Copertina
Autore Peter Mayle
Titolo Provenza dalla A alla Z
EdizioneGarzanti, Milano, 2008, Saggi , pag. 354, ill., cop.ril.sov., dim. 14x21,5x3,3 cm , Isbn 978-88-11-74078-0
OriginaleProvence A-Z [2006]
TraduttoreStefania Cherchi
LettoreGiovanna Bacci, 2008
Classe paesi: Francia , regioni: Provenza , alimentazione , viaggi
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Pagina 9

INTRODUZIONE



Ora mi trovo nella terra del grano, del vino, dell'olio e del sole. Cos'altro può volere un uomo dal cielo? Thomas Jefferson a Aix-en-Provence, 17 marzo 1787


Condensare la Provenza in un solo libro è un compito impossibile. C'è troppa storia, troppo materiale. Migliaia d'anni di insediamenti umani: chiese e castelli, città e villaggi basterebbero da soli a comporre un'enciclopedia. Un piccolo esercito di residenti famosi o comunque noti al grande pubblico, come Petrarca, Nostradamus, Raymond de Turenne e il marchese de Sade. Numerosissimi artisti, poeti e scrittori: Vincent van Gogh, Paul Cézanne, Frédéric Mistral, Marcel Pagnol, Alphonse Daudet e Jean Giono. Miti e leggende, montagne e vigneti, tartufi e meloni, santi e mostri. Da dove cominciare? Cosa inserire? Cosa escludere?

È un problema che tanti scrittori hanno dovuto affrontare prima di me, e la soluzione è stata spesso quella di specializzarsi. Molti hanno scelto di dedicarsi a un tema particolare — l'architettura religiosa, l'influenza romana, il significato culturale della bouillabaisse o un'altra qualsiasi delle numerose sfaccettature della Provenza — e hanno scritto testi molto esaurienti, spesso addirittura eruditi. Ma per quanto tutto ciò possa essere ammirevole, nello scrivere questo libro il mio obiettivo non era quello di aggiungere qualcosa a tale collezione. E probabilmente ho fatto bene, dato che non sono affatto un erudito.

Ho preferito piuttosto costruire un piccolo puzzle autobiografico fatto di interessi, scoperte e fobie del tutto personali. Potrebbe sembrare un modo un po' troppo superbo di accostarsi all'attività di scrivere un libro; ma permettetemi di precisare che, nel farlo, mi sono attenuto ad alcune regole e restrizioni.

Fin dove mi era possibile ho cercato di non parlare dei paesaggi, degli edifici e dei monumenti più famosi, lasciando ad altri il Pont du Gard, l'anfiteatro romano di Arles, l'abbazia di Sénanque, il palazzo dei papi ad Avignone e decine di altre meraviglie storiche già descritte e ammirate un'infinità di volte. Per la stessa ragione ho tralasciato grosse fette di una campagna splendida, per esempio la Camargue, e uno dei più bei tratti della costa provenzale, i calanchi a est di Marsiglia.

Le mie scelte sono state guidate da alcune semplici domande. L'argomento mi interessa? Mi diverte? Presenta un qualche aspetto ancora abbastanza sconosciuto ai più? È una tecnica simile a quella del collezionista di chincaglierie, e presenta l'indubbio vantaggio di essere virtualmente onnicomprensiva. Ogni personaggio, ogni oggetto può ambire a essere incluso nel libro, alla sola condizione di avere attirato la mia curiosità. Questa, in ogni singolo caso, è la giustificazione che posso addurre per avere messo insieme una collezione comprendente elementi del tutto privi di collegamento fra loro come una ricetta per preparare la tapenade e una mattinata trascorsa in compagnia di un pubblico ufficiale come il boia.

Nel corso delle mie ricerche mi sono imbattuto spesso nell'amore tutto provenzale per l'aneddoto, per il lavoro di ricamo della conversazione e per le storie poco credibili. Non mi pento di avere riportato molte cose che ho sentito raccontare, per quanto improbabili potessero sembrare. In fondo viviamo in una fase storica nella quale la verità è abitualmente distorta, in genere per ragioni di vantaggio politico. Se qualche volta mi sono spinto oltre i limiti della verificabilità posso dire di averlo fatto per una buona causa, quella di fare sorridere il lettore.

Nello stesso spirito non ho sottoposto a un esame troppo serrato le informazioni specialistiche che mi sono state fornite da vari esperti: la Provenza pullula di esperti che, quasi senza eccezioni, sono sempre assai prodighi di tempo, consigli e opinioni. Il problema sorge non appena si pone la stessa domanda a due esperti diversi. Quando è il momento giusto per raccogliere le olive? Come si fa a tenere gli scorpioni fuori di casa? Il clima della Provenza risente già del surriscaldamento globale? È vero che il pastis può curare qualsiasi malattia? Ogni volta si ottengono risposte che coprono l'intero ventaglio delle possibilità, e che vengono formulate sempre con il massimo della convinzione. In generale, lo ammetto, ho preso per buona la più improbabile.

Fra i tanti esperti ce n'è uno in particolare che voglio ricordare qui, nonostante compaia più di una volta anche nelle pagine del libro. È un professore emerito, monsieur Farigoule. Ormai in pensione per quanto riguarda la corrente viva dell'insegnamento accademico, questo signore tiene ancora dei corsi a titolo gratuito, per puro spirito di carità, al fine di favorire l'acculturazione degli stranieri più arretrati e ignoranti: io sono il suo allievo preferito. Anzi, a dire il vero credo proprio di essere l'unico. Le lezioni si tengono al café locale, e le materie curriculari sono particolarmente numerose e diversificate in quanto monsieur Farigoule pare sia un esperto di quasi tutto lo scibile. Fra le altre cose l'ho messo alla prova sui favi di vespe, sulla vita amatoria di Napoleone, sull'uso del letame d'asino come fertilizzante, sulla poesia di Mistral, sulle principali differenze di carattere tra francesi e anglosassoni e sui papi di Avignone. Il professore non è mai a corto di risposte, è abbastanza aperto al dibattito ed è sempre estremamente cocciuto. È a questa poco convenzionale musa che sono debitore di molto del mio materiale, ed è un grande piacere per me riconoscere il mio debito.


Una geografia inaffidabile

Ho l'impressione che moltissime persone, dai primi cartografi romani fino ai giorni nostri, abbiano avuto un'idea piuttosto chiara e precisa di dove esattamente si trovi la Provenza; ma sfortunatamente per gli amanti della verità e della precisione geografica tali idee sono spesso cambiate, anche di centinaia di chilometri. Per esempio ho sentito dire che «Provence commence à Valence», cioè in un punto parecchio a nord del département Rhône-Alps. Recentemente ho commesso l'errore di girare questa informazione al mio esperto personale, monsieur Farigoule, il quale subito mi ha rimbeccato dicendo che era un'idiozia bella e buona. Si potrebbe, forse, facendo un'eccezione, ammettere nella Provenza la cittadina di Nyons, ha precisato, in grazia delle sue splendide olive; ma non un centimetro più a nord. Il professore poi era altrettanto adamantino sia sul confine orientale della regione (Nîmes) sia su quello occidentale (Sisteron).

Ma il fatto è che, nel corso dei secoli, tali confini si sono più volte allontanati e riavvicinati; un rigonfiamento qui, una rientranza là, un allargamento o un restringimento. Anche i nomi sono cambiati spesso, o più semplicemente sono scomparsi dall'uso popolare. Non molto tempo fa il territorio che un tempo si chiamava umilmente Basses-Alpes ha conquistato maggior prestigio ribattezzandosi Alpes-de-Haute-Provence. E chi mai, al giorno d'oggi, potrebbe dire con assoluta certezza dove cominci o finisca il Comtat Venaissin? Non sarebbe esagerato affermare che l'intera regione è da sempre un vero e proprio affronto al senso tutto francese della chiarezza, dell'ordine e della logica.

Chiaramente però nel mondo moderno è inammissibile che le cose vadano avanti in modo tanto confuso e casuale, addirittura medievale. Bisognava fare qualcosa. E così alla fine, levando le mani al cielo in segno di frustrazione, i pubblici ufficiali incaricati di occuparsi di tali faccende hanno deciso di unificare vari départements della Francia sudorientale in una nuova regione capace di abbracciarli tutti. Questa ovviamente aveva bisogno di un nome, e chi avrebbe potuto darglielo con maggior professionalità di una figura misteriosa e influente come il ministro incaricato degli acronimi? (A lui corre il nostro pensiero leggendo capolavori come CICAS, CREFAK, CEPABA, CRICA, che si possono leggere nell'elenco telefonico di Vaucluse. Ne esistono a migliaia, letteralmente.)

Fu dunque deciso di lasciare fare al ministro. Il quale, dopo avere rimuginato e rovistato in tutto l'alfabeto, alla fine deliberò. E avendo deliberato, offrì il suo parto al mondo. Era nato il PACA: Provence-Alpes-Côte d'Azur, che va da Arles, a ovest, fino alla frontiera con l'Italia a est, un'unica, precisa unità geografica, amministrativamente ineccepibile. Che sollievo! Finalmente tutti noi potevamo sapere con esattezza dove ci trovavamo.

O no? A tutt'oggi le persone che trascorrono le loro vacanze a Saint-Tropez, a Nizza, perfino nella remota Mentone mandano ancora a casa entusiastiche lettere e cartoline su quanto si stiano divertendo in Provenza. Ai giornalisti stranieri basta dare un'occhiata ai campi di lavanda delle colline appena sopra Cannes per sdilinquirsi sulle glorie della campagna provenzale. Una qualsiasi zuppa di pesce servita ad Antibes viene presentata come vera bouillabaisse provenzale. E nel gergo degli agenti immobiliari – noti per essere spiriti incurabilmente creativi – tutte le ville in pietra col tetto di tegole, per quanto ubicate a un tiro di sputo da Montecarlo, vengono automaticamente classificate come autentici mas provenzali.

«Provenza» e «provenzale», quindi, sono usati anche in aree nelle quali, a stretto rigor di logica, non avrebbero alcuna ragione d'essere.

Ma allora dov'è la Provenza, e quali sono i suoi confini? Le carte sono tutte diverse l'una dall'altra. Le opinioni sono contrastanti. La confusione regna sovrana. A conti fatti, però, io mi trovo piuttosto d'accordo con la geografia di monsieur Farigoule, che il lettore troverà riflessa nella cartina stampata nei risguardi. La Provenza – almeno per quanto riguarda questo libro – è composta da tre départements: Bouches-du-Rhône, Alpes-de-Haute-Provence e Vaucluse. Immagino che molte persone la riterranno una scelta del tutto arbitraria. Ed è addirittura possibile che qualcuna delle voci che troverete nelle pagine seguenti tracimi di un pelo da tali arbitrari confini. Me ne scuserete. Tutto ciò che posso offrire a mo' di giustificazione è, alla maniera provenzale, un'alzata di spalle.

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Pagina 15

Accent


Secondo un'idea sbagliata ma molto diffusa, la lingua che si parla in Provenza dovrebbe essere il francese. Ed effettivamente somiglia al francese: anzi, nella sua forma scritta risulta quasi identica. Ma basta toglierlo dalla pagina e applicarlo all'orecchio e il francese provenzale diventa tutta un'altra lingua. Se le parole fossero commestibili, l'idioma provenzale sarebbe un ricco, denso, piccante stufato verbale sobbollito a lungo in un accento pieno di consonanti nasali: un civet, forse, o una daube.

Un giorno, prima di trasferirmi in Provenza, comprai un corso di lingua Berlitz su audiocassette per rinfrescare un po' il mio francese, che non avevo più studiato dai tempi della scuola. Una sera dopo l'altra mi sedetti al tavolo da lavoro e ascoltai quelle cassette piene di frasi melliflue lette e pronunciate alla perfezione, immagino, da una signora di Tours (pare che quello di Tours sia considerato il gioiello degli accenti, il più distinto e forbito di Francia).

Un accento che tutte le mattine, mentre mi radevo davanti allo specchio, facevo del mio meglio per imitare, contraendo le mie labbra anglosassoni nel tentativo di cavarne qualcosa di simile alla u gallica ed esercitandomi in quella sorta di grugnito di gola necessario alla corretta pronuncia della rotolante r francese. A poco a poco, o almeno così credevo, il mio francese andava migliorando. Fino al giorno in cui lasciai l'Inghilterra per raggiungere il Sud.

In un attimo dovetti dire addio alla cara signora di Tours, perché il suono delle parole che incontravo in Provenza era completamente diverso da qualsiasi altra cosa avessi udito fino a quel momento. E per rendere il tutto ancora più incomprensibile, quelle parole venivano pronunciate a una velocità pazzesca; un vocabolario totalmente fuori controllo. Le mie orecchie rimasero sotto shock per mesi. Per un anno almeno non fui in grado di sostenere una conversazione appena un po' prolungata senza l'aiuto del dizionario, che usavo un po' come i ciechi usano il loro bastone bianco: per identificare gli ostacoli e provare ad aggirarli.

Ancora oggi, a molti anni di distanza da quel primo approccio, a volte certe parole, certe frasi mi passano accanto in un glutinoso, incomprensibile ammasso sonoro. Vivendo, come vivo, in campagna, ho notato che l'accento delle zone rurali è forse un po' più forte – qualcuno direbbe più puro – di quello di bastioni della civiltà urbana come Aix o Avignone. Poi c'è Marsiglia: un caso a sé, dove l'ignaro visitatore si trova a combattere non solo con l'accento, ma con una vera e propria sottolingua. Come reagirebbe, mi domando, la mia povera signora di Tours se qualcuno le offrisse un pastaga, le indicasse il pissadou, le sconsigliasse di assumere un massacan, l'accusasse di essere raspi, la invitasse a un baletti o le facesse i complimenti per la sua croille? Immagino che, come me, troverebbe la cosa estremamente misteriosa, addirittura comac.

Traduzioni:

pastaga = pastis

pissadou = toilette

massacan = lavoratore pigro

raspi = spilorcio

balletti = ballo in piccolo quello che un tempo era il bal populaire

croille = arroganza, sfrontatezza, chulzpah

comac = straordinario.

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Pagina 17

Ail


Qualcuno ha detto che la Provenza è una regione strofinata con l'aglio. Comunque la si pensi in merito – che lo si consideri cioè le divin balbe o la rosa puzzolente o la panacea di tutti i mali – non c'è modo di evitarlo: lo mettono nella minestra, nelle salse, nell'insalata, sul pesce, sulla carne, sulla pasta, sulla verdura, sopra e dentro al pane. E se in ciò che state mangiando non ce n'è abbastanza per i vostri gusti, potete sempre ricorrere a una vecchia abitudine provenzale: prendete uno spicchio d'aglio (quello che portate sempre nel taschino per questo genere di emergenza gastronomica), sbucciatelo e afferratelo fra il pollice e l'indice della mano destra; con l'altra mano prendete la forchetta e tenetela saldamente sul piatto con i rebbi rivolti all'ingiù; grattugiate vivacemente l'aglio sui rebbi finché nel piatto stesso non saranno caduti abbastanza succo e frammenti da insaporire la pietanza come piace a voi.

Quando si tratta della storia e della reputazione dell'aglio, è spesso difficile distinguere i fatti dalla leggenda. Si racconta che nell'antico Egitto i manovali impegnati nella costruzione delle piramidi scioperarono per protestare contro un ritardo nella distribuzione della loro razione giornaliera d'aglio. L'episodio è confermato da parecchie fonti, e probabilmente è vero. Sull'altro piatto della bilancia potremmo mettere le teorie secondo cui l'aglio sarebbe un buon repellente contro i vampiri – portate sempre con voi una testa d'aglio e sfregatene uno spicchio sullo stipite della finestra, sulla maniglia della porta e sul pavimento tutt'attorno al letto per garantirvi sonni tranquilli – teorie probabilmente non molto credibili. Altre tesi non del tutto attendibili riguardano la presunta facoltà dell'aglio di neutralizzare il veleno di serpenti e insetti; di curare la lebbra, l'asma e la tosse asinina; di proteggere dal colera e dal malocchio («Bon ail contre mauvais oeil»).

Ma nelle cronache sulle virtù curative dell'aglio, almeno per quanto riguarda la Provenza, non c'è niente di più impressionante della storia dei quattro ladri. Il fatto avvenne nel 1726, a Marsiglia. Gli abitanti avevano cominciato a morire come mosche a causa della peste. I nostri quattro ladri si intrufolavano nelle case delle persone appena decedute per saccheggiarle; ma, essendo diventati sempre più imprudenti, alla fine furono catturati e trascinati in giudizio. Per loro fortuna, però, il giudice aveva una mente curiosa e avida di sapere: come avete fatto, domandò loro, a entrare in tutte quelle case contaminate senza beccarvi la peste?

Ne nacque un patteggiamento della pena: in cambio della clemenza della corte i quattro ladri rivelarono il loro segreto, cioè la formula di un potente elisir che li rendeva immuni alla malattia. A quei tempi la cosa dovette sembrare miracolosa quanto la scoperta della penicillina, e da allora in poi il composto ha mantenuto il nome di vinaigre des quatres voleurs, aceto dei quattro ladri. Gli ingredienti sono: aceto, assenzio, rosmarino, salvia, menta... e, naturalmente, aglio (ai giorni nostri l'assenzio è difficile da trovare, ma il pastis dovrebbe sostituirlo egregiamente). Non ci stupisce apprendere che ben presto i marsigliesi divennero i più entusiastici consumatori d'aglio di tutta la Francia. E lo sono tuttora.

Impossibile comunque dubitare di altre, meno spettacolari proprietà curative del bulbo in questione. L'aglio è antisettico, disinfettante e inibisce la proliferazione dei batteri. È ricco di vitamina C e B1. Studi medici dimostrano che i consumatori d'aglio si ammalano meno di cancro allo stomaco, rispetto alla media nazionale, hanno meno infarti e malattie cardiovascolari e possiedono un sangue di eccezionale purezza.

Purtroppo non si può dire altrettanto del loro alito. L'alitosi da aglio ha rappresentato un ostacolo alla socializzazione fin da quando, migliaia di anni fa, un uomo ne schiacciò per la prima volta uno spicchio fra i denti. Re Enrico IV di Francia ne masticava tutte le mattine: un suo contemporaneo ha scritto che il suo alito avrebbe steso un bue a venti passi di distanza. Ciononostante sua maestà era il beniamino delle donne, il che mi porta a credere che quelle signore avessero scoperto già allora l'unica soluzione efficace al problema dell'altrui alito all'aglio: mangiarne anche noi, e in grande abbondanza.

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Pagina 19

Aïoli


Il poeta provenzale Frédéric Mistral, uomo capace di lirici giri di frase ma dotato anche di una mente pratica, fra le molte virtù dell' aïoli apprezzava soprattutto quella di tenere lontane le mosche. Personalmente ho notato in più di un'occasione che tiene lontani anche gli esseri umani, soprattutto le anime delicate abituate a una cucina ampiamente ignara dell'uso dell'aglio. L' aïoli non è cosa da mammoletta.

Tecnicamente sarebbe una maionese. Ma una maionese di carattere: paragonarla a una qualsiasi altra maionese sarebbe come paragonare una fetta di un formaggio prodotto industrialmente a un Camembert stagionato. La ricetta classica spiega il perché.

Per otto persone sono necessari sedici spicchi d'aglio, tre tuorli d'uovo e quasi mezzo litro d'olio extravergine d'oliva. Sbucciate l'aglio, mettete gli spicchi in un mortaio e pestateli finemente. Aggiungete i tuorli d'uovo e un pizzico di sale e mescolate finché nova e aglio non saranno perfettamente amalgamati. A questo punto cominciate ad aggiungere l'olio, goccia a goccia, sempre mescolando (senza fermarvi mai). Quando avrete aggiunto circa la metà dell'olio, l' aïoli dovrebbe essersi condensato in una massa compatta; dopo di che l'olio rimanente può essere aggiunto (sempre mescolando) versandolo in un filo continuo. L' aïoli diventerà sempre più denso, quasi solido. È giusto che sia così. Aggiungete ora qualche goccia di limone e servite la salsa come accompagnamento di patate, merluzzo lesso, peperoni, carote, barbabietole, uova sode o anche certe piccole lumache provenzali dette petits gris.

Come potete immaginare, un piatto del genere rappresenta una sfida non da poco per la digestione e potreste ritrovarvi nella necessità di seguire il consiglio di uno scrittore provenzale che raccomandava di bere sempre a metà del pasto un trou provençal, cioè un bicchierino di marc, in modo da perforare il piccante condimento di uova e olio formandovi un buco, un trou, attraverso cui fare passare il resto del cibo. Da uomo pratico qual era, Mistral avrebbe approvato. Ma mi domando cosa penserebbe il poeta di un recente sviluppo nella vita sociale dell' aïoli che io trovo affascinante, anche se fino a oggi non ho avuto occasione di sperimentarlo di persona. Si tratta di un evento – difficile catalogarlo come un semplice pasto – detto aïoli dansant.

Presa alla lettera può sembrare una combinazione alquanto pericolosa, in quanto unisce lo spensierato trasporto della danza al consumo di un cibo particolarmente ricco, pesante e unto che è difficile mangiare senza sporcarsi anche stando fermi e seduti. Ma in fondo potrebbe essere considerata una variante atletica del trou provençal: un vigoroso esercizio fisico teso a fare scendere ciò che si è già mangiato in modo da fare posto a ciò che si sta per mangiare. Chissà: la pratica potrebbe addirittura subentrarre al paso doble che per tradizione si balla alle feste di paese.

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Pagina 123

Escargots


Non vi stupirà apprendere che i francesi detengono il primato mondiale del consumo di lumache, con un totale di circa 25.000 tonnellate l'anno. La domanda è così elevata che una parte del prodotto è importato da Turchia, Grecia, Ungheria, Taiwan e Indonesia. Personalmente trovo buffo il fatto che un paese tanto orgoglioso della sua gastronomia lasci accadere una cosa simile: come mai non è stato istituito un Tavolo per il mercato delle lumache, teso a raggiungere l'autosufficienza nel settore e a facilitare la riproduzione delle stesse tramite sussidi governativi? Dove sono i magnati delle lumache, secondi solo ai grandi cuochi o ai campioni di calcio nella stima della popolazione? Perché nessuno si occupa di progettare una nuova, eccitante promozione annuale: L'Escargot Nouveau est arrivé?

Forse un giorno assisteremo a definitivi progressi anche in questo settore. Per ora, l'unica buona notizia è che l'allevamento delle lumache francesi gode di ottima salute perlomeno in due regioni: in Borgogna, dove c'è l' Helix pomatia o gros blanc, una creatura polposa, la più grossa lumaca che potrà accadervi di mangiare; e in Provenza, dove abita l' Helix aspersa Müller, più piccola e più saporita – a detta di molti – della cugina borgognona. Questa lumaca provenzale è comunemente nota col nome di petit gris (nonostante il suo colore sia marroncino), ed è una delizia locale da migliaia d'anni: scavi archeologici nei dintorni di Forcalquier, nell'Haute Provence, hanno portato alla luce degli allevamenti di lumache del mesolitico, risalenti a 11.000 anni prima di Cristo.

Dopo questo promettente esordio, anno dopo anno le lumache hanno mantenuto un posto nel menu provenzale fino al XVI secolo, quando un lento declino le ha portate a sparire progressivamente da libri di cucina, ricette e ristoranti. Non ci sono spiegazioni chiare per l'accaduto, se non forse la teoria secondo cui le lumache, a un certo punto, cominciarono a essere disprezzate in quanto cibo da poveri (come un tempo le ostriche in Inghilterra), diventando impresentabili sulle tavole più raffinate. Quale che sia la ragione, per circa duecento anni ogni gourmet degno di questo nome avrebbe preferito morire piuttosto che farsi vedere con una lumaca sul piatto.

Il rinascimento lumachesco avvenne solo a metà Novecento, grazie soprattutto alle brasseries di Parigi che, nel frattempo, stavano diventando sempre più alla moda. Spesso le lumache vi venivano servite à la provençale, cioè ripiene di aglio, burro e prezzemolo. La stessa ricetta fu considerata abbastanza buona da essere adottata anche in Borgogna: ma quei bricconi patentati le ribattezzarono escargots à la bourguignonne. I provenzali contrattaccarono modificando la ricetta originaria con l'aggiunta di prosciutto a cubetti, pasta d'acciughe e crema d'acetosella. La guerra delle salse è ancora in corso, e sconsiglio vivamente di intromettersi nelle discussioni fra appassionati delle due scuole.

Dall'epoca del suo ultimo trionfo parigino la lumaca non è più tramontata, e molte sono le ragioni del suo successo. Essendo naturalmente a misura di boccone, è comoda da mangiare; si conserva bene senza bisogno di particolari precauzioni, come dimostra la storia di un certo monsieur Locare che (Dio solo sa perché) tenne un secchio di lumache nell'armadio per diciotto mesi prima di mangiarle; e dal punto di vista nutrizionale è un cibo molto sano, con pochi grassi e ricco di azoto. Quanto al sapore, lasciatevi guidare da questa semplice regola: è la salsa a fare la lumaca. Senza salsa la poveretta, come molti tipi di pesce, non ha nessun sapore, a meno che non sia stata allevata con una dieta che comprenda timo e altre erbe.

Mi intrigava questa idea di una lumaca naturalmente premarinata, nata e cresciuta, come gli agnelli del Sisteron, fra le ricche erbe aromatiche della Provenza. In quel caso sarebbe stata forse percepibilmente più saporita? Avrebbe potuto essere mangiata anche senza salsa, diventando un cibo ancora più diffuso? Un freddo giorno di dicembre, mentre me ne uscivo in macchina dal vilaggio di Cadenet, mi ritrovai a pensare che forse stavo per trovare risposta alle mie domande: su un lato della strada, infatti, c'era un cartello che indirizzava i passanti a uno stretto viottolo acciottolato il quale, a sua volta, portava a un allevamento di lumache.

Avrei dovuto immaginare che fosse chiuso perché era inverno, stagione in cui la lumaca non è propriamente al meglio delle sue attività e risparmia le energie per il periodo fra maggio e agosto, quando mangia voracemente e si riproduce eroicamente. L'allevamento avrebbe riaperto i battenti solo in primavera. Mi segnai da qualche parte di tornarci.

Ma quando lo feci, tutte le mie speranze di trovarvi lumache naturalmente premarinate andarono in fumo. L'allevamento era stato venduto, e fino a oggi i nuovi proprietari non hanno dato segno di volersi lanciare nel business delle lumache. È un vero peccato, in quanto ciò apre la porta a imprenditori le cui lumache - e la cui etica - lasciano alquanto a desiderare. Mi riferisco all'indegna pratica di comprare gusci di lumaca francesi vuoti, infilarci dentro lumache straniere di meno eccelsa qualità, annegarle in una salsa sovraccarica d'aglio e rifilarle all'incauto acquirente al posto dell'originale. Sarebbe ora di mettere in allarme qualcuno a Bruxelles per questo scandalo. Sicuramente in mezzo alla brulicante moltitudine dei burocrati dev'esserci un ministro con portafoglio competente per le lumache.

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Pagina 136

Fanny


Penso sempre a Fanny come a una delle grandi eroine della mitologia provenzale, alla pari della Laura di Petrarca e della Mireille di Mistral. Può sembrare una combinazione un po' eretica, ma a mia discolpa posso dire che Fanny, perlomeno nei circoli sportivi, è forse ancora più celebrata delle altre due, ed è davvero ancora fra noi; il suo nome è invocato ovunque si giochi alle boules.

Come quelle di molte altre eroine mitologiche, le origini di Fanny sono piuttosto oscure. Secondo una versione sarebbe stata la groupie di una squadra di bocce di Lione, il tipo di ragazza che oggi vediamo ciondolare attorno ai divi del calcio. Un'altra vuole che fosse cameriera in un caffè di Isère. La versione provenzale, che naturalmente per me è vangelo, è che lavorasse in un bar affacciato sul boulodrome di La Ciotat, il luogo in cui fu inventata la pétanque (vedi).

Ma se i giocatori di boules non sono d'accordo sulla sua storia, sono comunque unanimi nell'indicare il suo ruolo nel gioco: Fanny esiste per dare conforto e sollievo a chiunque perda con lo sconsolante punteggio di 13 a zero. Quanto alla delicata questione della forma precisa assunta da tale conforto e sollievo, di solito darle un bacio è universalmente accettato come premio di consolazione. Ma dove? In origine il luogo deputato erano le guance della fanciulla, ma col passare degli anni il punto in cui lo sfortunato giocatore vorrebbe baciarla per tirarsi un po' su è cambiato... complice, come raccontano i più, una deliberata anomalia del suo guardaroba che lascia sempre in bella vista il derrière. Il resto si può facilmente immaginare.

Oggi il nome di Fanny ricorre più volte nel gergo dei giocatori di boules: faire Fanny, baiser Fanny o embrasser Fanny sono tutte espressioni che significano perdere per 13 a zero. E il suo derrière è commemorato in tutti i «bar sport» di Provenza sotto forma di statuette e sculture da parete che attendono solo il bacio del perdente. Come molte altre cose della vita, anche la consolazione non è più quella di un tempo.

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Pagina 137

Félibrige


L'ultimo chiodo sulla bara del dialetto provenzale fu pian- tato quando le autorità di Parigi decisero che il francese sarebbe stato l'unica lingua ufficiale di tutta la Francia. Fino a quel momento il provenzale era stato uno dei sette dialetti principali della lingua occitana, parlato diffusamente in tutto il Sud. Il che probabilmente era fonte di considerevole frustrazione per i funzionari della capitale, che non ne capivano una parola; né chi parlava o scriveva dalla Provenza era in grado di comprendere la lingua dei burocrati. Lo stato delle cose era dunque molto disordinato, e interferiva con l'amore per la centralizzazione proprio di tutte le autorità costituite. Che soddisfazione c'è nel varare leggi e editti che risultano del tutto incomprensibili per buona parte della popolazione meridionale? È come cantare per un pubblico di sordi. Si prese dunque la decisione – ratificata con un decreto nel 1793 – di proibire l'uso del provenzale in scuole, istituzioni governative e organi di stampa, nonché nell'esercito. Bisognava che tutti parlassero il francese.

Ma uccidere una lingua è cosa lunga e difficile; e di fatto il provenzale riuscì a sopravvivere, passando oralmente da una generazione all'altra e grazie alla sana indisponibilità dei provenzali a lasciarsi comandare da un branco di parigini intriganti (sentimento vivo ancora oggi, e forte soprattutto a Marsiglia). Poi, nel 1854, l'idioma locale ricevette il riconoscimento più ambito: Frédéric Mistral e altri sei poeti si riunirono per formare un movimento letterario teso a «salvaguardare indefinitamente per la Provenza la sua lingua». Mistral battezzò il nuovo movimento Félibrige, e i suoi membri si chiamarono félibres, parola tratta dal folclore provenzale.

Quello di Félibrige fu un tentativo coraggioso, che visse il suo momento d'oro nel 1904 quando Mistral vinse il Nobel per la letteratura. Ciononostante la salvaguardia del provenzale era una causa persa, forse perché troppo nostalgica e poco moderna; nella pratica, l'utilità della lingua locale era definitivamente tramontata. Per non parlare del fatto che a remare contro c'era addirittura una legge nazionale: ben raramente la poesia è capace di tenere testa alla politica.

Oggi è difficile sentire parlare il provenzale, eccetto da qualche ottuagenario residente in uno degli angoletti più sperduti della regione. Per il resto la lingua tradizionale è usata solo in qualche occasione cerimoniale, come la messa del tartufo di Richerenches o l'assemblea annuale di qualche associazione per la difesa delle tradizioni locali. Tuttavia alcune parole sono riuscite a varcare la frontiera regionale e a entrare a pieno titolo nel francese, per esempio santon, cabanon, jarre e pistou (rispettivamente: figurina di creta, rifugio di sassi, grossa casseruola di terracotta, salsa a base di basilico, aglio e olio d'oliva). Ma per cogliere le tracce più visibili della vecchia lingua spesso basta osservare un qualsiasi villaggio provenzale.

Perché dopo avere eliminato con successo il dialetto dalla lingua parlata quotidianamente, la burocrazia, nella sua infinita saggezza, le permette oggi di ricomparire surrettiziamente nella forma degli originari nomi di luogo della Provenza, che si possono leggere bellamente scritti sui cartelli all'ingresso di un crescente numero di paesi, quasi in una sorta di gemellaggio con le loro identità passate. Così oggi Mènerbes si chiama ufficialmente anche Menerbo; Richerenches è anche Richarencho; Aix è anche Aix en Prouvenco; Lauris è anche Lauri e Vaugines è anche Vau-Gino.

E fin qui tutto bene; ma perché fermarsi ai nomi di paese? Perché non restituire quelle meravigliose, rotolanti vocali provenzali – quelle oun, aou, uio, ieou e ai – anche ad altri luoghi dove i visitatori potrebbero voler essere accompagnati e introdotti? Prendiamo per esempio le umili toilettes publiques: come sarebbe più poetico se tale insostituibile locale fosse identificato col suo nome provenzale, le cagadou. Lo stesso principio si potrebbe estendere ad altri punti importanti del villaggio: il parcheggio, la mairie, la chiesa, la fontana, il caffè, nomi utili ma prosaici, che sicuramente trarrebbero beneficio da un tocco del vecchio fascino linguistico. Sarebbe anche un bel modo per ricordare il Félibrige; con il vantaggio addizionale di rendere le indicazioni del tutto incomprensibili ai parigini.

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Fontaines


È difficile pensare a un loro equivalente moderno. La fontana, ai suoi tempi, serviva non solo come fonte di chiare fresche e dolci acque, ma anche come attivo e vivace centro sociale. Era il posto dove incontrare i vicini di casa (e commentare imprese e carattere degli assenti), aggiornarsi sul prezzo della farina e dell'olio d'oliva, flirtare o scambiare insulti con i passanti, spettegolare, bighellonare, rinfrescarsi d'estate e pili in generale passare un piacevole quarto d'ora mentre si svolgevano le mansioni quotidiane. Perché andare alla funtana era una mansione quotidiana: in giorni in cui lo stoccaggio e la distribuzione dell'acqua erano ancora piuttosto primitivi, possedere una cisterna era un lusso e il contenuto di tale cisterna, il più delle volte, era stagnante e imbevibile. La fontana quindi, fino a un certo punto del XX secolo, è stata una componente viva ed essenziale della vita di villaggio, al punto da avere spesso un impiegato municipale tutto suo, il fontainier, la cui responsabilità consisteva appunto nel prendersene cura.

Lo stile della fontana riflette spesso la ricchezza e le ambizioni artistiche del paese. A Saignou, per esempio, la fontana è un'opera scultorea meravigliosamente elaborata, realizzata dall'eminente monsieur Collier: sopra una base esagonale si erge una colonna che sostiene un piccolo ma decorato bassin, e sopra il bassin si staglia la statua di una fanciulla che versa un torrente di pietra dalla giara che tiene in mano. Niente male per un villaggio con meno di mille abitanti. Borghi e città spesso hanno usato le loro fontane per commemorare eventi di rilevanza locale: è per questo che mi ha incuriosito il fatto che la Fontaine Saint-Michel di Forcalquier sia decorata con quella che sembra tanto una scena erotica: purtroppo non si sa se la raffigurazione sia storicamente fondata o se lo scultore abbia più semplicemente realizzato dei ghirigori in pietra in attesa di un'ispirazione migliore.

Ma si possono ammirare anche ornamenti più modesti – a volte bizzarri, a volte ingegnosi, a volte addirittura ironici – applicati all'estremo funzionale della fontana, quello da cui esce l'acqua. L'acqua può zampillare dalla bocca di angeli, demoni e ninfe, cigni e gargolle, delfini e leoni, nonché da innumerevoli facce umane. Se all'acqua è stato permesso di rotolare lungo una china di pietra per un paio di secoli, la fontana sarà adorna di una lussureggiante barba di muschio. Altre facce emettono il loro zampillo d'acqua attraverso un breve tubo di ferro infilato fra le labbra, simile a un sigaro sputacchiante: un elemento piuttosto incongruo in bocca a un cherubino.

Con il caldo afoso dell'estate provenzale, il rumore dell'acqua e lo scintillio del sole sulla sua superficie attraggono come una calamita i turisti accaldati. Ed è forse a beneficio di tale pubblico che a volte, inciso da qualche parte sulla fontana, c'è un messaggio scritto. Quello di Clovis Hugues, l' enfant terribile di Ménerbes, recita così: C'est l'eau, qui nous donna le vin, «È l'acqua che ci ha dato il vino». Un altro, scritto da un anonimo provenzale: Eici l'aigo es d'or, «Qui l'acqua è d'oro». E infine uno probabilmente composto da un moderno discendente del fontainer, che suona un po' meno poetico: «L'acqua non dev'essere usata per lavare l'auto».

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Fruit confit


È uno dei più misteriosi e improbabili raggruppamenti della storia provenzale: due fratelli nella pietas religiosa come papa Clemente VI e papa Urbano V e il non certo devoto marchese de Sade. Cosa possono avere in comune?

La risposta è: la passione per i dolci. Tutti e tre i personaggi citati erano patiti della frutta candita. E, fin dal XIV secolo, per godersi questa dolce specialità non c'è posto migliore della città di Apt, autoproclamatasi Capitale mondiale du Fruit confit. La cosa cominciò con una manciata di famiglie, i loro calderoni e una certa quantità di ciliegie, fichi e albicocche messi a seccare al sole nei campi circostanti. Poi, a poco a poco, l'attività si trasformò in una vera e propria industria; alla fine del XIX secolo Apt ospitava dieci fabbriche di frutta candita, che davano lavoro a ottocento persone e producevano 165.000 chili di canditi l'anno.

Dati che oggi sono calati parecchio, probabilmente a causa dell'aumentata concorrenza di altri tipi di dolciumi. Ormai le persone che per carburare hanno bisogno di un rifornimento zuccherino possono scegliere fra un ventaglio di possibilità pressoché illimitato, dai cereali per la colazione ai gelati, dal cioccolato al chewing gum. Tutti alimenti adulterati. Ma, fortunatamente per gli artigiani di Apt, c'è ancora chi preferisce i sapori naturali a quelli degli additivi chimici: e per questi conoscitori della vera dolcezza niente può competere con un bel frutto candito lavorato secondo la tradizione, lussuosamente ricoperto di zucchero e gloriosamente appiccicoso.

Se non è una vera e propria arte quella di candire la frutta è sicuramente una lavorazione molto elaborata, che richiede tempo, pazienza e grande cura per i dettagli. In teoria il processo è semplicissimo: grazie all'osmosi, l'acqua contenuta nella frutta viene sostituita con una soluzione zuccherina che funge da conservante. Quando tutto viene fatto come si deve il risultato è dolce e sodo e mantiene forma, colore e sapore del frutto originario. Ed è proprio qui, nel fare tutto come si deve, che entrano in gioco l'abilità e la pazienza.

La frutta viene sbollentata per brevissimo tempo in acqua e lasciata raffreddare prima di immergerla nello sciroppo. Si fa bollire per tre o quattro minuti, si toglie dallo sciroppo e la si fa raffreddare di nuovo. L'operazione viene ripetuta una dozzina di volte, aumentando sempre la concentrazione dello zucchero nello sciroppo (è questo aumento graduale dello zucchero che permette al frutto di mantenere la forma e di rimanere tenero: troppo zucchero aggiunto troppo presto fa raggrinzire la bucciae indurire la polpa). Finita la serie dei bagni nello sciroppo, che possono richiedere da qualche settimana a qualche mese, a seconda del frutto trattato, c'è una sessione di asciugatura a calore moderato che dura qualche giorno. Come capirete, non è cosa che un cuoco impaziente possa tentare nella cucina di casa.

Fra i confiseurs di Apt ancora in attività il più grande è Kerry Aptunion, uno stabilimento industriale appena fuori dal centro storico. Una delle più antiche ditte indipendenti è invece la Maison Léopold Marliagues, fondata nel 1873, ancora diretta dalla famiglia fondatrice e ancora impegnata nella lavorazione tradizionale al punto da riciclare i peduncoli delle ciliegie, lasciati a decomporsi per farne compost, e i noccioli, che vengono bruciati come combustibile per riscaldare le serre.

Come accade in Francia per tutto ciò che si può mangiare, anche su quando assaggiare la frutta candita ci sono alcune regole precise da tenere a mente: «Non si può andare da un'albicocca a un limone e poi tornare a un fico». Nemmeno per sogno! Bisogna osservare un certo ordine. Si comincia con i frutti dal sapore più delicato – albicocche, prugne, fichi, ananas, melone – e solo dopo ci si avvicina agli agrumi, in modo da sperimentare «un véritable crescendo de saveurs». Cosa che non si può dire a proposito dei corn flakes prezuccherati.

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Normalement


È una parola molto frequente in Provenza, anche se di rado viene usata in senso letterale. A voi e a me potrebbe sembrare che il vocabolario dica già tutto quel che c'è da dire al riguardo: «In maniera normale, o di solito». Ma i provenzali ne danno un'interpretazione tutta loro, trasformandola in un promemoria del fatto che la vita è una cosa imprevedibile e spesso manda a carte e quarantotto anche i piani meglio concepiti. Il suo uso più comune riguarda contesti in cui compare una determinazione di tempo: «Normalement comincerei il lavoro martedì prossimo».

L'esperienza mi ha insegnato a diffidare delle frasi che cominciano con normalement. Ho imparato che, in casi del genere, la traduzione più precisa sarebbe: «In assenza di circostanze che esulano dal mio controllo e che quindi non possono essere considerate mia colpa, e ammesso che non mi si presenti qualcosa di più urgente, potrei essere in grado di cominciare il lavoro martedì prossimo, o al massimo mercoledì».

In Provenza si sente dire normalement così spesso che si è tentati di considerarlo alla stregua di un semplice tic linguistico. Non è così: la parola viene usata sempre come un qualificativo, e indica dubbio. Se mai una persona vi dicesse che il suo cane normalement non morde gli sconosciuti, vi consiglio caldamente di tenervene a prudente distanza.

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Nostradamus


Uno dei più famosi pessimisti del mondo, Michel de Nostredame, nacque a Saint-Rémy-de-Provence nel 1503, trascorse i primi anni della sua vita professionale esercitando la medicina ed ebbe qualche successo nello scoprire e sviluppare rimedi contro la peste, che però tenne gelosamente per sé rifiutandosi di condividerli con gli altri medici, i quali alla fine si vendicarono radiandolo dalla professione. Ma a quell'epoca Nostredame aveva già deciso di dare una svolta alla sua esistenza diventando profeta.

Comprò dunque casa a Salon-de-Provence, sposò una donna del posto e nel 1555 pubblicò, con il nome di Nostradamus, una prima raccolta delle sue Centurie. Si tratta di un misto di poesia e divinazione: più di novecento profezie, composte in stanze di quattro versi ciascuna e con un linguaggio così impenetrabilmente enigmatico che nessuno è mai stato in grado di dire con assoluta sicurezza cosa intendessero predire. In quei versi, comunque, c'è una chiara aria di catastrofe imminente. L'argomento gira sempre attorno a guerre, carestie, peste, conflitti, terremoti e altre calamità; allora come adesso, le cattive notizie vendevano bene. Le Centurie divennero subito un bestseller. Nostradamus cominciò a ricevere la visita di teste coronate, preparò un oroscopo completo per Caterina de' Medici, fu consultato su misteriosi problemi e conquistò ricchezza e celebrità. Una celebrità di lunga durata, con eruditi e indovini che, nel corso dei secoli, si sono rotti la testa per decifrare i suoi velati accenni a imminenti, funesti destini. Alcuni affermano di averci trovato riferimenti al grande incendio di Londra, alla rivoluzione francese, all'ascesa al potere di Napoleone, all'avvento di Hitler, ai viaggi nello spazio e alla Guerra del Golfo. Per non parlare, ovviamente, di un annuncio che da sempre sta a cuore a tutti i profeti di qualsiasi dottrina: la fine del mondo, che a quanto pare dovrebbe verificarsi nel 3797. Ma su questo come sugli altri temi, dipende dall'erudito che si consulta: a volte l'interpretazione è tutto.

Nostradamus è anche l'autore di Façon et manière de faire des confitures, un manuale per la preparazione della marmellata che indubbiamente è la sua opera di più piacevole lettura. Morì nel 1566, e il suo corpo giace nella chiesa trecentesca do Saint-Martin, non lontano dalla casa di Salon in cui visse. L'indirizzo, come potete ben immaginare, oggi è rue Nostradamus.

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Pistou, pissaladière et pissalat


Una volta ho sentito un francese snob liquidare la cucina italiana con il tagliente commento che «dopo i maccheroni non c'è altro». Affermazione indubbiamente calunniosa e poco precisa; eppure molti francesi sono davvero convinti che la loro cucina nazionale sia più varia e raffinata di qualsiasi altra si possa trovare a est di Mentone, dove notoriamente comincia la patria del maccherone. A ogni modo, nelle questioni riguardanti lo stomaco i francesi sono sempre estremamente pratici e sanno riconoscere una cosa buona quando la assaggiano. Per questo non ci stupisce che alcuni tesori gastronomici italiani siano riusciti a intrufolarsi nei menu provenzali, subendo nel passaggio solo un piccolo cambio di nome. Il pistou e la pissaladière sono solo un paio di popolarissimi esempi.

Il pistou ha infatti una stretta affinità con il pesto fatto di basilico, aglio, olio d'oliva, pinoli e formaggio grattugiato. A parte la grafia del nome, la differenza più notevole è che nella versione provenzale non si mettono i pinoli e il composto si usa per ravvivare una zuppa di pomodori a pezzetti, fagioli, lenticchie, zucchine, patate, porri, foglie di sedano e vermicelli. Come avrete notato sembra tanto la ricetta di un minestrone, ma qui in Provenza si finge di ignorarne le ascendenze italiane e il piatto è noto semplicemente come soupe au pistou. Quanto al sapore, è eccellente. E per rendere la zuppa ancora più sostanziosa io ci aggiungo sempre un cucchiaio di olio d'oliva crudo.

La pissaladière, in buona sostanza, è una pizza senza mozzarella: una base di pasta di pane o di pasta sfoglia con cipolle a fettine, filetti d'acciuga e olio d'oliva. A volte la sentirete chiamare anche pizza provençal. Come commenterebbe un napoletano è lasciato alla libera immaginazione del lettore.

Il pissalat invece, a quanto ne so, ha le sue radici in Francia, da qualche parte lungo la costa mediterranea. È una purea di pesciolini lunghi meno di due centimetri, con salamoia e olio d'oliva. Oggi tali pesciolini sono principalmente acciughe, ma la ricetta tradizionale si può leggere in un libro intitolato 150 modi di preparare le sardine, pubblicato nel 1898 dalla Imprimerie Colbert di Marsiglia. Il pissalat è eccellente con le crudité oppure spalmato su fettine di pane abbrustolito.

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Unité d'habitation


Per quanto oggi risulti difficile crederlo, c'è stata un'epoca, nemmeno tanto tempo fa, in cui i palazzi residenziali a più piani erano una rarità in Francia e del tutto sconosciuti in Provenza. Un tempo in cui le costruzioni erano basse, e solitamente realizzate in pietra locale. Il cemento armato è stato un'assoluta novità fino a quando un certo architetto, Le Corbusier, non l'ha reso famoso concedendogli la sua benedizione. A lui va in buona misura il merito – o il demerito – di avere ispirato i palazzoni che negli ultimi cinquant'anni si sono diffusi in tutto il paesaggio urbano come mostruosi dentoni grigi.

Il più celebrato contributo di Le Corbusier alla trasformazione dell'architettura provenzale è l'Unité d'habitation, sul boulevard Michelet, nell'ottavo arrondissement di Marsiglia. La sua idea era di concentrare alcune unità abitative in quello che lui chiamò un «villaggio verticale»; attorno al palazzo doveva poi esserci un'area libera, lasciata a parco, perché gli abitanti potessero goderne. E così, fra il 1947 e il 1952 la sua creazione a venti piani fu edificata su gigantesche colonne di cemento armato: 337 appartamenti di varie metrature (tutti con abbondante luce naturale), un piano riservato a negozi e un giardino sul tetto. All'epoca il risultato era abbastanza innovativo da essere guardato con qualche diffidenza dalla gente del posto, che soprannominò l'edificio «la maison du fada», ossia la casa del pazzo. Ma era, ed è tuttora, una soluzione ingegnosa al problema di dare agli abitanti di una città un soffio d'aria fresca e una vista su alberi ed erba.

Da allora l'idea di Le Corbusicr è stata copiata da architetti meno geniali e da impresari edili più avidi di denaro, con qualche nota peggiorativa. Tutti infatti hanno abbracciato con slancio l'idea di costruire edifici alti in cemento armato, ma senza il consolante contrasto del verde. Dopotutto, perché sprecare del buon terreno edificabile per qualcosa di poco redditizio come gli alberi?

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