Copertina
Autore Giuseppe Notarbartolo di Sciara
CoautoreJeff Schweitzer
Titolo Il dilemma della Sfinge
SottotitoloLe difficile scelte dell'uomo predatore assillato dalla compassione per le sue prede
EdizioneMuzzio, Roma, 2005, Nature 14 , pag. 206, cop.fle., dim. 140x210x15 mm , Isbn 978-88-7413-120-4
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe natura , evoluzione , ecologia , animali domestici
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Indice


1 Quale Sfinge, quale dilemma 9

2 Il posto dell'uomo sul pianeta 23

3 La mente nello specchio: gli animali sanno di sapere? 39

4 La natura del dilemma 73

5 Alla ricerca di una soluzione 93

6 Dalla teoria alla pratica 107

7 Perché non dobbiamo cacciare le balene 153

8 Conclusione: verso un futuro migliore? 173


Nomi delle specie di animali selvatici citate 183
Siti Internet 187
Ringraziamenti 191
Riferimenti bibliografici 193
Indice analitico 199

 

 

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Pagina 9

1 Quale Sfinge, quale dilemma


    L'essere umano è parte di un tutto che chiamiamo universo,
    una parte limitata nello spazio e nel tempo. Egli percepisce
    se stesso, i suoi pensieri e i suoi sentimenti come qualcosa
    di separato dal resto, un'illusione ottica della sua
    consapevolezza. Questa illusione è una sorta di prigione per
    noi, che ci trattiene all'interno dei nostri desideri
    personali e dell'affetto per quelle poche persone che ci sono
    più vicine. Il nostro compito è di liberarci da questa
    prigione e di allargare il cerchio della nostra compassione
    per abbracciare tutte le creature viventi e l'insieme della
    natura in tutta la sua bellezza.
                                                  Albert Einstein



Seduti al tavolo di un buon ristorante, nella gradevole aspettativa di soddisfare tra breve il nostro appetito, scorriamo le pagine del menu e, forse per via del profumo di carne grigliata che ci giunge alle nari dalle cucine, la nostra scelta cade sulla costata di manzo. "Mi raccomando, al sangue", rammentiamo al cameriere. Pur nell'atto di pronunciare la parola "sangue", non potrebbe essere più remota dalla nostra mente la visione della trafila di terrore, sofferenza e morte che sta all'origine della nostra richiesta, che si concluderà con l'arrivo della costata nel piatto che ci sta di fronte.

Eppure siamo amanti degli animali. Non fino al punto di essere vegetariani, come abbiamo visto, e quindi di riconoscerci nell'atteggiamento estremo e radicale di alcune persone. Tuttavia siamo sensibili alla sofferenza degli animali, e più in generale alle esigenze degli esseri viventi. Se andiamo con la mente al giovane manzo, e immaginiamo che ci stia guardando con suoi occhioni cigliati e confidenti, l'ultimo del nostri pensieri sarebbe quello di fargli del male per procurarci la costata che ci piace tanto. E quasi quasi ci verrebbe perfino la tentazione, in ossequio ai simpaticissimi maiali, di rinunciare al panino con il salame, malgrado si annoveri tra gli alimenti più divini che mai sia stato dato di gustare a esseri umani. Nonostante ciò, sebbene per procura, davvero lo abbiamo ammazzato noi il manzo che fino a qualche giorno fa era il legittimo proprietario della costata che nel frattempo ci hanno messo nel piatto di fronte.

La faccenda si complica considerevolmente quando consideriamo che, pur amanti degli animali, facciamo parte di una specie che di animali ne uccide deliberatamente ogni anno molti miliardi, spesso dopo avere loro causato grande sofferenza, non solo per mangiarseli, ma anche per utilizzarli come materie prime, per mettere a punto farmaci e tecnologie necessari al miglioramento della propria salute, o anche semplicemente per divertimento. E allora, come la mettiamo?

Lo stimolo a scrivere questo libro ci è dato dalla convinzione che il fatto di porsi il problema della sofferenza e del benessere degli animali sia per tutti gli esseri umani non solo lecito, e nemmeno solo doveroso, ma che rappresenti una nostra naturale esigenza. In queste pagine ci proponiamo di esaminare la natura complessa e spesso contraddittoria delle interazioni tra la specie umana e le altre specie, per offrire spunti di riflessione a coloro che condividono con noi l'imperativo di affrontare questo scabroso conflitto interiore.

Alla radice del conflitto si pone lo scontro tra il carattere più antico della nostra natura, identico a quello di tante altre specie, di utilizzatori delle risorse naturali e quindi anche di altri animali, e la sensibilità, più recentemente acquisita da molti di noi e forse tipicamente umana, generata dalla consapevolezza che il regno animale è ricco di esseri senzienti, che pur senza essere persone umane sono capaci di soffrire, fisiologicamente e psicologicamente. Quali sono i motivi che hanno portato l'essere umano ad acquisire questa bizzarra duplice natura, metà di leone e metà di uomo? Siamo gli unici esseri sul pianeta ad avere questa proprietà? È possibile fare convivere questa ipersensibilità alle aliene sofferenze con il nostro primigenio, naturale diritto di comportarci da predatori? Insomma, come possiamo risolvere il dilemma che ci viene posto da questa sorta di schizofrenia di predatore attanagliato dalla compassione per le sue prede?

Con Il dilemma della Sfinge ci proponiamo di affrontare di petto tutti questi quesiti, ai quali, nel limite del possibile, vorremmo anche fornire una risposta. Infatti intendiamo andare oltre al semplice esame della questione. Il nostro principale obiettivo è quello di individuare direzioni verso le quali questo conflitto possa trovare delle soluzioni, allo stesso tempo contribuendo, anche se solo in minima parte, a migliorare la condizione di vita di tante specie animali, e soprattutto di tanti singoli individui animali. Da un lato siamo convinti che nei rapporti tra specie – che vi si voglia o meno includere l'uomo – sia assolutamente ineludibile una certa dose di crudeltà e quindi di sofferenza. Basta vedersi uno dei mille documentari girati nella savana africana, in cui un branco di leoni si sbrana con gusto il didietro di un bufalo, mentre il davanti ancora muggisce di dolore e di terrore. Dall'altro lato siamo però altrettanto certi che l'uomo – che di gran lunga uccide più animali di qualsiasi altra specie del pianeta – potrebbe fare moltissimo per evitare per lo meno di infliggere ad altri animali le sofferenze che non sono necessarie e quindi evitabili. L'adozione di nuovi comportamenti, dettati da una nuova sensibilità, potrebbe fare diminuire immensamente la quantità totale di sofferenza che il mondo animale ogni istante subisce per mano umana.

Le considerazioni che proponiamo poggiano in parte sul buon senso e in parte su una visione storico-evolutiva della nostra specie. Del buon senso dobbiamo fare uso per scrollarci di dosso concezioni antiquate, arroccate dentro una tradizione in gran parte obsoleta, ancorata a un utilitarismo spesso di istigazione religiosa. Basti ricordare in proposito l'insegnamento della Genesi, secondo la quale l'uomo dovrebbe soggiogare la terra e dominare "sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra".

Dovrebbe bastare ad aprirci gli occhi una rapida rassegna degli effetti devastanti di questa malintesa certezza del nostro diritto a disporre come meglio crediamo del pianeta e dei suoi abitanti, diritto che da millenni diamo per scontato perché attribuitoci dal dogma in un tempo nel quale le nefaste conseguenze sull'ambiente di questo modo di pensare non si erano ancora profilate all'orizzonte.

A dare manforte a un auspicato risveglio di buon senso si aggiunge oggi la consapevolezza, generata dai rilevanti progressi compiuti dalle scienze naturali negli ultimi centocinquanta anni, che la nostra specie non occupa affatto quella posizione preminente, privilegiata nella genealogia dei viventi che i nostri catechismi autocelebrativi hanno voluto farci credere per migliaia di anni. Pertanto le nostre acquisite conoscenze dei meccanismi naturali planetari ancora più detraggono giustificazioni, qualora ce ne fosse stato bisogno, dall'autorizzarci a disporre come meglio crediamo di tutto quello che si trova sulla Terra, in virtù di presunti diritti divini che in realtà ci siamo conferiti da noi stessi.

Vorremmo qui precisare che questo libro non è volutamente permeato da considerazioni antireligiose, e che l'ultima delle nostre intenzioni è quella di irritare i credenti tra i nostri lettori. Tuttavia, ci sentiamo in dovere di essere critici nei confronti di qualsiasi ideologia che, consapevolmente o no, attivamente o passivamente, promuove la sofferenza di esseri senzienti, o nulla fa per prevenirla. Purtroppo molte importanti religioni ricadono, a nostro parere, all'interno di tale deplorevole condizione.

Di fatto, l'arroganza dell'uomo "dominatore" si trascina dietro pesanti conseguenze non solo sullo stato del pianeta, ma anche sulle condizioni di vita e su evitabilissime sofferenze di innumerevoli individui animali. Questa tracotante presunzione ci fornisce una falsa giustificazione per maltrattare, senza validi motivi, tutti gli altri esseri viventi, facendoci credere – ai tempi di René Descartes (1596-1650) esattamente come ai giorni nostri – che solo gli esseri umani siano dotati di consapevolezza e della capacità di provare sofferenza fisica e psichica. Non sarà dunque mai troppo presto, per il bene nostro e di tutti quanti gli altri viventi, se imporremo a noi stessi di adottare una prospettiva più umile e illuminata, che collochi la specie umana nell'appropriato contesto evolutivo, mettendo nella giusta luce le sue relazioni con le altre specie dei viventi.

Se un giorno l'umanità riuscirà ad accettare serenamente un simile ridimensionamento di se stessa, assimilandolo e incorporandolo nei propri comportamenti, siamo certi che le conseguenze saranno straordinariamente positive per tutti. Purtroppo quel giorno è ancora lontano, perché ci pare ovvio che la stragrande maggioranza degli esseri umani ancora non dia segno di una particolare sensibilità in merito. Eppure segnali di un risveglio di sensibilità cominciano ad apparire numerosi in varie parti del mondo, e questa osservazione ci procura speranza e lo stimolo a parlarne.

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Pagina 23

2 Il posto dell'uomo sul pianeta


                Ho esaminato i tratti e l'indole degli "animali
                (cosiddetti) inferiori" per paragonarli con i
                tratti e l'indole dell'uomo.
                Questa indagine è risultata per me umiliante.

                                                     Mark Twain



Quando nel 1859 Charles Darwin pubblicò l' Origine delle specie, le sue idee ebbero un effetto dirompente su tutte le scienze naturali, che da quel momento si trasformarono in qualcosa di fondamentalmente diverso da quello che erano state fino ad allora. In quell'occasione vennero poste nientemeno che le fondamenta delle moderne scienze della vita. Tuttavia, viste le implicazioni anche filosofiche della teoria darwiniana, avremmo dovuto aspettarci pure uno sconquasso di tipo sociale ben più profondo di quello che provocò nel mondo della scienza. Invece non si verificò nessuno sconquasso, o per lo meno non con la veemenza che secondo noi avrebbe meritato. Infatti, un elemento fondamentale della teoria darwiniana – e cioè che l'uomo non è una creatura di origine divina, ma un animale prodotto dal processo evolutivo come tutti gli altri – ancora oggi, dopo quasi un secolo e mezzo, stenta a far breccia nella consapevolezza degli esseri umani, lasciando largamente intatto l'equivoco su quale sia veramente il posto dell'uomo sul pianeta. Inevitabilmente questa resistenza da parte del grande pubblico ad accettare la realtà relativa all'origine organica dell'uomo, e alla sua posizione nella gamma dei viventi, ci complica non poco il compito di mettere ordine nel nostro rapporto con gli altri animali.

Per ovviare a questo inconveniente, e per cercare di rinfrescare su queste pagine la nostra prospettiva sulla diversita della vita e sulle sue origini, il più possibile libera da condizionamenti, proponiamo qui una breve rivisitazione della nostra posizione nel regno animale, e una definizione della questione di che cosa significhi essere uomo. La prospettiva che Homo sapiens, al pari di tutti gli altri viventi, sia un normale e per nulla inevitabile prodotto dei meccanismi evolutivi, non può non influenzare ogni elemento della nostra discussione sul rapporto tra gli esseri umani con gli altri animali.

[...]

Insomma, malgrado affannose ricerche, non siamo ancora riusciti a scovare un singolo tratto fisico o comportamentale che ci consenta di definire univocamente l'umanità. Tale definizione univoca, che determina chi veramente siamo e quale sia la nostra umile posizione nel cespuglio evolutivo, è possibile soltanto mediante una speciale combinazione di tratti; tuttavia, si tratta sempre di caratteristiche che sono reperibili in varia misura anche in altre specie. A nient'altro se non alla selezione naturale dobbiamo lo sviluppo del nostro grande cervello, il quale a sua volta ci consente di esprimerci e di comunicare mediante linguaggio, e conferisce pertanto a ogni nuova generazione la capacità di apprendere dalle precedenti nuove tecniche, accorgimenti e pratiche culturali. Certo, confrontando le prestazioni umane in termini di profondità di introspezione, capacità creative, ingegno tecnologico, e perfino la capacità di provare compassione per altri organismi – così centrale alle tesi di questo libro – è difficile non cedere alla tentazione di considerare l'eccezionalità della nostra specie. Eppure, queste qualità non sono l'effetto di una superiorità intrinseca dell'essere umano, bensì di meccanismi che ci hanno consentito, nell'arco di migliaia di generazioni, di accumulare il sapere per altrettante volte; sapere che invece in tutte le altre specie si azzera alla morte di ciascun individuo. Infatti questa capacità di accumulare interessi nel nostro "conto in banca" culturale è proprio una caratteristica importante della specie umana, seppure, anche se in misura minore, la si possa trovare in altre specie. Vi è stato un momento in cui gli esseri umani, grazie allo sviluppo del linguaggio, sono riusciti a tramandarsi da una generazione all'altra le conoscenze e le esperienze via via acquisite dai singoli individui, in seguito immortalando tale informazione mediante la scrittura e la creazione di documenti più o meno permanenti e sempre più sofisticati. "Se sono riuscito a vedere più lontano di altri", scrisse Isaac Newton "è solo perché poggiavo con i piedi sulle spalle di giganti". La celebre frase del grande fisico e matematico inglese esprime perfettamente questo concetto. Aver potuto rendere disponibile a ogni singola generazione l'informazione proveniente dalle esperienze collettive e individuali di un numero crescente di generazioni precedenti ha fatto sì che il progresso culturale, già presente in forma rudimentale nella nostra specie come in tante altre, abbia subito a un certo punto un'impennata esplosiva, perché ci ha svincolati dal collo di bottiglia del lentissimo processo di trasmissione dei tratti favorevoli per via genetica.

È andata così, ma avrebbe potuto andare altrimenti. Senza l'indispensabile scintilla del linguaggio, che però potrebbe scoccare in qualsiasi momento nel futuro, altre specie pur dotate di grandi cervelli – come le scimmie antropomorfe, gli elefanti, i canidi, i cetacei e i pappagalli – sono rimaste ferme, mentre noi siamo andati avanti. Non possiamo dire però che questo fenomeno sia avvenuto nell'uomo anziché in altre specie per via di una sua supposta superiorità intellettuale. Il grande salto che Homo sapiens è stato in grado di compiere negli ultimi millenni della sua esistenza non è dovuto a una sua superiorità evolutiva, "di nascita". Prova ne sia che gli esseri umani di oggi sono identici, organicamente ed evolutivamente parlando, a quelli che calcavano la scena 20.000 anni fa. La differenza tra allora e oggi è unicamente il risultato dell'evoluzione culturale, una trasformazione parallela all'evoluzione organica, ma da essa distinta ed enormemente più rapida, di cui la nostra specie è l'eclatante esempio sul pianeta.

In barba alla schiacciante evidenza fornita dalle scienze naturali, consuetudini culturali ancora forti e credenze religiose marchiate a fuoco nella nostra convinzione creano dentro di noi, ancora oggi, una fortissima resistenza a riconoscere le umili origini di noi esseri umani e la nostra umile posizione nella biosfera. Condividiamo con gli scimpanzé il 97 per cento del corredo genetico, eppure continuiamo a insistere nel vedere gli scimpanzé come qualche cosa che si trova al di là della barricata mentale che abbiamo costruito tra uomo e animale. Evidentemente ci viene più naturale vedere gli scimpanzé come semplici "altri animali" piuttosto che per quello che sono: i nostri più stretti parenti nell'universo. Se ci arrabattiamo per evitare di riconoscere perfino la stretta parentela, figuriamoci per i cugini più lontani. Se invece vogliamo fare chiarezza nel nostro ruolo e nei nostri rapporti con gli altri esseri viventi, dobbiamo cercare di superare questo sciovinismo di specie – battezzato da alcuni "speciesismo" – con una prospettiva più fresca del fenomeno della vita di cui facciamo parte, aprendoci a un approccio più illuminato, più umile e al tempo stesso più pragmatico nelle nostre interazioni con i compagni di pianeta.

Il nostro tempo di permanenza come specie sulla Terra è stato ancora troppo breve per consentirci di valutare se lo sviluppo di un grande cervello alla fine sarà stato, per noi, un fattore positivo o negativo. Infatti, nel considerare nel loro complesso i nostri rapporti non solo con gli altri animali, ma anche con tutto il resto dell'ambiente con cui abbiamo a che fare come specie, dobbiamo tenere ben presente che, pur essendo parte integrante del regno animale, l'impatto che esercitiamo sulla biosfera e sull'ambiente con la nostra capacità di cultura e di tecnologia non è paragonabile a quello di nessun'altra specie al mondo. Pertanto, nel definire la nostra relazione con gli altri animali e con l'ambiente, dobbiamo tenere conto del nostro doppio ruolo nel mondo animale, di cui siamo sia una componente, sia una forza esterna con un forte impatto. Se, come conseguenza del nostro potere intellettuale, finiremo per farci esplodere in una conflagrazione nucleare, oppure se ci lasceremo affogare in pozzanghere tossiche, o infine se riusciremo a distruggere il nostro ambiente alterando il clima del pianeta fino a rendercelo inabitabile, allora potremo dire – andando a raggiungere il novero delle specie dei viventi che si sono estinte prima di noi – che questo famoso esperimento del grande cervello sarà stato un fiasco.

Come alternativa possiamo provare a vincere questa difficile ma importante scommessa utilizzando il potere intellettuale collettivo di cui disponiamo per controllare e sconfiggere la nostra tendenza distruttiva, e creare delle società capaci di vivere in maniera sostenibile con le risorse disponibili. Imparare a trattare con rispetto le altre forme di vita sul pianeta, e in particolare gli individui animali, sarà una componente essenziale di questo percorso "intelligente", che magari riuscirà a insegnarci, in ultima analisi, a trattare meglio anche noi stessi.

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Pagina 68

Risale a pochi anni fa l'epoca in cui nel mondo accademico chi si arrischiava a cimentarsi con questioni di intelligenza e di autoconsapevolezza animale era come se mettesse una mano sui cavi dell'alta tensione. Per fortuna possiamo notare che nell'ultimo decennio questo atteggiamento è profondamente cambiato, e oggi ipotizzare che un animale sia dotato di autoconsapevolezza non equivale più a infrangere un tabù. Soprattutto, quello che adesso viene superato è il vecchio schema dualistico della separazione tra cervello e mente, in cui si sostiene che lo studio del primo non possa in alcun modo aiutare nella comprensione della seconda. Questo dualismo altro non è se non una sciatta e inelegante risposta al bisogno, profondamente radicato nella natura umana, di offrire una spiegazione anche di ciò che non si è ancora compreso; una semplice scorciatoia intellettuale per evitarci la necessità di riconoscere la nostra ignoranza. Dai tempi degli antichi, che cercavano di spiegare il sorgere e il calare del sole, ai moderni sforzi per ricostruire l'inizio dell'universo, gli esseri umani hanno questo malcostume di fabbricare confortevoli spiegazioni quando null'altro è disponibile, infischiandosene della verità oggettiva. Che cosa potrebbe essere più confortevole del sapere che la Terra è al centro dell'universo, e che tutto il resto le ruota intorno? Questa visione geocentrica veniva insegnata come verità assoluta dall'inizio della storia dell'uomo, fino a quando Copernico e Galileo riuscirono a dimostrare che è invece la Terra che ruota intorno al Sole. Oggi la frontiera della conoscenza, proprio grazie a Copernico, a Galileo e a tutti coloro che li hanno seguiti, si è spinta immensamente oltre la semplice fisica dei pianeti, mentre invece continua a frapporsi tra noi e i fenomeni della nostra mente. Ed ecco che, non conoscendo ancora quali siano i meccanismi neurali che stanno alla base della consapevolezza, ci fabbrichiamo la nozione che si tratta di una qualche entità misteriosa separata dal cervello. Il dualismo non è altro che l'equivalente neurobiologico del geocentrismo: una falsa dottrina generata dal profondo bisogno di comprendere qualcosa che non si è ancora capito.

Il dualismo contribuisce anche a perpetuare l'idea che gli esseri umani siano dotati di anima, qualche cosa di immateriale che trascende il corpo, esattamente come la mente è qualche cosa di immateriale che trascende il cervello. Nel momento in cui rifiutiamo il dualismo, la nozione di anima ci diviene altrettanto insopportabile. Il concetto di anima dell'uomo, per quanto screditato, è assai rilevante per quanto attiene alla consapevolezza animale e al tema di questo libro, perché la chiesa cattolica, e peraltro gran parte del mondo cristiano, ancora oggi predica che solo gli esseri umani siano dotati di anima, malgrado qualche parola profferta in senso opposto dal Papa nel 1990. Questa arroganza specie-centrica contribuisce a coltivare in noi il pericoloso atteggiamento basato sul fatto che gli esseri umani siano "migliori" degli altri animali. Tra il considerare che solo noi umani abbiamo un'anima, e il concederci la licenza di trattare gli animali differentemente e con meno rispetto, il passo è molto breve. Eppure ci chiediamo: come è possibile che uno scimpanzé, che condivide con noi il 97 per cento del genoma, non abbia un'anima? Forse perché l'anima risiede nel rimanente 3 per cento? O magari lo scimpanzé l'anima ce l'ha, ma l'elefante no? E che dire allora di Alex, il geniale pappagallo? Anche se il concetto di anima fosse valido, la nozione che tale idea possa essere un'esclusiva umana ci è insopportabile tanto quanto la credenza lungamente coccolata che la Terra si trova al centro dell'Universo. Ai tempi di Galileo la chiesa era talmente sicura della propria autorità su quell'argomento che le persone venivano mandate al rogo per qualsiasi minima forma di opposizione. Eppure Galileo dimostrò che si trattava di concetti errati; esattamente quel che accade con le tradizionali concezioni riguardanti l'anima e la mente.

L'approccio materialista e riduzionista alla consapevolezza sta trionfando, e con buoni motivi. La consapevolezza altro non è se non la conseguenza dell'attività dei neuroni. Con questo respingiamo con convinzione l'accusa che, inquadrando discussioni come queste su basi scientifiche, finiamo per uccidere tutta la poesia, il fascino e il mistero collegati con i processi della mente e quindi dello spirito umano. È esattamente il contrario. Secondo noi, è proprio nella meravigliosa perfezione del funzionamento complesso di meccanismi, nel loro essere così semplici, che risiede la straordinarietà del mondo naturale. È per questo che ci lascia con la bocca aperta quando lo capiamo, e non quando non lo capiamo.

Il quesito fondamentale su come esattamente la consapevolezza possa derivare dalle proprietà fisiche dei neuroni troverà probabilmente risposta nella teoria quantistica, quando si sarà riusciti a coniugare le proprietà classiche dei neuroni con le proprietà quantistiche delle particelle subatomiche che li costituiscono. Nell'attesa che questo accada, la ricerca può compiere ancora passi importanti utilizzando approcci più tradizionali. Ciò sta già avvenendo. Per esempio, mediante l'affinamento di tecniche di rappresentazione grafica (imaging) delle arttività cerebrali si sta iniziando a correlare elementi di neuroanatomia e modelli di attività neuronale con misure di consapevolezza. È solo questione di tempo; prima o poi i risultati dell'azione congiunta di fisica, chimica, neurobiologia, biologia evolutiva e meccanica quantistica ci aiuteranno a svelare i meccanismi della consapevolezza.

Nell'attesa che questo avvenga, nel calibrare le nostre azioni nei confronti degli altri animali, non abbiamo per il momento altra scelta che percorrere la strada della cautela. Quel poco che sappiamo ci suggerisce con forza che la proprietà mentale dell'autoconsapevolezza è largamente diffusa all'interno del mondo animale. Fino a quando rigorose analisi non dovessero dimostrarci che siamo in errore, dobbiamo operare nell'assunto che la maggior parte degli animali dotati di un sistema nervoso centrale ben sviluppato siano anche in qualche misura dotati di percezione di sé e di autoconsapevolezza. Fino a prova contraria, dunque, dobbiamo presumere che questi animali conoscono e capiscono il dolore, la paura e il piacere, e in qualche maniera, anche se magari in forma meno sviluppata, pure la gioia e la tristezza. Dunque non abbiamo scelta. Tutte le interazioni con i nostri compagni di pianeta devono fare riferimento a tale considerazione.

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Pagina 73

4 La natura del dilemma


    Che una specie porti il lutto per la morte di un'altra è una
    cosa nuova sotto al sole. Il Cro-Magnon che uccise l'ultimo
    mammut aveva soltanto in mente la bistecca. Il cacciatore
    sportivo che sparò all'ultima colomba migratrice pensava
    soltanto a quanto buona era la sua mira. Il marinaio che finì
    a randellate l'ultima alca non pensava a niente. Ma noi, che
    abbiamo perso le nostre colombe, piangiamo questa perdita. Se
    invece il funerale fosse stato il nostro, figuriamoci se le
    colombe ci avrebbero compianto. È in questo fatto, più che
    nei nylon del Sig. DuPont o nelle bombe del Sig. Vannevar
    Bush, che risiede l'evidenza oggettiva della nostra
    superiorità sugli animali.

                       Aldo Leopold, A Sand County Almanac, 1948.



Il senso di disagio che molti provano nel consumare un pasto a base di carne è soltanto una delle tante manifestazioni del problema provocato dalla peculiare condizione della nostra specie, nella quale si trova ad albergare, come nella sfinge degli Egizi, una natura nuova, tipicamente umana, congiunta con quella, più antica, del leone. Condizione schizofrenica, forse, ma positiva come tutte le prese di coscienza, generata dal conflitto tra il predatore, che vive in noi dalla notte dei tempi, e la proprietà recentemente acquisita di esseri sensibili alle altrui esigenze e sofferenze. Una proprietà talmente robusta che riesce a farci travalicare la barriera tra la nostra specie e le altre.

Come abbiamo fatto ad arrivare a questo stato di cose? Da un lato, nella nostra qualità di esseri viventi che svolgono un ruolo ecologico ben preciso nel loro ecosistema, facciamo uso delle risorse disponibili, che ci sono indispensabili per sopravvivere. Non potrebbe essere diversamente: così abbiamo fatto da sempre, come tutti gli altri viventi, senza curarci ovviamente di cosa ne pensassero le risorse stesse del fatto di venire da noi consumate. Tuttavia, a un certo punto della nostra genealogia, forse per un capriccio evolutivo oppure perché il nostro cervello ipertrofico ci è arrivato corredato da un senso della socialità altrettanto ipertrofico, i nostri antenati hanno sviluppato la capacità di immedesimarsi nel loro prossimo, cioè di calarsi nei loro pensieri e nel loro stato d'animo. Questa abilità di riconoscere le emozioni e i sentimenti negli altri, di percepire il mondo interiore dell'altro come se fosse il nostro, l'abbiamo esaminata in dettaglio nel precedente capitolo, e si chiama empatia.

Intendiamoci, come abbiamo già visto l'empatia non è certo una prerogativa della specie umana. Tuttavia appare ovvio che è nell'uomo che questa capacità di provare emozione per altri esseri trova il massimo sviluppo, evolvendosi in una serie complessa di risposte. Inoltre, cosa ancora più notevole e di particolare rilevanza ai fini delle nostre considerazioni, malgrado originariamente la nostra capacità a essere empatici fosse probabilmente legata solo ad altri esseri umani, a un certo punto essa non fu più in grado di arrestarsi, e ci consente ora di scavalcare i confini tra la nostra e le altre specie. Forse siamo finalmente riusciti a scovare, come acutamente intuito da Aldo Leopold nel 1948, una caratteristica "unica" degli esseri umani: quella di essere disponibili ad accogliere sotto l'ombrello protettivo della loro emozione degli esseri viventi appartenenti ad altre specie. L'unico esempio di empatia inter-specifica al di fuori dell'uomo potrebbe essere quello del cane che soffre quando soffre il suo padrone. Tuttavia, non ci risulta che vi siano ancora dimostrazioni sperimentali di questo fenomeno. Inoltre, quello del cane forse andrebbe considerato un caso speciale, perché notoriamente il nostro amico quadrupede è lacerato tra la convinzione di essere un cane e quella di essere un uomo. Dobbiamo fare grande attenzione e usare il condizionale nell'affermare che possano esservi proprietà "uniche" nella specie umana, perché – come abbiamo visto più sopra, e come l'aneddoto precedentemente citato dell'elefante indiano che non voleva schiacciare il cane con un palo dovrebbe farci riflettere – tutte le volte che sono state proposte simili unicità, prima o poi siamo stati costretti a fare marcia indietro incalzati da dimostrabili smentite. In tutti i casi questa dell'emparia nei confronti di altre specie potrebbe davvero essere una qualità molto speciale dell'essere umano.

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Pagina 93

5 Alla ricerca di una soluzione


        La grandezza di una nazione e il suo progresso morale possono
        essere valutati dal modo in cui vi vengono trattati gli animali.

                                               Mohandas "Mahatma" Gandhi



Ci sono vari modi per affrontare il conflitto interiore generato dalla nostra duplice natura di sfinge.

C'è l'approccio conservatore, nostalgico dei tempi in cui non ci facevamo tanti problemi, che consiste nell'infischiarsene dell'empatia, a non lasciare che le vibrazioni della sua corda ci facciano risuonare, e a soffocare la natura di uomo della sfinge lasciando che si esprima solo quella del leone. Chi imbocca questa strada non fa che attaccarsi alle antiche consuetudini pre-empatiche, ai tempi in cui gli esseri umani consideravano gli altri animali null'altro che degli oggetti da sfruttare oppure dei nemici da combattere. Chi sceglie l'approccio conservatore spesso si lascia andare ad argomentazioni di questo tipo: "Gli animali? Capaci di soffrire, forse; ma tutti, anche gli esseri umani purtroppo, chi più chi meno, devono soffrire a questo mondo. E magari gli animali non soffrono poi tanto, certo non come noi fisicamente, e tanto meno psicologicamente. Ovvio che una formica soffre meno di un topo, quindi perché mai un topo non dovrebbe soffrire meno di un uomo? Non serve complicarsi la vita inutilmente, con tutte le cose a cui già dobbiamo pensare. E con tutta la gente che soffre a questo mondo, concentriamoci, piuttosto, sui problemi dell'umanità".

Dalla parte opposta dello spettro si colloca l'atteggiamento di chi porta alle estreme conseguenze il nostro naturale senso di rispetto per la vita, arrivando al punto di sostenere che sia illecito togliere la vita a qualsiasi essere vivente. Questa posizione è accuratamente esemplificata dal pensiero di Albert Schweitzer, il famoso missionario di Lambarené, nel Gabon, nonché medico, musicista e filantropo, che nel 1953 ricevette il Premio Nobel per la pace. Schweitzer sosteneva che una persona può essere morale solo se considera la vita come un'entità sacra – non solo quella del prossimo, ma anche quella di qualsiasi altro essere vivente, animale o pianta che sia – e si comporta di conseguenza.

Vorremmo qui spiegare perché riteniamo che questi due atteggiamenti siano entrambi estremi, e che nessuno di essi affronti il dilemma della sfinge in modo appropriato.

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Pagina 107

6 Dalla teoria alla pratica


        Chi è crudele con gli animali si indurisce anche nei
        suoi rapporti con gli uomini. Possiamo giudicare il
        cuore di un uomo da come tratta gli animali.

                                               Immanuel Kant



Fin qui abbiamo esaminato la questione del rapporto tra esseri umani e animali non umani affrontandola in maniera teorica, con l'intenzione di costruire una base concettuale utile a verificare se le nostre opinioni hanno un senso quando confrontate con la realtà. Dunque la nostra sfida ora consiste nel confrontare tale base teorica con il mondo reale per vedere se davvero possiamo riuscire ad abbattere il nostro impatto sulla qualità della vita degli individui animali, eliminando grandi quantità di sofferenza. L'unica possibilità che abbiamo di esercitare l'arte di bilanciare le nostre spinte ideali con le costrizioni e le limitazioni imposte dalla realtà quotidiana è quella di mettere in pratica le idee fin qui esposte mediante degli esempi concreti, ed esplorare, volta per volta, in quale modo possiamo riconciliare la nostra natura animale di predatori e di competitori con la spinta empatica che è così tipica della nostra specie.

L'insieme delle circostanze in cui le attività umane determinano la sorte di animali non umani è di una vastità impressionante, e vogliamo qui tentare, innanzitutto, di dare per lo meno un senso generale delle sue dimensioni. La grande maggioranza degli animali con cui abbiamo a che fare e di cui decretiamo la sorte è rappresentata da quelli di cui ci nutriamo. Sulla base di dati forniti dalla FAO (Food and Agriculture Organisauon), nel 2003 l'ordine di grandezza degli animali domestici non acquatici che uccidiamo in un anno per motivi alimentari è stato di 50 miliardi, e di questi più del 90 per cento era rappresentato da polli. Un simile numero non è disponibile per gli animali acquatici, essenzialmente pesci, crostacei e molluschi, che sono conteggiati a peso; tuttavia, anche se indiretta, questa misura ci dà un senso delle dimensioni del fenomeno. Nel 2001 il prodotto totale combinato della pesca e dell'acquacoltura fu di 128 milioni di tonnellate, a cui occorre aggiungere circa una trentina di milioni di tonnellate di organismi catturati accidentalmente. Paragonato a tali cifre, il numero di animali che ogni anno viene sacrificato nella ricerca scientifica e nell'industria dei cosmetici è inferiore di un ordine di grandezza, perché si misura nelle centinaia di milioni. Si tratta sempre ciò nonostante di un numero da capogiro.

Per questo motivo siamo convinti che dalla diffusione di un preciso impegno, da parte di tutti, a fare diminuire la sofferenza animale, cominciando per lo meno dal fare scomparire quella sofferenza che si può evitare, potrà garantire agli animali un enorme miglioramento della qualità della loro vita.

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Principi fondamentali

Da tutti i ragionamenti fin qui fatti emergono alcuni principi fondamentali – perché validi per tutte le situazioni, a tutti gli animali e a tutte le culture umane – che, una volta applicati, potranno migliorare grandemente la natura del nostro rapporto con gli altri animali e la qualità della loro vita.

1. Tutti gli animali, come del resto tutti gli organismi viventi, possiedono diritti e dignità, fondati sulle loro necessità fisiologiche, biologiche e psicologiche.

2. Tutte le forme di vita vanno rispettate, comprese quelle che possono apparirci aliene, minacciose, oppure insignificanti.

3. La specie umana è una componente del regno animale come tutte le altre specie, e non possiede speciali diritti.

4. Poiché la vita va rispettata, il concetto stesso di vita implica la necessità per le specie di predatori di togliere la vita ad altre specie. Per un predatore porre fine a una vita se ci è costretto non significa non rispettarla.

5. Homo sapiens è un predatore. Pertanto, togliere la vita ad altre specie fa parte dei suoi diritti naturali.

6. La caratteristica umana di provare empatia per altre specie animali, tra cui le sue prede e i suoi competitori, e l'atteggiamento di rispetto per la vita comportano l'obbligo e la responsabilità di assicurarci che qualsiasi sofferenza animale non necessaria vada evitata.

7. Benessere umano e capacità di empatia sono strettamente legati. Pertanto, lo sforzarsi di migliorare le condizioni dell'umanità è una componente fondamentale di ogni sforzo per migliorare le condizioni degli individui animali.

8. La consapevolezza di sé e la capacità di soffrire sono presenti nel mondo animale in forma graduale, in relazione allo sviluppo del sistema nervoso di ciascuna specie. Poiché la materia è ancora assai mal conosciuta, occorre essere estremamente cauti nelle nostre considerazioni: meglio esagerare supponendo che l'animale possa soffrire di più che non il contrario.

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