Autore Giovanni Nucci
Titolo E due uova molto sode
EdizioneItalosvevo, Trieste-Roma, 2017, Piccola biblioteca di letteratura inutile 6 , pag. 126, intonso, cop.fle., dim. 12x18,8x1 cm , Isbn 978-88-99028-19-0
LettoreGiovanna Bacci, 2018
Classe narrativa italiana , alimentazione












 

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Indice


STRACCIATELLA PER PRINCIPIANTI
(Introduzione)                           9

FRITTATE                                17

UOVA BENEDICT                           25

LO SCRITTORE ALLA COQUE                 33

IL MAESTRO AL PIATTO                    43

FRITTATE (II)                           69

SOUFFLÉ                                 73

L'UOVO DI AMLETO                        89

E DUE UOVA MOLTO SODE
(Un epilogo improprio)                 115


 

 

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Pagina 9

STRACCIATELLA PER PRINCIPIANTI
(Introduzione)



I testi dicono che ci sono solo dodici modi per cuocere delle uova: affogate, al guscio, cioè alla coque, al piatto, fritte, mollette, rapprese o strapazzate, sode nell'acqua, sode nei grassi o nella sabbia, battute per farne una frittata, un'omelette, oppure un soufflé, poi le creme, lo zabaione o i dolci in generale, i condimenti. Crude.

È strano, dodici sembrerebbero pochi - anche se con un che di evangelico - e invece magari sono troppi: come che sia, sicuramente c'è dell'altro, una maglia che ci sfugge, qualcosa che non torna.

D'altronde l'uovo ha di per sé un che di nascosto: è il contenitore di se stesso, ma non rivela ciò che contiene (o meglio, se contiene veramente ciò che dovrebbe: un pulcino o il suo disavanzo). E questo lo rende inafferrabile. Così per quanto appaia essenziale e molto semplice, in potenza già racchiude tutta la complessità dell'universo, in ogni sua futura possibilità. È al contempo il creato e la creazione - e la creazione, come è noto, si esprime nelle più svariate forme ed espressioni, ma lo fa solo in potenza, perché nella maggior parte dei casi alla fine un uovo lo scocci (come direbbe l'Artusi) e ciò che ci trovi dentro è solamente del tuorlo e dell'albume: in effetti non s'è mai sentito di uno che, volendo mangiare un uovo, s'è trovato nel piatto un pulcino. Così, per quanto dodici diversi cucinamenti non sono affatto pochi - di qualsiasi altro alimento la si direbbe un'ottima media - è in quelle altre ulteriori possibilità che si nasconde la vera essenza dell'uovo. La sua magia. Questo libro, senza nessuna pretesa, è proprio lì che vuole addentrarsi, in quelle altre possibilità, giacché ci appaiono, tra l'altro, splendidamente letterarie.

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Pagina 12

Ma per quanto questo non sia un libro di cucina, non sta bene lasciare certi discorsi in sospeso: tutto probabilmente nasce dall'idea che, quando si tratta di uova, ci può essere un certo piacere letterario anche solo nel descrivere come le si potrebbero cuocere. Per dire: affogate sarebbero in camicia; e mollette è una semplificazione, sono delle uova alla coque ma servite sgusciate e con una sottilissima differenza nei tempi di cottura - talmente sottile da renderla impraticabile. Le uova al piatto non le fa mai nessuno (per quanto devono essere buonissime, ma con un problema sull'abbondanza di grassi e colesterolo - e di qui la loro scomparsa): dovrebbero essere cotte al forno su di una teglia, imburrate di sopra e di sotto. Le uova fritte invece, ad avere coraggio bisognerebbe cuocerle in cinque dita d'olio, il resto sono imitazioni permesse dall'antiaderenza (un concetto in fondo estraneo all'azione del cucinare). E poi ci sono le frittate: cioè le frittate, le omelette, le crépe e le frittatine - e qui ognuno ha una sua idea propria e personale, a dimostrazione che il mondo in tutta la sua complessità potrebbe benissimo essere compreso anche solo in tutti i possibili modi di cuocere una frittata. Le uova sode, in realtà, rimangono sode che le si faccia immergendole nella sabbia bollente, nell'acqua calda, o aggiungendo a questa olio o burro e spezie varie. Ma la cosa migliore per l'uovo sarebbe berselo fresco. Così, d'un fiato: bucandolo di sopra (e di sotto) se si vuole essere decisi e non troppo schifiltosi. Se invece l'albume un po' di senso lo fa, si metta il tuorlo in un cucchiaio e lo si beva all'ostrica, con sale e limone. Ma neanche su questo concordano i testi, perché l'uovo crudo risulta che non faccia male al fegato, ma allo stesso tempo che sia di più difficile digestione. A riguardo andrebbe citato l'illustre fisiologo Maurizio Schiff (in cattedra a Firenze): sosteneva, al contrario di Giobbe, che la chiara è più nutriente del tuorlo, il che sembra un'idea un po' troppo rivoluzionaria perfino per noi.

E qui la questione diventa intrigante: volendo verificare se un uovo è veramente fresco, possiamo imbatterci in tutta una serie di tecniche e procedimenti.

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Per inciso: la definizione migliore che siamo riusciti a trovare su cosa sia un uovo è (bien sûre) quella di Aldo Buzzi: «L'uovo è oggi il nutrimento più a buon mercato. Ha la proprietà di essere maschile al singolare e femminile al plurale. Al venditore di uova potrei chiedere: "mi dia il primo di quelle due uova". Se poi volessi sapere il grado di freschezza delle uova, lo stesso venditore mi indicherebbe tre cartelli: "fresche", "freschissime", "da bere"; da cui risulta che le uova fresche sono le meno fresche».

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Pagina 52

Incompletezza


Considerava la carbonara ineffabile, al pari della semantica (lo aveva sentito dire da un logico austriaco). Vuol dire che non la si può spiegare: parlarne a tavola, scriverne in riviste di cucina o romanzi d'appendice o quaderni familiari. Anche perché riteneva un buon risultato se veniva bene due volte su tre (che è ciò che in teoria dei sistemi si può definire come incompletezza).

Era stata sua nonna ad avergli insegnato questa convinzione (come fosse un sottotipo di eredità): e cioè che non se ne deve parlare troppo in giro, oltre al fatto che tutto dipende dal condensamento dell'uovo per mezzo del formaggio.

Avevano, i nonni, una trattoria all'Esquilino, appena dietro Santa Maria Maggiore: lei cucinava, il nonno serviva i tavoli e gestiva i clienti, e un altro cameriere, dopo il Quarantotto, quando le cose avevano cominciato ad andare un po' più facili, dava loro una mano. Preparavano le solite cose, normali per quei posti dove è facile non sappiano neanche cos'è il carrello dei formaggi, ma i piatti loro li sapevano cucinare con una grazia crassa e una lievità greve che si trovava solo lì.

Insomma la nonna, che da ostessa conosceva bene il mondo e gli esseri umani, gli aveva insegnato parecchio a partire dalla carbonara, in particolare, così come dal resto del mestiere: parlare con i clienti, intrattenerli, saperli ascoltare, ma anche trattarli con una certa durezza in determinate questioni o sfaccettature (se tentavano di negare il peperoncino o affermare l'aglio nella amatriciana). Quella saggezza e quel mestiere, che poi forse era anche passione, lui li aveva travasati in una piccola galleria d'arte specializzata in carte: stampe, grafiche, disegni e gouaches della prima metà del Novecento. A volte, costretto a trattare con un certo campionario di un'umanità che a lungo andare poteva perfino risultargli nauseante, aveva sempre avuto il buon tono e la pazienza per mantenerli e coltivarli come i suoi nonni gli avevano insegnato che è bene fare. Verso l'ora di chiusura, col tovagliolo sulla spalla, andarsi a sedere al tavolo per offrir loro compagnia, un bicchiere speciale, l'amaro, o quello che era.

Cioè ha imparato a capire gli esseri umani. E a fare la carbonara senza però parlarne: continuando a sostenerne l'incompletezza, in quanto tale, giacché di norma riesce due volte su tre.

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Pagina 105

Tre giorni dopo, all'appuntamento previsto per il secondo giorno di prove, si presentò con tutte le intenzioni di chiuderla lì e arrivare subito al dunque (per non dire al sodo). E lo fece tenendo un uovo in mano.

«Sono ragionevolmente convinto che almeno in una delle varianti del testo di Hamlet, compresa tra l'in-quarto del 1604 e l'in-folio del 1623, da qualche parte ci sia una nota di regia per la quale il principe dovrebbe recitare il suo più noto monologo rigirandosi un uovo fra le mani. Naturalmente, se una tale nota di regia c'era, ormai è andata perduta. È ovvio che l'idea di farlo parlare con in mano un teschio sia un'evidente mistificazione, anche perché Amleto troverà il teschio di Yorick, il vecchio fool sdentato che aveva allietato la sua infanzia, annaspando nel cimitero ben undici scene più avanti. E soprattutto perché ciò di cui qui Amleto sta sillogizzando non è la morte, ma l'essere. O forse più precisamente, il recitare». Quasi per uno speciale contrappasso a quello che sta dicendo Bernard, i suoi attori hanno chiaramente rinunciato all'idea del loro ruolo: sanno bene che non reciteranno nulla, né ora, in prova, né poi, sul palco. E si sono seduti per terra, al pari degli altri studenti, ad ascoltare. Finalmente sono tornati anche loro a essere il pubblico di uno spettacolo, con l'unico privilegio di essere ascoltatori di prima classe: hanno diritto a stare davanti agli altri e conoscono il testo a memoria (in fondo sono stati loro a costringere Bernard a questa sottospecie di lettura).

Lui, Norton Bernard, a tutto ciò non da alcuna attenzione, e continua: «O almeno questo è quello che penso io: il teschio di Yorick gli servirà più avanti, per ricordarsi che gira e rigira finiremo tutti quanti per fracassarci il naso per terra: ma la questione che si sta ponendo adesso è di tutt'altra natura». Bernard si interrompe, abbassa i fogli che non ha ancora cominciato a leggere, come se volesse concedersi un'altra, ulteriore, divagazione. Ma poi evidentemente ci rinuncia: fa un sospiro, si fa coraggio, e riprende: «Ah, è questo il nodo... Ecco il pensiero che fa così longevi i nostri mali. Già, chi udrebbe, per anni, il ridacchiare del tempo, quel galoppo da padrone, e i dileggi del mondo, quelle sferze che schioccano sui fianchi, e l'arroganza, i soprusi e lo scherno dei potenti, le angosce di un amore disprezzato, i passi da lumaca della legge, l'insolenza dei pubblici ufficiali, i calci e le pedate che il valore riceve puntualmente dagli indegni, quando a darsi quietanza basterebbe la firma di un pugnale?».

Lo legge senza nessuna enfasi, come fosse la lista della spesa, un dato di fatto, la più cruda realtà dell'esistenza. Poi, di nuovo, alza lo sguardo sopra i suoi occhiali: «Ogni volta che rileggo questi versi - siamo alla fine del suo monologo - quello che mi chiedo non è tanto perché voglia darsi quietanza con la firma di un pugnale, non credo lo stia cercando veramente, mi sembra chiaro che sia una domanda retorica: quello che mi chiedo è come faccia a descrivere così bene, così chiaramente, la nostra condizione sociale e politica. Ed è quello che si chiedeva, più o meno sessantacinque anni fa, anche Maurice Arnould nei suoi seminari: l'arroganza, i soprusi e lo scherno dei potenti... le angosce di un amore disprezzato - mi piace pensare che stia parlando dell'amore per l'arte, la letteratura, il teatro, la verità -, i calci e le pedate che il valore riceve puntualmente dagli indegni... be', solo un idiota può farsi distrarre qui dal problema del suicidio. Ciò che definisce Amleto non è la sua condizione psicologica, l'indugio o i suoi tentennamenti all'azione: ma la sua condizione politica e sociale: è quella a impedirgli di agire, a non farlo essere ciò che dovrebbe e che non gli riesce».

Bernard alza l'uovo (dal video non è chiaro se sia un uovo vero, oppure un uovo di legno, di quelli che un tempo si usavano per rammendare le calze), lo guarda, se lo rigira davanti agli occhi: «Per questo dico che con un uovo in mano, per non dire in tasca, la questione prenderebbe tutt'altra luce: perché non si dà il caso che un uovo non sia quello che è. Non c'è modo di passarlo per un finto roast beef, come invece accade all'arrosto. Un uovo è un uovo. E dovunque lo metti, fa sentire prepotentemente la sua presenza. Ma nello stesso tempo un uovo non è mai quello che avrebbe dovuto essere, cioè se stesso, un pulcino. Così, almeno per quello che lo riguarda, l'uovo è e non è allo stesso tempo. Può recitare la sua parte essendo la perfetta rappresentazione di se stesso, sottraendosi però all'ignobile finzione spettacolare del sembrare. Nei rari casi in cui l'uovo avrà già fatto quel che doveva fare, a quel punto non l'avremo neanche più visto, l'uovo in quanto tale, ma solo il prorompente risultato del suo esserci stato».


Gli astanti sembrano un po' frastornati: di certo non si aspettavano che tutto quanto potesse prendere la direzione di una frittata. Ma Bernard, adesso meno che mai, non lascia loro alcuno spazio e, serrato, riprende a leggere: «Ecco il quesito: se sia più coraggioso seppellire nell'anima le frecce e i sassi che la vita ci scaglia contro, o piantare la spada, e a viso aperto a un oceano di orrori opporsi e dire, no, finiamola?... Be', io credo che così - con un uovo in mano - il quesito diventi chiarissimo: qual è la reazione migliore ai dileggi del mondo, lì dove tutto sembra quello che non è, e l'unico modo di reagire sembrerebbe essere il non esserci?».

Fa una brevissima pausa, si sospende un'istante, poi riprende: «Naturalmente si sta chiedendo se affrontare il mondo a viso aperto, con la spada in pugno, oppure dileguarsi nei suoi mali, accettandoli. Ma c'è anche l'intuizione di una terza possibilità, un'alternativa al morire o al farsi corrompere. Lo aveva detto una manciata di versi prima, nell'ultima scena del secondo atto. Cioè lui già sa qual è la soluzione al suo dilemma, quella che deciderà di seguire portandolo a scardinare dall'interno l'equilibrio del regno corrotto: occorre fingere di essere ciò che realmente si è. Che è più o meno quello che fa un uovo quando sa fare il suo mestiere» prende l'uovo e se lo mette in tasca: «Certo, visto che lo dobbiamo tenere come promemoria, la cosa migliore sarebbe farne perlomeno un uovo sodo... E non sto parlando solo di consigli scenici... Ma vogliate perdonarmi, ho bisogno di una breve pausa».

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