Copertina
Autore Charles Nodier
Titolo Crimini letterari
Edizioneduepunti, Palermo, 2010, Terrain vague , pag. 110, cop.fle., dim. 11x16,5x1 cm , Isbn 978-88-89987-41-4
OriginaleQuestions de littérature légale. Du plagiat. De la supposition d'auteurs, des supercheries qui ont rapport aux livres. Ouvrage qui peut servir de suite au Dictionnaire des anonymes et à toutes les bibliographies
EdizioneBarba, Paris, 1812
TraduttoreAndrea L. Carbone
LettoreRenato di Stefano, 2011
Classe libri , storia letteraria , copyright-copyleft
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Indice


Avvertenza                                   7

IMITAZIONE                                  15
CITAZIONE                                   25
ALLUSIONE                                   27
AFFINITÀ DI IDEE                            29
PLAGIO                                      33
FURTO LETTERARIO                            43
ATTRIBUZIONE DI OPERE                       47
PRESUNZIONE D'AUTORE                        49
INTERPOLAZIONE                              61
INTEGRAZIONE                                63
PASTICHE                                    65
SCUOLE LETTERARIE                           69
STILI PROFESSIONALI                         81
CONTRAFFAZIONE MATERIALE                    83
FALSI MANOSCRITTI                           85
FALSI TITOLI                                87
FALSE DATE                                  89
RARITÀ PRESUNTA                             91
CAMBIO DI TITOLO                            93
CONCLUSIONE                                 95

Apparati                                    99


 

 

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Pagina 7

IL CRIMINE DELLA LETTERATURA
OVVERO LA REPUBBLICA DEI CRIMINALI



Questa è un'opera che può far da seguito a tutte le bibliografie (come recita il suo titolo originale), tutte le bibliografie del mondo. Questa è un'opera-mondo. Il mondo di quest'opera è l'universo della letteratura che l'autore stesso definisce "Repubblica delle lettere", ossia il sistema di citazioni, riferimenti, filiazioni, incroci, sovrapposizioni, echi, riprese, eredità, tradizioni e... crimini, di cui il più odioso, solo in apparenza, è il furto. Questa Repubblica è un mondo strutturalmente criminale, dove l'appropriazione indebita, la rilettura scorretta, il plagio, il sovvertimento della regola sono motore generativo, ragione della fecondità stessa. E forse proprio Nodier sembra voler lasciare aperta la strada a un'ambiguità sostanziale e indifendibile a rigor di "legge": questi crimini sono se non necessari quanto meno inevitabili per la sua sopravvivenza.


Questioni di letteratura legale. Del plagio. Della presunzione d'autore, delle contraffazioni che riguardano i libri. Opera che può far da seguito al Dizionario degli anonimi e a tutte le bibliografie tradisce sin dalla sua premessa l'intento di giocare con il genere della scrittura legale, del codice, delle classificazioni, ma l'impostazione apparentemente arida si svela pian piano essere un abile camuffamento di intenti critici e talvolta derisori, sia mettendo alla berlina gli autori classici, ammantati di un'aura di sacralità (Omero, Virgilio, Cicerone), sia regolando qualche conto personale con i contemporanei e con i mostri sacri della letteratura francese di tutte le epoche (e l'elenco è davvero sorprendente).


Paradossalmente, allora, questa disamina sui delitti lascia trasparire la verità del crimine letterario, la sua necessità. All'occhio del lettore più attento, Nodier svela i suoi artifici con discrezione, quando allude alle sue stesse pagine come a un pastiche, cioè una delle forme del crimine, o soprattutto quando riporta le gesta di un tale Fust o Faust, socio di Gutemberg, tacciato di stregoneria perché voleva spacciare testi a stampa (ovviamente mai visti prima) per manoscritti.


«Questo secolo è un po' vandalo» scrive Nodier riferendosi al proprio, ma non sfuggirà al lettore odierno un possibile confronto con i nostri tempi. In un'epoca che vuole fare delle indiscriminate restrizioni del diritto d'autore uno strumento di potere e controllo, una riflessione come quella esposta in questo volume, che esaspera fino al parossismo gli esiti di un' indagine poliziesca sui misfatti degli scrittori (classici e contemporanei), ci mostra con chiarezza che reprimere i crimini letterari equivale a intaccare le regole stesse del governo della Repubblica delle lettere.


La verità ultima che finisce con il suggerire questo trattato è che la Repubblica delle lettere è fatta soprattutto di criminali, perché anche il più originale degli autori ruba: fa man bassa dell'immaginario condiviso e se ne appropria, riscrive sempre ciò che non ricorda più di aver letto, ridice sempre ciò che non ricorda più di aver udito, dispone dell'altrui come se fosse suo. Ed è suo, ma non gli appartiene.


Nonostante tutto, il crimine non sempre è una colpa, ovvero non sempre va punito, e ci sentiamo in diritto di chiamare Padri fondatori di questa Repubblica autori come Schwob, dichiarato falsario e reo confesso con il clamoroso caso dei suoi Mimi attribuiti a Fronda, o ancora Borges e le sue mille "finzioni", e su tutti Rabelais fine umanista e al tempo stesso manipolatore di testi e autori reinventati nelle sue corrosive parodie. A rafforzare questo giudizio la storia (e il mercato) delle lettere ci ricordano mille casi, anche recenti, in cui il criminale di turno, ancorché colto in flagrante, ha ottenuto ori e allori.


Al termine di questa breve premessa ci sembra doveroso svelare un ultimo aspetto della complessa architettura psicologica di questo saggio, limpido nell'esposizione e ambiguo ben oltre il semplice sospetto: Nodier, figlio di un magistrato, si fa giudice dei vizi altrui, ma in realtà ha l'animo del criminale.


Sarebbe sufficiente ricordare come la sua ispirazione, sin dagli esordi letterari, indulga spesso nel ricalcare modi e temi dei suoi scrittori preferiti: così per lo spirito wertheriano che aleggia in Les Proscrits del 1802 e soprattutto in Tristes ou Mélanges tirés des tablettes d'un suicidé del 1806, e più tardi con il romanzo Jean Sbogar del 1818, in cui è forte il richiamo ai Masnadieri di Schiller. L'opera che ha consacrato il nome di Nodier nell'empireo del genere vampiresco ( Le Vampire del 1820), non solo è una ripresa del più fortunato Vampiro di Polidori, ma è anche un adattamento teatrale del romanzo Lord Ruthwen ou les vampires, apparso anonimo in quello stesso anno ma attribuito a Cyprien Bérard, direttore del teatro Vaudeville. Farcita di riferimenti – spesso taciuti – è la sua ricca produzione fantastica che vede in Hoffmann una bussola, ma Sénancour, Saint-Martin e Swedenborg aleggiare ovunque. E infine, ne L'Histoire du roi de Bohême et de ses sept châteaux del 1830, i temi che sembrano originali sono già noti nell'opera di Sterne.


Tutte queste licenze sarebbero comunque soltanto indizi di una certa "cattiva abitudine" dello scrittore e note di merito per un grande bibliofilo, ma è un'altra la storia che ci interessa ricordare. Nel 1822 appare per i tipi di Samson e Nadau di Parigi una sua raccolta dal titolo Infernaliana, in cui spicca tra gli altri un breve racconto: Aventures de Thibaud de La Jacquière. Come ha rivelato Roger Caillois nel suo saggio Destin d'un homme et d'un livre: le comte Jean Potocki et Le Manuscrit trouvé à Saragosse (apparso la prima volta all'interno dell'edizione da questi curata di J. Potocki, Manuscrit trouvé à Saragosse , Parigi 1958), si tratta di un plagio: un plagio pressoché integrale della Decima giornata del romanzo di Potocki. Appropriazione quanto mai sfortunata in quanto quella Repubblica delle lettere, da Nodier tanto abilmente descritta, ha finito con il restituire all'opera del conte polacco il suo giusto merito di pietra miliare della letteratura fantastica.


«Nulla al mondo merita maggiore riprovazione del vedere le più potenti qualità del genio unirsi alla degradazione dei vizi. Ma per fortuna ciò avviene più raramente di quanto non si pensi».

ALC : GS : RS

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Pagina 15

IMITAZIONE



[...]

Si conviene di chiamare imitazione ogni traduzione da una lingua morta inserita in un'opera di immaginazione che non sia la traduzione esatta dello scritto dal quale è estrapolata.

Virgilio ha imitato Omero; Racine i tragici greci; Molière Plauto; Boileau Giovenale e Orazio ecc., senza dolo. Ma lo stesso non vale per i prosatori di genere semplice, che non hanno affatto a disposizione elementi brillanti da sottrarre; come se l'entità del furto ne diminuisse la gravità. Montaigne ha plagiato ripetutamente Seneca e Plutarco, ma lo ammette più volte, dichiarando che non ha nulla in contrario se i critici bacchettano Seneca al posto suo. Certi bei capitoli, come Che filosofare è apprendere a morire o A proposito di un'usanza dell'isola di Cos, sono evidentemente intrisi di Seneca. È più facile di quanto Montaigne non credesse riconoscere la frase breve, figurata, sentenziosa, quasi sempre antitetica rispetto a Seneca, attraverso la ricca abbondanza del suo stile, che è disteso senza essere svagato e dettagliato senza essere prolisso.

Si considera ancora soltanto come imitazione ciò che un autore prende in prestito da una lingua straniera viva. Nei nostri teatri sono stati messi in scena, senza incorrere in accuse di plagio, bei passi di Alfieri e di Shakespeare, e i filosofi del secolo scorso devono la maggior parte dei loro ragionamenti a qualche autore inglese. Credo però che comporti un certo difetto di delicatezza l'impadronirsi di un tratto ammirevole facendolo passare per originale, che lo si prenda da una lingua straniera o da una lingua morta. Pertanto il procedimento del nostro grande Corneille, che ha servilmente copiato un pensiero bello e toccante estratto dalla tragedia Heraclius di Calderon, è un caso di coscienza letteraria:

O triste Phocas! O troppo felice Maurice!
Tu trovi due figli che muoiano dopo di te!
Io non posso trovarne uno che regni dopo di me!

Quel che è certo è che i nostri critici hanno severamente accusato di plagio Calderon perché non si hanno prove del fatto che la famosa commedia Tutto è verità, tutto è menzogna precedesse l' Heraclius di qualche anno.

Del resto, il plagio commesso ai danni di autori moderni, qualunque sia il loro paese, ha già un livello di innocenza minore rispetto al plagio di autori antichi, e molti scrittori dotati di sensibilità e rigore hanno espresso una recisa disapprovazione. «Se pure qualcosa ho preso» dice Scudery, «dai Greci e dai Latini, non ho preso nulla dagli italiani, dagli spagnoli o dai francesi, poiché a mio avviso ciò che è studio nel caso degli antichi è furto nel caso dei moderni». Si può ribattere che è meglio rubare come Corneille piuttosto che inventare come Scudery, ma se è vero che non si tratta di uno scrittore veramente autorevole, pure la sua opinione ha un'apparenza di ragionevolezza e probità che merita rispetto. Era anche l'avviso di Lamothe-le-Vayer, che dice in una lettera, riportata da Bayle alla voce Eforo: «prendere dagli antichi e trarre profitto da ciò che hanno scritto è come fare i pirati al di là dell'equatore, ma rubare a chi appartiene alla stessa epoca, appropriandosi dei loro pensieri e delle loro creazioni, è come rubare vestiti nottetempo agli angoli delle strade o mantelli sul Pont-Neuf». Credo che ogni autore converrà con questa massima, che cioè sia meglio saccheggiare gli antichi piuttosto che i moderni, e che tra questi occorra risparmiare i compatrioti dedicandosi di preferenza agli stranieri. La pirateria letteraria non somiglia affatto a quella degli armatori: questi si credono più innocenti quando si dedicano al brigantaggio nel nuovo mondo piuttosto che in Europa. Gli altri, invece, fanno le scorrerie più ardite nel vecchio mondo piuttosto che nel nuovo, e hanno ragione di sperare che li si loderà per le peggiori malefatte... tutti i plagiari, quando possono, si attengono a questa distinzione. Ma non lo fanno per ragioni di coscienza, bensì per non farsi scoprire. Quando si saccheggia un autore moderno, prudenza vuole che si nasconda il bottino. Ma guai al plagiario se è troppo grande la sproporzione tra quel che ruba e ciò a cui lo incolla. Gli intenditori si accorgeranno non solo che è un plagiario ma anche che è maldestro... Si può rubare come fanno le api, senza far torto a nessuno – dice ancora Lamothe-le-Vayer – ma il furto della formica, che porta via il seme intero, non deve mai essere imitato».

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Pagina 36

Per tornare al plagio, quanto al suo aspetto più indiscutibile, il più evidente è a mio avviso quello subito dai nostri autori del sedicesimo secolo. Per non parlare di Rabelais, le cui bizzarre follie hanno fornito tante scene piccanti a Racine e Molière, tanti racconti ingegnosi a La Fontaine e ai suoi imitatori e infine un'insulsa brutta copia per nulla originale all'autore del Compare Mathieu; per non parlare di Marot, che con il suo stile ha fondato un genere e che spesso è stato imitato in modo passabile ma ai danni dei suoi emistichi; vedo un certo Louis Regius, detto il Re, il cui singolare Trattato sulle vicissitudini delle scienze ha forse ispirato a Bacon il suo bel libro De augmentis scientiarum, che è quasi interamente conforme negli intenti e nell'andamento, e a Berewood il suo Saggio sulla diversità delle Religioni e delle Lingue, un'osservazione che sottopongo al vaglio dei curiosi della letteratura di mediazione, poiché merita a mio avviso tutta la loro attenzione. Ma di certo a nessuno scrittore sono stati sottratti brani preziosi più che a Montaigne, che quantomeno si è ammantato di quelli altrui in modo dichiarato e pubblico. Charron non si fa problemi [...] a copiare testualmente i suoi passi più belli, come del resto anche quelli che a sua volta Montaigne copia da Seneca o da altri, una libertà che mi sembra un pochino azzardata in quel saggio teologale di Bordeaux, altrimenti davvero coraggiosamente sincero. Lamothe-le-Vayer, La Bruyère, Saint-Evremond, Fontenelle, Bayle e Voltaire non sono certo più delicati, ma nessuno di loro raggiunge Pascal quanto all'audacia del ladrocinio. [...] Sarebbe naturale congetturare, per chiunque come me veneri la reputazione di Pascal, e nonostante ciò non possa chiudere gli occhi di fronte alla quantità singolare di elementi toccanti o sublimi che ha semplicemente estratto dai filosofi e dai Padri della Chiesa, da Montaigne o da Charron, di cui il libro dei Pensieri si compone quasi per intero; sarebbe – dicevo – naturale congetturare che in realtà questo libro non sia altro che una raccolta di note informi, delle quali alcune devono essere considerate autorità e altre confutate interamente. Tanto più che, a prima vista, la storia bibliografica non ci consegna questo libro altrimenti, poiché prende atto che fu composto a partire da carte riunite, senza altro ordine se non quello che agli editori piacque di introdurre. I ragionamenti quasi invincibili che Pascal vi oppone all'incredulità costituirebbero un'altra testimonianza alla quale potrei rifiutare di accordare pieno credito, se non vedessi che i maggiori scrittori della nazione, dai tempi di Pascal a oggi, considerano unanimemente i Pensieri come il principale motivo della sua gloria. In effetti, se si tolgono a Pascal le osservazioni ammirevoli e profonde di cui si compone quel libro, gli resterà comunque la reputazione di uno dei più dotti geometri della sua epoca, quella del dialettico più abile, del ragionatore più stringente, dello scrittore più ingegnosamente gradevole, più brillante e più puro che vi sia stato in Francia rispetto ai suoi predecessori. Ma cercherò inutilmente nella sua opera postuma quel genio prodigioso che avrebbe a tal punto illuminato la religione che Dio l'ha chiamato a sé, come ebbe a dire un celebre autore dei nostri tempi, perché non svelasse tutti i misteri. Tra i Pensieri, qualcuno appartiene naturalmente allo stesso Pascal, e lo si riconosce da un certo stile melanconico, non proprio filosofico o cristiano, ma superstizioso, cupo e in certo modo illuminato, che tradisce lo stato in cui la sua malattia lo piombava. Questa impressione di tristezza sognante e disperata non è poi tanto difficile da cogliere, e leggo scrittori alla moda che riescono a renderla non meno bene di Pascal. Ma lo slancio proprio di un'anima forte, quei tratti grandi e inattesi di cui si è detto che «si addicono più al Dio che all'uomo», bisogna convenire che provengono da Timeo di Locri, Sant'Agostino, Charron e soprattutto Montaigne. Occorre forse concludere che certi entusiasti non hanno letto Montaigne, o che indulgono al piacere di sacrificare la gloria di uno scettico a quella di un giansenista?

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Pagina 69

SCUOLE LETTERARIE



Applichiamo questa idea alla letteratura. I grandi uomini di ogni tempo si contraddistinguono per uno stile nel contempo nobile e naturale, la cui bellezza non deve nulla ad abbinamenti artificiali e ricercati. Uno stile forte, energico, imponente o lieve, penetrante o gradevole a seconda del pensiero che ammanta e non grazie al ricorso a certe parole o al gioco di certe figure. Si potrebbe dire che è un tessuto di idee e non di espressioni, tanto il segno di cui si serve lo scrittore si annulla nel sentimento che esprime! Così scrissero Virgilio, Racine, Boileau, Fénelon. Dubito che qualcuno sia mai riuscito nell'intento di farne qualche buon pastiche. Vi si riesce meglio con altri geni eccellenti, quasi del medesimo rango, che però hanno prediletto certe forme dello stile, come cesure particolarmente brusche, terminazioni rapide, inversioni inusitate, ellissi, esclamazioni o altre figure del genere. Gli ammiratori di Cicerone sono riusciti a volte, come dicevo, a ricalcarlo abbastanza bene in qualche frase. Non c'è giovane dotato di un certo spirito che non abbia sperimentato almeno una volta una tirata ispirata a Lucano o un periodare pomposo e sonante come quello di Floro. Si può imitare, ma fino a un certo punto, lo stile a scatti, discontinuo, apoftegmatico di Seneca o la concisione energica di Tacito, se non fosse però che ben pochi uomini sono in grado di uguagliare il vigore dei loro pensieri elevati con la stessa facilità con cui si possono replicare le sembianze esteriori che li ammantano. Nel complesso, poi, questi pastiche riusciranno a ingannare soltanto i più distratti. Ma se un talento più audace che solido si propone di supplire al difetto di un vero genio con qualche innovazione che sulle prime gli pare possa rimpiazzarlo e la cui aria apparentemente estranea produce una sorta di stupore che si può scambiare per ammirazione, nulla osta allora alla perfetta rassomiglianza del pastiche, poiché il segreto dell'autore contraffatto risiede interamente in qualche artificio nel meccanismo o nella costruzione cui altri può fare ricorso allo stesso modo. Affermo senza tema di smentita che non c'è pietra di paragone più affidabile per comprendere chi ha realmente dei meriti letterari da chi invece brilla soltanto grazie a una certa perizia nel combinare le parole. Il vero talento non fonda scuole. I maestri di stile si avvicinano più o meno gli uni agli altri ma non si somigliano. La lingua di Virgilio è diversa da quella di Omero, e quella di Milton differisce rispetto a entrambi, benché tutti e tre siano ugualmente divini.

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Pagina 78

In breve, in letteratura, i maestri hanno uno stile, le scuole hanno una maniera, ed è a quest'ultima che si aggrappano come possono gli scrittori che, ancora una volta, non hanno uno stile tutto loro. Un uomo che si dedichi all'arte di scrivere per effetto di un'ispirazione irresistibile, imprime il suo sigillo sulle sue opere. Lo spirito mediocre che segue questa carriera per una mania, o per speculazione, o, cosa forse più scusabile, per avere nella vita una distrazione piacevole e innocente, vi imprime invece una debole controstampa del sigillo degli altri, perché la natura non lo ha dotato di uno suo proprio, ed è impossibile che a forza di studiare e scrivere l'abitudine pervenga in qualche modo a rimpiazzare il talento, poiché in buona sostanza consiste solo nel modellare il proprio stile in base a quello che si è impresso più recentemente nella memoria: ecco quel che chiamerei pastiche naturale o involontario.

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Pagina 85

FALSI MANOSCRITTI



Il trucco più antico della storia della stampa che mi sovvenga è quello attribuito a Fust, o Faust, socio di Gutemberg, che a quanto si dice venne a Parigi per vendere a prezzo da manoscritto, e come fossero tali e quali, le prime Bibbie di Magonza. Pare che la conformità dei caratteri di quei pretesi manoscritti e il rapporto esatto delle pagine abbiano destato il sospetto che vi fosse qualcosa di strano, com'era in effetti. Ma poiché a quell'epoca tutto ciò che pareva strano sembrava anche soprannaturale a quegli spiriti accecati dalla superstizione, che attribuivano molto potere al demonio e non avevano idea di quale fosse quello del genio, si concluse che Faust fosse uno stregone e mancò poco che ricevesse il trattamento che ne consegue. Ma si salvò, e la stampa trionfò fin dalla nascita sul fanatismo che un giorno avrebbe sbaragliato. In effetti quegli inventori della stampa erano maghi potenti, e avrebbero esercitato sulle sorti del mondo un influsso crescente e invincibile, benché sospettassero appena i miracoli che la loro scoperta avrebbe compiuto, e l'ignoranza molesta degli inquisitori li intuisse ancor meno. Se le cose fossero andate diversamente, il bel dono che Gutemberg offriva ai posteri si sarebbe senz'altro smarrito.

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