Copertina
Autore Marco Niada
Titolo La nuova Londra
SottotitoloCapitale del XXI secolo
EdizioneGarzanti, Milano, 2008, Saggi , pag. 310, cop.fle., dim. 13,8x21x2 cm , Isbn 978-88-11-60072-5
LettoreGiovanna Bacci, 2009
Classe citta': Londra , economia finanziaria
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Indice


Introduzione                                            11


1. La City, capitale del capitalismo                    15

La grande sfida a New York, 15;
Quel Sole che muove la nazione, 19;
Una finestra sul mondo da un miglio quadrato, 23;
Le assicurazioni nel caffè di Lloyd, 26;
Il primo grande sbarco straniero, 28;
La Borsa di John nel caffè diJonathan, 29;
La banca di William e le altre banche, 32;
Motore dell'impero, 34;
Big Bang: suicidarsi per rinascere, 37;
La lezione straniera della legione straniera, 41;
La bottega inglese, il supermarket americano, 47;
La Wimbledon della finanza, 57

2. Un cantiere a cielo aperto                           61

La frenesia urbanistica, 61;
I simboli del nuovo millennio, 65;
Il West tra villette, villaggi e stazioni, 70;
La City sale al cielo, 77;
Gli EastEnders alla riscossa, 85;
Canary Wharf la piccola Manhattan, 85;
Olimpiadi contro la povertà, 91;
L'insostenibile leggerezza dei prezzi, 94

3. Capitale degli stranieri (Cosmopoli)                 99

Macedonia, minestrone o marmellata?, 99;
Multietnica: una città di città, 107;
What is British?, 114;
Sinfonia o cacofonia?, 121;
Da stranieri a cittadini di successo, 125;
Multi-culturale con la C maiuscola, 127;
Multireligiosa: cristiana con la c minuscola?, 135

4. Capitale della conoscenza                           141

Quel convento benedettino sul Tamigi, 141;
Una città mondiale fondata sui servizi, 146;
Capitale della creatività, 150;
Giornalisti, teatranti e musicisti, 154;
L'impero linguistico, 158;
Un'economia a cerchi concentrici, 163;
Capitale dell'Accademia, 164

5. Capitale dei capitalisti                            173

Le profezie di Karl Marx e Ronald Cohen, 173;
Capitalisti di tutto il mondo, unitevi!, 177;
Sceicchi, oligarchi, finanzieri, calciatori, 179;
Le folli spese della «plutonomia», 191;
Celebrities, la nuova idolatria, 202;
Diana, dea pagana, 208

6. Britaliani, la dolce vita sul Tamigi                213

L'impero del buongusto, Italian style, 213;
Un condottiero per l'Inghilterra, 221;
I primi immigrati di San Pietro e Paolo, 223;
Da espatriati a classe dirigente, 227;
Quella Trento sul Tamigi, 235;
Giovani in carriera e giovani in ricreazione, 237;
Manager, top manager e imprenditori, 240;
I legionari della City, 247;
Politici in erba, artisti e scrittori, 253;
Cervelli in fuga, 256

7. Otto milioni di estranei                            261

Individualisti o egoisti? That is the question, 261;
Un mondo crudele con giovani e bambini, 266;
Bianchi, poveri, ignoranti e obesi, 273;
Terroristi in nome di Dio, 276;
L'abbraccio soffocante del Grande Fratello, 283;
Il cielo in una stanza, 288

Ringraziamenti                                         291
Indicazioni bibliografiche                             293
Indice dei nomi                                        297

 

 

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Pagina 15

1. LA CITY, CAPITALE DEL CAPITALISMO



                        «Una specie di emporio del mondo intero.»
                  Joseph Addison, politico e scrittore, 1672-1719

            «Purché la città di Londra rimanga com'è al presente,
                            la cassa di compensazione del mondo.»
                          Joseph Chamberlain, politico, 1836-1914



La grande sfida a New York

Nel gennaio del 2007, Michael Bloomberg, sindaco di New York, lanciava una cupa profezia, risuonata ai quattro angoli della Terra. Armato di uno studio della società di consulenza McKinsey, avvertiva i concittadini che la Grande Mela stava perdendo il primato di capitale finanziaria mondiale. Se il trend attuale fosse continuato, sentenziava il primo cittadino, quella che per un secolo è stata il cuore pulsante del capitalismo planetario sarebbe diventata «una città secondaria».


A parere di molti, l'esternazione di Bloomberg era volutamente esagerata, se non grottesca, considerando che, a insidiare il primato di New York, sarebbe, guarda caso, la vecchia Londra. Quali chances avrebbe mai la capitale di una media potenza, scivolata nel 2005 al rango di quinto paese industrializzato, dopo il sorpasso della Cina, e destinata a perdere un'altra posizione a vantaggio dell'India nell'arco di pochi anni? Dopotutto, malgrado la grave crisi finanziaria che dall'autunno del 2007 ha flagellato i mercati colpendo in modo particolarmente virulento le banche americane, New York è ancora la città più importante degli Stati Uniti, che resteranno ancora per molti anni la prima economia del mondo. Inoltre, a sostegno della propria tesi, Bloomberg sfoderava una prova debolissima: nel triennio terminato nel 2005, Wall Street, il centro finanziario della Grande Mela, ha perso 2000 posti di lavoro, scendendo a quota 328.000, mentre la City di Londra ne ha guadagnati 13.000 toccando le 318.000 unità.


La reazione di Bloomberg va vista in un quadro più ampio. Il sindaco è infatti un vecchio lupo di mare e sa fiutare il vento. Quello spostamento di poche migliaia di persone sul barometro della finanza planetaria significa tempesta. Un uragano che rischia di abbattersi non solo sul terreno della finanza, ma su tutto il territorio dell'attività nazionale. Ex banchiere e fondatore di una delle due maggiori agenzie d'informazioni finanziarie del mondo, con un patrimonio personale di 5 miliardi di dollari, Bloomberg è stato lapidario: «Siamo chiari, l'industria dei servizi finanziari è una delle ragioni per cui il XX secolo è stato il secolo americano e New York è divenuta la capitale del mondo».


Bloomberg ha affermato una verità sotto gli occhi di tutti ma su cui pochi riflettono, specialmente nell'Europa continentale, dove il mondo della finanza è visto ancora oggi in molti ambienti come una forma di parassitismo rispetto a quello che è il sano mondo dell'industria, per non dire quello bucolico dell'Arcadia, quando erano tutti buoni e ognuno guadagnava il giusto. Una diffidenza che si è rafforzata nella mente di molti sull'onda della crisi del credito, acutizzata nel 2008.

Questa impostazione moralista, giusta là dove critica gli eccessi del capitalismo di carta è costata negli ultimi vent'anni a paesi come Germania, Francia e Italia, la perdita di decine di migliaia di rampolli delle rispettive classi dirigenti che si sono trasferiti a lavorare oltre-Manica, portando con sé competenze e professionalità preziose. Oggi si stima che quasi un quarto degli addetti della City venga dall'Europa continentale.


Che cos'è, d'altronde, un centro finanziario? E perché nasce e si sviluppa? Un centro finanziario è un mercato, composto da professionisti, che si alimenta di e rielabora informazioni complesse, trasmesse nei tempi più rapidi possibili, per permettere decisioni tempestive in campo azionario, obbligazionario, assicurativo, dei cambi e del commercio di materie prime. Per prosperare ha bisogno del massimo di trasparenza – pena la perdita di credibilità –, deve collocarsi in un paese a democrazia avanzata dove regni la certezza della legge (the rule of law), deve essere composto da persone sottoposte a una rigorosa etica professionale (fit and proper) che eviti il ricorso a una regolamentazione pesante. Deve muoversi in un quadro legislativo flessibile e intelligente, deve essere controllato da una stampa indipendente, in grado di fare e disfare reputazioni (name and shame) in breve tempo, senza guardare in faccia a nessuno. Una buona stampa non può ovviamente sostituirsi ai giudici, ma, fungendo da campanello d'allarme, riduce il rischio di gravi deviazioni, permettendo al sistema correzioni tempestive prima che gli eventi degenerino e sia troppo tardi.


Quando questi ingredienti sono riuniti, il meccanismo che viene messo in moto crea un rapporto di rispetto e fiducia che attrae capitali, anche se negli ultimi mesi è stato messo duramente alla prova.

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Poche cifre illustrano il cammino compiuto dalla City tra il 1986 e il 2006. Le attività di bilancio delle banche sono passate da 760 a 5.500 miliardi di sterline, i volumi giornalieri sul mercato dei cambi da 50 a 1.200 miliardi, i contratti in derivati trattati sul mercato da 17 milioni a 1 miliardo, il valore delle contrattazioni annuali al London Stock Exchange da 161 a 2.500 miliardi. E la capitalizzazione della Borsa di Londra è passata da poco più di 100 miliardi, quanto capitalizza oggi la sola bp, a 4.100 miliardi, circa il doppio del prodotto interno lordo. Un dato poi calato, sull'onda della crisi finanziaria, a circa 3.500 miliardi al febbraio 2008. La Borsa di Londra ha peraltro tratto nuova linfa dalla fusione nel 2007 con la Borsa italiana. Nel gennaio 2008 le contrattazioni elettroniche giornaliere delle due Borse unificate erano salite dell'85 per cento a 1,3 milioni in volume e del 45 per cento in valore a 15,3 miliardi di sterline. Il boom ha portato con sé una distruzione creativa: delle prime 100 società quotate di vent'anni fa oggi ne sono rimaste poco più di una trentina. Tutte le altre si sono ridotte o sono scomparse, risucchiate in un gorgo di acquisizioni, cedendo il passo a nuovi campioni.

In virtù di una crescita geometrica, la City pare, per usare un'espressione matematica presa a prestito dalla finanza, avere preso la tangente ed essere divenuta una derivata di sé stessa. La crescita ha creato ricchezze spropositate: le retribuzioni più elevate di banchieri e finanzieri raggiungevano vent'anni fa picchi massimi di 200.000 sterline all'anno. Oggi superano tranquillamente i 5 milioni (7,5 milioni di euro) e sono molto meno rappresentative, a causa del moltiplicarsi di bonus asimmetrici, con alcuni broker che possono portare a casa anche decine di milioni in un anno perché pagati in proporzione a quanto fanno guadagnare la banca. Per non parlare della fioritura di imprenditori finanziari, con quote in fondi d'investimento di vario genere, come hedge funds o fondi di private equity che hanno creato grandi fortune.

Nel 2006 il totale dei bonus della City, ossia la parte variabile della retribuzione erogata oltre il salario in base ai risultati raggiunti, è stato, secondo il think-tank CEBR di 8,8 miliardi di sterline. Si stima che almeno 4000 banchieri e operatori finanziari abbiano guadagnato oltre 1 milione di sterline (1,5 milioni di euro) a testa. La sola Goldman Sachs, a livello mondiale, disponeva di un monte utili totale di 10 miliardi di dollari da distribuire tra i dipendenti, pari a 397.707 dollari ciascuno, uscieri compresi. La crisi finanziaria iniziata nell'agosto del 2007 ha iniziato a ridimensionare la pacchia, riducendo i bonus, secondo le stime del CEBR, a 7,4 miliardi a fine anno per poi calare ulteriormente a 6,2 miliardi nel 2008 e tornare prevedibilmente a quota 9 miliardi soltanto nel 2010. Dopo avere assunto 11.000 persone nel 2007 la City dovrebbe, secondo il CEBR, perderne 6500 nel 2008. Secondo i più pessimisti se la crisi finanziaria si acuisse le perdite di posti di lavoro potrebbero salire a 40.000 unità, sulla scia della crisi delle banche USA che nella City hanno un fortissimo presidio.

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2. UN CANTIERE A CIELO APERTO



                «Non è nella fastosa proliferazione degli edifici,
     ma nella molteplicità di consuetudini umane ammassate insieme
                che consiste la meravigliosa immensità di Londra.»

                      Samuel Johnson, letterato e poeta, 1709-1784



La frenesia urbanistica

Da una ventina d'anni Londra è in preda a una frenesia urbanistica. Una febbre da cavallo, che non ha precedenti dai tempi della regina Vittoria (1837-1901), quando le nuove costruzioni dovettero accomodare una popolazione che triplicò, in meno di settant'anni, da 2 milioni a 6,5 milioni di abitanti. Fu il più vasto e rapido sviluppo attraversato da una città nella storia. Venne creata la gigantesca rete di trasporto della metropolitana (London Underground), oltre a nuove strade, acquedotti, reti fognarie, stazioni ferroviarie, ponti, cavalcavia e centinaia di migliaia di abitazioni.

Il rilancio urbano oggi, dopo una prima ondata a fine anni Ottanta ha tratto nuova linfa da una serie di opere sorte dalla seconda metà degli anni Novanta per celebrare l'alba del nuovo millennio. A differenza dei tempi della regina Vittoria, questa volta lo sviluppo avviene piuttosto in ordine sparso, «a macchie» e non presta la stessa attenzione del passato alle opere infrastrutturali. A partire dai trasporti, di cui Londra ha estremo bisogno. E così, il boom edilizio residenziale e commerciale, che ha ridotto la capitale a un cantiere a cielo aperto, sta mettendo a durissima prova la struttura delle comunicazioni e la pazienza dei londinesi, costretti ad affrontare disagi sempre più acuti, sia quando devono muoversi per la città sia quando si trovano ogni giorno obbligati a un eroico pendolarismo dai sobborghi.

La semplicità e ripetitività delle abitazioni tradizionali inglesi e la spartana fattura degli edifici industriali ottocenteschi, tutti rigorosamente in mattoni rosso scuro e molti di scarsa qualità, permettono margini più ampi d'azione rispetto a una città d'arte quando si tratta di abbattere e rinnovare interi quartieri, senza badare troppo alla conservazione. Come astronavi cadute dal cielo, blocchi di edifici ultramoderni hanno iniziato a squarciare la monotonia della capitale. Secondo New London Architecture (NLA), un'associazione di urbanisti e costruttori che cataloga i maggiori progetti ed espone con orgoglio un plastico della Londra futura al numero 26 di Store Street, nel quartiere di Bloomsbury, le aree della città oggetto di rilancio, in corso d'opera o in gestazione, sono ben 31, per una superficie di oltre 1000 ettari (10 chilometri quadrati) e uno stratosferico investimento di 100 miliardi di sterline, pari a 140 miliardi di curo. Una cifra che supera i 130 miliardi se si aggiunge una serie di opere infrastrutturali come il Super Link ferroviario. Secondo i progetti, verranno create oltre 80.000 abitazioni e 150.000 lavoratori saranno ospitati in nuovi uffici e spazi commerciali.

La città è disseminata di cantieri: a ovest, eleganti e ordinati villaggi di casette a schiera sono stati interrotti da blocchi di edifici lucenti che contrastano in modo stridente con l'area circostante. A est, nella City e nell'area di Canary Wharf, nei Docklands, imponenti grattacieli stanno spuntando come missili sulla rampa di lancio. Ancora più in là, a nord-est, nelle aree derelitte, i progetti di rigenerazione hanno assunto dimensioni colossali, come nel caso di Stratford City e del vicino Parco olimpico, che stanno sorgendo nell'area di Lea Valley, per dare vita a una minicittadina ultramoderna tra i ruderi di un proletario suburbio vittoriano monotono e misero.

Dopo due millenni di espansione a macchia d'olio, Londra, sulle ali di un boom economico e di un'immigrazione tumultuosa, è tornata a crescere, ma in modo diverso dal passato. Questa volta, lo sviluppo è assolutamente inusuale: da un lato, la città ha cominciato, per la prima volta, a salire verso l'alto. Dall'altro è tornata a guardare a est, quasi volesse, a duemila anni dalla fondazione, rianimare lo spirito delle origini romane. L'esperimento è imponente e, data l'incalzante crescita economica e demografica, inevitabile. Una febbre edilizia come questa, che capita poche volte nella storia, rischia però di non cogliere l'occasione di migliorare esteticamente la città. Poiché buona parte dell'area urbana è oggetto di rifacimenti, gli studi urbanistici avrebbero potuto sfornare opere più eleganti e originali. Molte sono riuscite, alcune riuscitissime, ma la maggioranza è piuttosto modesta, per quanto ingentilita dall'abbondante uso del vetro che, come le salse nella cattiva cucina, salvano l'insieme dandogli una patina uniforme. Allo stesso modo degli orrori degli anni Sessanta, i nuovi quartieri, banali nelle forme e senz'anima, giustificano le critiche di chi li vede come grotteschi corpi estranei sul vecchio e amato paesaggio tradizionale, fatto di sobri edifici di mattoni.

Quartieri a intensa attività edilizia, come la City, paiono essere stati bombardati e invasi da truppe d'occupazione composte da gru e mezzi di costruzione chiassosamente indaffarati a erigere opere monumentali. All'estremo opposto della scala della frenesia, c'è una Londra minore, quella della ristrutturazione di case e appartamenti privati, che fa da sfondo, con il lieve e insistente ronzio di un tarlo, dall'inizio degli anni Novanta. La Londra delle ristrutturazioni private ha una sua storia, con infiniti aneddoti di piccole gioie e drammi. Decine di migliaia di famiglie hanno avuto esperienze traumatiche per colpa di imprese di costruzioni incompetenti spuntate come funghi per soddisfare l'enorme domanda di abitazioni. Molti sono stati costretti a dormire in alberghi o pensionati per giorni se non mesi a causa di ritardi nelle consegne. Altri, più sfortunati, hanno assistito impotenti al crollo o all'allagamento dell'amata magione perché il costruttore aveva fatto male i conti con le strutture. Altri, mangiandosi il fegato, hanno fatto buon viso a cattiva sorte, accettando a malincuore lavori di pessima fattura. I più stizzosi sono sprofondati in cause legali senza fine per togliersi la soddisfazione di «punire» il costruttore incapace.

Questo clima di incertezza ha creato la psicosi del «costruttore amico». In una città in cui la gente cambia casa come un vestito ogni 5-10 anni, seguendo le stagioni della vita e in cui ogni unità edilizia ha bisogno della propria impresa di costruzione, è fondamentale non cascare sul cowboy builder, come dicono gli inglesi, l'impresa senza scrupoli che non va per il sottile. Così, oltre che sul quartiere in cui si abita, la conversazione nei salotti spesso verte su chi e come ha compiuto dei lavori di ristrutturazione e inevitabilmente si conclude con lo scambio di indirizzi di persone fidate. E proprio questo colossale sparigliamento tra offerta scadente e domanda tumultuosa di nuovi alloggi ha portato all'invasione di Londra da parte di imprese in gran parte polacche, che hanno avuto buon gioco sui rivali inglesi che operavano al fondo della scala della professionalità. Come spesso è accaduto a Londra, in altri settori e in altri tempi, il gigantesco fenomeno di «accomodamento» darwiniano che seleziona i migliori è avvenuto in silenzio senza proteste o scioperi di categoria... La grande crisi finanziaria iniziata a fine estate del 2007 ha iniziato a mordere sul settore immobiliare dalla primavera del 2008 aprendo la strada a una nuova strisciante psicosi: quella del timore di una resa dei conti con forti cali dei prezzi dopo quindici anni di crescita tumultuosa del mercato immobiliare.

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I simboli del nuovo millennio

Con la solennità di un appuntamento col destino, il segnale di via alla più intensa ondata di sviluppo immobiliare di Londra è giunto nell'imminenza del nuovo millennio. Per il fatidico anno 2000, il governo Blair, giunto al potere nel maggio del 1997, si era prefisso di inaugurare alcuni importanti simboli di quella che allora passava col nome di Cool Britannia, la Gran Bretagna «fica», per usare una traduzione un po' volgare. A salutare il nuovo millennio c'erano in cantiere, dai primi anni Novanta, miriadi di progetti: circa 200. I più significativi erano quattro, tutti molto originali: la Tate Modern, la Millennium Wheel, più nota oggi come London Eye, il Millennium Bridge e il Millennium Dome. La prima si è rivelata un grande successo, come pure la seconda. Il ponte, dopo un avvio imbarazzante, fa oggi onestamente il proprio lavoro. Il Dome, invece, che dalla vergogna ha cambiato nome in 02 è stato un esempio del peggio che può capitare quando la politica si mette a gestire un progetto commerciale.

La Tate Modern, il museo di arte contemporanea sorto nella vecchia centrale elettrica di Bankside, una mastodontica costruzione industriale in mattoni in stile vittoriano da cui spunta un gigantesco camino, fu realizzata tra il 1947 e il 1963 e chiusa nel 1981. La ristrutturazione, a opera degli architetti Herzog & de Meuron, ha creato una felice sintesi di vecchio (la facciata esterna è stata mantenuta integralmente) e moderno che ricorda quegli edifici pseudofuturistici che incombono in film come Blade Runner di Ridley Scott e Brazil di Terry Gilliam. L'opera è stata inaugurata nel maggio del 2000 e oggi è considerata uno dei più bei musei di arte moderna e contemporanea del mondo. Se alcuni hanno ancora da ridire sulla qualità e la disposizione delle opere, nessuno ha da eccepire sulla loro ambientazione. La ristrutturazione dell'edificio è riuscitissima, specie la riconversione della grande sala centrale dove stavano le turbine, oggetto di allestimenti artistici memorabili come The Weather Project, il finto sole splendente dell'artista Olafur Eliasson o Maman, il ragno alto 10 metri di Louise Bourgeois. Il successo del museo, che fa parte del complesso Tate (Tate Gallery a Millbank, oltre a Tate Liverpool e Tate St Ives), è stato immediato, tanto da attrarre 5,2 milioni di visitatori già dal primo anno. Dopo la fiammata iniziale, il numero si è assestato sopra la rispettabile cifra di 4 milioni. Un ottimo riscontro, che ha spinto gli organizzatori a chiedere agli stessi architetti di progettare una megaestensione in vetro nella parte posteriore della ex centrale, che dovrebbe essere pronta nel 2012, in contemporanea alla realizzazione, sulla sponda opposta del Tamigi, di una mezza dozzina di nuovi grattacieli. L'ingrandimento del museo dovrebbe aumentare lo spazio espositivo del 60 per cento. Per quanto associabile al nuovo millennio, la Tate Modern non è però un'opera «dedicata» come le altre tre, che si sono fregiate, almeno inizialmente, del prefisso Millennium.


La Millennium Wheel, la ruota panoramica in acciaio che ricorda il cerchione di una bicicletta con lunghi raggi, su cui sono applicate 32 capsule trasparenti da 25 posti l'una che compiono la rotazione in mezz'ora, è stata inaugurata, assieme al Dome, nella notte di San Silvestro da Tony Blair in persona. Anche se è stata subito chiusa, perché non ancora pronta per il pubblico, che ha dovuto aspettare fino al 9 marzo per il varo ufficiale. Progettata dagli architetti David Marks, Julia Barfield, Malcolm Cook, Mike Sparrowhawk, Stephen Chilton, Frank Anatole e Nic Bailey, alta 135 metri, sorta sulla sponda del Tamigi opposta al parlamento di Westminster, accanto al County Hall, il vecchio municipio di Londra oggi convertito in parte in un albergo Marriott e in parte in appartamenti di lusso, la ruota permette una vista straordinaria sulla città. Ha avuto il privilegio di essere la ruota panoramica più alta del mondo fino all'inizio del 2008, quando è stata superata da una lontana cugina a Singapore. Inizialmente di proprietà di British Airways, Tussaud (a cui fa capo tra l'altro il noto museo delle cere) e delle famiglie Marks e Barfield la ruota è stata un successo fulminante, con circa 15.000 visitatori al giorno. Al punto che, nel 2005, il concessionario del terreno, il South Bank Centre, ha tentato il colpo grosso di aumentare l'affitto da 65.000 a 2,5 milioni di sterline l'anno. Dopo uno scontro con i gestori, un compromesso è stato trovato, pare, a mezzo milione di sterline. Per British Airways, il London Eye, come oggi è chiamato, è stato, ai tempi in cui la compagnia aerea era guidata da Bob Ayling e navigava in cattive acque, una consolazione. Specie per il povero Ayling, che fu pietosamente tenuto al posto di amministratore delegato fino all'inaugurazione della ruota, di cui fu uno degli ispiratori, per poi essere licenziato l'indomani. Dal 2007 Tussaud, a sua volta acquisita da Merlin Entertainments, ha l'intera proprietà e British Airways, che è tornata a macinare utili, è rimasta con un ruolo di sponsor. Tutti paiono contenti.


Il Millennium Bridge, la «lama di luce», progettata dagli architetti Foster & Partners, Arup e Anthony Caro, è stato il primo ponte costruito sul Tamigi dai lontani tempi del Tower Bridge, nel 1894. L'obiettivo era di collegare lungo una linea ideale la Tate Modern con la cattedrale di St Paul's sull'altra sponda, dove il ponte pedonale, costruito in acciaio e sostenuto da due gettate in cemento, plana, passando a fianco della scuola secondaria maschile City of London. Inaugurato in ritardo di due mesi, il 10 giugno del 2000, il ponte venne chiuso 48 ore dopo perché il forte carico di pedoni provocava ampie oscillazioni, al punto da fare cadere alcuni passanti. Lungo 325 metri, costato 18 milioni di sterline, 2 oltre il budget, ne divorò altri 5 per essere zavorrato e stabilizzato, con forte imbarazzo di progettisti e costruttori, che dovettero tenerlo chiuso fino al 22 febbraio 2002, quando venne riaperto. Gli venne affibbiato il nomignolo di wobbly bridge, il ponte tremolante. La polemica è ormai passata, assieme all'acqua sottostante, e la lama d'acciaio è attraversata oggi da decine di migliaia di persone al giorno che vanno ad ammirare St Paul's e, sulla sponda opposta, la Tate Modern, il teatro New Globe e le altre attrazioni del quartiere di Bankside.


L'opera più strombazzata e imbarazzante del nuovo millennio, su cui Blair ha investito la propria immagine delegando la supervisione al braccio destro, nonché amico, Peter Mandelson, è stata il Millennium Dome, un nome che è un programma. Concepita dal precedente governo di John Major che, da bravo conservatore, badava al risparmio, la struttura è stata ingigantita dal New Labour per farne il simbolo più vistoso della nuova era blairiana. Il legame riuscì perfettamente, ma in negativo, al punto che lo sfoggio d'incompetenza nella vicenda ha insinuato per la prima volta nell'opinione pubblica in modo indelebile il sospetto che il New Labour di Tony Blair fosse più immagine che sostanza. Mandelson, travolto alla fine del 1998 da uno scandalo finanziario, ebbe la fortuna di dimettersi da ministro dell'Industria e responsabile della società New Millennium Experience al momento buono, passando la patata bollente al successore lord Falconer. Il fallimento del progetto può essere fatto coincidere con la fine dell'epoca della Cool Britannia, di cui, da allora, non si è mai più parlato.

Progettato dall'architetto Richard Rogers, il Dome sorge sulla penisola di Greenwich. Visto dall'alto sembra stampato sul profilo della penisola e dà l'idea di un orologio bianco che segna il passare del tempo. È infatti una gigantesca calotta in fibra di carbonio, tenuta sospesa da dodici altissimi pali di sostegno. Con un diametro di 365 metri è la maggiore struttura coperta del mondo. L'aria contenuta all'interno pesa meno del telone che la contiene. E il simbolo di Londra più visibile dal cielo. Fu varato nella notte del Capodanno 1999-2000 in un clima assurdo, con migliaia di persone lasciate in coda al freddo a causa di un'errata assegnazione dei biglietti. Una cerimonia in cui un'imbarazzata regina Elisabetta si trovò a cantare e ondeggiare stringendo le mani a Tony Blair, a sua volta avvinghiato alla moglie Cherie e tutti assieme parte di una catena umana osannante al nuovo millennio. Uno spettacolo che pareva la celebrazione di una setta pagana.

Il problema del Dome, d'altronde, non era la struttura esterna, assolutamente pionieristica. Era l'interno. Nessuno aveva infatti pensato seriamente ai contenuti. Un'importante opera architettonica e ingegneristica è stata così rovinata dalla politica. Costata 789 milioni di sterline (1,1 miliardi di euro), di cui poco più di 600 milioni finanziati dalla lotteria nazionale, ospitò, per i dodici mesi in cui rimase aperta, una serie di eventi ed esibizioni sconclusionate e dileggiate dai media, divise in 14 «zone» (la mente, il corpo, il gioco, i viaggi, la fede, la parola...) in una combinazione a cavallo tra il museo, il parco dei divertimenti e il baraccone. Per mantenersi, il Dome, nelle intenzioni dei promotori, avrebbe dovuto accogliere tra 12 e 17 milioni di visitatori all'anno. Alla fine del primo anno ne arrivarono poco più di 6 milioni. Una cifra notevole, ma lontana dalla possibilità di mantenerlo in attivo. Il 31 dicembre dello stesso anno venne dunque chiuso e i contenuti messi all'asta. Da allora, sporadicamente, ha accolto qualche evento sottotono, per poi rifiorire nel 2007. Fino ad allora il Dome era diventato una balena bianca arenata sul Tamigi. Con il nuovo nome di 02, preso dall'omonima società di comunicazioni del gruppo spagnolo Telefonica, che con la tedesca Anschultz Entertainment ha oggi i diritti dell'edificio e ha investito 500 milioni di sterline per rilanciarlo, è stato riconvertito in un'arena da 26.000 posti a sedere. Nel 2007 ha ospitato eventi ad alto profilo come un osannato concerto di riunione dei Led Zeppelin, il ritorno delle Spice Girls, Bruce Springsteen e i Take That. Tra i progetti futuri quello di ospitare i campionati mondiali di ginnastica del 2009 e alcune discipline ai giochi olimpici del 2012.

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Oggi viene da sorridere a pensare al lontano 1968 quando, in piena Swinging London e nel mezzo della prima ondata migratoria di asiatici e afrocaraibici, una bazzecola rispetto alla fiumana di stranieri di oggi, Enoch Powell, ai tempi all'opposizione come ministro della Difesa nel governo-ombra conservatore di Edward Heath, metteva in guardia con toni apocalittici dai rischi di disintegrazione che correva il paese tenendo le porte aperte agli immigrati. Noto come Rivers of Blood, cioè «fiumi di sangue», il discorso, tenuto in occasione del voto su una legge sull'immigrazione, parafrasava l' Eneide di Virgilio, laddove la Sibilla Cumana profetizzava guerre su guerre, tanto da tingere il fiume Tevere del rosso del sangue delle vittime. «Le comunità d'immigrati», disse Powell, «possono organizzarsi per rafforzare i propri membri, dare vita ad agitazioni contro i propri concittadini e sopraffare e dominare gli altri con le armi legali che gli ignoranti e i male informati hanno fornito loro. [...] Come il romano, mi sembra di vedere davanti a me il fiume Tevere spumeggiare di sangue.» Powell era uomo di grande cultura classica (divenne professore di Greco antico all'Università di Sidney alla tenerissima età di 25 anni) e si era fatto prendere la mano dalla retorica. Heath lo cacciò su due piedi, ma la frittata era fatta. Al discorso seguirono scioperi e manifestazioni contro e a favore. Powell ricevette 43.000 lettere e 700 telegrammi di sostegno e solo 800 lettere e 4 telegrammi di critica. Lasciò il segno a tal punto che oggi, a dieci anni dalla morte, ancora molti lo ricordano. Il partito parafascista BNP (British National Party) gli offrì perfino di candidarsi alle elezioni, ma il politico-letterato oppose uno sdegnato rifiuto. La sua voleva essere una profezia e quando negli anni Ottanta vi furono gravi disordini razziali a Brixton e Handsworth, Powell per un attimo pensò di avere visto giusto.

Quarant'anni dopo il discorso, con la popolazione di immigrati triplicata, a giudicare da quanto è successo, se si eccettua il grave problema del terrorismo islamico, Londra può essere considerata, come non si stanca di ripetere il sindaco, Ken Livingstone, un riuscito esempio d'integrazione, tenendo conto che in tempi molto rapidi è giunta nella capitale una delle più grandi masse di stranieri che abbia mai investito una città.

Ma quanto si sono integrati gli stranieri a Londra? Si sono mescolati ai londinesi «doc» o si sono sovrapposti? Si sono forse solo affiancati senza mai sfiorarsi? Quanto hanno realmente legato? Quanto si sentono a casa? Sono finiti in un melting pot all'americana, dove gradualmente sono stati assorbiti, risalendo la scala sociale? O vanno avanti per la loro strada senza che nessuno li disturbi ma allo stesso tempo li riconosca? Insomma, i frutti provenienti dai diversi paesi si sono semplicemente affiancati come in una macedonia, si sono in parte fusi, mantenendo ancora un'identità come in una composta di frutta o un minestrone di verdura, o hanno alienato il loro passato e negato la loro identità originaria per fondersi in un'informe marmellata? Un fatto è certo: rispetto all'America, che è stata edificata per quasi due secoli su successive ondate migratorie «dal basso» di gente umile, l'immigrazione britannica è relativamente recente, mantiene una forte identità originaria ed è concentrata in massima parte negli ultimi cinquant'anni. Quella londinese, in particolare, dopo il flusso di stampo tradizionale degli anni Cinquanta e Sessanta di povera gente in cerca di lavoro proveniente soprattutto dal Commonwealth, ha avuto un fortissimo impulso negli ultimi vent'anni con l'arrivo di ondate di europei, cinesi, russi, europei dell'Est e indiani benestanti che a decine di migliaia, «dall'alto», sono piovuti nella capitale con importanti patrimoni o con professionalità sofisticate che hanno permesso loro profumate retribuzioni o rendite dal primo minuto di soggiorno. Mentre a New York la classe dirigente si è formata per assimilazione dal basso verso l'alto, con la cooptazione dei nuovi venuti da parte dei padri pellegrini anglosassoni, a Londra, dove la classe dirigente nobiliare è consolidata dal medioevo, negli ultimi quindici-vent'anni è accaduto un curioso fenomeno: la classe dirigente inglese ha aperto le porte a frotte di stranieri delle classi alte, che hanno conquistato i vertici di aziende britanniche quotate in Borsa, hanno creato in brevissimo tempo importanti imprese o hanno semplicemente portato una massa di capitali da investire.

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Sinfonia o cacofonia?

Ogni anno, nell'ultimo weekend di agosto, a Londra viene festeggiato il carnevale di Notting Hill, che prende il nome dall'omonimo quartiere a nord-ovest del parco di Kensington Gardens. Nato in sordina tra le mura della sala consiliare del comune di St Pancras nel 1959 per tenere su di morale la comunità afro-caraibica, oggetto in quegli anni di discriminazione razziale, dal 1965 la manifestazione è diventata una pittoresca festa di strada. Di stampo marcatamente caraibico, con musiche etniche, uso di tamburi e travestimenti, la festa londinese, fino alla fine degli anni Ottanta, si concludeva regolarmente con scontri più o meno aspri con la polizia e qualche morto ammazzato, spesso causato da risse tra il pubblico. Con l'andare del tempo, il carnevale ha perso quell'aspetto ruspante e violento da West Side Story e si è andato addomesticando, attraendo folle di turisti sempre più numerose. Al punto da essere considerato oggi, nel mondo, per numero di partecipanti, secondo solo al Carnevale di Rio. Nel 2007 la folla, pigiata in un'area poco più grande del parco Sempione di Milano, avrebbe raggiunto i 2 milioni, quasi il doppio dell'anno prima e ben al di sopra della media di 1,3 milioni dei 10 anni precedenti. Pastorizzato e turistico, il carnevale è orgogliosamente presentato dal sindaco di Londra, Ken Livingstone, come uno degli esempi della multiculturalità della capitale. Ma non tutti sono d'accordo. A cominciare da Trevor Phillips, politico di colore vicino a Tony Blair, che nel 2006, poco dopo essere stato insediato alla guida della commissione per l'Eguaglianza razziale e i diritti umani (Commission for Racial Equality and Human Rights) disse con brutale franchezza che il carnevale «per quanto sia una festa magnifica, difficilmente può essere dipinto come un evento che rappresenta la cultura di ogni giorno della maggioranza delle comunità londinesi». La battuta ha ricevuto una risposta al fulmicotone da parte di Livingstone che, da vecchio socialista, ha demonizzato Phillips accusandolo di «deriva di destra» aggiungendo che «presto potrà aderire al British National Party». Una reazione così abnorme si spiega con la vecchia ruggine che corre tra i due e che affonda le radici in una visione profondamente diversa di come integrare gli immigrati. Livingstone è per il multiculturalismo: a suo avviso il fatto che diverse comunità possano convivere assieme con pari dignità e preservare le proprie tradizioni è un elemento di grande progresso: «I princìpi su cui poggia il multiculturalismo», ha scritto nel 2006 sul quotidiano «The Independent», «non sono nuovi. Le fondamenta del liberalismo e del multiculturalismo sono state delineate chiaramente da John Stuart Mill nel suo saggio Sulla libertà (1859). La base è semplice. Ogni individuo è unico e vuole condurre la propria esistenza in modo diverso. Gli individui devono essere in grado di poter scegliere. Coloro che si oppongono al "multiculturalismo" – ossia il diritto di perseguire valori culturali, soggetti alla sola restrizione di non interferire con i valori altrui – giocano lo stesso ruolo di chi, in passato, sosteneva che i protestanti non potevano professare la propria fede nei paesi cattolici, che gli ebrei non avevano diritto di votare, e che gli atei non potevano essere eletti deputati». Ma Phillips, nero originario della Guyana e dunque personalmente parte in causa nella questione, sulla discriminazione ha un approccio meno illuminista e più intuitivo e preferisce l'integrazione. A suo vedere, il multiculturalismo, così come è concepito oggi, porta alla segregazione e all'autosegregazione di alcuni gruppi, specie nella comunità musulmana. «C'è chi», ha detto Phillips in risposta a Livingstone, «dice che la separazione tra comunità non è un problema finché si è tutti uguali. Non sono d'accordo per varie ragioni. La prima è che la separazione incoraggia l'ineguaglianza di trattamento. La seconda perché una vita separata significa che diversi gruppi di persone vedono definire le proprie esperienze di vita in base alla comunità etnica cui appartenono piuttosto che alle proprie ambizioni personali.»

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5. CAPITALE DEI CAPITALISTI



                        «È un enorme aggregato di piccoli sistemi,
                        ognuno dei quali è una minuscola anarchia,
                           i loro membri non collaborano tra loro,
                                 ma sgomitano uno contro l'altro.»

                     Thomas Carlyle, storico e saggista, 1795-1881



Le profezie di Karl Marx e Ronald Cohen

Il marxismo è fallito perché Karl Marx e Friedrich Engels hanno sbagliato le previsioni sull'evoluzione delle classi sociali. Secondo i due barbuti profeti tedeschi trapiantati a Londra, il divario tra una classe borghese sempre più ricca e una classe operaia sempre più povera e dilagante avrebbe creato le condizioni per una rivoluzione, con la presa di potere del proletariato «che non aveva nulla da perdere se non le proprie catene». Sappiamo come è finita. Le rivoluzioni socialiste non sono avvenute «naturalmente» in paesi avanzati come la Gran Bretagna, ma con la forza in paesi arretrati come Russia e Cina, dove la borghesia era minima, la classe operaia limitata e dove regnavano autocrati, rovesciati da temerari leader comunisti. Purtroppo, proprio perché le condizioni non erano mature, gli eroi proletari crearono nuove autocrazie, trasformando la «dittatura del proletariato» in dittature individuali con status semidivini, come Stalin in URSS e Mao in Cina. Nuove dittature socialiste si imposero dopo la seconda guerra mondiale in paesi dell'Europa dell'Est, che stavano andando in tutt'altra direzione, o in paesi del Terzo mondo dove, nuovamente, il socialismo dominò società arcaiche.

Se si fosse potuto dare un consiglio al vecchio Marx, reinterpretando un detto in voga ai tempi nell'America di Bill Clinton, gli si sarebbe potuto dire: «It's the middle class, stupid». La crescita esponenziale della classe media nelle economie a capitalismo maturo ha smentito la teoria marxista, facendo del comunismo una camicia di forza che ha mantenuto intere popolazioni in condizioni di penuria, sacrificandole sull'altare della classe operaia, mentre in Occidente le classi medie crescevano e prosperavano.

Ma la Terra gira, il tempo passa e le cose cambiano. Al punto che un rapporto dell'estate del 2007 della Joseph Rowntree Foundation, un think-tank che studia l'evoluzione dei trend sociali in Gran Bretagna, ha messo in guardia dalla crescente polarizzazione della società inglese. «L'ineguaglianza sociale», ha concluso il rapporto, «è giunta al livello più alto degli ultimi quarant'anni», cioè da quando la fondazione ha iniziato a operare. Secondo il rapporto, dagli anni Novanta a oggi la povertà assoluta è diminuita dal 14 all'11 per cento in termini di famiglie che vivono in totale miseria, ma la povertà relativa è aumentata, passando dal 22 al 28 per cento delle famiglie. Nel frattempo, l'1 per cento al vertice della scala sociale ha accresciuto dal 17 al 24 per cento la propria quota del benessere nazionale. Gli «esclusivamente ricchi», «coloro che sono così benestanti da poter vivere al di fuori delle costrizioni sociali», sono passati dal 4 al 6 per cento. In particolare, i mille inglesi più ricchi hanno quadruplicato la loro fortuna dal 1997, da quando i laburisti sono al potere. I ricchi vivono peraltro in un mondo tutto loro, sempre più separati dai poveri.

Ben Wheeler, uno degli autori del rapporto, ha sentenziato: «La classe media sta scomparendo. Il divario tra ricchi e poveri continua ad aumentare ed è destinato a dilatarsi ulteriormente». E ha spiegato che la povertà relativa, quella in aumento, non è piacevole, dato che chi si trova in tale condizione non ha i soldi per risuolarsi le scarpe o comprarsi un televisore nuovo. D'un tratto, la cupa profezia di Marx torna attuale. La classe media si restringe, o meglio scivola lungo una china di proletarizzazione.

In un articolo sul «Los Angeles Times» apparso nel 2007, Joel Kotkin e David Friedman della New America Foundation hanno rilevato come il trend sia netto negli USA: i due parlano della nascita di una «plutonomia», ossia un'economia dove gran parte dei guadagni fluisce in misura sempre maggiore nelle tasche di una cerchia ristretta di persone. Gli autori notano come tra il 1999 e il 2004 i redditi al netto dell'inflazione del 90 per cento degli americani sono cresciuti del 2 per cento a fronte del balzo del 57 per cento dei redditi conosciuto dal 10 per cento della fascia superiore della società.

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