Copertina
Autore Caterina Marrone
Titolo Le lingue utopiche
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2004 [1995], Scritture , pag. 338, cop.fle., dim. 150x210x25 mm , Isbn 978-88-7226-815-5
LettoreFlo Bertelli, 2005
Classe linguistica , storia letteraria , critica letteraria
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Indice

CAPITOLO PRIMO

Utopia: anatomia e breve storia d'una parola

1. Origine della parola utopia 15
2. Sviluppo semantico del termine utopia 17
3. Modificazioni semantiche nell'Ottocento e nel Novecento 21
4. Le lingue utopiche 28

CAPITOLO SECONDO

Iconismo e simbolicità

1. Lingua, pensiero, città e assetto sociale nell'utopia 33
2. L'onomastica utopica 43

CAPITOLO TERZO

Il tetrastichon utopiano

1. La lingua degli abitanti di Utopia 47
2  Genesi linguistica della quartina utopiana 49
3. Il "gioco dell'interpretazione" 51
4. L'inafferrabilità semantica della quartina 53
5. Il carattere iniziatico del tetrastichon 54
6. La decrittazione del tetrastichon 56
7. L'alfabeto utopiano 59
8. Importanza del tetrastichon 61

CAPITOLO QUARTO

Il mito della lingua originaria

1. I1 paradigma teologico-linguistico del secolo XVII 65
2. La lingua primigenia 66
3. La lingua adamica o della voglia d'iconicità 68

CAPITOLO QUINTO

Alla ricerca della lingua perduta

1. La lingua adamica e il sorgere della scienza 73
2. L'origine del linguaggio e delle lingue 74
3. La ricerca della protolingua 76
4. I Caratteri Primitivi 79

CAPITOLO SESTO

Influenza e fascino dell'Oriente

1. I resoconti sul cinese nell'Europa del secolo XVII 85
2. Prime proposte di lingua | scrittura universale 88
3. John Webb e il cinese come "lingua originaria" 90

CAPITOLO SETTIMO

Lingue d'altri mondi

1. Il lunariano di Francis Godwin 93
2. Il seleniano e la "lingua madre" di Cyrano de Bergerac 101

CAPITOLO OTTAVO

I progetti di lingue universali e la Grammatica di Port-Royal

1. Necessità della lingua universale 111
2. Cartesio e Mersenne 111
3. Comenio 113
4. Wilkins e Dalgarno 116
5. La Grammatica di Port-Royal 120
6. Leibniz 123

CAPITOLO NONO

Le lingue australi

1. L'emisfero australe 129
2. La lingua degli Ermafroditi di Gabriel de Foigny 130
3. La lingua sevarita di Denis de Vairasse d'Alais 138
4. La lingua australe di Simon Tyssot de Patot 143

CAPITOLO DECIMO

L'inganno dei sensi

1. Le strade della scienza 147
2. Anamorfosi del racconto e livelli di realtà in Fontenelle 149
3. Il formosano di Psalmanaazaar 155

CAPITOLO UNDICESIMO

I giochi con il linguaggio

1. "Antichi" e "moderni" 165
2. Swift e il linguaggio 167
3. Le lingue dei Gulliver's Travels 172

CAPITOLO DODICESIMO

La varietà delle lingue o la Babele dell'utopia

1. Caratteristiche del pensiero linguistico del secolo XVIII 185
2. Le lingue astrali 187
3. Il babilariano del Mar della Cina 189
4. Le lingue del sottosuolo 191
5. La lingua del futuro 195
6. Lingue per ogni dove 196

CAPITOLO TREDICESIMO

L'indoeuropeo utopico

1. Lingue utopiche e lingue distopiche 201
2. Declino della lingua universale 202
3. L'interlinguistica come sostituto della lingua universale 203
4. Un caso anomalo: l'utopia linguistica di Bulwer Lytton 204
5. La razza futura 205
6. La lingua vril 209
7. La lingua perfetta e l'impossibilità della letteratura 211

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Teorie linguistiche del Novecento

1. Linguaggio, pensiero, società 215
2. Il positivismo logico e il linguaggio 217
3. Pragmatismo e comportamentismo 217
4. La tesi di Whorf 220
5. L'innatismo linguistico di Chomsky 221

CAPITOLO QUINDICESIMO

Le lingue dei totalitarismi

1. Le distopie linguistiche novecentesche 225
2. Zamjátin: una rivoluzione nei pronomi personali 226
3. Huxley: lo shakespeariano e le parole sconvenienti 232
4. La Neolingua di Orwell ovvero l'arte della dimenticanza 238

CAPITOLO SEDICESIMO

Il linguaggio delle immagini

1. La distruzione dei libri e i mass media 247
2. Decontestualizzazione e ipertrofia 251

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

L'utopia linguistica on line

1. La lingua delle donne 255
2. Le lingue utopiche d'oggi 259


Appendice antologica

1.  Francis Godwin, Il lunariano 265
2.  Hector-Savinien Cyrano de Bergerac,
    Il seleniano musicale e quello gestuale 266
3.  Hector-Savinien Cyrano de Bergerac,
    La lingua madre originaria 267
4.  Gabriel de Foigny, La lingua e le scritture australi 268
5.  Denis de Vairasse d'Alais, Il sevarita 270
6.  Simon Tyssot de Patot, La linutia australe 276
7.  Bernard de Fontenelle, Relazione dall'Isola di Borneo 278
8.  George Psalmanaazaar, La lingua dei formosani 281
9.  Jonathan Swift, L'Accademia linguistica di Laputa 285
10. Pierre-Franηois Guyot Desfontaines,
    L'insegnamento del babilariano 286
11. Louis-Sébastien Mercier, La Scienza delle lingue 289
12. Nicolas Edmé Restif de la Bretonne, La lingua homoleonina 290
13. Giacomo Casanova, La lingua dei megamicri 292
14. Edward G. Bulwer Lytton, La lingua vril 296

Note 303
Bibliografia 323
Indice dei nomi 333

 

 

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Pagina 15

CAPITOLO PRIMO

Utopia: anatomia e breve storia d'una parola


1. Origine della parola utopia

Θ raro che si possa dire di una parola la sua data di nascita. Ma il termine utopia è uno tra quelli che gode di questo privilegio. La voce apparve nel novembre del 1516 quando per la prima volta uscì, a Lovanio, un volumetto in latino che in seguito avrebbe dato origine a un intero genere letterario e che si intitolava Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova Insula Utopia. Inventore della parola e naturalmente autore del librettino era il celebre umanista inglese, amico di Erasmo da Rotterdam e di Pietro Gilles, Thomas More. Egli oltre che letterato e filosofo fu uomo politico di valore, divenne cancelliere del regno d'Inghilterra ed ebbe onori e fama finché per il suo schierarsi in favore della Chiesa papista non fu decapitato per alto tradimento.

Negli anni che seguirono e man mano che l' Utopia si diffondeva, in Europa si aprì una disputa filologica sull'origine della parola utopia.

Alcuni umanisti infatti pensarono che l'etimo greco andasse ricondotto alla negazione ou- "non" e alla parola topos "luogo" e che il significato dunque del nuovo termine coniato da Thomas More equivalesse a "non-luogo". Altri invece, confortati dal fatto che nell'edizione di Basilea del 1518 appare in una sestina aggiunta al testo la parola Eutopia, leggevano dietro la parola un significato differente. Costoro sottolineavano che in greco l' ou- viene premesso solo alle forme negative dei verbi, mentre per i sostantivi si adopera di solito l' a-, l'alfa, il proclitico privativoo. Per questo essi pensavano che se l'interpretazione del termine utopia come "non-luogo" fosse stata corretta, il suo autore sarebbe incorso allora in una svista in quanto non ou-topia ma a-topia avrebbe dovuto chiamarsi l'isola immaginata. Questa critica proponeva allora una diversa analisi del termine: l' u- iniziale della parola, secondo tale linea etimologica, non avrebbe avuto origine dalla particella negativa ou- bensì si sarebbe formato dalla contrazione di eu, "bene", "giusto", "felice". In tal modo utopia sarebbe venuta ad assumere non più il significato di "luogo inesistente" ma al contrario di "regione della felicità e della perfezione".

A questo punto è necessario fare una breve digressione e precisare che quest'idea di perfezione, ricavata dal greco eu, non solo non corrisponde ai sensi che la particella ammette in greco, ma ha anche condotto a considerare l'utopia come un sistema chiuso, immobile, ormai statico nel suo raggiunto ideale. Perché infatti non è possibile andare oltre la perfezione.

In realtà la traduzione latina del tetrastichon, la quartina contenuta nelle prime edizioni dell' Utopia, unico campione di lingua utopiana, appare chiara su questo punto. La società ideale immaginata da More, secondo questi versi, non è ferma e risolta una volta per tutte; essa è invece e soltanto, tra le possibili, quella forse migliore. A conferma di ciò, difatti, l'ultimo verso della quartina utopiana, tradotto in latino, recita Libenter impartio mea, non gravatim accipio meliora, "Volentieri comunico ciò che ho fatto, senza ripugnanza accetto cose migliori".

Il senso di questa frase, com'è evidente, sembra escludere la perfezione e la chiusura che questa comporta; si intuisce invece, l'intenzione, almeno eventuale, di uno scambio verso l'esterno e l'attestazione umile di accettare miglioramenti.

Comunque se si analizza la parola utopia così come lo si è fatto storicamente, tra il significato riconducibile a "non luogo" e quello che vuol dire "regione della felicità (e della perfezione)" quale interpretazione scegliere? Probabilmente nessuna delle due o forse meglio sarebbe accettarle tutte e due poiché non si tratta in questo caso di adottare una linea etimologica piuttosto che un'altra ma di lasciar coesistere entrambe le accezioni della parola in modo che l'una rimandi all'altra e viceversa in un gioco continuo di ambiguità interpretativa. Perché è proprio questa ambiguità che, a nostro avviso, sta a fondamento di quel "gioco utopico" degli umanisti di cui parla André Prévost, uno dei maggiori conoscitori dell'opera del More, nel suo celebre commento all' Utopia moriana. Nell'edizione di Basilea, del 1518 - indispensabile alla comprensione dell' Utopia perché la più completa - si manifesta infatti, egli sostiene, quell'intenso e fervido scambio intellettuale nel quale si erano impegnati umanisti come Erasmo, Guglielmo Budeo, Pietro Gilles e lo stesso More. Tutti costoro prolungando il testo originario dell' Utopia, commentandolo, proponendone varie letture, intrecciarono la tessitura e resero testimonianza di tale "gioco utopico". Man mano che al libretto aureo venivano aggiunti altri testi, chiose e postille di correlazione, gli intellettuali umanisti, con ciò stesso, cominciarono a instaurare quella specie di gioco dell'interpretazione al quale nessun lettore dell' Utopia riesce a sottrarsi. Si stabilì deliberatamente tra questi intellettuali cinquecenteschi, nell'aggiungere note e nell'interpretarne la lettura, una sorta di tacito patto tra iniziati; sicché tra il testo e chi legge (ed eventualmente risponde scrivendo altri testi), come per sottintesa convenzione, si venne a creare una sorta d'intesa allusiva, un'ammiccante tensione interpretativa basata proprio su quell'ambiguità di fondo di cui la parola utopia - in bilico tra le due possibili valenze semantiche eu- e ou- è l'emblema. Così tra lettore e testo si ingaggiò e si ingaggia ancor oggi quell'inevitabile ludus interpretativus d'antico sapore iniziatico, giocato sul filo dell'intelligenza, di cui scrive Prévost.

Perché voler dunque trovare l'etimo "vero" della parola utopia? L'enigma, il dubbio, l'incertezza devono rimanere tali perché la sfida semantica lanciata da More non perda il suo smalto e continui a essere produttiva e feconda. Il mistero deve restare irrisolto perché stimoli di continuo l'immaginazione del lettore e perché questi possa abbandonarsi al sottile gioco intellettuale della decifrazione dei nomi di luoghi, di persone, di funzioni e così via.

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Pagina 28

4. Le lingue utopiche

La tormentata storia del vocabolo utopia che — seppur brevemente — abbiamo seguito finora, è dovuta ovviamente non solo alla sua naturale vita semiologica comune a quella di ogni altra parola che circoli nel traffico della comunicazione, ma anche, e soprattutto, alla difficoltà scientifica di designare un preciso campo d'indagine. L'oggetto cui si riferisce infatti il termine utopia possiede margini così incerti e così ampi da suscitare l'idea di poter includere quasi tutto il pensiero creativo sotto il mantello utopico e, nello stesso tempo, per eccesso di rigore, ambiti così ridotti da considerare utopica solo una limitata campionatura di opere e di riflessioni.

Se già il vocabolo utopia appare tanto ambiguo da richiedere continue specificazioni ogni volta che lo si adoperi scientificamente e da esigere una prudente e sempre vigile impostazione metodologica quando si voglia studiare qualsiasi fenomeno utopico, altrettanto arduo e disagevole è delimitare, seppure in via provvisoria, l'ambito delle ricerche quando si parla di quel territorio, dai confini intuitivamente comprensibili ma difficilmente delineabili, che ci si propone di designare con la locuzione lingue utopiche.

Nel corso di queste pagine abbiamo visto che l'aggettivo utopico, come la vastità dell'ambito semantico della parola ha mostrato nel corso del tempo, induce a considerare queste lingue come "irrealizzabili", "inesistenti", "impossibili", "fantastiche", "ideali", "immaginarie", "inventate" e quant'altro.

Il che complica non poco il dominio cui si riferisce la locuzione lingue utopiche poiché, senza timore d'illegittimità in esso sarebbe allora possibile includere non solo le lingue e le espressioni verbali create da molti utopisti ma anche una gran quantità di materiale linguistico che appartiene ad ambiti concettuali molto diversificati tra loro e certamente disomogenei. Dalle lingue filosofiche a priori del Sei-Settecento — da cui derivano i linguaggi artificiali dei moderni computer — ai linguaggi segreti delle innumerevoli sètte mistiche o laiche che si sono succedute nei secoli, dalle lingue universali o sistemi interlinguistici dell'Ottocento, alle verbigerazioni di alcuni straordinari poeti e letterati, utopisti o meno che siano, che vanno da Franηois Rabelais a Jonathan Swift, da Lewis Carroll a Howard Philips Lovecraft, da Filippo Tommaso Marinetti e i Futuristi a Luis Borges, da Fosco Maraini a Raymond Queneau a John Roland Reuel Tolkien, da James Joyce a Velimir Vladimirovic Chlebnikov a Dario Fo a Umberto Eco e a molti altri ancora fino ad arrivare a generi meno "nobili" come alle invenzioni linguistiche che a volte accade di incontrare nella letteratura per l'infanzia, nella fantascienza, nei cartoni animati e nei fumetti. E non andrebbero nemmeno escluse quelle creazioni linguistiche inconsce chiamate glossolalie o xenoglossie proprie di mistici, di spiritisti e, nel patologico, di schizofrenici, i linguaggi sacri di alcune comunità religiose, le formule magiche, e così via. Pressoché tutte le creazioni linguistiche, razionali o inconsce che siano. Cosa naturalmente inaccettabile.

Qual è dunque la discriminante che permette di distinguere, di ritagliare l'ambito delle lingue utopiche dal complesso sfondo linguistico in cui predominano fantasia, immaginazione e inventività? L'aspetto creativo, poietico della parola è presente in ciascuna delle varietà dei fenomeni elencati.

Se con certezza è possibile affermare che una lingua utopica è sempre una lingua immaginaria, su quanto una lingua immaginaria, inventata, sia anche una lingua utopica c'è invece da riflettere. Cos'è che fa dire che il lunariano di Francis Godwin è utopico mentre la lingua filosofica inventata da Wilkins — e che deve molto a Godwin — non lo è? Cosa separa la lingua universale di tipo combinatorio di Mersenne da quella utopica di Foigny, generata nello stesso modo? Perché l'idioma dei Sevarambi di Denis de Vairasse si distingue per essere utopico rispetto alle riflessioni linguistiche dello stesso Vairasse, quando lavora alla sua grammatica, se il criterio che sostiene entrambe le concezioni linguistiche é lo stesso? In che si differenzia la Neolingua di Orwell dal Basic English di Charles Kay Ogden, da cui prende ispirazione? Cosa divide l'utopico Laádan di Native Tongue di Suzette Haden Elgin dallo splendido ma non utopico elfico di Tolkien? E si potrebbe continuare indefinitamente.

Difficile e tracciare una linea di demarcazione netta e pulita: ci basti qui dire che l'utopico è solo una parte dell'immaginario e che l'estensione del termine utopico, anche per quanto riguarda l'ambito delle lingue, è così vasta e ampia da mettere in imbarazzo chi vi si accosti senza porre delle delimitazioni e dei distinguo. Proprio per la vastità e la disomogeneità del campo d'indagine da un canto e per l'ingente numero di creazioni e di progettazioni linguistiche dall'altro le pagine di questo lavoro prenderanno in esame solo quella parte del territorio dell'utopismo linguistico cui spetterebbe il nome di utopico quasi, diremmo, per diritto di nascita.

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Pagina 65

CAPITOLO QUARTO

Il mito della lingua originaria


1. Il paradigma teologico-linguistico del secolo XVII

Spesso si tende a non tenere nella dovuta considerazione il fatto che la riflessione linguistica sei- e settecentesca, come altri domini conoscitivi, è per molta parte permeata da una vasta impronta teologico-filosofica la cui valutazione è indispensabile qualora si voglia collocare il pensiero linguistico del periodo nella sua giusta dimensione.

Com'è noto i miti glottogonici che attraversano la storia della cultura occidentale fin dall'Antichità e con i quali il pensiero linguistico europeo deve fare i conti sono quelli tramandati dalla tradizione del Vecchio Testamento. Certamente la tradizione veterotestamentaria non era la sola a privilegiare temi linguistici: il mondo antico aveva conosciuto la cultura vedica, quella egizia e quella greca che avevano considerato il linguaggio, la parola, la voce, il suono, parte costituente della loro teologia. Ma il corso della nostra storia, come si sa, ha determinato il prevalere della tradizione giudaico-cristiana — nelle diverse manifestazioni che essa ha assunto col passare del tempo.

Sebbene i passi biblici in cui appaiono riferimenti al linguaggio siano scarsi e rari — Adamo che dà i nomi alle cose, la torre di Babele e poco altro — tuttavia il nucleo stesso e il fondamento della civiltà giudaico-cristiana poggia su basi che coinvolgono il tema della lingua.

Una serie di denominazioni ricorrenti come: la Sacra Scrittura, la Parola di Dio, il Verbo, il Vecchio o Nuovo Testamento, il Libro, tutte riferiti al dominio della lingua parlata e scritta, testimoniano e indicano lo specifico cardine linguistico in cui si muove la tradizione giudaico-cristiana.

Questo principio linguistico che anima la cultura teologica occidentale si articola fondamentalmente in due direzioni concettuali. La prima riteneva che il mondo avesse avuto origine antecedentemente al linguaggio, che quest'ultimo era stato formato dai nomi che il primo uomo aveva dato alle cose, e che i nomi, di cui era composta tale lingua primigenia, erano legati alle cose che designavano da un'intima connessione, rivelatrice del modo di essere stesso della realtà. Era stata la colpa dell'uomo consumata a Babele ad aver interrotto e spezzato questo rapporto intrinseco, via privilegiata di conoscenza perché perfetta rappresentazione della natura. Colpa, responsabile di avere dato il via alla molteplicità delle lingue e al loro carattere convenzionale e arbitrario. Era l'arbitrarietà e l'infondatezza del nome rispetto alle cose ad aver reso possibile la menzogna, l'illusione e l'inganno.

Nella seconda linea concettuale invece si considera la priorità del linguaggio rispetto al mondo. Θ nella parola, nel logos, che si estrinseca, infatti, l'originario atto di creazione: "In principio era il verbo...", ricorda l'intellettuale S. Giovanni nel suo Vangelo; e nella Genesi è attraverso la parola che Dio crea e delinea l'inizio dell'universo. Di più, in uno dei capisaldi della cabala ebraica medioevale, lo Zohar, risalente alla seconda metà del XIII secolo, si giunge addirittura alla pericolosa affermazione che Dio e il linguaggio siano la stessa cosa.

Se la cultura occidentale, dunque, privilegia temi linguistici è anche perché essi sono il fondamento principe della cristianità e del giudaismo.


2. La lingua primigenia

Il mito giudaico-cristiano vuole che Adamo sia stato il primo Nomoteta, abbia dato cioè un nome agli oggetti che lo circondavano e che preesistevano al linguaggio e abbia parlato una lingua le cui parole rispecchiavano la natura stessa delle cose, rivelandone l'essenza profonda. Ma se la lingua adamica o humana aveva la specificità di riflettere la realtà materiale doveva anche necessariamente, e di conseguenza, avere, nella forma e nella struttura, un rapporto intrinseco, causale motivato con la referenzialità del mondo.

Questo vincolo naturale tra linguaggio e realta posseduto dalla lingua originaria era considerato determinante per la conoscenza umana perché la specularità dei nomi adamici ne faceva delle immagini assolute, dei riflessi conseguenti degli oggetti e, quindi, i "veri" nomi delle cose. La lingua adamica doveva dunque essere a buon titolo la lingua della conoscenza e della verità proprio perché in essa, senza deformarsi, si specchiava il mondo.

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Pagina 93

CAPITOLO SETTIMO

Lingue d'altri mondi


I. Il lunariano di Francis Godwin

Il paradigma scientifico aristotelico-tomistico sta cambiando negli anni in cui compare il libro di Godwin. Ci vorrà ancora molto perché la rivoluzione cosmologica iniziata da Copernico e continuata da Keplero e da Galilei si affermi in Europa senza timore d'essere considerata eresia, ma nell'Inghilterra della Riforma, essa ha terreno fertile. Θ per suo mezzo che il milieu culturale europeo del tempo ha il presentimento di poter esplorare l'Universo con occhi nuovi, la sensazione di potersi spingere verso territori conoscitivi inesplorati che prendono corpo, nell'immaginario collettivo, in quei miti di pluralità di mondi abitati e di Terra Australis Incognita che tanti utopisti hanno messo al centro delle loro opere.

La tesi della pluralità dei mondi abitati era un'idea anteriore all'èra cristiana, ma sino al secolo XVII non aveva avuto supporti scientifici che la convalidassero. Ora tale ipotesi, appoggiata dalla nuova teoria cosmologica, ricomincia a circolare ed eccola apparire nel primo romanzo filosofico che guarda con attenzione ai problemi linguistici.

Il vescovo di Henford, Francis Godwin, scrisse infatti un libro dal titolo The Man in the Moone — pubblicato postumo a Londra nel 1638 — che considera la Luna abitata da un popolo di giganti — più o meno alti a seconda della loro levatura spirituale — di cui descrive minutamente le abitudini.

Il protagonista del romanzo di Godwin, primo viaggiatore spaziale, si chiama Domingo Gonzales. Ma nel primo libro utopico del Seicento, che si occupi di questioni linguistiche, tale nome non può essere casuale.

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Pagina 101

2. Il seleniano e la "lingua madre" di Cyrano de Bergerac

La lingua inventata da Francis Godwin per il suo romanzo spaziale costituì un buon materiale di spunto per la satira che contraddistingue il successivo racconto utopico del secolo XVII. Si tratta del celebre Histoire comique des Ιtats et empires de la Lune et du Soleil di Hector-Savinien Cyrano de Bergerac composto di due parti: L'Autre monde: Les Ιtats et empires de la Lune del 1649 — pubblicato postumo nel 1656 — e Les Ιtats et empires du Soleil del 1652 — pubblicato anch'esso postumo nel 1662.

Uno dei biografi di Cyrano ci informa che nella seconda metà del mese di marzo del 1648, il letterato francese trovò in un negozio di Parigi una copia di The Man in the Moone di Godwin tradotto da Jean Beaudoin e che la sua immaginazione rimase molto colpita dalla lettura di questo libro. Chi si è occupato di Cyrano de Bergerac sa quanto egli debba a quelle fonti che vanno dai racconti fantastici di Luciano di Samosata all'utopia di Thomas More, dall'opera di Campanella, al Somnium Kepleris, dagli scritti di Paracelso a quelli di Gabriel Naudé, dai trattati scientifici di Cardano, di Gassendi, ai lavori di Cartesio e, come si è detto, al romanzo di Godwin. Se è vero, però, che il viaggio di Domingo Gonzales ispirò per molti versi il racconto filosofico di Cyrano è altrettanto certo che la sua influenza fu solo parziale. Infatti se molti sono i motivi comuni a questi primi due libri utopici del secolo XVII, la trama del romanzo dello scrittore francese, annoverato tra i libertini, tra gli "spiriti forti", viene trasfigurata in chiave comica e dissacrante, rispetto al tono semiserio e a volte didascalico che il vescovo di Henford adoperava nel suo The Man in the Moone.

Come Godwin, Cyrano colloca nello spazio extra-terrestre, quello lunare, lo scenario in cui si sviluppa il suo primo racconto, ma, al contrario del prelato inglese, fa di se stesso il protagonista del suo romanzo. Giunto in modo comico-grottesco sulla Luna – nell'atterraggio piomba sull'albero edenico della conoscenza, impiastricciandosi con la polpa delle mele – lo scrittore francese descrive un mondo i cui abitanti sono suddivisi in due classi: quella dei nobili e quella del popolo. I primi parlano una lingua musicale, segno di distinzione, mentre i secondi si esprimono in una lingua gestuale più grossolana e ordinaria. E con ciò Cyrano tocca ante litteram quella dimensione cociale del linguaggio che è inserita nella dialettica delle classi.

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Pagina 107

Θ bene precisare che sulla linea platonica, razionalista e metafisica, trasformata e reinterpretata variamente nel corso ciel tempo, si sviluppa pressoché tutto il pensiero linguistico dell'utopia, dal modello primario di More fino agli autori più recenti del secolo XX.

Lungo appunto questa linea, divaricatasi in due filoni, l'una di carattere più scientifico, aderente al pensiero platonico, l'altra dichiaratamente "emozionale", prossima alle tesi di Epicuro, si esprime l'ideologia linguistica di Cyrano. Egli infatti delinea il suo uomo primigenio come un legislatore di parole che platonicamente adopera un linguaggio "scientifico" capace di rivelare l'essenza stessa delle cose, e dall'altra mette in evidenza – è l'aspetto epicureo mediato da Gassendi – la potenza e l'energia della natura la quale si impone di per sé attraverso le passioni, imprimendosi e introducendosi nelle parole stesse.

Questo rapporto così intrinseco e invasivo tra natura e parola nella lingua madre dell'uomo primigenio trova spiegazione con l'idea ciraniana che la Terra – in una lontana e perduta età dell'oro – fosse stata popolata da una stirpe di esseri d'una perfezione maggiore di quella umana, capaci di comunicare direttamente con la natura. L'omino con cui lo scrittore francese immagina di parlare nel suo libro, è un superstite di questo popolo primordiale del remotissimo passato. Con la scomparsa dell'età aurea anche la lingua madre si perse, fu dimenticata e soffocata dai tempi nuovi; essa però – racconta l'autore – rimaneva in latenza, allo stato di virtualità nel tessuto connettivo di ciascun essere umano, pronta a manifestarsi ancora qualora le condizioni, come nel caso del viaggiatore Cyrano, fossero state propizie.

Per mezzo di questo idioma primigenio perfetto il protagonista del nostro romanzo viene iniziato alla Filosofia della natura. Il piccolo uomo gli rivela la cosmogonia dell'universo: la natura è la sola realtà del mondo ed è essenzialmente composta di materia. In conformità con il pensiero di alcuni filosofi del Rinascimento italiano come Telesio e Campanella, l'omino spaziale spiega al viaggiatore francese che tutte le manifestazioni della vita altro non sono che materia trasformata dal calore del sole e degli astri.

In questa cornice la lingua adamica di Cyrano si spoglia di ogni afflato sacro, di ogni veste teologica, d'ogni spiritualisno cristiano, e mostra una reinterpretazione dell'argomento in chiave naturalistica, atea e materialistico-vitalista.

Ma il fatto che il mito della lingua adamica. sebbene così materialisticamente trasformato, compaia anche nel viaggio immaginario di Cyrano, il libertino, è rivelatore di quanto fosse forte l'anelito e il desiderio dell'uomo seicentesco di afferrare il mondo attraverso il linguaggio. L'aspirazione di possedere la realtà attraverso la vera conoscenza del nome, il sogno di riuscire a comunicare con tutti gli uomini sono motivo integrante e tema privilegiato dell'opera del pensatore francese.

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Pagina 170

Θ noto che i giochi di parole erano in gran voga nella società intellettuale inglese del secolo XVIII ed esiste addirittura un testo che pretese di codificare il genere. Si tratta dell' Ars Punica, sive Flos linguarum del 1719, libro di cui forse Swift fu l'ispiratore o al quale forse lavorò esemplificando varie regole, e che comunque sicuramente conobbe. L' Ars Punica è l'arte del punning ovvero del gioco di parole (in inglese pun), che "tra tutte le arti e le scienze è la più straordinaria; perché tutti gli altri domini si fermano entro certi confini mentre questa non ha alcun limite in quanto per eccellervi bisogna avere una conoscenza estesa ad ogni cosa". L'arte del punning veniva codificata in 34 regole alcune delle quali meritano d'essere considerate con attenzione proprio in riferimento a quell' "intelletto attivo" che è la condizione filosofica del wit. La Regola 1 o Regola Capitale dice: "Colui che gioca sulle parole deve essere dotato d'una immaginazione viva e ingegnosa, qualunque opinione gli uomini abbiano del suo giudizio..."; la Regola 30 o Regola di Naturalizzazione afferma che il pun è indipendente da tutte le lingue, è translinguistico e anzi implicitamente ci suggerisce che quante più lingue il giocatore conosce tanto meglio può giocare. Sicché il latino Romanos può diventare l'inglese Roman nose, la frase francese quelque chose potrà sembrare l'inglese kick shoes, Jupiter sarà così Jew Peter, ecc. Tra i tanti, uno splendido esempio della straordinaria capacità di Swift nel punning e dell'applicazione di questa trentesima regola dell' Ars Punica è testimoniata dal gioco in cui egli combina le parole a Guinea con i suoni delle lettere dell'alfabeto greco:

alfa.    half a Guinea;
beta.    bet a Guinea, never beat a Guin;
gamma.   Game a Guinea;
delta.   Dealt a Guinea;
epsilon. among Apes I long for a Guinea;
zeta.    I ze eat a Guinea. Yorkshire man;
eta.     I eat a Guinea. any other English man;
theta.   I eat a Guinea. a lisping girl;
iota.    A Shop, I owt a Guinea;
cappa.   I cap a G---;
lamda.   I never lamb'd a Guinea;
mi.      I mew like a Cat for a G.;
ni.      I love a new Guin---;
omicron. a Guinthrown at my head. O my croun;
pi.      A Guinea is a Pye to me;
rho.     I wish I had 100 Gu--- in a Row;
sigma.   I seek my Guin;
tau.     I play Tau with a Guin;
upsilon. I play less, and the Guin goes Up so long;
phi.     Dare you say fye to a Guinea;
chi.     A girl that cant speak plain. I chy for that Guinea;
psi.     In th'hips I am without a Guinea;
omega.   O, meg a Guin.

Certo trascrivere queste frasi non rende ragione pienamente della loro freschezza e del loro humour. Per recuperarli sarebbe bene pronunziarle, ripeterle a viva voce perché il parlato ha nel pun sempre un ruolo di privilegio.

La Regola 34 o Regola d'oro autorizza a cambiare una sillaba con un'altra; grazie a questa regola si può togliere un elemento a una parola, inserirvelo, aggiungervelo, spostarlo e così via.

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CAPITOLO TREDICESIMO

L'indoeuropeo utopico


1. Lingue utopiche e lingue distopiche

Se l'Ottocento è il momento che divide, nell'orizzonte utopico europeo, ciò che di solito viene chiamato utopia dall'antiutopia, distopia o controutopia, altrettanto accade per le lingue immaginarie che compaiono all'interno della narrazione utopica. Anch'esse subiscono una differenziazione e possono dirsi positive quando intendono condurre alla conoscenza e al progressivo miglioramento umano e di segno inverso quando, al contrario, diventano strumenti di tirannide.

Il termine di passaggio che segna l'evolversi dell'utopismo linguistico verso la negatività compare nella seconda metà dell'Ottocento in Inghilterra, patria dell'utopia ma anche della distopia. A Londra venne infatti pubblicato il romanzo filosofico di Edward G. Bulwer Lytton The Coming Race (La razza futura) (1871), che con la sua sostanziale critica all'utilitarismo inglese e al materialismo, precorreva il pessimismo del Novecento dando spazio a una profonda sfiducia nel meccanicismo e nel progresso intesi in senso ottocentesco.

Iniziava l'èra dell'antiutopia vera e propria, l'epoca in cui il romanzo utopico negativo, non più periodicamente disseminato nel corso dei secoli accanto all'utopia propriamente detta, troverà il suo maggiore e più fiorente sviluppo nel Novecento con Zamjátin, Huxley e Orwell.

Dopo La razza futura di Bulwer Lytton, unico e perciò eccentrico utopista ottocentesco che si occupò di questioni linguistiche, le lingue immaginarie appariranno sempre più di frequente, laddove se ne tratta, in opere pessimistiche e negative. Non essendo più al servizio della perfezione della lingua filosofica, esse rispecchiano invece la nequizia, la menzogna e l'asservimento alla tirannide totalitaria che a volte ottiene i suoi scopi per l'appunto anche attraverso la manipolazione linguistica. L'ottocento è comunque il periodo in cui il tema della lingua utopica, dopo lo sviluppo dei secoli precedenti, subisce una brusca caduta e il romanzo di Bulwer Lytton che le dedica un intero capitolo è un'eccezione.


2. Declino della lingua universale

D'altra parte il mondo della scienza ufficiale andava nutrendo dubbi sempre più forti e uno scetticismo sempre crescente nei confronti d'una lingua filosofica e|o universale. In Francia già alla fine del Settecento gli ideologues avevano dichiarato l'inutilità di continuare una ricerca in tal senso "poiché una lingua universale — diceva Destutt de Tracy — è impossibile quanto il moto perpetuo".

L'Ottocento è un secolo-cerniera in cui la disciplina che studia e riflette sul linguaggio non è ancora la linguistica in senso moderno e non è più la filosofia del linguaggio del passato: sta cercando una diversa scientificità, diretta non più al "vero" ma all'"oggettivo", e la trova in ciò che viene chiamato grammatica storica o comparata.

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CAPITOLO QUINDICESIMO

Le lingue dei totalitarismi


1. Le distopie linguistiche novecentesche

La produzione distopica che si occupa di linguaggi nella prima metà del Novecento è assai limitata. In verità solo Orwell nel suo 1984 rifletterà estesamente sulla lingua ma, a guardar bene, altri due importanti autori poco studiati sotto il profilo linguistico, Zamjátin e Huxley, rivelano nella loro opera un interesse non marginale per i problemi e gli aspetti che toccano il linguaggio.

Il nucleo centrale del pensiero distopico del Novecento è impegnato soprattutto a meditare sui rapporti che intercorrono tra società e individuo, a riflettere sulle relazioni di scambio tra scienza e tecnologia, tra politica e potere, tra coazione e creatività. Il risultato di queste analisi si manifesta in un diffuso pessimismo che alimenta la sfiducia nel progresso delle scienze intese come strumento di liberazione. Serpeggia, in tutta la distopia del Novecento, un cupo timore dei totalitarismi che conduce a un'inquietudine sempre crescente nei confronti di un possibile malvagio uso delle conquiste scientifiche. In questi romanzi viene infatti quasi sempre prefigurato un mondo in cui la tecnica – il più possibile scevra e distaccata dalla conoscenza – è al completo servizio del potere. Anzi la critica al modello scientista che si estende a tutte le manifestazioni umane, e dunque anche al linguaggio, è patrimonio comune alle distopie del Novecento: la critica all'ideologia scientifica è una caratteristica propria dell'antiutopia.

L'argomento lingistico, quando compare nei romanzi distopici del Novecento, si inserisce in una costellazione di problematiche che si intersecano a più livelli. Da Zamjátin a Orwell gli aspetti linguistici compaiono articolati in una serie di temi che riguardano di volta in volta, o tutti insieme, la libertà dell'individuo, la difesa della sua creatività, il contrasto ira individuo e assetto sociale, il problema dell'uguaglianza e del benessere, la società di massa e molto altro. Nella distopia novecentesca si manifestano gli angosciosi problemi di un'epoca: il condizionamento ideologico, la difficoltà dei rapporti interpersonali, la coazione comportamentale. Tali distopie comunque — e non potrebbe essere diversamente — rispecchiano l'atmosfera culturale — linguistica e non — del momento storico in cui sono immerse. Sicché in Zamjátin (1924) è possibile rintracciare uno sfondo precipuamente logico-positivista — aspramente criticato naturalmente —, in Huxley (1932) sono ben presenti concezioni comportamentiste e in Orwell (1949) non si può non pensare al determinismo e al relativismo culturale e linguistico di Whorf.

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Pagina 238

4. La Neolingua di Orwell ovvero l'arte della dimenticanza

La critica letteraria è d'accordo nel pensare che quando Orwell prese a scrivere della Neolingua in 1984 desiderava dirigere il suo sarcasmo contro due bersagli: il "cablese", un gergo usato dai giornalisti nello scrivere resoconti tramite cablogrammi, e il Basic English, una lingua internazionale costruita artificialmente per gli scambi commerciali e politici. Il "cablese", sorta di stenografia verbale che procede per troncamenti e condensazione delle parole, aveva certo dovuto incontrare la disapprovazione del giornalista Orwell, che preferiva invece le forme esplicite e chiare alle sigle e agli amalgami di parole prodotti dalla concisione dello stile telegrafico.

Il Basic English, viceversa, aveva inizialmente - intorno agli anni '30 del secolo XX - attratto Orwell forse perché le sue pretese internazionalistiche coincidevano o sembravano coincidere con l'ideologia socialista cui lo scrittore aderiva. Ma il suo interesse per il Basic English presto declinò per tramutarsi in derisione: trasparente ed esplicito è infatti il sarcasmo di Orwell nei confronti di questo sistema comunicativo internazionale quando l'adopera, così come il "cablese" del resto, come struttura portante della Neolingua.

Il Basic English, inventato da Charles Kay Ogden, era basato su una lingua naturale - l'inglese -, aveva un lessico drasticamente ridotto a 850 parole e una sintassi semplificata. Si trattava di una lingua idealmente semplice, corrispondente all'uso linguistico d'un bambino di sei anni, ma non sprovvista, come ogni progetto interlinguistico, di accenti egemonici. "Ciò di cui ha bisogno il mondo - scrive Ogden - è di circa 1.000 lingue morte in più e di una più viva". E non dimentica inoltre di includere, tra le 850 parole sopravvissute, il verbo bollire, tanto gli sembra evidente che sotto tutte le latitudini sia indispensabile fare il tè alle cinque del pomeriggio.

Il mondo orwelliano, in cui schiere di filologi e linguisti lavorano indefessamente alla edificazione della stesura definitiva della Neolingua, è collocato in uno spazio-tempo non troppo lontano né troppo vicino all'epoca in cui Orwell scrive: la Londra del 1984. La città è depressa e ingrigita dal regime totalitario del Socing (Socialismo Inglese) e l'Inghilterra è un territorio limitrofo del superstato di Oceania denominato Fascia Area n.1. La società si trova ancora in quel momento storico in cui sussiste la differenza linguistica tra Archelingua, adoperata colloquialmente, e Neolingua, idioma ufficiale del Partito con il quale si governano gli uomini. La Neolingua, destinata a sostituire completamente l'Archelingua intorno all'anno 2050, è un idioma artificiale costruito sul ceppo inglese, come il Basic English, e propone, del pari, un lessico ridotto massicciamente oltreché una grammatica semplificata. "Noi distruggiamo le parole, dozzine, centinaia di parole...", dice Syme, il linguista, a Winston, il protagonista del romanzo, e Ogden, dal canto suo, scrive: "Il primo principio del Basic English, che rende possibile la riduzione del vocabolario, è l'eliminazione dei verbi...". Il lavoro linguistico del mondo orwelliano non consisteva, dunque, nell'inventare nuove parole ma nel cancellare quelle già esistenti, nel ridurre la lingua all'osso.

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CAPITOLO SEDICESIMO

Il linguaggio delle immagini


1. La distruzione dei libri e i mass media

A quattro anni di distanza da 1984 di Orwell, nel 1953, venne pubblicato, a New York, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Questo lavoro viene abitualmente annoverato tra i racconti di fantascienza ma in realtà esso contiene tutti gli ingredienti essenziali della distopia, anche se Bradbury, diversamente da altri autori di distopie — generalmente prive di catarsi — cerca di indicare una via d'uscita palingenetica all'incubo d'una società distruttiva. Aldous Huxley commentò che Fahrenheit 451 era uno dei libri più visionari che avesse mai letto e l'opera è nota anche perché ne è stato tratto un celebre film.

Bradbury, in questo lavoro, non si sofferma sul tema della lingua, ma concentra il suo interesse sul problema attualissimo della comunicazione mass mediale. In particolare sulla comunicazione fatta per immagini che, potremmo dire, rappresenta il presunto "linguaggio universale" della nostra civiltà. Egli focalizza la sua attenzione e la sua critica sulla televisione, ultimo gioiello della tecnologia, strumento principe di diffusione informativa e culturale. Θ l'universo della comunicazione che predomina in questo romanzo; è l'impatto e l'influenza che un cattivo uso della tecnologia può avere su ogni aspetto della cultura ad essere messo al vaglio dell'analisi critica.

Lo scenario del racconto è collocato in un futuro imprecisato ma tanto vicino al lettore da far quasi pensare non a una distopia ma a una metafora del presente. Il protagonista della vicenda è un pompiere, Guy Montag, il cui compito è quello di appiccare il fuoco ai libri. La letteratura d'ogni tipo è, infatti, proibita in questo mondo disegnato da Bradbury, e i vigili del fuoco devono scovare i sovversivi che nascondono nella propria casa volumi, o addirittura intere biblioteche, e incendiare ogni opera stampata, che implichi un impegno del pensiero. Questo stato di cose – a forti tinte surreali – è molto funzionale al sistema sociale descritto da Bradbury nel quale si respira un'atmosfera zuccherosa e soft ben diversa da quella orwelliana. Qui il teleschermo non serve per controllare e spiare la gente ma per condizionarla a vivere in una perenne irrealtà quotidiana, in un mondo astratto e fantasmatico, pieno di svaghi e di diversivi, imprigionandola in un dorato stato ipnotico e sonnambolico, surrogato della felicità. La mente dell'uomo viene condizionata alla sconnessione e alla non integrazione del sapere: sono concesse solo nozioni superflue e informazioni inutili, minuzie insensate da ricordare a memoria. "Offri al popolo gare che si possano vincere ricordando le parole di canzoni molto popolari, o il nome delle capitali dei vari Stati dell'Unione o la quantità di grano che lo Iowa ha prodotto l'anno passato. Riempii loro crani di dati non combustibili, imbottiscili di 'fatti' al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d'essere 'veramente bene informati' ". Chi può sottrarsi dal paragonare il contenuto di questo brano a quanto realmente accade nelle innumerevoli ed eterne serie di quiz televisivi che si sono avvicendati nel tempo nelle nostre società avanzate?

Diversamente da Orwell e da Huxley, nelle cui opere si legge la chiara e forte impronta del potere totalitario, qui, nella distopia di Bradbury invece, assistiamo a una strana "dittatura" democratica dove la gente, sempre meno consapevole, vive nei piaceri, e in quelli che vengono chiamati "i più svariati titillamenti". Non era stato il Governo a decidere il corso di quella storia, ma la gente, la quale, "con felice diversione", aveva lasciato sopravvivere solo il disimpegno e lo svago. Di stampato esistono solo libri e periodici, entrambi a fumetti, oltre alle riviste erotiche a tre dimensioni; il resto è televisione e musica radiotrasmessa ad alto volume. Lo stato di cose cui si era giunti al momento in cui si svolge la vicenda del pompiere Montag, aveva avuto le sue ragioni storiche; gli eventi avevano preso una certa direzione e, per inerzia, nessuno vi si era opposto. Sembra quasi di potervi assimilare i celebri versi danteschi: "Io non so ben ridir com'io v'entrai, | tant'era pieno di sonno a quel punto | che la verace via abbandonai".

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Pagina 250

[...] Ma non bisogna però confondere la critica di Bradbury contro "la civiltà delle immagini" con una sorta di iconoclastia: egli non pensa che al contrario delle immagini i libri abbiano valore in quanto tali. I libri non sono un bene di per sé, non bisogna usarli come feticci.

Non sono i libri infatti – dice Faber, l'intellettuale clandestino, – che mancano a Montag, suo interlocutore, per percepire il senso della vita, "ma alcune cose che un tempo erano nei libri. Le stesse cose potrebbero essere diffuse e proiettate per radio e televisori. Ma ciò non avviene. No, no, non sono affatto i libri le cose che andate cercando. Prendetele dove ancora potete trovarle, in vecchi dischi, in vecchi film, e nei vecchi amici; cercatele nella natura e cercatele soprattutto in voi stessi. I libri erano soltanto una specie di veicolo, di ricettacolo in cui riponevamo tutte le cose che temevamo di poter dimenticare. Non c'è nulla di magico nei libri; la magia sta solo in ciò che essi dicono, nel modo in cui hanno cucito le pezze dell'Universo per mettere insieme così un mantello di cui rivestirci". Nelle "letture lecite", bollettini e periodici commerciali, invece non si dice nulla, nei programmi tv non accade nulla, gli attori che appaiono sui teleschermi non dicono nulla; anzi, come nota Clarisse, amica del pompiere Montag, nessuno dice nulla pur parlando con gli altri. La gente parla "di una gran quantità di automobili, parla di vestiti e di piscine e dice che sono una meraviglia! Ma non fanno tutti che dire le stesse cose e nessuno dice qualcosa di diverso dagli altri".

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Pagina 253

Il mondo descritto da Bradbury è un vero inferno, dove la morte intellettiva e fisica è la conclusione della vita di molti. Si può paragonare quanto scrive l'autore americano alla conclusione con cui Italo Calvino termina il suo Le città invisibili: "L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che già è qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.

Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto da non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio". Montag riconosce nella cultura che i libri tramandano il non-inferno, raggiunge un gruppo di barboni, tutti ex-intellettuali, e si unisce a loro. Questi sono degli uomini-libro: hanno imparato a memoria un'opera celebre e poi l'hanno data alle fiamme per non essere incriminati. Montag diventa uno di loro, impara l'Ecclesiaste e lo conserva nella memoria: lo custodirà fino a quando – come aveva visto fare – con l'avvicinarsi della morte non passerà il testimone ad altri. Come in un nuovo Medio Evo senza monasteri, questi chierici del futuro, conservano così lo scibile umano in attesa che la società in cui vivono, irresponsabile e barbara, si distrugga da sé. Essi impediscono di disperdere la memoria dell'uomo e aspettano tempi più consapevoli.

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