Copertina
Autore Edgar Morin
CoautoreCristina Pasqualini, al.
Titolo Io, Edgar Morin
SottotitoloUna Storia di vita
EdizioneFrancoAngeli, Milano, 2007, la Società , pag. 254, ill., cop.fle., dim. 15,5x23x2 cm , Isbn 978-88-464-8282-2
LettoreElisabetta Cavalli, 2007
Classe biografie , scienze umane , sociologia , antropologia , epistemologia
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Indice


Prefazione, di Mauro Ceruti                          7

Premessa, di Cristina Pasqualini                    13

L'uomo Morin-l'uomo di Morin: per un'introduzione,
di Cristina Pasqualini                              17

Primo dialogo
L'esperienza di una vita                            67

Secondo dialogo
Tra pensiero e biografia                           116

Terzo dialogo
Ri-scoprirsi identità complesse                    144

Edgar Morin in Italia:
tracce di un'eredità interdisciplinare             155
Alberto Abruzzese: l'immaginario                   161
Gianluca Bocchi: la complessità                    167
Francesco Casetti: il cinema                       177
Fausto Colombo: l'industria culturale              188
Giovanni Gasparini: la poesia                      195
Giuseppe Gembillo: le idee                         207
Mauro Maldonato: la psiche                         216
Sergio Manghi: la conoscenza                       232
Oscar Nicolaus la formazione                       238

Riferimenti bibliografici                          245


 

 

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Pagina 17

L'uomo Morin-l'uomo di Morin: per un'introduzione

di Cristina Pasqualini


La mia cultura si è nutrita della mia vita e la mia vita si è nutrita della mia cultura.

Edgar Morin


La questione dell' identità umana, quale cifra espressiva più generale della condition humaine, è centrale in Edgar Morin e attraversa tutta la sua produzione scientifica, a partire da L'Homme et la mort (1951), Le Cinéma ou l'Homme imaginaire. Essai d'anthropologie sociologique (1956), Le Vif du sujet (1969) e Le Paradigme perdu: la nature humaine (1973): in realtà, com'è noto, lo stesso Morin riassume in sé molti tratti dell' identità complessa che egli teorizza e ri-unifica ne La Méthode 5. L'Humanité de l'Humanité. L'identité umaine (2001). Di qui l'esigenza di un'ermeneutica moriniana che parta dalla ricostruzione e presa di coscienza del percorso biografico e culturale di un uomo e di un intellettuale che, rifiutando qualsivoglia etichetta, ama definirsi un "onnivoro culturale"".

Ripercorrere retrospettivamente alcuni eventi significativi della vita di Morin, attraverso la lettura dei suoi diari e dei suoi scritti, consente di illuminare le ragioni della centralità, nella sua ricerca, della questione dell'identità umana e di comprendere la peculiarità del suo approccio. La sua è una storia di vita complessa, intrisa di esperienze legate a vicende molto diverse tra loro – la percezione della sua nascita come evento eccezionale, "un miracolo" rispetto alla morte prospettata dai medici; le sue radici ebraiche; il forte legame con il Mediterraneo e l'America Latina; la perdita prematura e inaspettata della madre durante l'infanzia con relativi sensi di colpa e profonda disperazione tenuti nascosti per anni; le alterne vicende politiche legate alla Seconda Guerra Mondiale; l'esperienza della Resistenza contro il nazismo prima e contro lo stalinismo dopo: la Guerra Fredda e il crollo del Muro di Berlino — che segnano la sua biografia e lo indirizzano nel porre la questione della complessità come approccio allo studio dei problemi socio-antropologici. Un criterio, questo, che parte dal principio secondo cui la comprensione della condizione umana, segnata dalla complessità, può avvenire solo in virtù di un modello e di una strategia di pensiero "reticolare", che si muova "rizomaticamente" per connessioni e non per riduzioni.

Anche attraverso la forma saggistica, narrativa, diaristica, auto-biografica e auto-riflessiva, Morin propone un' antropologia complessa che a partire dall'auto-narrazione giunge a considerare i fondamenti della condizione umana, che può essere compresa solo adottando un paradigma conoscitivo che fa appello alla complessità e si apre dialogicamente alla costruzione di interconnessioni tra i diversi saperi. L'autentica conoscenza — secondo Morin — potrà realizzarsi solo una volta che si sia vinta quella che egli stesso, nel libro-manifesto La testa ben fatta, definisce come "la sfida delle sfide" e che si gioca, innanzitutto, sul terreno dell'epistemologia. Si tratta di mettere in discussione la modalità consolidata di indagare l' Homo, per definizione complexus, all'interno di una forma mentis accademica organizzata in compartimenti stagni, staticamente ancorata alle proprie certezze disciplinari quando invece l'unica certezza è proprio l'incertezza. Per non incorrere nel rischio di una "intelligenza cieca", vale a dire di uno stile di pensiero riduzionista, "bisogna allora imparare a navigare in un oceano di incertezze fra alcuni arcipelaghi di certezze" e la natura complessa della identità umana, che Morin definisce "trinitaria" per il convergere, in essa, dei tre elementi individuo-società-specie, rappresenta una preziosa occasione per costituire un campo di analisi in cui i saperi si connettono, che permette di uscire dall'iper-specialismo scientifico che nel nostro tempo, pur avendo prodotto numerose conoscenze, ha altresì veicolato, troppo spesso, visioni distorte e parcellizzate dei problemi indagati.

Di qui l'importanza di ripercorrere le linee guida di un pensatore poliedrico e per certi aspetti insolito e difficilmente inquadrabile nei rigidi schematismi accademici; una figura "insofferente" e inquieta, scomoda perché dinamica. Ma preoccupata, anche, per il futuro delle scienze e per le possibili ripercussioni che il dominio delle nuove tecnologie potrebbe avere sul destino dell'umanità, sempre più spesso in balia di eventi che, proprio per il fatto di non essere conosciuti e compresi, sfuggono al suo controllo.

Quella di Morin è una testimonianza lucida e matura, un autentico appello al nostro modo di pensare. Chi ha avuto la fortuna di incontrarlo nel proprio percorso di studio non può non riconoscergli la capacità, per lui così naturale, ma allo stesso tempo propria solo dei "grandi maestri", di ridiscutere ogni apparente certezza e quindi di ridiscutersi in prima persona, assumendo una prospettiva connessionista sempre aperta all'inatteso e che non si sottrae mai al confronto.


1. L'uomo Morin

Nato a Parigi nel 1921, interprete e protagonista delle vicende e delle trasformazioni culturali, politiche e sociali del XX secolo, Morin si è occupato innanzitutto delle questioni connesse alla condizione umana - la vita e la morte, i conflitti bellici, le appartenenze politiche e religiose, la frammentazione dei saperi, il ruolo degli intellettuali, il cinema, l'immaginario e l'industria culturale — a partire dalle proprie esperienze biografiche, riconoscendo e valorizzando il legame tra soggetto e oggetto. Di qui l'uomo Morin-l'uomo di Morin, ossia fusione tra soggetto e oggetto nello studio dell'identità umana; auto-riflessione come tentativo di cogliere le emergenze, i tratti socio-antropologici più generali. Questo legame indissolubile e imprescindibile tra soggetto e oggetto viene esplicitato nei suoi scritti. Egli individua proprio nella scrittura-narrazione autobiografica lo strumento migliore per raccontare e per raccontarsi: "In lui l'osservazione ha sempre l'auto-osservazione come necessario complemento, in quanto condizione di una ricerca autentica, capace di svelare, prima che negli altri, in se stesso l'origine ricorrente dell'errore e della menzogna. Il vivo del soggetto e I miei demoni sono fra i risultati di questa ricerca, quanto mai rispettosa e quasi commossa nei confronti dell'ambivalenza della mente e del cuore umani".

Se i vissuti possono orientare la riflessione intellettuale di una persona, è interessante individuare le principali esperienze che hanno generato in Morin l'ossessione per la condizione umana e per il presente. Partendo da alcune sue peculiari esperienze biografiche (la sua nascita, la morte della madre e il periodo in cui si ammalò gravemente), prenderemo in considerazione gli anni della sua formazione, le sue origini religiose e le sue "vicissitudini" politiche, per vedere come queste hanno preso forma nella scrittura, che a volte arriva ad assumere i tratti di un vero e proprio "diario etnografico". Afferma Morin:

Sto acquisendo una specie di riflesso. Ogni volta che esco, non dimentico di mettere nella mia tasca interna sinistra il taccuino. E talvolta, nella via, in mezzo alle mie fantasticazioni a occhi aperti, alla conversazione o all'articolo immaginari, al discorso mentale, prende corpo un piccolo avvenimento, e annoto sul taccuino. Il riflesso non è ancora acquisito una volta per tutte, ma il fatto di essere sul punto di acquisirlo rafforza la mia idea di tenere un diario, la cui forma flessibile si adatta a quello che credo sia ora il mio bisogno intellettuale principale: potermi esprimere su tutti i piani così differenti che mi interessano in un'unica opera.

Vita, morte e malattia sono temi centrali e pervasivi nella riflessione moriniana e sono affrontati non solo nel volume L'uomo e la morte ma anche ne Il vivo del soggetto, ne I miei demoni e in Vidal mio padre. Sfogliando le pagine di quest'ultima opera, ci si imbatte in alcuni passaggi toccanti, appassionati e, allo stesso tempo, delicati e sensibili, in cui Morin affronta la questione del "segreto della sua nascita":

Da poco ho scoperto una contraddizione che era nascosta nel più profondo del mio essere. Mio padre mi aveva svelato molto tardi il "segreto della mia nascita": non ero il figlio di un re allevato da zingari, ma un embrione condannato a non nascere a causa di sua madre. Perché mia madre restasse in vita, era necessario che morissi; la mia vita minacciava la sua. Non avrei dovuto nascere e sono nato morto, come ho raccontato in Vidal: mia madre, vittima dell'epidemia di febbre spagnola del 1917 che per poco non l'aveva uccisa, soffriva di una lesione cardiaca; tuttavia ella aveva nascosto a mio padre che le era stato proibito di avere un figlio. Restata incinta una prima volta, aveva abortito grazie a una mammana; ma la seconda volta le piante e i metodi abortivi non furono efficaci: dovette rassegnarsi ai rischi della gestazione, e la levatrice avvisò il marito al quinto mese di gravidanza. Il ginecologo che fu consultato disse che in ogni caso avrebbe salvato la madre: in effetti sono nato praticamente morto, podalico e strozzato dal cordone ombelicale: solo dopo una buona mezz'ora di schiaffi quel neonato sospeso per i piedi emise il primo vagito. Dovevo perciò essere respinto prima d'essere amato, assassinato prima d'essere adorato. Dovevo morire perché ella vivesse, e lei doveva morire perché io vivessi. Vivere di morte, morire di vita. Questa formula eraclitea, che non ha mai smesso di ossessionarmi da quando l'ho udita per la prima volta, esprime la tragedia di questa genesi: mia madre doveva vivere della mia morte e morire della mia vita, proprio come io dovevo vivere della sua morte e morire della sua vita, ed entrambi ci siamo salvati per miracolo. Ecco dunque l'evento iniziale della mia vita: sono nato nella morte e sono stato sottratto alla morte.


Pur essendo la morte un evento naturale che appartiene alla condizione umana, nel caso di Morin la situazione sembra ancor più complessa, a causa della scomparsa prematura della madre che, mancando durante la sua infanzia, lasciò nella sua vita un vuoto mai colmato da niente e da nessuno:

Sono stato adorato e amato per dieci anni, poi sono stato abbandonato: dopo averle concesso per due volte un rinvio, la morte ha colpito mia madre il 26 giugno 1931. Allora quella morte mi invase completamente, ed altrettanto completamente la nascosi; al tempo stesso, però, mia madre è rimasta assolutamente viva in me per tutta la mia vita.

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Pagina 37

2. L'uomo di Morin

Il modo in cui Edgar Morin propone di considerare l'identità umana risente inevitabilmente della sua formazione e dell'approccio che egli utilizza nell'avvicinarsi al suo oggetto di studio: un approccio dialogico in cui soggetto e oggetto hanno pari importanza, si sovrappongono, si incontrano, si scontrano e si riconoscono. Morin, perseguendo il suo progetto di un'antropologia globale, che consiste nel mettere in relazione tra loro i differenti saperi, giunge a teorizzare un'identità complessa, multiplex; un'identità che è al contempo individuale, sociale, storica e planetaria; una identità trinitaria le cui "persone" hanno il nome di specie, individuo e società. Inoltre, gli stessi principi su cui si fonda la prospettiva antropologica globale assunta da Morin presentano forti convergenze con alcuni tratti della sua biografia personale e intellettuale, per il fatto di essere un pensatore poliedrico e interstiziale che attinge a campi disciplinari diversi, attento a far dialogare i saperi piuttosto che a produrre conoscenze frammentate e unidimensionali.

Nel tentativo di comprendere e ri-unificare "l'essenza" dell'identità umana, Morin ha scritto in questi ultimi anni Il Metodo 5. L'umanità dell'umanità, oltre alla sua ultima fatica su l' Etica (2005). Con Il Metodo 5, in cui prova a delineare un bilancio del suo lungo progetto di ricerca di un metodo conoscitivo complesso, Morin ha voluto mettere a tema una delle sue più grandi ossessioni: la condizione umana, globalmente intesa. Il Metodo 5 si colloca all'interno di quel basso continuo della produzione moriniana che è la riflessione sull'identità dell'uomo. Un volume caratterizzato da un lungo tempo di "gestazione" – dodici anni –, proprio perché a Il Metodo 5 Morin affida il compito di sistematizzare il lungo itinerario epistemologico e antropologico fin qui tracciato. Rappresenta, per molti versi, il libro della maturità: innanzitutto per la collocazione che viene ad assumere all'interno dell'arco della biografia intellettuale dell'autore; poi perché porta a definitiva maturazione le idee e le suggestioni accumulatesi durante l'incessante dialogo interiore tra la sua vita e il suo pensiero.

Ne L'identità umana, Morin si sforza di comprendere e "insegnare l'umanità all'umanità"; un compito reso difficile, paradossalmente, dalle stesse scienze e dal loro modo di produrre conoscenza. Sebbene Morin riconosca gli sforzi compiuti da ciascuna disciplina per comprendere l'essenza dell'uomo e illuminare il "fatto umano", non può fare a meno di stigmatizzarne la settorialità e l'autoreferenzialità che impedisce loro di dialogare con gli altri saperi:

Ci sono stati progressi di conoscenza prodigiosi sulla nostra posizione nell'universo, tra i due infiniti (cosmologia, microfisica), sulla nostra matrice terrestre (scienze della terra), sul nostro radicamento nella vita e nella animalità (biologia), sull'origine e sulla formazione della specie umana (preistoria), sul nostro radicamento nella biosfera (ecologia) e sul nostro destino sociale e storico. Possiamo trovare nella letteratura, nella poesia, nella musica (linguaggio dell'animo umano), nella pittura, nella scultura altrettanti messaggi sulle profondità del nostro essere profondi.

Ma, in realtà, "tutte le scienze, tutte le arti illuminano, ciascuna dalla propria prospettiva, il fatto umano" e ciò che manca è proprio la connessione tra saperi diversi: ci sfugge infatti l'unità complessa della nostra identità, ossia

non si attua la necessaria convergenza delle scienze e delle discipline umanistiche per ricostruire la condizione umana. In effetti, il principio di riduzione e quello di disgiunzione, che hanno regnato nelle scienze, comprese quelle umane (divenute così inumane), impediscono di pensare l'umano.

Ed è proprio per questa ragione che, riprendendo Pascal, Morin afferma: "rimaniamo un mistero a noi stessi". La riflessione quindi si sposta sul piano epistemologico, in quanto "è il modo in cui conosciamo che inibisce la nostra possibilità di concepire il complesso umano". Come affermava Heidegger:

Nessuna epoca quanto la nostra ha accumulato sull'uomo conoscenze così numerose e così diverse; nessuna epoca è riuscita a rendere questo sapere così prontamente e cosi facilmente accessibile. Eppure nessuna epoca ha saputo meno cosa è l'uomo. L'uomo rimane "questo sconosciuto" oggi più per cattiva scienza che non per ignoranza. Da qui il paradosso: più conosciamo, meno comprendiamo l'essere umano.

Pertanto, sulla scia della lezione heideggeriana, occorre ricordare che "disintegrando l'umano si eliminano lo stupore e l'interrogazione sull'identità umana. Dobbiamo riapprendere a interrogarla improvvisamente, in quanto interrogare fa andare in frantumi l'isolamento delle scienze in discipline separate". In questa ottica, Morin propone il metodo complesso, un metodo in grado di riunire e organizzare le componenti (biologiche, culturali, sociali, individuali) della complessità umana. "L'impresa moriniana" può essere concepita come "integrazione riflessiva dei diversi saperi concernenti l'essere umano", che non equivale alla loro somma ma alla creazione di legami, nessi e fecondazioni reciproche tra gli stessi. Se l'umanità può essere colta nella sua globalità solo attraverso un approccio antropologico globale, ne deriva che per la conoscenza dei suoi tratti costitutivi e costituenti si deve attingere non solo al sapere scientifico tout court, ma anche ad altre importanti forme espressive dell'uomo, ovvero alla letteratura, all'arte e alla poesia. Nell'approccio euristico moriniano per la conoscenza dell'identità umana trovano spazio tutte quelle forme culturali extra-scientifiche, con le quali Morin si è confrontato nel corso della sua vita (il cinema, la letteratura, la poesia e l'arte), che il più delle volte, purtroppo, rimangono marginali ed emarginate nei dibattiti scientifici che indagano la condizione umana. Di qui si giustifica questa sua espressione: "La conoscenza dell'umano dovrebbe essere nel contempo molto più scientifica, molto più filosofica e, infine, molto più poetica di quanto non sia".

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Pagina 54

Il Metodo

Se l'uomo è sia natura che cultura, secondo Edgar Morin occorre ripensare il metodo di studio – che deve essere non più disgiuntivo ma complesso – al fine di ricollocare l'essere umano nel contesto biologico e naturale di cui fa parte e di cui è intrinsecamente permeato e costituito. Morin traccia la via complessa di questa operazione ispirandosi alle teorie scientifiche ed epistemologiche contemporanee. Fatti propri gli studi e le ricerche della General Systems Theory e delle principali discipline che ad essa si ispirano – la cibernetica, la teoria dell'informazione, la neurofisiologia dell'autopoieticità del vivente –, Morin teorizza sia l'unité de l'homme sia l'unité di quelle discipline che, pur indagando l'uomo, per anni hanno proceduto "autisticamente", con rare occasioni di riflessione comune. Ecco allora che l'impianto teorico moriniano, che lotta contro la Scuola del Lutto, fa sua la missione di far dialogare tra loro la biologia, la fisica, l'antropologia, la psicologia e la sociologia. Operazione tanto necessaria quanto difficile da realizzare a causa delle chiusure disciplinari presenti, dell'incapacità di pensarsi al di fuori delle proprie specificità e specialismi. Con questo Morin non intende sottovalutare l'importanza della specializzazione, ma proporre un pensiero interdisciplinare e transdisciplinare, che parta dai risultati conseguiti dagli stessi specialismi.

La sconnessione tra scienze umane e scienze della natura è un problema che, come è noto, richiama la separazione tra le due culture. Una separazione che sembra paradossale a Edgar Morin, soprattutto per quanto concerne lo studio dell'uomo. Vediamo allora come Morin ha declinato la sua riflessione metodologica. Ne La Méthode – l'opera in sei tomi, che Morin ha scritto a partire dagli anni Settanta – trova compimento questo grande sforzo di riorganizzazione del sapere, in cui appunto scienze dell'uomo e scienze della natura sono ambedue impegnate e chiamate in causa a confrontarsi.

Più nello specifico, ne La natura della natura, primo tomo de La Méthode, Morin fa propri molti assunti e riflessioni della General Systems Theory, della cibernetica, della teoria dell'informazione e delle teorie autopoietiche. Di qui le contaminazioni con le ricerche di Henri Atlan, Heinz von Foerster, Humberto Maturana, Francisco Varela e John Stewart, suoi interlocutori sin dagli anni Settanta. L'oggetto principale di questo primo volume è la physis. Tuttavia, "la physis non è uno zoccolo, né uno strato, né un sostegno. La physis è comune all'universo fisico, alla vita, all'uomo. L'idea – banale – che noi siamo degli esseri fisici deve essere trasformata in idea significativa. Quindi, in questo volume, evoco l'organizzazione biologica e l'organizzazione antropo-sociale, ma sempre dal punto di vista dell'organizzazione fisica. A ogni sviluppo del concetto fisico di organizzazione sorgono esempi/riferimenti biologici o antropo-sociologici. Ciò apparirà una totale confusione a coloro per i quali la fisica, la biologia, l'antropologia, la sociologia sono essenze separate e incomunicabili".

In La vita della vita, secondo torno de La Méthode, Morin dialoga con la biologia e nello specifico con gli scienziati John Stewart, Gaston Richard, Claude Jeantet oltre che Massimo Piattelli-Palmarini Cornelius Castoriadis e molti altri studiosi. Evidenti sono anche le connessioni con le teorie autopoietiche di Humberto Maturana e Francisco Varela. Questa è la domanda da cui prende l'abbrivio la riflessione moriniana: Che cos'è la vita? È un modo di organizzazione, di essere, di esistenza completamente originale. A questo punto si pone un problema, ovvero "cos'è che, nella vita, sfugge alle spiegazioni da cui pure dipende, alle spiegazioni semplicemente fisiche, chimiche, termodinamiche, cibernetiche, sistemiche, e costituisce la della vita della vita? Come pensare contemporaneamente la non-vita e la vita della vita? [...] Così il mio obiettivo vero non è quello di abbracciare la vita, né di farne una 'sintesi', e tanto meno di fare un po' di filosofia filosoficizzata. Miro piuttosto a concepire il principio di conoscenza capace di abbracciare la vita. Non voglio arrivare soltanto alla conoscenza della vita, ma anche, e contemporaneamente, alla conoscenza della conoscenza della vita. [...] La vita cessa di occupare un posto intermedio tra il disico e l'antropologico: essa acquisisce un senso ampio che affonda le sue radici nell'organizzazione fisica e si rovescia su tutto ciò che antropo-sociale".

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Pagina 70

Prima ha detto che la politica è entrata nella Sua vita sin dai tempi della scuola ma di non aver mai subito discriminazioni dai suoi compagni per il fatto di essere ebreo e meticcio. Che idea aveva della politica e dell'impegno politico negli anni dell'occupazione nazista?


La politica, entrata a scuola durante il liceo, attraversava, nella Francia di quell'epoca, una fase assai burrascosa. Il 1931 fu segnato da una profonda crisi economica che divenne fortissima in Europa e soprattutto in Germania. Nel 1933, Hitler e i nazisti salirono al potere legalmente, non con un putsch. In Francia, il 6 febbraio del 1934, venne repressa una manifestazione a Place de la Concorde. La conseguenza fu una reazione che portò alla formazione di un fronte popolare. Io avevo solo 13 anni e, malgrado il fatto che fossimo ancora bambini, la politica era entrata nella mia vita per le opinioni di mio padre e di altri. Inoltre, ero stato influenzato dalla lettura di un novellista, maturando un punto di vista piuttosto scettico sulla politica, del tutto simile alle ribellioni infantili. Allora, come mi è arrivata la passione politica? Prima delle elezioni del Fronte Popolare Francese, in tutte le strade e in tutte le piazze le persone discutevano appassionatamente. Erano frequenti gli scioperi, ma non unicamente nelle fabbriche, situate prevalentemente in periferia, ma anche al centro della città. C'era un fermento visibile: provai per la prima volta un sentimento di passione per questo movimento popolare. Penso che questa sia stata la prima cosa.

Devo dire che ero stato influenzato anche da alcuni film. Nello specifico due pellicole. Un film tedesco intitolato La tragedia della miniera, le cui vicende sono ambientate all'interno di una cava di carbone situata in parte in territorio francese e in parte tedesco, i cui confini territoriali erano demarcati da una grata di ferro che fungeva da frontiera. Un giorno, nei cunicoli francesi si verificò un'esplosione e molti dei minatori che vi lavoravano rimasero intrappolati. Si creò così un movimento di solidarietà e i tedeschi abbatterono la barriera per aiutare i francesi. Grazie proprio a questo spirito di solidarietà tra i lavoratori, i minatori francesi furono salvati. Nell'immagine finale del film si vedono i minatori che riposizionano al suo posto la grata, che impedisce di nuovo la comunicazione. L'altro film, invece, era l' Opera da tre soldi, un film sull'emigrazione dei poveri tratto dall'omonima opera di Bertolt Brecht. Tutte queste cose insieme hanno incominciato ad orientare a sinistra il mio pensiero. Così ho iniziato a provare un ambivalente sentimento di attrazione/repulsione nei suoi confronti. Da una parte vedevo la necessità di una grande rivoluzione per eliminare l'oppressione e dall'altra provavo un senso di realismo, poiché capivo che non era possibile attuare una rivoluzione. Pensavo che forse sarebbe stato meglio progettare un socialismo adattato alle condizioni della società francese, quindi di ispirazione riformista. Ho cominciato a leggere molte pubblicazioni, pubblicazioni di anarchici, pubblicazioni dei trotzkisti, del gruppo trotzkista della gioventù socialista. Leggevo il giornale La Flèche. L'idea centrale del Frontismo era la lotta su due fronti: quello anti-capitalista e quello anti-stalinista.

Con la Guerra di Spagna è nato il mio primo impegno forte. Il mio primo atto politico fu di andare ad una associazione politica anarchica che si chiamava "Solidarité internationale antifasciste". Questa rappresentò per me una felice iniziazione politica. La cosa interessante era che il mio scetticismo mi spingeva verso il riformismo mentre il mio rivoluzionarismo verso il messianismo, la comunità. Durante l'inverno 1938-1939, cominciai a prendere parte alle riunioni degli studenti frontisti che lottavano, contemporaneamente, contro il capitalismo, contro lo stalinismo e contro il fascismo. Questo mi piaceva perché tenevano insieme gli aspetti che per me erano inseparabili. Secondo Delboy, il Frontismo era il socialismo francese.

In quest'epoca, la gente che riteneva il comunismo staliniano peggiore del nazismo finiva per collaborare con questo, pensando che costituisse l'antidoto al comunismo. Allo stesso tempo le persone che concepivano il nazismo con orrore assoluto, accettavano il peggio dello stalinismo poiché ritenuto salvifico.

Il movimento frontista costituiva per me la possibilità di scappare da questa duplice alternativa.

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Pagina 144

Terzo dialogo

Ri-scoprirsi identità complesse


Se homo è nello stesso tempo sapiens e demens, affettivo, ludico, immaginario, poetico, prosaico, se è un animale isterico, posseduto dai suoi sogni e tuttavia capace di oggettività, di calcolo, di razionalità, è perché è homo complexus.

Edgar Morin


Cristina Pasqualini:

Ripercorrendo la Sua ampia produzione scientifica emerge in maniera molto forte la Sua attenzione, intrisa di preoccupazione, per la condizione umana e per il destino dell'umanità nella nostra era planetaria. L'interrogativo da cui prendono l'abbrivio le Sue riflessioni è probabilmente il più classico, il più ri-proposto, ossia "chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo?". Ma in un'epoca di globalizzazione come la nostra, di ipertecnicizzazione, di iperspecializzazione, di frammentazione dei saperi, di profonde trasformazioni del tessuto sociale e dei percorsi biografici individuali, a tale questione occorre provare a rispondere, continuare a rispondere con la consapevolezza che, nonostante i numerosi progressi conoscitivi a cui sono approdate le diverse scienze in questi ultimi decenni, l'uomo resta ancora, per molti aspetti, un mistero a se stesso. Quello che molti scienziati e studiosi non hanno pienamente compreso, se interpreto bene il Suo pensiero, è che l'uomo è un'identità complessa, ossia natura e cultura, una "trinità" intesa come individuo-specie-società. L'uomo è un'identità complessa nel senso che contempla al suo interno una molteplicità di identità, una molteplicità di dimensioni diverse e interconnesse, che fanno riferimento e interrogano necessariamente discipline differenti: dalla biologia alla fisica, dalla letteratura alla psicologia, dalla sociologia all'antropologia, dalla storia all'ecologia e le scienze della terra. Di qui la Sua provocazione e la mia domanda: gli individui sono al 100% natura e al 100% cultura?


Edgar Morin: In effetti possiamo individuare diversi gradi di complessità dell'identità personale. Innanzitutto v'è una identità umana con cui vogliamo intendere l'essere individui pur nella specie umana. Ossia: nell'identità umana c'è una identità animale; non unicamente il corpo ma anche il cervello ha una natura biologica. Noi abbiamo poi sviluppato dal cervello la coscienza e il pensiero. Abbiamo quindi una identità animale. In più abbiamo una identità fisica, nel senso della materia fisica perché il nostro organismo è una macchina che per funzionare ha bisogno di nutrirsi, di rigenerarsi. È una macchina termica con una temperatura di 37 gradi. Gli elementi fisici e chimici sono tutti originari del cosmo, della natura cosmica. Abbiamo quindi anche una identità cosmica oltre ad una identità animale, biologica e fisica.

Dal punto di vista personale ci contraddistingue senz'altro questo fenomeno della duplice identità che era conosciuto come fenomeno marginale straordinario di alcune persone. Penso che questa doppia identità "patologica", se così posso dire, è l'esasperazione di un fenomeno totalmente normale, nel senso che quando siamo arrabbiati con una persona che odiamo possiamo anche far del male e quando, invece, siamo amici o innamorati abbiamo un'altra identità, soave e bellissima. Non solo le persone maniaco-depressive, le persone in stato di esaltazione, di euforia, depresse e malinconiche, ma anche le persone normali hanno un'alternanza di umore, alternanza che modifica la stessa identità. Penso che l'identità sia come un caleidoscopio, perché ogni suo movimento modifica tutta la sua configurazione: gli elementi sono sempre gli stessi ma la configurazione cambia. Lo stesso vale per l'identità personale.

Di più, in quanto figli abbiamo un'identità familiare. La cosa importante è che l'identità personale viene per questo ad assumere il nome del padre e della madre. Quindi le persone hanno anche una identità familiare. Oltre ad una identità familiare ne possediamo anche una locale, che può essere un tratto molto forte: pensiamo all'identità corsa in Francia o all'identità lombarda per alcuni lombardi. Abbiamo una identità nazionale, che è un aspetto evidente a cui si aggiunge, adesso, una identità europea, che non è ancora molto sviluppata perché non abbiamo ancora il senso forte di una comunità di destino per il futuro. Abbiamo una identità antropologica, che si può esprimere nell'epoca planetaria come cittadino del mondo, della Terra, del Pianeta. Per tutte queste ragioni, l'identità umana è complessa, è sia natura sia cultura ossia l'insieme di elementi biologici-fisici e culturali-sociali.

Ritengo che noi viviamo sotto la dominazione di un pensiero, diciamo, riduzionista e disgiuntivo. La chiave di tutto è questo modo di conoscenza e di pensiero. La tendenza è quella di selezionare una identità, allontanando e dimenticando le sue altre e simultanee dimensioni. Per esempio, quelli che chiamiamo chauvinistes in Francia, gli antieuropeisti, non hanno sensibilità per l'identità europea e la rifiutano. Allo stesso tempo, alcuni lombardi, per esempio, vogliono separarsi dalla loro identità italiana. Ho avuto modo di incontrare molti baschi che non si sentono spagnoli. Al contrario, io ritengo che per lo sviluppo personale sia necessario riconoscere la molteplicità delle nostre identità. Nel mio caso personale e singolare, le identità spagnola e italiana dei miei antenati sono molto presenti nella mia mente, nella mia coscienza. Questo significa per me avere anche una identità mediterranea. Dal momento che la mia famiglia è rimasta per un secolo a Salonicco, che all'epoca era una città ottomana nel mondo balcanico, penso di avere anche io una piccola identità balcanica e questo l'ho verificato quando sono andato ad Istanbul. Penso, infine, che il riconoscimento della molteplicità delle identità possa produrre un progresso umano molto importante per vivere insieme agli altri, perché se escludi una parte delle identità escludi inevitabilmente coloro che hanno identità altre.

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