Autore Sandro Mezzadra
CoautoreBrett Neilson
Titolo Confini e frontiere
SottotitoloLa moltiplicazione del lavoro nel mondo globale
Edizioneil Mulino, Bologna, 2014, Saggi 810 , pag. 466, cop.fle., dim. 13,5x21,2x2,8 cm , Isbn 978-88-15-25166-4
OriginaleBorder as Method, or, the Multiplication of Labor
EdizioneDuke University Press, Durham, 2013
TraduttoreGigi Roggero
LettoreMargherita Cena, 2015
Classe scienze sociali , politica , lavoro , globalizzazione , economia politica












 

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Indice


Prefazione                                                  7

I.  La proliferazione dei confini                          15

 1. Il mondo visto da un taxi                              15
 2. Che cos'è un confine?                                  18
 3. Nel paesaggio di confine                               24
 4. Il confine come metodo                                 31
 5. Contenere la forza lavoro                              37

II. Fabrica mundi                                          45

 1. Linee d'ombra                                          45
 2. L'accumulazione originaria della cartografia moderna   49
 3. Il modello del mondo                                   57
 4. Il gorilla ammaestrato e la vacca sacra                65
 5. Deriva dei continenti                                  75

III. Frontiere del capitale                                85

 1. L'eterogeneità dello spazio globale                    85
 2. Capitalismo moderno e mercato mondiale                 91
 3. Genealogia della divisione internazionale del lavoro  102
 4. Transizioni del capitalismo                           107
 5. La moltiplicazione del lavoro                         117

IV. Figure del lavoro                                     125

 1. Lavoratori del mondo                                  125
 2. Prendersi cura                                        135
 3. Trader finanziari                                     144
 4. Catene che legano, catene che collegano               154
 5. Unità di chi?                                         159

V.  Nello spazio dei confini temporali                    169
 1. Dal negozio di tè alla panchina                       169
 2. La corsa per il talento                               176
 3. Detenzione e deportabilità                            182
 4. Confini interni                                       193
 5. Inclusione differenziale                              201

VI. La macchina sovrana della governamentalità            213

 1. Duro ma umano                                         213
 2. Governare il confine                                  222
 3. Conflitti di regime                                   232
 4. Assemblaggi di potere                                 240
 5. La macchina sovrana della governamentalità            250

VII. Zone, corridoi e geografie post-sviluppiste          261

 1. Corridoi e canali                                     261
 2. Nella cornice                                         270
 3. Ultimo treno?                                         279
 4. Tra Cognizant e Infinity                              290
 5. Zone di confine                                       299

VIII. Produzione di soggettività                          309

 1. Stachanov e noi                                       309
 2. I soggetti della politica                             319
 3. Forza/lavoro                                          327
 4. Lotte di confine                                      335
 5. Il lavoro della traduzione                            342

IX. Tradurre il comune                                    351

 1. Il metodo di chi?                                     351
 2. Articolazione, traduzione, universalità               359
 3. Confinare il comune                                   368
 4. Cooperative, economie di comunità e spazi del comune  377
 5. In lotta per il comune                                386


Riferimenti bibliografici                                 397
Indice dei nomi                                           457


 

 

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Pagina 7

PREFAZIONE



Fosco e impuro, magico e violento: è questo il paesaggio che sin dall'antichità avvolge il gesto di tracciare e istituire un confine. Fonti di tutto il mondo ci raccontano storie splendide e spaventose sulla creazione di linee di demarcazione tra il sacro e il profano, il bene e il male, il privato e il pubblico, íl dentro e il fuori. Dalle esperienze liminali delle società rituali alla delimitazione della terra in quanto proprietà privata, dal fratricidio commesso da Romolo nei confronti di Remo nella mitologica fondazione di Roma all'espansione del limes imperiale, queste storie ci parlano del potere produttivo del confine, ovvero del ruolo strategico che esso gioca nella fabbricazione del mondo. Trasmettono anche, a un primo sguardo, un'idea della profonda eterogeneità del campo semantico del confine, delle sue complesse implicazioni simboliche e materiali. La rappresentazione cartografica moderna e i dispositivi istituzionali del confine come linea — prima in Europa e poi globalizzati attraverso il vortice del colonialismo, dell'imperialismo e delle lotte anticoloniali — hanno in qualche modo oscurato questa complessità e ci hanno condotto a considerare il confine come letteralmente marginale. Oggi, da questo punto di vista, assistiamo a un profondo cambiamento. Come molti studiosi hanno evidenziato, il confine si è inscritto al centro stesso dell'esperienza contemporanea. Non siamo soltanto di fronte a una moltiplicazione dei diversi tipi di confine, ma anche al riemergere della profonda eterogeneità del campo semantico del confine. Delimítazíoni simboliche, linguistiche, culturali e urbane non sono più articolate in modi fissi dal confine geopolitico. Piuttosto, si sovrappongono, si connettono e disconnettono in modi spesso imprevedibili, contribuendo a plasmare nuove forme di dominio e sfruttamento.

È innegabile che la violenza informa le vite e i rapporti che si giocano sui e attraverso í confini in tutto il mondo. Si pensi alle morti, spesso non registrate, dei migranti che sfidano i confini nel deserto tra Messico e Stati Uniti, oppure sulle acque increspate del mar Mediterraneo. Nuove e vecchie forme di guerra continuano a bersagliare vaste aree di confine. Si pensi al Waziristan, al Kashmir, alla Palestina. Questo libro è nato dall'indignazione e dalle lotte, in particolare dalle lotte dei migranti, contro la violenza e la guerra al confine. Mano a mano che la nostra ricerca e la scrittura procedevano, abbiamo anche imparato (ancora una volta, soprattutto dai migranti) a valorizzare le capacità, le competenze e le esperienze dell'attraversamento del confine, dell'organizzare la vita attraverso il confine. Pratiche letterali e metaforiche di traduzione hanno iniziato a essere sempre più associate nella nostra mente alla proliferazione dei confini e alle lotte di confine nel mondo contemporaneo. Sebbene la proliferazione dei confini sia profondamente coinvolta nell'operare di vecchi e nuovi dispositivi di spossessamento e sfruttamento, come abbiamo detto, siamo convinti che proprio da questo punto di vista le lotte che ruotano attorno ai confini e le pratiche di traduzione che le attraversano possano giocare un ruolo chiave nell'approfondire il dibattito sulla politica del comune. Il libro può essere in parte letto come un contributo a tale dibattito, in cui vediamo alcune delle più promettenti condizioni per la reinvenzione di un progetto di liberazione nel presente globale.

Con il passare degli anni ci è parsa via via più problematica la fissazione sull'immagine del muro in molti studi critici sul confine e nelle reti di attivisti. Ciò non significa che non riconosciamo l'importanza della diffusione mondiale dei muri, appena un paio di decenni dopo la celebrazione della caduta del muro di Berlino. Ma al di là del fatto che molti di essi sono assai meno rigidi e impenetrabili di quel che pretendono, assumere il muro come l'icona paradigmatica dei confini contemporanei conduce a un'attenzione unilaterale sulla loro capacità di escludere. Ciò può paradossalmente rafforzare lo spettacolo del confine, vale a dire l'esibizione ritualizzata della violenza e dell'espulsione che caratterizza molti interventi di confine. L'immagine del muro può anche consolidare l'idea di una divisione netta tra interno ed esterno, così come il desiderio di una perfetta integrazione dell'interno. Come mostriamo in questo lavoro, assumere il confine non solo come un «oggetto» di ricerca, ma anche come un punto di vista «epistemico» (è fondamentalmente quello che intendiamo con la formula «confine come metodo», che dà íl titolo all'edizione originale di questo libro), mette in evidenza le tensioni e i conflitti che sfumano la linea tra inclusione ed esclusione, consentendo di cogliere i codici profondamente mutati dell'inclusione sociale nel nostro presente. Allo stesso tempo, quando parliamo dell'importanza dell'attraversamento del confine, siamo consapevoli che questo momento nell'operare del confine è importante non solo dal punto di vista dei soggetti in transito. Lo è anche per gli Stati, gli attori politici globali, le agenzie di governance e il capitale. La selezione e il filtraggio di flussi, merci, lavoro e informazione che avvengono ai confini sono cruciali per l'attività di questi attori. Ancora una volta, assumere il confine come un punto di vista epistemico apre prospettive nuove e particolarmente produttive sulle trasformazioni che attualmente stanno riplasmando il potere e il capitale: per esempio, getta luce sull'intreccio di sovranità e governamentalità e sulle operazioni logistiche che sottendono i circuiti globali dell'accumulazione.

In questo senso, il nostro lavoro sui confini va letto come un contributo all'indagine critica dei processi globali reali. Sono ormai passati i giorni in cui un libro come Il mondo senza confini, scritto dal guru giapponese del management Kenichi Ohmae e pubblicato nel 1990, poteva dare il tono alla discussione sulla globalizzazione e sui confini. L'idea lì sostenuta di un gioco a somma zero tra la globalizzazione e i confini (nella misura in cui, con i progressi della prima, sarebbe diminuita la rilevanza dei secondi) è stata molto influente, ma è stata anche radicalmente messa in discussione dall'evidenza della presenza crescente dei confini nel nostro presente. Sebbene il nostro lavoro si proponga di studiare questo processo di moltiplicazione dei confini, non sosteniamo affatto che lo Stato-nazione sia uscito intatto dalla globalizzazione. Concordiamo con molti studiosi che hanno mostrato come lo Stato-nazione sia stato al contrario riorganizzato e riformattato nel mondo contemporaneo. Ciò ci conduce a focalizzare l'attenzione non solo sui tradizionali confini internazionali, ma anche su altre linee di demarcazione sociale, culturale, politica ed economica. Per esempio, indaghiamo i confini che circoscrivono le «zone economiche speciali» sempre più diffuse in molte parti del mondo all'interno di spazi politici formalmente unitari.

Una delle nostre tesi centrali, lo ripetiamo, è che i confini, lungi dal servire meramente a bloccare o ostruire i passaggi globali di persone, denaro o oggetti, sono diventati dispositivi centrali per la loro articolazione. I confini giocano un ruolo chiave nella produzione del tempo e dello spazio eterogenei del capitalismo globale e postcoloniale contemporaneo. Questa attenzione alla profonda eterogeneità del globale è uno dei tratti distintivi del nostro lavoro, che si sviluppa in un costante dialogo con molti lavori antropologici ed etnografici, così come con quelli di teorici politici e sociali. I soggetti in movimento e le loro esperienze del confine forniscono un filo conduttore che corre attraverso i nove capitoli del volume. Analizzeremo l'evoluzione della forma dei regimi di confine e delle migrazioni in diverse parti del mondo, guardando al modo in cui questi regimi concorrono alla produzione della forza lavoro in quanto merce. Allo stesso tempo, focalizziamo l'attenzione sul problema di lungo corso dei rapporti tra le frontiere espansive del capitale e le demarcazioni territoriali nella storia del capitalismo moderno, concepito fin dal suo inizio come un sistema mondiale. Siamo convinti che nell'attuale transizione globale, sotto la pressione della finanziarizzazione del capitale, vi sia bisogno di mettere a verifica alcune delle più importanti nozioni e dei più importanti paradigmi teorici prodotti dall'economia politica e dalle scienze sociali per fare i conti con questo problema, dalla divisione internazionale del lavoro al rapporto fra centro e periferia. Ancora una volta, assumendo il punto di vista del confine, proponiamo un nuovo concetto — la moltiplicazione del lavoro — e tentiamo di seguire e cartografare il continuo rivolgimento geografico che vive al cuore della globalizzazione capitalistica. Il libro può perciò essere letto anche come un tentativo di contribuire alla continua discussione sull'evoluzione della forma dell'ordine e del disordine mondiali.

La nostra enfasi sull'eterogeneità è importante anche per l'analisi di quella che, con Marx, chiamiamo la «composizione del lavoro vivo» contemporaneo, sempre più attraversata, divisa e moltiplicata da pratiche di mobilità e dall'operare dei confini. Per avere un punto di appoggio analitico su questi processi alterniamo sguardi e voci molteplici, attraversando e sfidando la divisione tra nord e sud. Mentre insistiamo sull'importanza delle esperienze migratorie e dei regimi di controllo dal punto di vista delle trasformazioni del lavoro nel mondo euroatlantico, intervenendo nella discussione sul lavoro di cura e affettivo così come sulla precarietà, prestiamo al contempo attenzione, per fare un paio di esempi, al sistema hukou di registrazione del domicilio nella Cina contemporanea e ai complessi sistemi di costruzione dei confini che dividono internamente il mercato del lavoro indiano. Siamo consapevoli delle molte differenze che devono essere prese in considerazione. Non proponiamo un'analisi comparativa di questi e altri casi. Siamo interessati a un diverso tipo di produzione di conoscenza, che parta dai concetti e lavori sulle (spesso inaspettate) risonanze e dissonanze create dagli incontri e dagli scontri fra questi concetti e una materialità che può essere molto distante da quella al cui interno sono stati originariamente formulati. Ciò è parte integrante di quello che chiamiamo «confine come metodo». Nel caso della composizione del lavoro vivo, indica la rilevanza strategica dell'eterogeneità (per esempio di figure, qualifiche, status giuridici e sociali) attraverso diverse scale geografiche. Oggi la molteplicità è il necessario punto di partenza per qualsiasi indagine sulla composizione del lavoro, e il nostro libro tenta di fornire alcuni strumenti per identificare i punti di più intenso conflitto e attrito su cui focalizzare questa indagine. Sebbene la molteplicità e l'eterogeneità siano tagliate e divise da dispositivi di controllo e gerarchizzazione, non è meno vero che oggi l'unità è forza (per usare le parole che hanno segnato un'epoca nella storia della lotta di classe). Ma le condizioni di questa unità devono essere completamente reimmaginate sullo sfondo di una molteplicità ed eterogeneità che vanno trasformate da elementi di debolezza in elementi di forza.

Non dovrebbe a questo punto sorprendere che il nostro lavoro sui confini conduca a un confronto con alcune delle più influenti elaborazioni sul tema della soggettività politica che circolano nei dibattiti critici contemporanei. Nella modernità i confini hanno giocato un ruolo costitutivo nei modi di produzione e di organizzazione della soggettività politica. La cittadinanza ne è probabilmente il miglior esempio, ed è sufficiente riflettere sul rapporto strettissimo fra la cittadinanza e il lavoro nel XX secolo per cogliere le forme in cui i movimenti della figura diadica del cittadino-lavoratore sono stati inscritti nei confini nazionali dello Stato. Lavorando attraverso gli studi sulla cittadinanza e sul lavoro, così come i dibattiti più filosofici sulla soggettività politica, cerchiamo di far emergere le tensioni e le rotture che segnano le figure contemporanee del cittadino e del lavoratore. I confini che circoscrivono queste figure sono diventati elusivi e instabili; per fare riferimento a uno slogan dei latinos negli Stati Uniti («We did not cross the border, the border crossed us»), sono esse stesse in modo crescente attraversate e tagliate, più che circoscritte, dai confini. Attorno a questi confini, sebbene spesso lontano dal confine inteso in senso letterale, si combattono alcune delle più rilevanti lotte del presente. Liberare l'immaginazione politica dal fardello del cittadino-lavoratore e dello Stato è particolarmente urgente per aprire spazi al cui interno diventi possibile l'organizzazione di nuove forme di soggettività politica. Qui, ancora una volta, il nostro lavoro sui confini incontra i dibattiti odierni sulla traduzione e sul comune.

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2. Che cos'è un confine?


In un importante saggio dal titolo Che cos'è una frontiera?, Étienne Balibar scrive della «polisemia» e della «eterogeneità» dei confini, notando che «la loro molteplicità, il loro carattere di costruzioni o di finzioni non le rendono meno effettive» [Balibar 1997; trad. it. 2001, 207]. Non solo esistono confini diversi di cui fanno esperienza in modi differenti persone appartenenti a gruppi sociali differenti, ma allo stesso tempo í confini svolgono anche «più funzioni di demarcazione, di territorializzazione [...] tra materie o flussi sociali distinti, tra diritti distinti» [ibidem, 208]. Inoltre, i confini sono sempre surdeterminati: ciò significa che «nessuna frontiera politica è mai il mero limite tra due Stati», ma è sempre «sancita, raddoppiata e relativizzata attraverso altre divisioni geopolitiche» [ibidem]. «Senza la funzione di configurazione del mondo che esse svolgono – scrive Balibar – non vi sarebbero frontiere, o non ve ne sarebbero di durature» [ibidem]. La sua tesi richiama, in un contesto teorico profondamente diverso, quella sviluppata da Carl Schmitt [1950] ne Il nomos della terra, quando sosteneva che i confini tracciati nell'Europa moderna vanno compresi a partire dal loro nesso con gli ordinamenti politici e giuridici progettati per organizzare uno spazio già globale. Questi ordinamenti, inclusi i diversi tipi di «linee globali» e divisioni geografiche, forniscono un piano per la partizione coloniale del mondo e per la regolazione dei rapporti tra l'Europa e i suoi fuori. Per dirla in breve, l'articolazione tra le linee globali dell'espansione coloniale e imperialista e il tracciato di confini lineari tra Stati europei e occidentali ha costituito per vari secoli il motivo dominante della geografia globale organizzata dal capitale e dallo Stato. Ovviamente, questa storia non è mai stata pacifica né lineare.

La storia del XX secolo, caratterizzata dalle turbolenze della decolonizzazione, dalla globalizzazione dello Stato-nazione e dei suoi confini lineari sulla scia delle due guerre mondiali, è stata il teatro di un'esplosione di questa geografia politica. L'Europa è stata scalzata dal centro della mappa. L'egemonia globale statunitense, che pareva indiscutibile alla fine della guerra fredda, sta rapidamente cedendo, non da ultimo per la crisi economica che segna il passaggio dal primo al secondo decennio del XXI secolo. All'orizzonte si profila un panorama di potere globale più variegato e instabile, che non può più essere esaurientemente descritto con concetti come unilateralismo e multilateralismo [Haass 2008]. Emergono nuovi spazi continentali come luoghi di difficile integrazione, di interpenetrazione regionale, di mobilità politica, culturale e sociale. Sebbene sia un processo lungo e indubbiamente incompiuto, possiamo identificare diversi fattori in gioco nel suo sviluppo. Guerre devastanti, sollevazioni anticoloniali, trasformazione dei modelli di comunicazione e trasporto, cambiamenti geopolitici, bolle ed esplosioni finanziarie, tutti questi eventi hanno contribuito a ridisegnare l'immagine del mondo. Inoltre, sotto i colpi delle lotte di classe e delle connesse contestazioni del dominio di razza e di genere, il modo di produzione capitalistico continua a subire trasformazioni epocali e discontinue. Un aspetto cruciale di questi cambiamenti consiste nella riorganizzazione dei rapporti tra Stato e capitale, talvolta visti lavorare in coppia, talaltra in contraddizione logica, ma sempre implicati nei mutevoli regimi di sfruttamento, spossessamento e dominazione.

Se la mappa politica del mondo e la cartografia globale del capitalismo non sono mai state del tutto coincidenti, è tuttavia vero che una volta potevano entrambe essere facilmente lette l'una sulla base dell'altra. Nel mondo post-guerra fredda, la sovrapposizione di queste mappe è divenuta sempre più illeggibile. Una combinazione di processi di «denazionalizzazione» [Sassen 2006] ha investito sia lo Stato sia il capitale, con vari gradi di intensità e con una geometria di progressione ineguale. In particolare, la denominazione nazionale del capitale è diventata un indice sempre meno significativo per l'analisi del capitalismo contemporaneo. In questo libro affrontiamo tale problema, elaborando il concetto di «frontiere del capitale» e indagando i rapporti tra la loro costante espansione fin dalle origini del capitalismo moderno e i confini territoriali. Sebbene ci sia sempre stata una costitutiva tensione in questi rapporti, lo sviluppo del capitalismo come sistema mondiale ha dato luogo a successive forme di articolazione tra le demarcazioni generate dai processi economici e i confini degli Stati. Una delle nostre ipotesi centrali è che il capitale contemporaneo, caratterizzato da processi di finanziarizzazione e dalla combinazione di regimi eterogenei di lavoro e accumulazione, negozi l'espansione delle sue frontiere con assemblaggi estremamente complessi di potere e diritto, che includono ma anche trascendono gli Stati-nazione. Osservando l'espansione delle frontiere del capitale e considerando la proliferazione dei confini politici e giuridici, ci confrontiamo così con un sovvertimento geografico e un continuo processo di cambiamento e riorganizzazione delle scale geografiche. A esso corrisponde uno spazio globale profondamente eterogeneo, rispetto a cui il confine offre un angolo prospettico particolarmente efficace, da cui è possibile indagarne lo sviluppo.

Allo stesso tempo, la crisi della ragione cartografica [Farinelli 2003], al centro del dibattito tra i geografi fin dai primi anni Novanta del Novecento, ha sollevato questioni epistemologiche di grande rilievo per lo studio della trasformazione materiale dei confini. La crescente complessità del rapporto tra capitale e Stato (così come tra le loro rispettive rappresentazioni e produzioni spaziali) è uno dei fattori in gioco in questa crisi. Ciò ha dato vita a una certa ansia che circonda la figura e l'istituzione dei confini, mettendo in discussione la loro capacità di garantire punti di riferimento stabili e metafore con cui ordinare e inquadrare geometricamente il mondo [Gregory 1994; Krishna 1994; Painter 2008].

Oggi i confini svolgono ancora una «funzione di configurazione del mondo», ma sono spesso soggetti a cambiamenti e imprevedibili modelli di mobilità e sovrapposizione, apparendo e scomparendo, qualche volta cristallizzandosi nella forma di minacciosi muri che rompono e riordinano spazi politici un tempo unificati, attraversano la vita di milioni di uomini e donne che, in movimento oppure condizionati dai confini pur restando sedentari, si portano i confini addosso. In luoghi come il Mediterraneo o i deserti tra Messico e Stati Uniti, i confini interrompono violentemente il passaggio di molti migranti. Allo stesso tempo, i confini si sovrappongono ad altri tipi di limitazioni e tecnologie di divisione. Tali processi non sono meno sovradeterminati rispetto a quelli del moderno ordine mondiale, ma i modi attraverso cui configurano il globo sono notevolmente cambiati. Invece che organizzare una stabile mappa del mondo, i processi di proliferazione e trasformazione dei confini che analizziamo in questo libro mirano a gestire la «distruzione creatrice» e il costante ricombinarsi di spazi e tempi collocati nel cuore della globalizzazione capitalistica contemporanea. Il nostro obiettivo non è intravedere la forma di un futuro ordine mondiale. Vogliamo piuttosto indagare l'attuale disordine del mondo e provare a spiegare perché è altamente irrealistico pensare al futuro nei termini di un ritorno a una qualche sorta di ordine vestfaliano.

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La distinzione tra confine e frontiera è indubbiamente importante (si veda Prescott [1987]). Il primo termine è stato tipicamente considerato una linea, mentre il secondo è stato costruito come uno spazio aperto ed espansivo. In molti contesti contemporanei, tuttavia, questa distinzione sembra dissolversi. I confini dell'attuale spazio europeo, per esempio, assumono spesso caratteri di indeterminazione storicamente caratteristici della frontiera, espandendosi in territori circostanti e costruendo spazi secondo una geometria variabile articolata su molteplici scale geografiche [Cuttitta 2007]. Il nostro studio tratta simili casi di complicata sovrapposizione e confusione concettuale attraverso l'analisi puntuale di concreti paesaggi di confine. In ogni caso, come dovrebbe essere chiaro dall'insistenza sulla formula «il confine come metodo» (che, lo ricordiamo, dà il titolo all'edizione originale di questo libro), per noi il confine è qualcosa di più di un semplice oggetto di ricerca che può essere indagato con vari approcci metodologici, oppure di un campo semantico di cui è necessario esplorare le molteplici dimensioni. Nella misura in cui serve immediatamente per produrre delle divisioni e stabilire delle connessioni, il confine è un dispositivo epistemologico, al lavoro ogni volta che è fissata una distinzione tra soggetto e oggetto. Ancora una volta, Balibar descrive nel modo più preciso questo aspetto del confine, notando la difficoltà inerente alla stessa definizione del concetto:

L'idea di una definizione semplice di ciò che è un confine è assurda per definizione: perché tracciare un confine è per l'appunto definire un territorio, delimitarlo e così registrare la sua identità o conferirgliela. Ma, reciprocamente, definire o identificare in generale non significa altro che tracciare un confine, assegnare dei confini (in greco horos, in latino finis o terminus, in tedesco Grenze, in inglese border o boundary, ecc.). Il teorico che voglia definire cos'è un confine è in un ginepraio, perché la rappresentazione stessa del confine è la condizione di ogni definizione [Balibar 1997; trad. it. 2001, 206-207, trad. modificata].

I confini, dunque, sono essenziali per i processi cognitivi, perché consentono di stabilire tassonomie e gerarchie concettuali che strutturano il movimento stesso del pensiero. Istituiscono inoltre la divisione scientifica del lavoro associata alla partizione della conoscenza in differenti aree disciplinari. In questo senso, i confini cognitivi si intrecciano spesso con i confini geografici, come succede per esempio nella letteratura comparata o nei cosiddetti «studi d'area», con i quali ci confrontiamo nel capitolo II. In ogni caso, è chiaro che i confini cognitivi hanno una grande rilevanza filosofica, in quanto descrivono una dimensione generale – forse si potrebbe addirittura dire universale – del pensiero umano.

Una filosofa che per molti anni ha studiato la violenza e i conflitti sul confine in regioni come i Balcani e il subcontinente indiano, Rada Iveković [2010], ha recentemente proposto di ripensare la «politica della filosofia» in rapporto a ciò che chiama le partage de la raison. Il termine francese partage, che combina il senso di divisione e quello di connessione, non ha una diretta traduzione in italiano. Nominando al contempo l'atto della divisione e l'atto della connessione, le due azioni costitutive del confine, nella formulazione di Iveković le partage de la raison evidenzia il ruolo cruciale della traduzione come pratica sociale, culturale e politica che consente l'elaborazione di un nuovo concetto del comune. Torneremo su questo punto nel capitolo IX. Qui il riferimento al lavoro di Iveković ci permette di chiarire il senso in cui parliamo del confine come metodo. Da una parte, facciamo riferimento a un processo di produzione del sapere che tiene aperta la tensione tra la ricerca empirica e l'invenzione di concetti che la orientano. Dall'altra, adottare il confine come un metodo significa sospendere – per richiamare una categoria fenomenologica – l'insieme di pratiche disciplinari che presentano gli oggetti della conoscenza come già costituiti, indagando invece i processi da cui questi oggetti sono costituiti. Riscattando e riattivando il momento costituente del confine, proviamo a rendere produttivo il circolo vizioso identificato da Balibar.

Criticando la visione dei confini come linee neutrali, mettiamo anche in discussione la nozione per cui il metodo sarebbe un insieme di tecniche già date e anch'esse neutrali, che possono essere applicate a diversi oggetti senza alterare in modo fondamentale i modi in cui sono costruiti e compresi. In gioco nel confine come metodo c'è qualcosa di più della «performatività del metodo» [Law 2004, 149] o anche dell'intrigante idea delle «terre di confine analitiche» [Sassen 2006; trad. it. 2008, 482-490]. Se accettiamo che i metodi tendano a produrre (spesso in modi contraddittori e inaspettati) i mondi che pretendono di descrivere, per noi la questione del confine come metodo non è semplicemente metodologica. È innanzitutto una questione politica, relativa ai tipi di mondi sociali e di soggettività prodotti sul confine, e ai modi in cui il pensiero e il sapere possono intervenire in questi processi di produzione. In altre parole, si può dire che il metodo ha più a che fare con l'agire sul mondo che con il conoscerlo. In termini più accurati, ha a che fare con il rapporto dell'azione con il sapere in una situazione in cui differenti regimi e pratiche di conoscenza entrano in conflitto. Il confine come metodo include la negoziazione dei confini tra differenti tipi di sapere che affiorano sul confine, mirando così a gettare luce sulle soggettività che prendono corpo in tali conflitti.

Per questo insieme di ragioni, il confine è per noi non tanto un oggetto di ricerca quanto un punto di vista epistemologico che consente un'approfondita analisi critica non solo di come i rapporti di dominio, spossessamento e sfruttamento vengono oggi ridefiniti, ma anche delle lotte che prendono forma attorno al mutamento di tali rapporti. Il confine può essere un metodo precisamente nella misura in cui è concepito come un luogo di lotta. Come abbiamo già sottolineato, è l'intensità delle lotte combattute sui confini in molte parti del mondo a ispirare la nostra ricerca e le nostre elaborazioni teoriche. Quando si indagano le pratiche multiformi con cui i migranti sfidano quotidianamente i confini, diventa chiaro come le lotte di confine siano troppo spesso questioni di vita e di morte.

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5. Contenere la forza lavoro


Abbiamo appena nominato un altro concetto che, nella specifica determinazione che assume nella teoria marxiana, orienta la nostra ricerca. In ogni considerazione sugli attuali processi globali è centrale il fatto che il mondo sia diventato più aperto ai flussi di merci e capitale ma più chiuso alla circolazione dei corpi umani. C'è tuttavia un particolare tipo di merce inseparabile dal corpo umano, e la sua assoluta peculiarità fornisce una chiave per comprendere e dipanare la situazione apparentemente paradossale cui abbiamo appena fatto cenno. Stiamo parlando della merce forza lavoro, che allo stesso tempo descrive una capacità dei corpi umani ed esiste come una merce scambiata nei mercati su differenti scale geografiche. Non solo la forza lavoro è una merce diversa dalle altre (il solo termine possibile di comparazione è il denaro), ma sono peculiari i mercati in cui è scambiata. Ciò dipende anche dal fatto che il ruolo dei confini nel modellare i mercati del lavoro è particolarmente pronunciato. I processi di filtraggio e differenziazione che hanno luogo al confine si dispiegano in modo crescente all'interno di tali mercati, influenzando la composizione di quello che – usando un'altra categoria marxiana – chiamiamo «lavoro vivo».

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«In quanto segno – scrive Thongchai Winichakul in Siam Mapped –, con il suo metodo di astrazione una mappa si appropria di un oggetto spaziale inserendolo in un nuovo sistema di segni» [Winichakul 1994, 55]. L'appropriazione dello spazio che è al centro della moderna cartografia replica l'appropriazione dei commons che istituisce la proprietà privata, così come la conquista coloniale con la sua geografia globale di genocidio ed estrazione. In tutti questi gesti di appropriazione spaziale, il tracciamento di linee di confine ha giocato un ruolo cruciale: non c'è proprietà privata senza recinzione, si potrebbe dire con Marx o in questo caso con Jean-Jacques Rousseau: «Il primo uomo che, recintato un terreno, ebbe l'idea di dire: Questo è mio, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile» [Rousseau 1755; trad. it. 2002, 133]. Non c'è conquista coloniale senza le linee globali che giuridicamente costruiscono gli spazi non europei in quanto aperti alla conquista, si potrebbe dire con Schmitt. Non c'è nessuna mappa moderna, aggiungiamo, senza i confini geografici e cognitivi che articolano la produzione cartografica, la fabbricazione del mondo. Ciò su cui vogliamo insistere è precisamente questo momento ontologico di produzione connesso con il gesto che traccia i confini. Proprio come l'economia politica classica ha rimosso dall'orizzonte storico del capitalismo il «peccato originale» e la violenza dell'accumulazione originaria, naturalizzando le «leggi» dell'accumulazione capitalistica, così la cartografia moderna ha congelato il momento ontologico della fabbricazione del mondo, costruendo la sua epistemologia sull'idea di una naturale proporzione e misura del mondo, un'astratta fabrica mundi da proiettare sulle mappe. La naturalizzazione dei confini geografici e cognitivi è stata il risultato necessario di questo movimento epistemologico. In gioco, nell'assunzione del confine come metodo, è uno sforzo di liberare questo momento ontologico congelato nella costruzione moderna delle mappe, per aprire uno spazio in cui diventi possibile una differente immaginazione e produzione del mondo.

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CAPITOLO TERZO
FRONTIERE DEL CAPITALE





1. L'eterogeneità dello spazio globale


Solo un anno dopo il 1989 – l'anno della caduta del muro di Berlino, delle proteste di Tien-An-Men, dell'annuncio del crollo dell'Unione Sovietica – l'artista giapponese Yukinori Yanagi ha realizzato la sua celebre opera World Flag Ant Farm. Yanagi ha riempito una serie di scatole trasparenti collegate con della sabbia colorata, in modo che ognuna rappresentasse una bandiera nazionale. Poi ha costruito dei canali di plastica tra queste scatole e ha fatto scorrere nel reticolo una fila di formiche. Mentre le formiche trasportavano cibo e sabbia per tutto il sistema, il loro «attraversamento dei confini» corrodeva lentamente l'integrità di ogni bandiera, creando un complesso mélange di colori e modelli. Nel suo libro La globalización imaginada, Néstor García Canclini assume l'opera di Yanagi come un paradigma dell'ibridazione transculturale e transfrontaliera da lui considerata una caratteristica della globalizzazione. I confini, in questa prospettiva, appaiono a García Canclini come «laboratori del globale» [García Canclini 1999, 34]. La definizione coglie bene il senso in cui i confini si situano al centro di un certo numero di processi globali di transizione, economici e culturali, sociali e politici.

I primi anni Novanta sono stati il periodo di una ricca e preliminare produzione di immagini e concetti per descrivere la forma che i processi contemporanei di globalizzazione stavano assumendo. Flussi, ibridazioni, spazio liscio, flatland, nesso globale-locale, postnazionalismo erano alcune delle parole chiave circolanti all'epoca, nei linguaggi mainstream e in quelli critici. Molti erano convinti che si andasse verso un mondo senza confini. Il libro del guru del management giapponese Kenichi Ohmae, Il mondo senza confini, è solo il più famoso di questi pronuncíamentí. L'economia di mercato sembrava liberarsi dai vincoli territoriali, e alcuni erano convinti che la lotta di classe stesse svanendo nella «fine della storia». L'immagine proposta da García Canclini del confine come laboratorio del globale, per quanto sia il frutto di un'analisi che a nostro giudizio si concentra sull'ibridazione culturale a spese dei processi economici e politici, forniva un efficace contrappunto a queste tendenze e prefigurava ciò che sarebbe accaduto in seguito.

Una delle ipotesi centrali del confine come metodo è che i processi di globalizzazione degli ultimi vent'anni abbiano portato non alla diminuzione bensì alla proliferazione dei confini. Non siamo gli unici a sostenerlo. Critiche alla «globalizzazione cintata» e all'«apartheid globale» erano già diffuse negli anni Novanta. Etienne Balibar [1992], con il suo libro Le frontiere della democrazia , ha cominciato a sviluppare un'analisi rigorosa del ruolo dei confini nella storia moderna, nella teoria politica e nei processi contemporanei di globalizzazione. Allo stesso tempo, si stavano sviluppando nuove forme di attivismo contro la violenza implicita nell'esistenza e nel controllo dei confini. Per fare un esempio, alla Documenta di Kassel nel 1997 si realizzò un importante incontro dei mondi dell'arte e dell'attivismo che ha dato vita alla campagna Kein Mensch ist illegal («Nessuno è illegale»), un'iniziativa di alto profilo dell'attivismo sui confini e sulle migrazioni risuonata ben oltre l'Europa occidentale. Come possiamo dar conto di questi sviluppi nel contesto delle affermazioni sul postnazionalismo e le profezie di un mondo senza confini?

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Nel capitolo precedente abbiamo sottolineato che la produzione dello spazio globale è un campo densamente eterogeneo in cui i confini e le differenze sono sempre fabbricati piuttosto che dati. Ciò ha implicato un'enfasi sulla fabrica mundi che mostra come le questioni ontologiche della produzione del mondo non vengano né prima né dopo í processi sociali, politici ed economici della trasformazione spaziale, essendo a essi coeve. In questo capitolo spostiamo l'attenzione sulla costituzione globale dello spazio economico, tenendo in considerazione le complessità ontologiche precedentemente esplorate e le loro implicazioni per la produzione di soggettività. In particolare, sottoponiamo a un esame critico una delle più importanti nozioni dell'economia politica classica, che ha influenzato non solo i dibattiti sulla globalizzazione dello spazio economico, ma anche le discussioni sulla storia del lavoro, sulla politica del lavoro e sui processi produttivi: il concetto di divisione internazionale del lavoro. Il presente capitolo rivisita la storia di questo concetto ed esamina i suoi utilizzi pratici. Inoltre, sosteniamo che il punto di vista del confine come metodo ci permette di afferrare l'eterogeneità dell'emergente spazio globale del capitale e del lavoro, mettendo profondamente in discussione il concetto di divisione internazionale del lavoro. Per confrontarci con queste difficoltà, estendiamo e completiamo tale concetto introducendone uno nuovo adeguato alla proliferazione dei confini nel mondo odierno: la moltiplicazione globale del lavoro. Inteso non come un sostituto ma come un rafforzamento del concetto classico, l'obiettivo a cui puntiamo è comprendere come i modelli di produzione emergenti sul piano globale funzionino attraverso lo sfruttamento delle continuità, degli scarti e delle interruzioni — dei confini — tra differenti regimi del lavoro.

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3. Trader finanziari


I trader finanziari occupano i vertici di un sistema globale che esercita un controllo sovrano sulle forme contemporanee di vita e di mobilità. E tuttavia non sono meno soggetti ai capricci e alle forze dei mercati in cui operano rispetto ad altre figure del lavoro, dalla lavoratrice di cura a quella delle pulizie, dal professore al programmatore. L'espansione dei mercati finanziari globali, nonostante i crolli e le crisi che li hanno attraversati in anni recenti, è stata evidente fin dai primi segnali di cedimento del sistema di produzione fordista negli anni Settanta. Per ricordare una statistica spesso citata, il valore totale della ricchezza generata dai mercati finanziari mondiali è ora otto volte più grande di quello prodotto in termini reali attraverso l'industria, l'agricoltura e i servizi [Office of the Comptroller of the Currency 2011]. La finanza permea oggi tutti i settori dell'economia globale e tutte le fasi del ciclo economico [Marazzi 2009]. Questa espansione della finanza ha in parte spostato le strategie della valorizzazione e dell'accumulazione di capitale lontano da industria, agricoltura e servizi, e verso forme di attività produttiva più immateriali e relazionali. Insieme a ciò vi è un crescente sfruttamento del lavoro mentale e intellettuale, che marcia parallelo allo sfruttamento del lavoro manuale, che resta una parte importante dell'economia globale.

Non vi è dubbio che i trader finanziari siano figure prominenti e anche privilegiate all'interno della forza lavoro cognitiva mondiale. Sebbene le loro retribuzioni possano essere sconcertanti, lo è altrettanto la loro esposizione al rischio e allo stress. La natura globale e «ventiquattr'ore al giorno per ogni giorno della settimana (24/7)» dei mercati finanziari e il crescente utilizzo della comunicazione elettronica testimoniano che il lavoro del trader non ha mai fine. Allo stesso modo, la volatilità e l'espansione di questi mercati hanno determinato un'accresciuta concorrenza e un aumento dei ritmi di lavoro. Quando la posta in gioco è alta e le possibilità di guadagno e perdita non sono mai remote, i corpi e i cervelli che alimentano il sistema finanziario mondiale sono spinti a livelli di sforzo sempre più elevati. Ciò ha delle conseguenze non solo per i trader, ma anche per coloro che vivono in stretta relazione con essi. In uno studio sui trader con figli, Mary Blair-Loy e Jerry A. Jacobs [2003] collegano le ore apparentemente senza fine investite da questi lavoratori e le loro frequenti tendenze a una totale dipendenza dal lavoro con un «deficit di cura» all'interno delle famiglie. Infatti, la maggior parte dei trader intervistati in questo studio ha segnalato di essere più stressata quando è in famiglia rispetto a quando è al lavoro. Questo deficit non solo rafforza le asimmetrie di genere, incoraggiando una tradizionale divisione del lavoro domestico in cui le donne si fanno carico delle fatiche maggiori e gli uomini si qualificano come bread winners. Esso aumenta anche la domanda di lavoro domestico pagato, alimentando le condizioni che conducono all'espansione del lavoro di cura migrante nelle città dove i mercati finanziari forniscono l'impulso all'attività economica. Se l'immagine delle donne indonesiane e filippine riunite sotto l'edificio della banca Hsbc a Hong Kong segnala la possibile emergenza di nuove forme di socialità e organizzazione tra le lavoratrici di cura migranti, registra anche la loro connessione economica, spaziale ed emotiva con i lavoratori del settore finanziario. Questi due gruppi – lavoratrici domestiche e di cura e trader – occupano estremi apparentemente opposti dello spettro mondiale del lavoro in termini di genere, di guadagni e di relativa attribuzione di compiti fisici e cognitivi. Ma sono materialmente e simbolicamente collegati all'interno della moltiplicazione globale del lavoro.

L'immagine tipica del trader finanziario è quella del maschio arrogante e cinico. È difficile dimenticare figure come quella di Gordon Gekko nel film di Oliver Stone Wall Street (1987), oppure di Patrick Bateman, del sociopatico violento e consulente finanziario raccontata da Bret Easton Ellis [1991] nel romanzo American Psycho. Con le loro ideologie di autogiustificazione, la loro misoginia e le operazioni sul lato oscuro della legge, Gekko e Bateman si uniscono alla lunga fila di personaggi romanzeschi che trovano il loro precedente letterario in Frank Cowperwood, il protagonista del romanzo di Theodore Dreiser [1912] Il finanziere. Questo iperbolico stereotipo maschile, che indica esso stesso una sorta di crisi della mascolinità, ha certamente le sue versioni nella vita reale. Il trading finanziario rimane una professione a dominanza maschile. Non è raro incontrare reportage giornalistici che riportano le avventure dei trader con prostitute e spogliarelliste [Schecter, Schwartz e Ross 2009]. Uno studio pretende addirittura di dimostrare che i trader con più elevati livelli di testosterone agiscono in modo più efficace sul mercato [Coates e Herbert 2008]. Ma per ogni studio che suggerisce come ormoni, machismo o altri estremi del comportamento maschile promuovano performance più remunerative sul mercato, ne esiste un altro che fa il controcanto. Brad M. Barber e Terrance Odean [2001] sostengono di aver scoperto che le donne sono migliori investitori finanziari degli uomini perché seguono uno stile operativo meno sicuro di sé e dunque tagliano i costi di transazione. Per quanto sia certamente necessario mettere in discussione l'individualismo metodologico che informa studi che mettono in correlazione tratti fissi della personalità o del genere con il successo nel trading finanziario, è anche vero che la forza lavoro finanziaria sta diventando sempre più diversificata dal punto di vista di razza e di genere.

In Out of the Pits, uno studio etnografico sul trading nei mercati dei futures di Chicago e Londra, Caitlin Zaloom descrive come le imprese finanziarie londinesi nei primi anni del XXI secolo abbiano cercato di far prosperare le proprie operazioni reclutando «trader professionalizzati» all'interno di un «paradigma multiculturalista». Hanno «assunto asiatici, neri e donne, tutti con un titolo di studio, per avere diversi punti di vista sul mercato. Secondo questa logica, le differenze categoriche di ogni trader avrebbe dovuto condurlo o condurla a interpretare il mercato in modo diverso, fornendo un insieme di intuizioni per le azioni di mercato» [Zaloom 2006, 91]. Inoltre, questi lavoratori dovevano preferibilmente essere single, per «non doversi preoccupare di questioni "estranee" come il dover pagare [per la macchina del partner] oppure per la vacanza della famiglia» [ibidem, 84]. Le osservazioni di Zaloom registrano come i trader finanziari siano diventati parte di una forza lavoro di élite e altamente mobile, molto richiesta nelle città globali del mondo contemporaneo. Andrew M. Jones spiega che «esiste un bacino globale di lavoro concentrato in un numero limitato di centri finanziari in Europa, Nord America e Asia» [Jones 2008, 6]. I datori di lavoro perciò «reclutano da un (crescente) mercato globale del lavoro con poca differenza tra i mercati del lavoro nazionali rispetto alle caratteristiche di questo bacino specializzato» [ibidem]. È qui cruciale registrare il modo in cui le differenze tra i mercati del lavoro nazionali sono diventate trascurabili quando si tratta di reclutare trader finanziari. Questo tipo di riorganizzazione dei confini all'interno e tra i mercati del lavoro, così come la molteplicità e la diversità che oggi costituiscono le forze lavoro, è una caratteristica chiave di ciò che chiamiamo moltiplicazione globale del lavoro. Un'implicazione in termini di pratiche di reclutamento e assunzione nel settore finanziario è l'accresciuto utilizzo di agenzie internazionali per riempire i posti di fascia alta vacanti. Secondo Jones, c'è anche la «netta evidenza che la mobilità internazionale è una caratteristica esplicitamente desiderabile dell'esperienza degli impiegati in molte di queste occupazioni, e che sono in gioco complessi modelli di migrazione a breve termine come conseguenza delle pratiche di distacco e collocamento internazionale nelle imprese transnazionali di servizi finanziari» [ibidem, 7].

I trader sono diventati oggetto di quello che Ayelet Shachar [2006] chiama «corsa per il talento», ovvero la concorrenza tra le nazioni più ricche per attrarre migranti con elevate competenze e qualifiche. Comprendendo spesso percorsi preferenziali verso il soggiorno permanente e infine la cittadinanza, questa concorrenza ha condotto alla diffusione internazionale di schemi migratori che misurano attentamente il grado di competenza e la capacità potenziale di generare ricchezza che i migranti possono apportare all'economia nazionale. Simili regimi hanno anche effetti speculari nei paesi di provenienza dei migranti, che sempre più incoraggiano la doppia cittadinanza, l'investimento nell'economia nazionale e la migrazione di ritorno. Proprio come le tecnologie di controllo dei confini che funzionano attraverso strategie di intercettazione, detenzione e clandestinizzazione, questi metodi di controllo dei confini e di filtraggio, che in realtà servono ad articolare e a incoraggiare la mobilità globale, funzionano attraverso processi di discriminazione e selezione. Nel prossimo capitolo indagheremo più approfonditamente questa inclusione differenziale. Per ora è importante notare che una quota crescente delle posizioni di alto livello dell'ordine finanziario mondiale è occupata da migranti. Jones [2008] stima una presenza di migranti del 10-15% ai vertici della forza lavoro finanziaria a Londra. Sebbene in nessun luogo questa percentuale sia prossima a quella della forza lavoro globale della cura, è impossibile studiare í trader finanziari e l'attività di trading, teoricamente o empiricamente, senza prendere in considerazione la mobilità transnazionale.

Quali sono, allora, gli aspetti soggettivi, le capacità o le potenzialità contenute nei cervelli e nei corpi dei trader finanziari, in particolare migranti, che li guidano nei loro incarichi e nelle operazioni di successo sui mercati globali? È vasta la letteratura che cerca di identificare ed enumerare questi attributi. Per fare un esempio, Thomas Oberlechner [2004, 23] conduce un'analisi delle valutazioni date dai trader professionali impiegati nelle principali banche europee per identificare otto caratteristiche percepite come importanti per un trader di successo: «cooperazione disciplinata, affrontare le decisioni, dare un significato ai mercati, stabilità emotiva, elaborare l'informazione, integrità interessata, organizzazione autonoma e capacità di gestire dati». Tale ricerca, quasi sempre focalizzata sui fattori della personalità individuale considerati come pienamente formati prima che il trader arrivi al mercato, è spesso condotta con la pretesa di migliorare le decisioni relative all'assunzione dei trader. Si è tentati di osservare che questi studi comportamentali del lavoro e della personalità hanno fatto ben poco per condizionare decisioni di assunzione in modi che avrebbero potuto prevenire la crisi economica globale del 2007-2008. Forse, però, è stato esattamente il comportamento efficiente dei trader nel generare ricchezza a innescare il crollo economico, con risultati disastrosi per i lavoratori in tutto il mondo.

Lo ripetiamo ancora una volta: i trader sono una categoria di lavoratori estremamente privilegiata. Sono i signori del sistema capitalistico globale, la cui manipolazione apparentemente immateriale di strumenti e dispositivi esoterici ha innegabili conseguenze materiali. Dato che il mondo finanziario muta costantemente e in modo imprevedibile, è difficile per i contratti con cui i trader vengono assunti specificare come i loro termini di impiego (salari, condizioni per rompere il contratto ecc.) evolveranno in risposta a eventi futuri. Come spiega Olivier Godechot, «non c'è alcuna nomenclatura preesistente e stabilizzata per l'insieme delle future condizioni del dipendente nel momento in cui il contratto viene firmato». Nella maggior parte dei casi, ciò significa che «il lavoro non è assegnato dal contratto ma gradualmente, mentre i dipendenti si integrano nel gruppo di lavoro» [Godechot 2008, 10]. Come le lavoratrici di cura studiate da Akahn, i trader vendono non un insieme predefinito di tratti della personalità, bensì la loro capacità o potenzialità di diventare la persona giusta, quella richiesta dai datori di lavoro (o dal mercato) a seconda del mutare delle circostanze. Vi è, tuttavia, una differenza importante fra i trader e le lavoratrici di cura. I trader possono (e solitamente lo fanno) acquisire il controllo sui beni trasferibili e dunque minacciare di andarsene o infliggere un danno al datore di lavoro che rifiuta di accettare una rinegoziazione del contratto. È la ragione per cui vengono pagati bonus enormi ai trader, in particolare quelli che guidano uffici e squadre, una pratica che ha attratto l'indignazione di politici e media con l'esplosione dell'attuale crisi economica.

Poiché lo strumento giuridico del contratto è incapace di fissare i termini in cui la forza lavoro è comprata e venduta, le aziende devono sborsare grandi somme per assicurarsi la lealtà del trader. Numerosi commentatori si concentrano sul modo in cui questi bonus inducono l'assunzione spericolata di rischi che abbassano il valore delle azioni e creano instabilità finanziaria (si veda, per esempio, Crotty [2011]). Lontani dal moralismo che caratterizza molte discussioni su questo tema, proviamo a fare in generale il punto sulle condizioni di lavoro, sulla libertà di movimento e sulla questione contrattuale che attraversano una molteplicità di vite lavorative e sono particolarmente pronunciate nel caso dei migranti. La minaccia implicita del ricatto o addirittura del sabotaggio che aleggia sul pagamento dei bonus ai trader è un'immagine rovesciata della realtà di coercizione prodotta dalla combinazione di regolazione del lavoro, confini e regimi dei visti applicata alle lavoratrici di cura e ad altri migranti meno qualificati. I mercati del lavoro, lungi dall'essere costruzioni statistiche governate senza attrito, sono caratterizzati da pratiche di manipolazione, violenza e preferenze che intervengono nell'equilibrio precario di mobilità e imbrigliamento che investe oggi il confinamento dei rapporti e dei processi lavorativi. Le varie forme di obbligo, limitazione e intimidazione che attraversano il campo generale del lavoro sono un promemoria delle specifiche condizioni ed esperienze negoziate in modi diversi da un insieme variegato e molteplice di soggetti del lavoro contemporanei. Allo stesso tempo, la differenziazione di status giuridici all'interno dei confini di «mercati del lavoro» formalmente unificati estende e ingarbuglia le catene che legano i lavoratori ai datori di lavoro e al rapporto di capitale. Che ciò prenda la forma del tradizionale rapporto salariale oppure includa altri meccanismi o attrattive (i bonus per i trader, gli affetti che investono le relazioni tra le lavoratrici di cura e i loro datori di lavoro, oppure i visti che legano í migranti ai contratti di lavoro), il «libero scambio» tra denaro e forza lavoro appare sempre più intrecciato e incastrato in situazioni complesse in cui è immediatamente in gioco la produzione di soggettività.

Tenendo a mente l'assoluta specificità della posizione dei trader finanziari nella più generale composizione dei rapporti tra lavoro e capitale, vediamo emergere una serie di paradossi. Il trader è un tipo particolare di lavoratore la cui attività produce una soggettività sempre protesa al divenire capitalista. Questa peculiare produzione di forza lavoro sembra essere non solo pienamente inclusa all'interno dello spazio del capitale, ma anche attivamente impegnata nell'espansione di tale spazio e nella sua continua colonizzazione di risorse, tempo e vite. Tuttavia, essa include anche una sorta di eccesso costitutivo che mostra il contratto di lavoro per quello che è: un pezzo di carta, insufficiente a regolare il rapporto di lavoro nell'assenza di un profondo radicamento all'interno di uno specifico luogo di lavoro e delle dinamiche di mercato. Inoltre, il lavoro vivo dei trader finanziari incarna una serie di caratteristiche che, dal punto di vista di un'analisi economica tradizionale, possono essere considerate una forma di capitale fisso. È ciò che costituisce la sua forza nel rapporto con i datori di lavoro [Marazzi 2005, 117-118]. La minaccia di andarsene è nel loro caso particolarmente efficace, a tal punto che non sempre necessita di essere resa esplicita. Questo perché, come spiega Godechot, se i trader se ne vanno, «portano con sé informazioni, sapere e know-how. Se ne vanno con i team. Se ne vanno con i clienti». Da questa prospettiva, il mercato del lavoro dei trader finanziari appare «fondamentalmente duale: un mercato di persone e un mercato per ciò che quelle persone portano via». Il valore dei trasferimenti fatti dai trader «sta più nei beni trasferiti che nelle competenze intrinseche della persona che contiene quei beni» [Godechot 2008, 21].

Da questa angolazione, l'approccio del comportamentismo finanziario che collega la prestazione del trader a una serie di tratti fissi della personalità incontra varie difficoltà. Se il trader è una figura il cui lavoro di divenire un capitalista non è mai compiuto, non è semplicemente o solo homo œconomicus. Non intendiamo unirci al coro degli studi che enfatizzano il ruolo delle disposizioni emotive dell'individuo nel processo decisionale finanziario (si veda, per esempio, Seo e Barrett [2007]). Chiaramente il trading finanziario non è semplicemente un esercizio razionale, ma è specificamente incorporato nella pratica sociale e spaziale che include particolari modalità di comunicazione corporea e di espressione affettiva. Come osserva Zaloom, i «processi che producono informazione astratta nei mercati finanziari non sono essi stessi astratti». Manager e designer «integrano soggetti, tecnologie, posti ed estetica in una zona di azione economica autonoma» [Zaloom 2006, 117]. Un insieme crescente di lavori di ricerca sottolinea le dimensioni sociali e affettive del trading finanziario. I mercati sono luoghi in cui le persone sono vicendevolmente suscettibili e si impegnano in modelli di imitazione [MacKenzie 2004; Orléan 1999]. Inoltre, quest'attività è economicamente consequenziale. Christian Marazzi scrive che «la finanziarizzazione dipende dalla razionalità mimetica, un comportamento di massa di tipo gregario basato sul deficit di informazione dei singoli investitori» [Marazzi 2002, 18]. Negli scenari del trading contemporaneo, una tale azione collettiva è mediata dalle tecnologie elettroniche e riceve una complessa rappresentazione grafica sul terminale del computer. Sistemato davanti alla sua macchina, il trader ha l'impressione che il mercato cominci a vivere [Zwick e Dholakia 2006]. Il mercato emerge così come una sorta di «oggetto epistemico», con una struttura ontologicamente aperta e dispiegata [Cetina 1997]. Tuttavia si muove, si trasforma e cambia solo con l'input di molteplici transazioni, che interagiscono e si aggregano per acquisire le caratteristiche di una forza sociale.

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Andare oltre i dilemmi che il concetto di unità oggi presenta significa riconoscere che í sistemi di controllo e disciplinamento del lavoro sono diventati sempre più sofisticati e finemente calibrati dall'epoca in cui Marx ed Engels esortavano i lavoratori di tutti paesi a liberarsi delle loro catene. Ma implica anche un'analisi dei modi complessi con cui il capitale produce la sua propria unità, che è allo stesso tempo il suo comando globale. Una forma provocatoria per affrontare questo aspetto fondamentale del capitale può essere trovata nell'importante libro di Alfred Sohn-Rethel [1972] Geistige und körperliche Arbeit (Lavoro intellettuale e lavoro manuale) , che ha offerto alcuni approcci piuttosto controintuitivi alla questione altamente controversa del ruolo della conoscenza e delle capacità cognitive nello sviluppo del capitalismo nel XX secolo.

Affrontando la questione del mutevole significato dei rapporti tra lavoro intellettuale e manuale lungo un ampio arco storico, Sohn-Rethel introduce il concetto di «sintesi sociale», che definisce in modo assai generale come «le funzioni che nelle diverse epoche storiche mediano la connessione esistenziale degli uomini con una società duratura». Aggiunge poi che «la sintesi tra le molteplici dipendenze degli uomini gli uni dagli altri in una determinata divisione del lavoro, per costituire un tutto unitario, si sviluppa e si trasforma come le forme della società» [Sohn-Rethel 1972; trad. ingl. 1978, 4].

[...]

Nella sua analisi del sistema taylorista e dei relativi «metodi di organizzazione del processo produttivo come un flusso continuo», Sohn-Rethel indica che è «il lavoro stesso che forma il punto di partenza» della formazione sociale capitalistica [ibidem, 140-141]. Siamo qui di fronte a un'analisi del taylorismo piuttosto diversa da quella assai influente fornita da Harry Braverman [1974], che si focalizza sulla «degradazione» sia del lavoro mentale sia del lavoro manuale. Sohn-Rethel vede la produzione di massa e l'organizzazione del lavoro secondo i principi taylorísti come la fase più alta della «socializzazione del lavoro» sotto il dominio del capitale [Sohn-Rethel 1972; trad. ingl. 1978, 165]. La grande crescita dell'incorporamento della scienza nei processi di produzione disloca la posizione del lavoro intellettuale verso il dominio al cui interno il lavoro manuale era precedentemente stato situato in modo esclusivo. Per Sohn-Rethel si tratta dell'origine di una destabilizzazione dell'autonomia del lavoro intellettuale rispetto al suo gemello manuale.

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[...] Con pesanti risonanze con il sistema dei lager nazisti della seconda guerra mondiale, l'analisi dei luoghi di detenzione contemporanei dal punto di vista teorico e pratico del campo ha nutrito una serie di approfondimenti dei funzionamenti politici della detenzione e del suo significato per un più ampio spettro di questioni riguardanti la sovranità, la sicurezza e la biopolitica. Al contempo, ha animato diverse forme di azione politica e anche di espressione artistica che ruotano attorno alla figura del campo e alle sue straordinarie implicazioni emotive e storiche.

Il lavoro filosofico straordinariamente erudito e influente di Giorgio Agamben , fin dalla pubblicazione di Homo sacer [Agamben 1995], ha elevato il campo allo statuto di paradigma biopolitico della modernità. Basandosi sulle analisi di Hannah Arendt, Carl Schmitt, Walter Benjamin e Michel Foucault, Agamben offre un'analisi estremamente acuta del campo e delle sue radici giuridiche nello stato di eccezione e nella legge marziale. Il campo è per lui uno spazio aperto da una serie di tecnologie e dispositivi che spogliano gli internati dei propri diritti, sottraendo loro qualsiasi status politico e riducendoli alla condizione di «nuda vita» [Agamben 1996]. Secondo Agamben, si tratta di un processo all'opera entro un'ampia gamma di luoghi storici e contemporanei, tra cui figurano i campi coloniali a Cuba e in Sudafrica, i lager, i campi per i rifugiati, le zones d'attente negli aeroporti internazionali francesi, certe periferie delle aree metropolitane, le prigioni militari speciali come quella di Guantánamo.

Per quanto concerne i campi per migranti «illegali», l'approfondimento più importante e illuminante offerto da Agamben riguarda il modo in cui il campo imprigiona i suoi abitanti in un ordine giuridico al fine di escluderli da quello stesso ordine. Questo processo di esclusione attraverso l'inclusione è un importante esempio di una delle principali questioni in gioco in questo libro: le molteplici forme in cui il confine tra inclusione ed esclusione è posto in tensione e rielaborato dalle dinamiche spaziali e temporali del capitalismo contemporaneo. L'approccio di Agamben, tuttavia, si incentra su argomenti trans-storici e ontologici che poco hanno a che fare con questi sviluppi capitalistici. Al contrario, la nostra enfasi sulla rilevanza della politica e del controllo della migrazione globale per le attuali trasformazioni del lavoro e del capitale solleva questioni su come le pratiche di detenzione amministrativa si colleghino all'operare dei confini temporali nelle vite dei soggetti deportabili che non sono internati nei campi. Crediamo che i campi debbano essere analizzati non solo dalla prospettiva trascendentale del potere sovrano e delle sue eccezioni, ma anche all'interno delle sempre più ampie e complesse reti di governance e management delle migrazioni, di cui il «regime di deportazione» costituisce un importante elemento. La trasposizione talora meccanica degli argomenti di Agamben nelle discussioni critiche sulle politiche dei rifugiati e delle migrazioni è sfociata in un'attenzione quasi unilaterale sui processi di esclusione, privazione e deumanizzazione che rischia di oscurare quelle che Foucault definirebbe le dimensioni più «produttive» degli assemblaggi di potere che si indirizzano ai movimenti migratori [Rahola 2010]. Non dimentichiamo che anche il «campo per stranieri» è un'«istituzione sociale» che, come mostra Marc Bernardot, è in uno stato di ricomposizione permanente, a fronte di condizioni mobili, e non si fissa mai in una forma definitiva [Bernardot 2008, 43]. Le lotte dei migranti, dentro e fuori le strutture di detenzione, occupano una posizione fondamentale in queste mutevoli condizioni. Che comprendano azioni eclatanti, come il cucirsi le labbra di quasi sessanta detenuti nel famigerato centro di detenzione di Woomera in Australia nel 2002, o deliberati atti di sabotaggio e fuga, come è successo quando i migranti tunisini hanno dato fuoco a un «centro di accoglienza» e sono fuggiti nelle strade dell'isola di Lampedusa nel 2011, queste lotte inducono cambiamenti che mostrano come il campo non sia affatto un'istituzione fissa che priva í migranti della capacità di ribellarsi.

L'ampia gamma e diversità di disposizioni, istituzioni e spazi che possono avere l'etichetta di campo è così vasta che il termine rischia di perdere quella pregnanza analitica che lo collega a più ampi schemi politici e ontologici. È necessario andare oltre l'enfasi posta da Agamben sull'eccezione sovrana e sulla spoliazione di diritti per condurre indagini più attentamente focalizzate sui differenti tipi di strutture detentive e sui loro ruoli in più ampi processi di governance della migrazione, costruzione di confini temporali e deportazione.

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4. Confini interni


Il tempo corre a un ritmo diverso nei palazzi di una compagnia bancaria globale e in una baraccopoli. Mentre queste differenti temporalità possono intersecarsi nella vita quotidiana, il mondo è attraversato da complessi modelli di segregazione spaziale che funzionano per gestire e governare popolazioni segnate dalla povertà, dall'indigenza e spesso dalla discriminazione razziale. La diffusione di ghetti e favelas, «villaggi migranti» e slum taglia tutte le divisioni geografiche e fornisce un esempio importante della proliferazione di confini interni nel mondo contemporaneo. La fotografia apocalittica offerta da Mike Davis [2006] ne Il pianeta degli slum può qui essere messa in contrasto con analisi più sfumate delle baraccopoli o bustees indiane, che sottolineano le negoziazioni politiche caparbiamente ricercate e praticate dagli abitanti di questi spazi.

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Il concetto di inclusione differenziale ha una genealogia complessa e multiforme, che attraversa i confini degli studi sulla migrazione e del pensiero antirazzista e femminista. Per quanto abbia assunto molti nomi, tale concetto ha da lungo tempo fornito uno strumento per descrivere e analizzare come l'inclusione in una sfera, in una società o in un settore possa essere soggetta a vari gradi di subordinazione, comando, discriminazione e segmentazione. Nel pensiero e nella pratica femministi, è stato associato con tentativi pragmatici di rompere il tetto di cristallo che limita la possibilità delle donne di avanzare nel lavoro e in altre istituzioni sociali, così come con l'enfasi teorica sulla differenza che ha informato approcci critici alle questioni dell'eguaglianza, dei diritti e del potere. Il concetto di inclusione differenziale è così diffuso e intuitivamente compreso nei circoli femministi da rendere arduo mostrare come esso permei le molteplici diramazioni del pensiero e della pratica femministi. Tuttavia, possiamo menzionare alcuni esempi in cui il suo affiorare è provocatoriamente vicino al nostro approccio. In particolare, occorre volgere l'attenzione alle femministe radicali, che criticano l'interpretazione liberale dell'emancipazione delle donne come risultato di un'integrazione lineare nella sfera pubblica. Particolarmente rilevanti sono qui le femministe statunitensi che «hanno osato essere cattive» [Echols 1989] e i collettivi femministi europei sospettosi delle soluzioni politiche liberali, come quelli che dichiarano: «Non credere di avere dei diritti» [Libreria delle donne di Milano 1987].

Nel suo manifesto del 1970, Sputiamo su Hegel , Carla Lonzi ha radicalmente messo in discussione la tendenza olistica, organicistica e assolutamente inclusiva del pensiero maschile che vedeva esemplificata dall'opera filosofica di Hegel. Il suo rifiuto di inscrivere il pensiero femminista nella cornice dialettica, che integra tutte le differenze in un telos generale di totalità, apre uno spazio in cui l'antropologia politica liberale dell'eguaglianza e dei diritti appare fondata su una «sopraffazione legalizzata» che sigilla l'inclusione delle donne nella società [Lonzi 2010, 15]. L'approccio di Lonzi ha alimentato una serie di tentativi, specialmente da parte delle femministe italiane, di sviluppare una pratica politica volta non all'integrazione delle donne nella sfera pubblica dominata dagli uomini, ma a valorizzare la differenza delle donne come movimento positivo e aperto che scardina le divisioni tra natura e cultura, tra psichico e sociale e tra privato e pubblico, divisioni al centro della modernità politica [Dominijanni 2005; Muraro 2004].

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CAPITOLO NONO
TRADURRE IL COMUNE





1. Il metodo di chi?

Qual è il rapporto tra il comune e í confini? In questo libro abbiamo affrontato la questione dei confini da molte angolazioni, un approccio reso necessario da ciò che abbiamo chiamato l'eterogeneizzazione dello spazio globale, la moltiplicazione del lavoro e la proliferazione dei confini. Il concetto del comune è spesso stato evocato come un contrappunto chiave a questi processi e agli effetti che hanno sul mondo contemporaneo. Per esempio, la nostra discussione sulla persistente realtà della cosiddetta «accumulazione originaria» ha sottolineato la rilevanza di una grande varietà di mezzi di appropriazione dei commons. È un tema al centro dell'analisi marxiana delle enclosures e del ruolo dello Stato alle origini del capitalismo moderno. Oggi ha acquisito nuova rilevanza nei dibattiti teorici e nelle lotte sociali. Si pensi alla resistenza contadina contro l'acquisizione delle terre e il land grabbing nel Bengala occidentale, in Africa o in Russia, alle lotte contro la privatizzazione dell'acqua e del gas in Bolivia, a quelle indigene contro la biopirateria in Amazzonia, a quelle metropolitane per istituire e mantenere luoghi di organizzazione sociale, culturale e politica contro l'invasività della rendita, oppure alle lotte digitali contro il dilagare del diritto proprietario nel campo dell'informazione e della conoscenza in rete. Anche i vari tentativi di resistere allo smantellamento dei sistemi di welfare nelle transizioni post-socialiste e in quelle del capitalismo avanzato sono esempi importanti di lotte per difendere i commons o, più precisamente, per proteggere beni comuni stabiliti nel quadro del diritto pubblico. Tutte queste lotte, che abbiano avuto più o meno successo, hanno le loro formulazioni teoriche, che non si possono in nessun modo sintetizzare in «una formula astratta, di tipo matematico», per richiamare ancora le parole di Antonio Gramsci [1975, Q. 9, 1134]. Per identificare i rapporti tra queste lotte, abbiamo bisogno di una nomenclatura concettuale adeguata al compito di tradurre il comune. Ciò significa non solo domandarsi in che modo (o se) le lotte sono collegate, per esempio a livello di risorse, comunicazione, ideologie o del coinvolgimento dei singoli attivisti. Significa anche comprendere come richiedano una produzione di soggettività che sia al contempo potenziante e destabilizzante, che le ponga in rapporti di traduzione che non possono essere mai pienamente padroneggiati oppure organizzati da un singolo soggetto o istituzione. Abbiamo già menzionato termini come comune, commons, beni comuni, pubblico e privato. Introdurremo altri concetti nel corso del capitolo, che ci aiutano a specificare le poste in gioco politiche della traduzione del comune; ma intanto vogliamo lavorare attraverso questa proliferazione di termini attorno al comune per comprendere il suo rapporto con i confini.

Il concetto di comune non è un ombrello che copre gli altri termini, ma una nozione fondamentale che consente lo sviluppo di una prospettiva radicale sulle questioni sociali, giuridiche e politiche che riguardano i commons, i beni comuni, il pubblico e il privato. Il passaggio dal singolare al plurale che segna la differenza concettuale tra comune e commons è qui particolarmente importante. Il primo termine segnala un processo di produzione, interamente immanente e materiale, attraverso cui le istanze del secondo acquisiscono estensione nel tempo e nello spazio.

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Il confinamento del comune è sempre in gioco nelle nuove come nelle vecchie recinzioni. Questo processo può creare linee materiali e immateriali di demarcazione che non esistevano prima. Può anche rielaborare limiti esistenti, come quelli che circoscrivono gli spazi pubblici nelle città, trasformandoli in nuovi confini della proprietà privata. Non è un caso che spesso tali processi di formazione dei confini urbani siano finalizzati a tenere soggetti «indesiderabili» fuori da aree specifiche, costruite come aree di valorizzazione attraverso gli investimenti e gli sforzi congiunti di capitale finanziario e immobiliare. Tra questi soggetti, spiccano ancora una volta i migranti. Nelle loro esperienze, l'azione di tali processi di confinamento replica e si articola con l'azione di altri confini. La proliferazione e diffusione di recinzioni nel mondo contemporaneo produce una quantità enorme di violenza, sofferenza e dolore, intensificando sia lo spossessamento sia lo sfruttamento. Allo stesso tempo, tuttavia, almeno concettualmente, queste recinzioni forniscono una prospettiva importante sulla fragile legittimità della proprietà privata come norma sociale complessiva. In ogni atto di recinzione, letterale o meno, questa legittimità è affermata. Le lotte contro le enclosures e per i commons in tutto il mondo mostrano il rovescio di questo momento concettuale di indebolimento della legittimità della proprietà privata in una forma assolutamente concreta e antagonista.

Nei decenni scorsi è stata allestita una potente cassetta degli attrezzi teorici per giustificare la distruzione dei commons e la loro subordinazione alla logica della proprietà privata. Si va dagli argomenti «neo-malthusiani» a proposito della «tragedia dei commons» sintetizzati in un influente saggio di Garrett Hardin nel 1968 al cosiddetto law and economica approach, che si è sviluppato negli Stati Uniti e ha avuto un ruolo cruciale nel trapiantare sul piano globale il rule of law, ridotto a «predominio della proprietà» [ Mattei e Nader 2009 ]. Non sottovalutiamo la perdurante influenza e la forza di tali costruzioni teoriche. Tuttavia, il fatto che Elinor Ostrom abbia ricevuto il premio Nobel per l'economia nel 2009, nel pieno della crisi economica globale, segnala che anche nella teoria economica dominante comincia a manifestarsi una certa confusione. Ostrom è accreditata di aver dimostrato scientificamente la fallacia di quella che a lungo è stata considerata una sorta di saggezza tramandata, l'idea cioè che i commons siano strutturalmente condannati all'autodístruzione ambientale ed economica e debbano perciò essere regolati dallo Stato oppure privatizzati.

Governare i beni collettivi , il libro di Ostrom pubblicato nel 1990, ha attirato l'attenzione sull'esistenza e sul possibile sviluppo di molteplici forme cooperative, comunitarie e collettive di gestione dei commons, né pubblici né privati. Il movimento intellettuale intorno all'istituzione dei creative commons, e soprattutto il lavoro di Lawrence Lessig [2004], sono un'altra importante risorsa per il rinnovato interesse suscitato dalla nozione di commons nei dibattiti accademici e pubblici. Si possono qui menzionare i tentativi di costruire una tipologia giuridica dei beni comuni, spesso connessi con lo sviluppo materiale delle lotte contro le recinzioni e la privatizzazione [Marella 2012; Mattei 2011]. Tutti questi sforzi intellettuali oscillano fra la ricerca di uno spazio intermedio tra le sfere del pubblico e del privato, che replica la costruzione di un «diritto sociale» proposta dai giuristi europei all'inizio del Novecento (si veda, per esempio, Gurvitch [1932]), e approcci più radicali. Il loro risultato è la creazione di tassonomie concettuali dei commons e dei beni comuni, che solitamente dividono il comune nel naturale e nel sociale, o nel materiale e nell'immateriale. In modo più sofisticato, Nick Dyer-Witheford [2006] descrive quello che chiama il «circuito del comune», analizzando «come le risorse condivise generino forme di cooperazione sociale – associazioni – che coordinano la conversione di ulteriori risorse in commons allargati». Questi, secondo Dyer-Witheford, includono «i commons terrestri (la condivisione consuetudinaria delle risorse naturali nelle società tradizionali), i commons pianificati (per esempio, nel socialismo o nel welfare state liberaldemocratico) e i commons in rete (le libere associazioni del software open source, le reti peer-to-peer, i sistemi grid e numerose altre socializzazioni della tecno-scienza)».

In linea di principio, non abbiamo nulla contro questa attività intellettuale intorno al comune. Ciò che occorre sottolineare, come fa Mattei [2011, 54], è in ogni caso che ogni classificazione e costruzione giuridica dei beni comuni deve essere maneggiata con cura, data la prossimità concettuale di «beni» e «merci» in un mondo capitalistico. L'enfasi di Dyer-Witheford sulle forme di cooperazione sociale connesse a quella che chiama la «circolazione del comune» è qui importante. Lungi dall'essere riducibili allo statuto di «oggetti», inerente al concetto giuridico di beni, i commons – anche i più naturali, come abbiamo visto nel caso dell'acqua – non possono esistere indipendentemente da un complesso insieme di attività umane dedicate alla loro produzione e riproduzione. Ciò significa focalizzarsi sul momento dell'eccedenza che caratterizza il comune rispetto ai commons. Tale momento è senza dubbio costitutivo di diritti e istituzioni, ma non può mai esaurirsi nella dimensione giuridica. «Il divenire rivoluzionario – afferma Cesare Casarino nella sua conversazione con Antonio Negri [2008, 22] – è vivere il comune come surplus». Radicata nella realtà antagonista del lavoro, dello spossessamento e dello sfruttamento, la generazione di questo surplus può solo assumere la forma di una soggettività politica in grado di dare un significato nuovo e comune alla memorabile definizione di lavoro fornita dal giovane Marx [1932; trad. it. 1950, 230]: «la vita generante la vita».




4. Cooperative, economie di comunità e spazi del comune

Ciò che chiamiamo «traduzione del comune» permette un'ulteriore specificazione di quella che Dyer-Witheford definisce la circolazione del comune. In un successivo articolo sulle cooperative di lavoro scritto con Greig de Peuter, Dyer-Witheford descrive la circolazione del comune come un processo attraverso cui le forme di associazione «organizzano le risorse condivise in insiemi produttivi che creano più commons, i quali a loro volta forniscono le basi per nuove associazioni» [de Peuter e Dyer-Witheford 2010, 45]. Questo processo rispecchia e inverte la circolazione del capitale, sostituendo il comune («un bene prodotto per essere condiviso») alla merce («un bene prodotto per essere scambiato»). Il comune è così inteso come la «forma cellulare della società oltre il capitale» [ibidem, 44]. È chiaro, comunque, che la circolazione del comune debba anche includere un momento di traduzione, quello che de Peuter e Dyer-Witheford specificano essere una trasformazione di tale forma cellulare non nel denaro ma in un'associazione. Come opera questa traduzione? Abbiamo messo in contrasto la traduzione eterolinguale che compone il comune con la traduzione omolinguale sottesa alle operazioni del capitale. La traduzione eterolinguale è un processo che non solo inverte i circuiti riproduttivi del capitale, ma funziona secondo una logica molto diversa, che implica l'impossibilità di una piena e trasparente traduzione di «un» common in «una» associazione. Fa riferimento a una produzione del comune che include la negoziazione di molteplici confini e il riconoscimento che le associazioni devono sempre confrontarsi con le questioni della costituzione politica e del potere. Né l'immaginazione di una pienezza sociale oltre il capitale, né la visione democratica radicale di un'articolazione a partire da una carenza offrono risorse teoriche e pratiche per confrontarsi con la realtà dei confini e dei processi di confinamento connessi al funzionamento quotidiano del capitale. De Peuter e Dyer-Witheford sono attenti a considerare come la circolazione del comune debba mettere in conto le questioni della massa critica, e notano che anche lo Stato può giocare un ruolo nell'espansione dei commons. Tuttavia, sostengono che «la crescita e l'interconnessione dei commons devono precedere gli interventi statali, per istituire prefigurativamente le condizioni necessarie». Allo stesso tempo, sottolineano che i commons devono «crescere oltre la fase di tali interventi diretti, in una proliferazione di componenti che si auto-avviano e che eccedono il controllo centralizzato» [ibidem, 47]. La loro analisi delle cooperative di lavoratori è un contributo salutare al dibattito sui commons perché si confronta direttamente con le questioni della politica del lavoro e inietta una buona dose di realismo in una discussione spesso dominata da astrazioni teoriche. Ciò che deve essere preso in considerazione per portare ulteriormente avanti questo approccio pragmatico è la dimensione dell'organizzazione politica autonoma che deve investire gli esperimenti e le iniziative di costruzione dei commons. Una simile organizzazione ha sempre bisogno di posizionarsi non solo rispetto allo Stato, ma anche in rapporto alle altre forme e agli altri attori politici coinvolti nella gestione dei commons: sindacati, organizzazioni non governative, enti comunitari, governi locali e così via. La ragione per cui tale posizionamento è importante, e deve spesso prendere la forma di un'opposizione radicale, è che i commons non sono affatto in se stessi immuni alle lusinghe del capitale e della corruzione politica. Proprio questa vulnerabilità li rende un importante campo di battaglia su cui si dispiegano le lotte per il comune. Ed è importante notare che la corruzione che può investire i commons è una questione chiave di cui dare conto nella concettualizzazíone del comune. Quest'ultimo non è una figura di ciò che è moralmente buono o un orizzonte utopico entro cui si svolgono le lotte sociali. Come abbiamo affermato in precedenza, non può mai essere esclusa la riproduzione dei confini all'interno dei commons, che prendano la forma di linee di divisione politica oppure di dominazione di genere, di differenza razziale o di classe sociale. Questi confini devono sempre essere combattuti. Ecco perché la produzione del comune è sempre una proposizione politica e non meramente etica.

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In gioco è una costruzione del mondo, una fabrica mundi, che lavora contro l'impulso trascendentale dello Stato e del capitale e le varie configurazioni dei loro confini e frontiere. Siamo consapevoli delle trappole e delle regressioni con cui finiscono per dover fare i conti i tentativi filosofici di affrontare la questione dell'uno e dei molti. Allo stesso tempo, siamo convinti che la costruzione di una via di fuga trascendentale, per mezzo di un contratto sociale o di dispositivi dialettici, conduca all'imposizione di unità dall'alto, ovvero di un'unità che può essere mantenuta solo dall'ordine della violenza e del potere che ha investito la sua produzione e riproduzione lungo tutta l'età moderna. I poteri costituiti e i filosofi ufficiali che li sostengono sono sempre stati spaventati dai tentativi di affrontare il problema della molteplicità e dell'unità senza fare ricorso a una simile trascendentalizzazione e dalla minaccia che questi tentativi producano un soggetto politico allo stesso tempo molteplice e potente. L'immagine del filosofo del XVI secolo Giordano Bruno che brucia sul rogo a Campo de' Fiori a Roma è solo uno degli esempi di questa paura. Bruno ha infatti tentato di mostrare «come nella moltitudine è l'unità, e ne l'unità è la moltitudine; e come l'ente è un moltimodo e moltiunico, e in fine uno in sustanza e verità» [Bruno 1973, 9]. Aggiungeva che «l'uno, l'infinito, lo ente e quello che è in tutto, è per tutto, anzi è l'istesso ubique; e che cossí la infinita dimensione, per non essere magnitudine, coincide con l'individuo, come la infinita moltitudine, per non esser numero, coincide con la unità» [ibidem]. Se questo sussurro eretico che giunge da un lontano passato continua a ispirare le filosofie materialiste dell'immanenza, le fiamme che hanno avvolto i piedi di Bruno non sono meno ardenti.

Muovendosi tra i poli della molteplicità e dell'unità, le lotte per il comune continuano oggi a trarre ispirazione ed energia da correnti di pensiero sotterranee e represse, che derivano dalle tradizioni della resistenza anticoloniale, dalle narrazioni indigene, dalle strategie di marronage degli schiavi, o da passate esperienze dei movimenti subalterni e operai. Dalla prospettiva del confine come metodo, l'elemento cruciale in tutte queste lotte è la produzione della soggettività che al contempo le sostiene e le guida. Considerare le lotte in questo modo è importante in un'epoca in cui i confini tra esperienze politiche e mondi sociali sono divenuti a un tempo più evidenti e più porosi. In forme molto concrete le lotte di confine si sono espanse e situate non più ai margini ma al centro delle nostre vite politiche. Mentre sfidano ogni nozione chiusa di soggettività politica nella lotta per il comune, ci pongono anche di fronte alla continua produzione di altri confini e limiti che corrono attraverso le società, i mercati del lavoro e le giurisdizioni. La divisione di classe, per esempio, continua ad attraversare questi campi, anche se la molteplicità che investe la lotta di classe gioca un ruolo essenziale nelle lotte per il comune. Tali lotte, infatti, sono necessariamente lotte contro il capitale e richiedono dunque una radicale trasformazione e riorganizzazione dei rapporti sociali, liberandoli dallo sfruttamento e dallo spossessamento e dalle logiche di dominazione in termini di sessismo e razzismo che sono profondamente radicate nei modelli capitalistici di estrazione e di spoliazione. Il fatto che le lotte di confine siano venute alla ribalta politica non significa che stiano per terminare. Al contrario, stanno montando e crescendo. Lo testimoniano le morti che quotidianamente avvengono lungo i confini del mondo. Non dobbiamo dimenticarle, anche se siamo consapevoli del fatto che le lotte di confine non sono giocate solo al confine e che, da molti punti di vista, la battaglia è appena cominciata.

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