Autore Stefano Mancuso
Titolo La pianta del mondo
EdizioneLaterza, Bari-Roma, 2020, i Robinson Letture , pag. 192, ill., cop.fle.sov., dim. 15,4x22,5x1,8 cm , Isbn 978-88-581-4068-0
LettoreDavide Allodi, 2021
Classe narrativa italiana , botanica , natura , ecologia , scienze naturali












 

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Indice


 11         PROLOGO

 17     I - LA PIANTA DELLA LIBERTÀ

 45    II - LA PIANTA DELLA CITTÀ

 73   III - LA PIANTA DEL SOTTOSUOLO

 89    IV - LA PIANTA DELLA MUSICA

103     V - LA PIANTA DEL TEMPO

127    VI - LA PIANTA DELLA CONOSCENZA

159   VII - LA PIANTA DEL CRIMINE

177  VIII - LA PIANTA DELLA LUNA

185         NOTE


 

 

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Pagina 14

___ Ficus macrophylla. Questo albero gigantesco, scenografico, apparentemente inattaccabile, necessita per la sua riproduzione di un singolo insetto, il Pleistodontes froggatti, in assenza del quale i fichi, non fecondati, cadono immaturi. Come la libertà, è maestoso e solido, ma difficile da riprodurre.




I - LA PIANTA DELLA LIBERTÀ


Dacché ho memoria, ho sempre avuto un'attrazione irresistibile per la carta. A tre anni mi sono innamorato della maestra di asilo e subito dopo della carta. E questa seconda passione persiste inalterata e totale dall'infanzia, accompagnandomi da ben prima che iniziassi a interessarmi di piante e affini. Uno dei miei primi ricordi di emancipazione riguarda proprio la carta. Anzi, ad essere più precisi, i giornalini. Al tempo credevo che questi provenissero direttamente dalle mani generose dei miei genitori, o di altri affini, i quali a intervalli più o meno regolari e per motivi quasi sempre legati a ricorrenze o a particolari risultati raggiunti elargivano sulla base della loro sola volontà quelle fantastiche storie disegnate. Certo, ero a conoscenza del fatto che i fumetti arrivavano da quei luoghi di delizie chiamati edicole, degli spazi sacri cui erano ammessi solo gli adulti e perciò per me inaccessibili nella stessa maniera che se si fossero trovate sul monte Olimpo. Poi un giorno - avrò avuto sette anni - durante una vacanza a Roma mi si parò davanti del tutto inaspettata la prima bancarella di fumetti usati della mia vita.

Bambini della mia stessa età, con e senza genitori, adulti, uomini e donne, tutti erano ammessi a godere delle meraviglie della stampa, senza discriminazioni di alcun tipo. Neanche di reddito. Le cento lire richieste per l'acquisto di un giornalino (400 lire per 5) erano perfettamente nelle mie possibilità finanziarie. Anzi, avevo sempre con me una banconota da mille lire affidatami da mio padre "per ogni evenienza". Non avevo mai capito come si presentassero le evenienze fino a quel momento. Investii le mille lire in dodici numeri (consecutivi) di «Comandante Mark». Fu un momento magico.

Da allora, prima con i giornalini e poi con i libri, le bancarelle dell'usato sono state una compagnia quotidiana. Alcune a Firenze le ho seguite in cambi di indirizzo e di proprietà attraverso generazioni di gestori e, sebbene nessuna abbia mai scosso il mio cuore come quella prima bancarella romana, tanti altri libri scoperti sulle bancarelle di mezzo mondo sono indelebilmente impressi nella mia memoria. Come quando nel Marché du livre ancien et d'occasion George Brassens a Parigi misi le mani su un librettino che recava in frontespizio il magnifico titolo: Essai historique et patriotique sur les arbres de la liberté.

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Pagina 42

___ A differenza delle città ideali rappresentate nei quadri rinascimentali, completamente edificate e senza la benché minima presenza di un singolo filo d'erba, le città del futuro dovranno essere completamente ricoperte dalle piante.




II - LA PIANTA DELLA CITTÀ


La storia degli alberi della libertà che un tempo punteggiavano il panorama di molte città, grandi e piccole, mi torna in mente ogni volta che incappo in uno dei tre magnifici dipinti rinascimentali conosciuti come La città ideale nei quali, al contrario, di piante non si vede neanche l'ombra. Sono conservati presso la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, presso il Walters Art Museum di Baltimora e presso la Gemäldegalerie di Berlino. Si tratta di tre quadri famosissimi, tutti di autore ignoto ma di provenienza indubitabilmente italiana, e rappresentano l'ideale della città perfetta. Se li osservate con attenzione, vi accorgerete che in nessuno dei tre dipinti c'è traccia di vegetazione, se si escludono poche sparute piante utilizzate come elementi di decoro nel dipinto di Urbino. Prendiamo proprio quest'ultimo quadro ad esempio. Attribuito da molti a Leon Battista Alberti - padre dell'architettura rinascimentale e autore del De re aedificatoria, il trattato architettonico fondamentale della cultura umanistica - il quadro rappresenta una piazza vista in prospettiva centrale nel cui mezzo è situata una magnifica chiesa.

La piazza, molto ampia, ha una lastricatura geometrica che la trasforma in una enorme scacchiera in cui gli edifici, come pezzi del gioco, sono posti a distanze regolari. La chiesa circolare, figura perfetta e conclusa, i due pozzi simmetrici ottagonali, i rapporti fra le dimensioni degli edifici: tutto in questa città sembra essere pura manifestazione del pensiero umano. Ora, si potrebbe obiettare che trattandosi soltanto di dipinti e non di città reali siano soltanto delle rappresentazioni. È vero. Ma, anche se non realizzate, sono, comunque, il manifesto di come immaginiamo debba essere una città.

Allora chiediamoci: cosa ha più influenza sulla costruzione delle nostre città? Ciò che crediamo debba essere una città o ciò a cui deve servire?

[...]


Per capire la fisiologia di una città è necessario tenere conto dell'intero ecosistema che la caratterizza. Non è un caso che il più significativo e rispettato approccio alla comprensione di cosa sia e come funzioni una città sia dovuto all'opera di un botanico: lo scozzese Patrick Geddes. Professore di botanica all'University College di Dundee dal 1888 al 1920, Geddes fu una figura eclettica e singolare in grado di rivoluzionare la nostra visione della città e la sua pianificazione. Non una faccenda di poco conto per un botanico. Durante gli anni della sua attività, fu da una parte il pioniere delle prime indagini sullo studio sistematico della flora britannica e dall'altra il teorico della necessità di analizzare le città utilizzando gli strumenti offerti dall'ecologia e dalla sociologia, alla luce della teoria dell'evoluzione che aveva appreso da Charles Darwin.

Al centro della teoria della pianificazione urbanistica di Geddes c'è, infatti, la potente idea che ogni città sia da considerarsi, a tutti gli effetti, un essere vivente frutto della sua storia, dell'interazione con l'ambiente, degli edifici e delle reti sociali, economiche, ecologiche, che la compongono. Ogni funzione della città, per quanto particolare, può essere assimilata alle funzioni vitali interne di un organismo vivente. Così, ad esempio, le strade o le linee ferroviarie sono approssimabili alle arterie della città, mentre le linee di comunicazione rappresentano i nervi attraverso i quali gli impulsi e le idee vengono spostati all'interno del corpo urbano. Addirittura, per Geddes, anche l'innovazione tecnologica è una produzione della città stessa: in termini più attuali, diremmo che è una proprietà emergente della città, piuttosto che l'opera dell'uomo. Ferrovie, linee di comunicazioni, trasporti, industrie, benché materialmente prodotti dalle attività umane, non sono altro che manifestazioni del modello organico della città.

Gli urbanisti - i pianificatori della città - si preoccupano di cose come il disegno delle strade o della rete dei trasporti, delle proporzioni di territorio da destinare alle attività residenziali, industriali o ricreative, individuando quei modelli che permettano al più largo numero di persone di vivere insieme e quanto più confortevolmente possibile in uno spazio limitato. Il modo in cui questi problemi sono risolti prevede la creazione di un modello che è imposto alla città dal di fuori.

Per Patrick Geddes, questa pianificazione a priori della città non può che essere fallimentare. Grazie alla sua formazione e alle sue conoscenze biologiche, sa che un ordine organico non può essere creato dall'uomo. Così come nessuno scienziato può creare la vita, nessun urbanista può creare una città. Ridurre la complessità delle reti cittadine a un disegno, per forza di cose limitato, prodotto dalla mente umana significa, per Geddes, uccidere la città. Gran parte della sua vita, infatti, deriva dalla diversità e dalla molteplicità dei luoghi che gli uomini riconoscono soltanto come caos. Le diverse attività che noi percepiamo come confusione - gli incontri casuali di persone, le simultanee operazioni di aziende che non hanno alcuna relazione fra di loro, le migliaia di veicoli che si muovono in ogni direzione, le storie e le opportunità che si incrociano e si generano in continuazione all'interno di una città - non sono altro che parte di un funzionamento organico troppo complicato perché noi possiamo intenderlo nella sua interezza.

Geddes ha, inoltre, perfettamente chiara l'importanza che per una città hanno tutti gli esseri viventi, non umani, che la compongono. Durante i suoi studi sull'evoluzione, è affascinato da quei fenomeni di simbiosi fra specie diverse che portano addirittura alla nascita di specie nuove e con caratteristiche differenti. Studia le relazioni fra piante e animali e ne ricava la forte convinzione che la forza principale che modella la vita è la cooperazione fra gli esseri viventi. È il mutuo appoggio di Kropotkin che modella, secondo Geddes, le relazioni fra gli esseri viventi, con forza molto maggiore di quanto non faccia la competizione. Le specie, soprattutto quelle vegetali, riescono a trovare una convenienza reciproca attraverso il lento e continuo aggiustarsi delle loro relazioni, guidato, generazione dopo generazione, dall'evoluzione. È grazie a un processo di co-evoluzione simile, in cui uomini, ambiente, edifici, reti, piante e animali si trasformano, che le città possono svilupparsi e prosperare. Conseguentemente, qualunque tentativo di progettazione non può che essere interattivo e basato su piccoli aggiustamenti fra i luoghi e gli abitanti, non solo umani, della città. Nessuna progettazione che abbia come prospettiva l'idea di modellare la città avrà mai alcun successo perché l'evoluzione è aperta a soluzioni così diverse che non possono essere previste. Geddes ritiene che così come negli esseri viventi fenomeni di aggregazione che uniscono parti o organismi semplici sono in grado di formare configurazioni complesse, anche in ambito urbano le aggregazioni fra moduli semplici e casuali portano alla formazione di tessuti urbani e configurazioni complesse.

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Pagina 77

Che gli alberi creino connessioni sotterranee e che queste siano probabilmente in grado di mantenere in vita ceppi per decenni è conoscenza acquisita, sebbene sempre considerata una semplice curiosità botanica: una stranezza che si riscontra fra le piante, senza alcun valore a livello più generale. Ma non è così: la storia che questi ceppi non morti e le comunicazioni underground fra alberi lontani ci raccontano è qualcosa di talmente nuovo e affascinante da cambiare la nostra stessa concezione di cosa sia un albero.

Seppure con tutti i distinguo del caso, gli alberi sono sempre stati considerati individui isolati. Certo non individui nel senso animale di 'non divisibili', ma indiscutibilmente organismi viventi singoli con bisogni e comportamenti distinti da quelli dei propri simili. In questo, non diversi dagli animali. Ma è vero? Quello che centinaia di ricerche stanno dimostrando negli ultimi vent'anni sembra mostrarci una realtà completamente diversa. Non alberi singoli quanto piuttosto enormi comunità connesse, che attraverso gli apparati radicali sono in grado di scambiarsi nutrienti, acqua e informazioni. Comunità estese che talvolta possono addirittura includere piante di specie diverse e che basano le loro possibilità di sopravvivenza più sulla cooperazione che sulla competizione. Una vera rivoluzione le cui conseguenze non sono facili da prevedere.

[...]

Una volta chiarito il meccanismo, rimane ancora aperta la domanda più importante: perché? Perché degli alberi sani dovrebbero farsi carico per decenni di un ceppo? Il fatto sembra del tutto incomprensibile. Conviviamo, infatti, con l'idea che la competizione e la lotta per la sopravvivenza siano il motore dell'evoluzione. Per oltre un secolo, a partire dal lavoro rivoluzionario di Charles Darwin, l'idea prevalente che ha forgiato la nostra idea del funzionamento delle comunità dei viventi è stata che il motore dell'evoluzione fosse la competizione, la lotta per la sopravvivenza, la vittoria del più forte. Ciò, nonostante fin dall'inizio si fossero levate voci altrettanto autorevoli contro coloro che, autodichiarandosi eredi e custodi del pensiero darwiniano, riuscirono a imporre l'idea della competizione come forza dominante e regolatrice dei rapporti fra gli organismi viventi. Penso a quella dell'indimenticato principe Kropotkin, sostenitore della necessità di individuare nella cooperazione o, come poeticamente la chiamava, nel 'mutuo appoggio', la chiave di volta su cui si regge l'intera storia dell'evoluzione.

Sebbene, oggi, il numero delle prove a sostegno del ruolo fondamentale della cooperazione nell'evoluzione delle specie viventi si sia enormemente arricchito, l'idea continua a essere percepita come del tutto marginale rispetto alla solidità della controparte competitiva. Perché? Sono convinto che la causa principale dello scarso interesse per lo studio della cooperazione come forza evolutiva sia legata al fatto che la maggior parte - quasi la totalità - delle evidenze a sostegno di questa teoria proviene dal mondo delle piante che, come tali, non sono considerate rilevanti. L'antropocentrismo o, a voler essere magnanimi, l'animalocentrismo che affligge il mondo della scienza è un problema serio. La nostra visione del mondo come un luogo in cui i conflitti e le privazioni sono forze basilari che dominano l'evoluzione sono un classico esempio di questa distorsione animale. Modelli matematici molto conosciuti come, ad esempio, quello della competizione interspecifica, diventato poi noto come il modello predatore-preda, sviluppato da Vito Volterra e Alfred Lotka nel 1926, sebbene oggi siano intesi come validi universalmente, sono stati eleborati per descrivere una relazione di tipo animale.

Poco dopo la fine della prima guerra mondiale, Umberto D'Ancona, uno dei più importanti zoologi italiani del Novecento, studiando le popolazioni di pesci nel mare Adriatico, aveva notato che le percentuali delle diverse specie pescate mostravano un andamento tipicamente fluttuante. Cercando di capirne di più, ne parlò con Vito Volterra, grande matematico che in seguito sarebbe diventato anche suo suocero, e quest'ultimo sviluppò appunto il modello matematico che spiegava il fenomeno. Al di là della bellezza e del valore indiscutibile del modello predatore-preda, resta il fatto che questo modello, che ha così profondamente influito sullo studio della dinamica delle popolazioni naturali e più in generale, direi, sulla nostra idea di relazioni fra specie, è un modello ideato, sviluppato e sperimentato per rispondere ad esigenze tipicamente animali. Che ha a che fare il modello predatore-preda con il mondo delle piante? Non è l'unico caso, molti altri modelli che hanno avuto un grande peso sulla nostra consapevolezza del funzionamento delle comunità, meno noti al grande pubblico, ma molto influenti fra gli addetti ai lavori, hanno valore quasi unicamente in ambito animale e non possono assolutamente essere considerati di valore generale.

Vorrei fosse chiara l'assurdità della faccenda: scoperte ottenute nel mondo vegetale non vengono ritenute meritevoli di alcuna attenzione fin quando non sono replicate in ambito animale; al contrario, modelli ovviamente validi nel solo mondo animale sono, ipso facto, considerati di natura universale. Pensate all'irrazionalità di questa posizione: le scoperte effettuate nell'85% degli esseri viventi (le piante) richiedono, per essere ritenute universalmente valide, di essere confermate nello 0,3% del mondo animale! Non il contrario. E così viviamo con l'idea ridicola e pericolosa che quel che vale per lo 0,3% nobile della vita (gli animali) sia ciò che caratterizza la vita intera e che è meritevole di essere conosciuto, il resto è del tutto marginale.

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Pagina 124

___ Immagino il Paradiso come una foresta tropicale... in questo caso l'albero della conoscenza sarebbe senz'altro un banano.




VI - LA PIANTA DELLA CONOSCENZA


Due scrofe corpulente seguono una vettura al piccolo trotto, mentre una formazione di una mezza dozzina di maiali perbene ha appena svoltato l'angolo. Un suino solitario torna tranquillamente a casa. Ha un orecchio solo, l'altro l'ha abbandonato ai cani randagi in una delle sue escursioni in città, ma non ne sente la mancanza. Conduce un'esistenza errante da gentiluomo, che in qualche modo somiglia a quella dei frequentatori dei club di casa nostra. Egli lascia il suo quartiere tutte le mattine a una certa ora e si inoltra nella città, passando la giornata in modo soddisfacente.


A scrivere questo resoconto è lo scrittore inglese Charles Dickens in visita a New York. È il 1842. Passeggiando tra le strade della città, la cosa che lo colpisce di più è che "Nessuno se ne prende cura, nessuno li nutre, li guida o li cattura. Sono abbandonati a sé stessi sin dalla più tenera età... Conoscono il proprio ambiente meglio di chiunque altro e, quando viene la sera, li si vede rientrare a dozzine, mangiando fino all'ultimo momento... I loro attributi principali sono un perfetto autocontrollo, la fiducia in sé stessi e un incrollabile sangue freddo".

Non si tratta dell'invenzione letteraria di un grande scrittore. Per quanto inverosimile o bizzarra ai nostri occhi, la scena descritta è assolutamente vera e annovera tra le sue cause... le banane. Intendo proprio il frutto, non la pianta da cui proviene, ossia il banano, ma soltanto la sua parte più esterna: la buccia di banana. La parte più umile dell'intero frutto. Lo scarto.

Non immaginate quante storie incantevoli si possono raccontare su questo umile rifiuto. Da quando me ne interesso, ne ho scoperte letteralmente decine. A cominciare dalla storia che spiega la ragione per cui 'scivolare su una buccia di banana' è diventata in tante lingue del mondo sinonimo di rovinarsi per una sciocchezza. Perché proprio la buccia di banana e non quella di qualche altro frutto? Le bucce di arancia, cocomero, melone, pesca, per citare sole le prime che mi vengono in mente, non sembrano a occhio e croce meno scivolose della buccia di banana. Eppure, dappertutto, si parla solo di bucce di banana. La banana è l'unica buccia ad avere l'onore di essere citata direttamente in un modo di dire. Le bucce, infatti, sono utilizzate in molte locuzioni: 'lasciarci la buccia', 'salvare la buccia', 'rivedere le bucce', 'essere di buccia dura' sono solo alcuni modi di dire. Ma l'unica buccia ad avere un modo di dire tutto suo è quella di banana.

[...]


Quanto mi sbagliavo! I giorni passavano uno dopo l'altro, ma di risultati neanche l'ombra. Dopo l'iniziale esultanza, i volti dei miei collaboratori perdevano allegria e sprint ogni giorno di più finché buttarono la spugna dichiarando che non riuscivano a produrre dati significativi. Ora lo so cosa starete pensando in molti, soprattutto voi fisici e ingegneri (vi metto insieme apposta per farvi arrabbiare): che ci vorrà mai a misurare la scivolosità di una banana? Non voglio dilungarmi sulle difficoltà, vi dico solo: provateci e poi fatemi sapere.

In poco tempo il laboratorio tornò alle sue consuete attività abbandonandomi ignominiosamente nella mia solitaria ossessione per le bucce di banana. Ero molto abbattuto. Il sorrisetto di Tom mi perseguitava. Pensai, addirittura, che i ragazzi del mio laboratorio fossero in combutta con lui per non fornirmi i dati cui agognavo. A questo ero arrivato, quando accadde un miracolo. Uno di quegli eventi portentosi che ti riconciliano con la divinità: in cerca di distrazioni dalla fissazione gialla, mi ero messo a sfogliare un giornale scientifico appena arrivato. Si parlava degli Ig Nobel di quell'anno; la cosa è sempre molto divertente, e mi stavo dilettando nel leggere le motivazioni per le diverse discipline, quando, arrivato all'Ig Nobel per la fisica, il giornale quasi mi cadde di mano: l'Ig Nobel 2014 per la fisica era stato assegnato a dei ricercatori giapponesi, gli adorati Kiyoshi Mabuchi, Kensei Tanaka, Daichi Uchijima e Rina Sakai dell'università di Kitasato, per aver misurato la quantità di attrito tra una scarpa e una buccia di banana e tra una buccia di banana e il pavimento, quando una persona calpesta una buccia di banana che si trova sul pavimento!

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Pagina 161

È una esperienza condivisa, credo, da chiunque si occupi di piante. Chi le studia condivide con la materia del proprio interesse la totale irrilevanza. La ricerca in ambito vegetale è considerata come qualcosa che attiene più al mondo delle fattorie che a quello della scienza e gli studiosi di piante sono degli eccentrici signori che non hanno di meglio da fare che occuparsi di questa marginale roba verde, invece di dedicarsi a studi assai più gravi e seri, come fanno i veri scienziati. Questa visione distorta della realtà ha come conseguenza che in tutti i campi dello scibile, dalla biologia cellulare all'anatomia, dall'ecologia alla storia dell'evoluzione, le scoperte ottenute grazie alle piante hanno sempre avuto una rilevanza prossima allo zero se confrontate con quelle ottenute nel mondo animale. Ecco perché - e ne ho già scritto - molte fondamentali scoperte riguardanti, ad esempio, la biologia delle cellule, dopo essere state completamente ignorate nella loro sperimentazione in ambito vegetale, hanno portato al Nobel chi le ha pedissequamente replicate in qualche insignificante organismo animale. È come se ciò che vale nello 0,3% della vita avesse maggiore importanza di ciò che vale per l'85%. Non mi riuscirà mai di capirlo.


Esemplare è stata per secoli la marginalità che le piante hanno avuto come fonte di prove giudiziarie. Come è stato possibile ignorare l'importanza della loro onnipresenza? In realtà, dobbiamo ringraziare soltanto la botanica se in passato è stato possibile risolvere alcuni eclatanti casi giudiziari. Anzi, è proprio nella risoluzione del cosiddetto 'crimine del secolo', ossia il rapimento e l'uccisione del figlio primogenito del celeberrimo aviatore Charles Lindbergh, che, per la prima volta nella storia, delle fondamentali prove di carattere botanico portarono all'identificazione del colpevole e furono ammesse durante il processo. La storia è questa e va raccontata per intero.

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