, ivi incluso lo smontarle e il formarne di nuove, e si chiedono quale di questi processi sia il più conveniente. La moneta per stabilire entrambi questi aspetti, però, non è né la lira, né l'euro, ma una valuta un pochettino più globale, accettata in ogni angolo dell'universo, che si chiama energia libera del processo.


Farò quindi, adesso, una cosa estremamente scorretta, caro lettore: ti spadellerò lì, per prima cosa, la formula dell'energia libera, senza che tu abbia la minima possibilità di capire che cosa significhi.


ΔG = ΔU + pΔV – TΔS



Carina, vero?

La formula ti dice che l'energia libera del tuo sistema, per gli amici ΔG, è data da due ingredienti. Il primo, l'entalpia, a sua volta è la somma di due termini: tutte le energie delle molecole (e le energie che il contenitore del sistema esercita sulle molecole), detta energia interna U, a cui va aggiunta la pressione intorno al sistema moltiplicata per la differenza di volume causata dal processo che sta avvenendo all'interno del sistema. Il secondo (l'ultimo nella formula scritta sopra), è la temperatura moltiplicata per l'entropia del tuo sistema. Probabilmente questa formula ti è stata spiattellata lì quando facevi le scuole superiori, senza fare alcun riferimento alle molecole e agli atomi da un punto di vista meccanico. Ti è stato detto che l'entropia ha a che fare con il disordine del sistema (senza preoccuparsi di dirti come definire questo disordine) e nella speranza che tu sapessi da solo che cos'è l'energia; quanto alla temperatura, c'è estrema fiducia nel fatto che tutti sappiano cos'è. Fiducia, solitamente, mal riposta.

Così com'è, questa formula è utile come una guida turistica scritta in cirillico: hai una vaga idea di cosa si parli, ma non è utilizzabile.

Nel resto del capitolo cercheremo di capire che cosa siano l'energia, l'entropia e la temperatura, e come le possiamo mettere in relazione con le molecole, e capiremo da dove viene fuori quella strana equazione.

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QUESTIONE DI PUNTI DI VISTA



Per ricapitolare, abbiamo visto che per capire cosa fa una porzione di universo sulla quale ci stiamo concentrando dobbiamo usare criteri diversi, dati dalla nostra incapacità di fare lo stesso calcolo nel caso in cui il bicchiere di universo che stiamo guardando contenga una molecola, un miliardo di molecole oppure tutte le molecole esistenti nell'universo stesso — nessuna esclusa.

Per sapere cosa cerca di fare una molecola, bisogna adottare il punto di vista della molecola: essa cercherà lo stato di minima energia.

Per sapere che cosa farà il sistema nella sua interezza è necessario adottare il punto di vista del sistema: il sistema andrà verso la minima energia libera. Se qualche molecola, per questo motivo, deve rassegnarsi a stare in uno stato di energia più alto di quello minimo pensabile, questo è inevitabile: il sistema è democratico ma decide in modo maggioritario, e lo stato che è opportuno per la maggior parte delle molecole è lo stato finale, punto.

Per sapere cosa farà l'universo, se proprio vi interessa, sappiate che la sua entropia deve aumentare, e questo è l'unico criterio utilizzabile. Ma, se davvero siete interessati all'universo nella sua incommensurabile interezza, la chimica non è la disciplina che fa per voi. Al chimico, di solito, interessa ciò su cui ha il potere di fare qualcosa per ottenere dei cambiamenti.

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Se non avete capito molto, o quasi nulla, della spiegazione degli ultimi paragrafi, me ne scuso, ma fare di meglio sarebbe stato molto difficile. La meccanica quantistica è una delle discipline più perverse per l'intuito umano che la ragione abbia mai costruito, e conosco fior di chimici che non solo non la capiscono, ma se ne fanno vanto. Richard Feynman era ancora più categorico:

Posso affermare tranquillamente che nessuno capisce la meccanica quantistica.


Il fatto è che, ragionando in termini classici, la meccanica quantistica non si può spiegare. Si può solo accettarla, e questo, lungi dall'essere un sintomo di poca intelligenza, è segno di assoluta maturità. Sempre per citare Feynman, nell'introdurre le sue lezioni di meccanica quantistica,

Io vi posso spiegare come si comporta la natura. Se semplicemente ammettete che si comporta così, lo troverete delizioso. Non continuate a chiedervi "com'è possibile" perché [...] entrereste in un vicolo cieco da cui nessuno è mai riuscito a fuggire. Nessuno sa perché si comporta così.


Accettare la realtà è il primo punto di partenza da cui ogni persona che faccia scienza dovrebbe partire. Nel caso del comportamento del mondo subatomico, degli elettroni e degli atomi, la cosa è stata particolarmente faticosa, e alla fine è sfociata in una teoria ricca, coerente e in grado di predire una quantità enorme di fenomeni. Nessuno pensa che sia stata una "buona idea" mettere su una teoria così complicata, difficile da capire, e dipendente da richieste a metà tra il folle e il dittatoriale. Θ semplicemente la teoria migliore che siamo riusciti a trovare fino a oggi.

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E PLURIBUS UNUM



                                        Gli esperimenti sono l'unico mezzo che
                                        abbiamo per conoscere la realtà.
                                        Il resto è poesia, o immaginazione.

                                                                     M. PLANCK



Che cosa hanno in comune un lampadario, il forno, il condizionatore, la lavatrice, i computer e le automobili? Sembrerebbe una domanda facile. L'energia elettrica. In realtà, non è la stessa risposta che avevo in mente io. Per rendervi la vita un po' più complicata, ma facilitarvi la risposta, aggiungo un ultimo oggetto – la bicicletta.

Un oggetto che non necessita di elettricità, a meno che non consideriate i fari.

No, la risposta corretta è un'altra. Per funzionare, tutti questi oggetti hanno bisogno di polimeri di sintesi.

Gli oggetti elettrici o elettronici hanno bisogno di corrente elettrica, ma per arrivare nelle nostre case, e dalle nostre case nei nostri oggetti, la corrente deve essere trasportata e riversata senza venire dispersa in giro. Θ necessario un materiale isolante, lavorabile e duraturo nel tempo. Ovvero, la plastica.

Al tempo stesso, un'automobile e una bicicletta hanno bisogno di ruote che siano in grado di scambiare efficacemente energia con il suolo, che si adattino alla morfologia e alle asperità del terreno, che mordano l'asfalto, l'acciaio e i sassi con uguale prestanza; se si usano ruote rigide, si disperde un'enorme quantità di energia in vibrazioni e scossoni e si ha un controllo infinitamente meno preciso del mezzo, a meno che non si viaggi su di una strada lisciata e preparata apposta — come una ferrovia. La possibilità di viaggiare su qualsiasi tipo di strada a velocità sostenuta non esisterebbe senza la gomma.

Entrambe queste classi di materiali, la plastica e la gomma, sono interessanti; per me, particolarmente, la gomma è uno dei materiali più affascinanti che esistano. Molto più dei noiosi cristalli, sempre lì uguali a se stessi, i polimeri sono un perfetto esempio di come una struttura molecolare particolare possa conferire proprietà impensabili per gli atomi o le molecole di cui abbiamo parlato finora.

Per capirlo meglio, parleremo appunto di gomma, che è un materiale piuttosto versatile e curioso: ha proprietà del liquido e insieme comportamenti da solido, come l'elasticità — un'elasticità particolare, scattante, visibile e facile da utilizzare, che è la sua principale e irrefrenabile capacità.




TIRATO COME UN GOMMINO:
LE ORIGINI DELL'ELASTICITΐ DELLA GOMMA



Prima di tutto, diciamo subito che le proprietà meccaniche della gomma non sono dovute agli atomi che la costituiscono. La gomma naturale infatti è fatta di nient'altro che carbonio e idrogeno; le sue proprietà discendono direttamente dalla sua struttura molecolare. La gomma, come la plastica, è un polimero. Un polimero (dal greco poly-meros, "fatto da molte parti") è una molecola fatta dall'unione di più unità successive; sostanzialmente, è una specie di treno con molecole al posto dei vagoni. Esattamente come il treno, i vagoni possono essere tutti uguali fra loro oppure di tipo diverso. Nella gomma naturale, il lattice elastico prodotto da varie specie vegetali come l'albero dell' Hevea Brasiliensis e noto come caucciù (da cahuchu, "lacrime dell'albero" nella lingua dei nativi sudamericani), il vagone, pardon, il monomero, è l'isoprene:

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