Copertina
Autore Chris Nunn
Titolo Il fantasma dell'uomo macchina
SottotitoloSiamo davvero liberi di scegliere
EdizioneApogeo, Milano, 2006, Saggi , pag. 240, cop.fle., dim. 135x210x15 mm , Isbn 978-88-503-2491-0
OriginaleDe la Mettrie's Ghost. The Story of Decision [2005]
TraduttoreGianfranco Ermidoro
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe scienze cognitive , storia sociale , filosofia , psicologia
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Indice

Ringraziamenti                                  vii

Capitolo 1 - Introduzione                         1


Capitolo 2 - Cominciamo dall'inizio               9

Filosofando                                       9
Che cosa ci dice la filosofia?                   17
Neuroscienza                                     19
Teorie quantistiche della mente                  24
Che cosa fanno i neuroscienziati                 26

Capitolo 3 - La memoria                          31

L'ippocampo                                      34
La memoria di lavoro                             35
Che cosa c'è sotto la memoria a lungo termine?   37
Memorie cellulari                                40
Attenzione e memoria                             42
Coscienza e memoria                              43

Capitolo 4 - Libertà di scegliere o
             di non scegliere                    45

Che cos'è il libero arbitrio?                    47
Le scoperte di Libet                             50
La fisica del libero arbitrio                    52
La storia di uno psicologo                       56
Il giudice e il suo verdetto                     58
Il fischio della vaporiera                       60
Determinismo genetico                            61

Capitolo 5 - L'illusione di volere               65

La rilevazione di responsabilità                 68
Che cosa ci rivela l'ipnosi                      71

Capitolo 6 - Storia di Susan (prima parte)       77


Capitolo 7 - Oggetti della mente                 87


Capitolo 8 - Altri oggetti della mente           99

Epidemie di danza                               100
Movimenti millenaristi                          106

Capitolo 9 - Una stanchezza vittoriana          119

L'oggetto ritorna                               124
Encefalomielite mialgica                        127

Capitolo 10 - Idee buone e non                  133

Vari tipi di santi                              133
Anatomia della santità                          141
Guaritori e dottori                             144
Ospedali e case di cura                         153

Capitolo 11 - Storia di Susan (seconda parte)   163


Capitolo 12 - Storie e personaggi               173

Origine del significato                         177

Capitolo 13 - Leggi, fisica, storie             185

Causalità                                       185
Ancora fisica                                   190
Esperienza soggettiva                           198
Esperienze in punto di morte                    199
Ayahuasca                                       202

Epilogo - Essere una storia                     211


Bibliografia                                    219

 

 

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Pagina 1

CAPITOLO 1

Introduzione


Questo libro parla di chi, o di che cosa, produce le decisioni o fa le scelte che noi chiamiamo nostre. Non parlerò di specifiche scelte, ma piuttosto del fenomeno in generale. L'agire è dovuto interamente a cellule nervose del cervello, o entra in gioco qualche altro aspetto della nostra natura? Siamo veramente responsabili delle nostre azioni, o si tratta solo di un'illusione? Gli eventi sono preordinati, o c'è qualche flessibilità? Tutte queste domande si ricollegano al libero arbitrio, o alla sua assenza, e impegnarvisi è un po' come immergersi in un complicato romanzo poliziesco. Gli indizi e le prove necessari per scoprire che cos'è successo sono molto vari. Quelli che descrivo vanno da scoperte del XXI secolo sulla chimica delle cellule nervose fino allo strano caso dei puma neri, passando per i moventi dell'assassinio di Giulio Cesare per mano di Bruto. A differenza dei polizieschi, tutto ciò che riferirò qui è basato su fatti reali o risultati di ricerche – con un'eccezione: in due capitoli ho costruito un racconto con personaggi immaginari, per mostrare quale potrebbe essere il significato degli indizi. Ma prima di cominciare, devo predisporre la scena con il fantasma di un'idea che per oltre duecento anni ha ossessionato il nostro pensiero: le scelte possono essere libere?

Julien de La Mettrie, medico francese che ha vissuto il fermento intellettuale dell'Illuminismo, fu autore prolifico, ma è ricordato in particolare per un libro. Che, per la verità, è ricordato soprattutto per il suo titolo: L'homme machine. Se la materia poteva veramente auto-organizzarsi, come alcuni stavano cominciando a sospettare, allora la vita stessa poteva essere meccanica, e gli umani nient'altro che macchine complesse. Non ci sarebbe stato bisogno di un'anima o di altri misteri per fornire la nostra scintilla vitale. La materia di per sé avrebbe potuto fare tutto quello che serviva a creare un essere umano vivente e senziente.

L'idea era rimasta latente per molto, molto tempo, alimentata dagli scritti di personaggi come Cartesio e Hobbes un secolo prima. De La Mettrie la espose con grande chiarezza e questo lo portò alla notorietà e alla catastrofe. Certo sapeva, quando scrisse, che stava spingendosi troppo oltre, visto che pubblicò la sua opera anonima, nel 1747. Ma la sua identità fu presto scoperta, e dovette fuggire in Prussia. L'homme machine fu vietato in Francia. La deduzione che si ricavava dalle sue idee, che Dio non fosse più necessario, era troppo forte e prematura. Ancora nel 1766, un autore molto più famoso, Jean-Jacques Rousseau, fu espulso dalla Francia per ateismo. Però, pochi anni più tardi, altri pensatori francesi che esprimevano opinioni non meno materialiste non furono attaccati per questo (piuttosto per la loro politica). Detto per inciso, Rousseau trovò rifugio non in Prussia, ma in Inghilterra, nel Peak District. Lo aiutò il filosofo scozzese David Hume, che incontreremo di sfuggita nel capitolo. Rousseau ripagò Hume sviluppando fissazioni paranoiche su una cospirazione internazionale ai suoi danni, capeggiata, credeva, dal suo benefattore. De La Mettrie, per parte sua, mantenne la propria sanità mentale ed ebbe persino una pensione dai Prussiani, perché era considerato una specie di ragazzo prodigio. Morì per una febbre, ancora in esilio, a soli quarantatre anni.

Il concetto che gli esseri viventi potrebbero essere "nient'altro" che macchine era già implicito negli scritti del poeta romano Lucrezio, più di 2000 anni fa. La sua idea che esistano solo "gli atomi e il vuoto" derivava da Leucippo, Democrito ed Epicuro, filosofi greci vissuti qualche secolo prima. Epicuro aveva cercato di ammorbidire le conseguenze delle sue convinzioni, suggerendo che gli atomi di quando in quando potrebbero casualmente cambiare direzione. Questo avrebbe introdotto la possibilità di un libero arbitrio, pensava. A quanto pare, le implicazioni legate al problema del libero arbitrio hanno preoccupato un certo numero di persone per molto tempo. Per lo più, nell'arco della storia, questi concetti sono stati elaborati da un ristretto numero di pensatori originali, e ignorati praticamente da tutti gli altri. Hanno però ripreso forza e permeato la cultura popolare nei due o tre secoli più recenti, grazie anche a numerosi scrittori che hanno seguito le orme di de La Mettrie. La maggior parte degli scienziati seri vissuti fra il XVII e il XIX secolo erano teisti in un modo o nell'altro, e molti accettavano in qualche forma il concetto di anima. Nel XX secolo non era più così. Ormai da diverse generazioni, la metafora meccanicista domina il pensiero della maggioranza dei fisiologi e dei biologi, così come di molti psicologi. La comunicazione fra questi specialisti e il grande pubblico ha fissato per molti quest'idea come una verità scontata.

James Watson, uno degli scopritori della struttura a doppia elica del DNA, sembra abbia affermato (probabilmente riecheggiando in modo consapevole Lucrezio): "Ci sono solo atomi... tutto il resto è semplicemente rapporti sociali". L'ex collega di Watson, Francis Crick, era diventato una figura di spicco nello studio della coscienza, prima della sua morte avvenuta nel luglio del 2004. Il suo libro The Astonishing Hypothesis (1994), che riscosse un notevole successo, conteneva la categorica dichiarazione che gioie e dolori, memorie e ambizioni, il nostro senso di identità e il libero arbitrio non sono "niente più che il comportamento di una massa ordinata di cellule nervose e di molecole ad esse collegate". In un certo senso, l'ipotesi di Crick non è affatto sbalorditiva, considerando quanto profondamente la metafora meccanicista si sia inserita nella nostra visione del mondo. Tuttavia, è davvero sorprendente, in quanto del tutto contraria all'intuizione della nostra esperienza come persone. C'è un settore in continua crescita, dedicato allo studio di quello che David Chalmers ha chiamato "il problema difficile", e cioè come possa accadere che il variegato mondo della nostra esperienza soggettiva dipenda da ciò che avviene in un mucchietto di cellule nervose. È una ricerca in cui, per il momento, il successo non sembra ancora vicino.

I problemi diventano ancor più pressanti quando veniamo a parlare di libero arbitrio. La metafora meccanicistica sembrerebbe implicare che tutte le nostre azioni, in definitiva, siano determinate o da una legge fisica o dal caso. Dopo tutto, una macchina fa solo quello che deve fare. Un aspirapolvere non decide da un giorno all'altro che oggi preferisce essere una lavastoviglie. Un computer non ha scelte se non quella di eseguire i suoi programmi. Ma l'esperienza di ogni giorno sembrerebbe indicare qualcosa di diverso per quanto riguarda noi. Abbiamo la sensazione di essere in grado di decidere quello che faremo. Certo, molti di noi ammetterebbero, se interrogati, che molte delle nostre "scelte" in realtà sono dettate dal caso o da influenze esterne. Tuttavia, saremmo riluttanti ad abbandonare l'idea di avere una capacità intrinseca di decidere liberamente, da soli, quello che faremo, indipendentemente da qualsiasi pressione esterna o interna. Del resto, molte delle nostre strutture sociali, compreso tutto il sistema della giustizia penale, sono basate sull'assunto che gli individui in linea di massima siano responsabili delle loro azioni. Sarebbe preoccupante, per non dire altro, ipotizzare che quest'apparente presunzione di responsabilità tutto sommato potrebbe non esistere.

I trionfi quasi quotidiani della moderna biologia molecolare e delle neuroscienze ribadiscono il valore della metafora meccanicista. De La Mettrie è stato chiaramente un vero profeta, il cui approccio ha portato frutti sorprendenti. Il considerare corpi e cervelli come macchine biochimiche ha portato a scoperte che hanno raddoppiato, dai suoi tempi, la nostra aspettativa di vita media, producendo cure per malattie che egli stesso non avrebbe mai immaginato. Progressi di ogni genere stanno rapidamente chiudendo tutte le possibili scappatoie a coloro che vorrebbero negare che la coscienza sia solo un prodotto del nostro cervello. Sembra solo questione di tempo, prima che anche l'ultima via d'uscita venga bloccata. Se i nostri cervelli sono macchine, lo stesso deve essere delle nostre menti: questa almeno sembra essere per molti la conclusione. La maggior parte di coloro che aderiscono alle correnti culturali oggi prevalenti probabilmente tendono a pensarla in questo modo.

Ci sono vari modi di affrontare la quadratura di questo cerchio, cercando di riconciliare l'utilità e la capacità di previsione dei modelli meccanicistici con il fatto che, semplicemente, essi non collimano con il modo in cui noi percepiamo noi stessi. La maggior parte di questi approcci partono dall'ipotesi che il libero arbitrio sia una specie di illusione. Molti dei filosofi che di questi tempi scrivono sull'argomento, e anche un certo numero di psicologi, considerano quell'idea come un costrutto di ciò che essi definiscono "psicologia popolare", di poca o nessuna validità, a loro parere. Il mio approccio è diverso. Io propongo una metafora più fruttuosa al posto di quella della macchina. La mia tesi è che noi siamo più simili a storie o a film che a macchine. Naturalmente, le storie devono essere scritte con penne o con PC e inserite in libri, mentre è possibile vedere i film con l'aiuto di proiettori o di apparecchi televisivi. Questi tipi di apparati hanno i loro paralleli in noi umani, e per quanto li riguarda la metafora della macchina è del tutto adeguata. Non è adeguata, però, se ci riferiamo all'essenza della storia o del film. Intendo dimostrare che libero arbitrio e responsabilità sono proprietà del racconto, non del supporto usato per narrarlo.

Non voglio esorcizzare lo spettro di de La Mettrie, ma piuttosto metterlo nel giusto contesto – mostrare in che modo lo spirito delle sue idee, la metafora di uno spettro della macchina, si concili con una visione adeguata di ciò che noi siamo. C'è anche un altro spettro: quello che è nella macchina di de La Mettrie. Questo secondo spettro è l'essenza di noi stessi, ciò che tradizionalmente si chiama anima; mostrerò come essa condivida, assieme alla macchina, la responsabilità delle nostre azioni. Vale la pena notare che, mentre i critici di de La Mettrie avevano ragione a rilevare che la metafora meccanicista tende a rendere Dio non necessario, la mia metafora della storia è neutrale a questo proposito. Noi, assieme ai nostri parenti, a chi ci è vicino, alla società che ci circonda, potremmo essere i soli autori e spettatori di quello che siamo. O forse no.

Se veramente siamo come storie, siamo racconti che scrivono se stessi attraverso l'apparato meccanico del nostro cervello. In tal caso, potrebbe obiettare qualcuno, siamo veramente macchine, dopo tutto. Uno degli obiettivi principali di quello che ho scritto, perciò, è dare sostanza alla metafora della "storia", e mostrare che questa obiezione apparentemente plausibile non è pertinente. Cominciando con alcune ipotesi di base proprie della visione meccanicistica della mente, di un tipo che risulterebbe del tutto accettabile per Crick e probabilmente per lo stesso Lucrezio, sviluppo però un'immagine del libero arbitrio e di alcuni altri aspetti della mente, che è totalmente compatibile con l'esperienza quotidiana. Questa nuova immagine fornisce più dettagli di quanto faccia la psicologia popolare, ma non è differente dal punto di vista specifico dell'utente.

Forse, l'aspetto più interessante di questo modo di guardare a noi stessi, almeno per quelli di noi che tendono a vedere le cose dalla prospettiva di de La Mettrie, è la deduzione che i vincoli veramente importanti al libero arbitrio individuale non sono quelli che ci si potrebbe aspettare. Non sono dovuti a leggi fisiche o alla natura computazionale dell'elaborazione neurale, ma sono in effetti dovuti alle possibili trame delle storie di cui ognuno dispone. Trattandosi di un territorio relativamente inesplorato, lo esaminerò con un certo dettaglio. Questa immagine di una trama mostra che essa può essere concepita come un insieme di concetti significativi, che sono incorporati negli individui o servono a collegarli fra loro. Risulterà che c'è un senso in cui le storie collegate con una persona possono qualche volta diventare quella persona. In altre occasioni, queste storie potrebbero apparire capaci di agire con una propria logica, in modi che le persone che si trovano sotto la loro influenza normalmente non avrebbero scelto. E in verità, le stesse proposte di de La Mettrie costituivano una trama di questo tipo, anche se gli esempi che darò io sono in genere di tipo più semplice.

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Come il Nobile Romano, anche il Ballo e il Millennio sono caratterizzati da un gruppo di concetti base circondato da una fascia di altri più variabili, che ne hanno determinato le specifiche manifestazioni. Forse questa è una caratteristica di tutti gli oggetti impersonali. In quanto non-personali, essi non sono in grado di "incarnarsi" come ha potuto fare il Nobile Romano; però qualche volta sono stati in grado di sopraffare la personalità di una persona e di costringerla ad agire in un modo che non le era proprio. Quanto ai concetti personali associati con il Millennio, per esempio il Messia, si sono incarnati anche troppo spesso.

Entrambi gli oggetti erano contagiosi. Il Ballo di San Vito e il millenarismo erano epidemici e si diffondevano come quella peste bubbonica che spesso sembra averne provocato le eruzioni. Anche il Tarantismo era endemico, come la varicella. Basta dare un'occhiata veloce ai loro componenti per capire perché fosse così. Le idee centrali del Ballo (protezione da malattie, culto e così via) e del Millennio (imminenza, carattere prodigioso e così via) sono vaghe, suscettibili di molte interpretazioni e possono essere considerate adeguate in molte situazioni diverse, di solito sfavorevoli: in sostanza, la società era a rischio ogni volta che c'erano problemi. Il Millennio fu particolarmente virulento, perché uno dei concetti a esso collegati è che un periodo di sofferenze prima del suo arrivo purifica i giusti. Possiamo anche capire quelli che interpretarono in questo modo la peste nera: dopo tutto, uccise un terzo della popolazione europea della metà del XIV secolo.

Il Tarantismo è stato diverso, a causa delle tre particolari idee aggiunte, in quel caso, al nucleo del Ballo: che il morso di un ragno della Puglia fosse fatale se non era immediatamente curato con il ballo. Questo creò i presupposti perché il Ballo potesse apparire ovunque qualcuno avesse un attacco di malessere o di ansia, che potesse essere collegato al morso di un ragno. Non c'è da stupirsi che la condizione sia stata endemica per diversi secoli, ma piuttosto che tante persone ne siano rimaste immuni.

Ci sono indizi che certe concezioni diffuse (per esempio, che un periodo di afflizioni sia dovuto alla collera purificatrice di Dio), possano favorire la diffusione di alcuni oggetti cognitivi. La storia della Strega, a cui abbiamo accennato di sfuggita, ne é un esempio concreto. A noi oggi sembra evidente che chiunque o quasi, sotto tortura, dirà qualsiasi cosa ritenga accordarsi alle attese del torturatore. I probabili effetti distorcenti di una tortura sicuramente non erano ovvi per gli inquisitori della Chiesa o per gli investigatori giudiziari del tardo Medioevo, pochi dei quali erano sadici amorali. Nel complesso, erano persone coscienziose, a modo loro realmente motivate a salvare le anime degli eretici o ad applicare giustamente la legge. Essi credevano alle storie di cannibalismo, di traffici demoniaci e così via, che delle povere donne erano così pronte a inventare quando cominciavano gli interrogatori. Alcune di queste potrebbero aver realmente creduto di aver preso parte agli eventi raccapriccianti e meravigliosi di cui gli inquisitori le accusavano, tanta è la forza delle idee nel forgiare fantasie, sogni, persino ricordi. E così, si arrivava in fretta a dimostrare che la Strega era una figura diffusa ed estremamente sinistra, dotata di straordinari poteri.

Il concetto responsabile di questa facile produzione di prove era di origini romane, come molti altri. Non si potevano torturare i cittadini romani, ma gli schiavi coinvolti in un'inchiesta giudiziaria dovevano essere torturati. C'era la convinzione che altrimenti fosse impossibile ottenere da loro la verità. Quest'idea si attardò in alcune aree della giurisprudenza europea, perdendo il suo collegamento con la condizione servile e riemergendo in forma di convinzione che, almeno quando si trattava delle classi inferiori, arrivare alla verità andava a braccetto con la tortura. Senza questo concetto, la Strega probabilmente sarebbe rimasta una figura oscura, d'interesse solo passeggero, e un numero molto minore di donne (ma anche di uomini – la Strega non era solo femmina) sarebbe stato messo a morte nel periodo di tre secoli che arriva fino all'epoca dei Lumi.

Questa strana capacità che può avere un'idea, di costringere o trascinare, è più evidente nel Millennio rispetto al Ballo. Forse ci sono predisposizioni biologiche ereditarie a seguire-il-capo o a trovare sfogo per sconvolgimenti psicologici nel movimento ritualizzato. Forse potremmo trovare la stessa scusa della predisposizione neurale anche per lo stimolo ad ammazzare-il-vicino, che è stato così spesso una caratteristica del millenarismo. È più difficile pensare che comportamenti come quelli dei flagellanti o degli anabattisti di Munster fossero provocati dal "gene egoista" o da altre forze biologiche.

Il problema è che, se ci appelliamo alla biologia per spiegare la forza di ogni oggetto cognitivo (e ce ne sono migliaia), finiamo per dover proporre quantità esagerate di meccanismi biologici specifici, senza contare quelli più generali come l'istinto del gregge. Qualche meccanismo neurale generale può bastare a spiegare la forza di un'ampia gamma di concetti, ma non il loro manifestarsi in modo ripetitivo a grandi distanze di tempo e di luogo. Philip Ball, nel suo eccellente Critical Mass, che esamina l'applicazione della fisica statistica alla sociologia, all'economia e persino alle migrazioni degli uccelli, fa un'osservazione simile: "... un comportamento di gruppo non può essere semplicemente una versione su grande scala di comportamenti individuali. Invece, si riscontrano caratteristiche del gruppo che non si possono prevedere basandosi solo sulla natura degli istinti del cervello". In altre parole, possono emergere regolarità nel comportamento dei gruppi che non hanno rapporti diretti con la neurologia, la biologia o persino con il comportamento precedente dei singoli, proprio come le proprietà di una massa d'acqua son diverse da quelle di qualsiasi molecola che la componga.

È il caso di esaminare qualche altro esempio di oggetti cognitivi in azione, per vedere se essi lasciano qualche spazio all'esercizio del libero arbitrio individuale. Di per sé, la condizione che ora descriveremo suggerisce che a volte di questo spazio ce n'è molto poco, una volta che l'individuo cade sotto le grinfie di una storia "in circolazione".

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Circa 400 anni più tardi, dal 1567 al 1622, visse un altro santo meno suggestivo, Francesco di Sales. Era un rampollo della nobiltà minore, e fu colonnello in un esercito della tarda Controriforma; la sua prima missione fu riconvertire i protestanti della sua natia Savoia. Divenne vescovo di Ginevra in giovane età – un incarico non certo semplice, visto che la città era stata a lungo calvinista. Si adoperò nelle zone della sua diocesi che erano ancora cattoliche, acquisì popolarità come predicatore e produsse scritti impegnati, che suscitarono l'ammirazione dei suoi contemporanei ma che non hanno resistito al tempo. Forse la sua opera più nota fu il Trattato sull'amor di Dio. È il profilo di un uomo gentile ma ossessivo, dalla pietà compiaciuta; l'equivalente del XVII secolo degli odierni benefattori benestanti.

A trent'anni aveva già un passato come volonteroso dispensatore di guida spirituale per signore in cui avesse riscontrato particolari meriti. Forse era anche un hobby rischioso, nascosto sotto uno spesso strato di correttezza pastorale. A un certo punto si innamorò di una certa Jeanne de Chantal. Fortunatamente, come nel caso della Chiara di Francesco d'Assisi, anche lei a suo tempo divenne santa. Fu mantenuto il decoro, con difficoltà. Jeanne era solo di poco più giovane di Francesco quando lo incontrò, e aveva quattro figli e un suocero scorbutico. Per di più, viveva molto lontano dalla casa di lui. Una guida spirituale per posta si dimostrò insufficiente per entrambi. Ben presto lei iniziò a prendersi cura della sorella minore di lui, nonostante la madre fosse ancora viva e vegeta. Poi uno dei fratelli minori di Francesco si sposò con una delle figlie di lei. Purtroppo, la sorella morì mentre era affidata a Jeanne e anche entrambi i neo sposi morirono giovani. Ma questi surrogati si erano già dimostrati inutili anche prima della seconda tragedia. Decisero di seguire l'esempio di Chiara, o quello di Eloisa dopo la castrazione di Abelardo. Si imponeva un convento, ma doveva essere del tipo giusto, con una regola non troppo stretta, non di clausura e vicino alla casa di Francesco. C'era un problema: lui aveva appena investito molte energie nella riforma dei suoi conventi, e nell'assicurarsi che rispettassero le regole. Dio fornì la soluzione: risultò che fosse sua volontà che Jeanne fondasse un nuovo ordine con una regola, progettata da Francesco, confacente ai caratteri delicati. Dio ispirò anche uno stemma per la nuova fondazione: conteneva un cuore sanguinante, perforato da due frecce, che possiamo immaginare di Cupido. Ben presto Jeanne abbandonò i figli rimasti e il suocero seccante, per installarsi in un monastero nuovo a pochi passi da Francesco. Lei ne era responsabile; molte delle prime ospiti, in posizione subordinata, erano signore che avevano già beneficiato in precedenza della guida spirituale di Francesco.

Presto il nuovo ordine ebbe grande successo, forse perché era stato progettato tenendo conto anche del comfort. Jeanne era sempre più occupata con i suoi impegni direttivi nell'ordine in espansione, mentre Francesco amava sedere nella casa madre circondato da ex-assistite a cui dispensava pensieri edificanti. Un biografo del XX secolo dice: "In tutti gli annali dei santi non c'è forse visione più deliziosa e indimenticabile di quella di San Francesco di Sales seduto, in una sera d'estate, nel giardino della Visitazione vicino al lago, circondato da una piccola brigata di suore attente ad ascoltarlo mentre parla loro di tutto ciò che nella vita di una comunità religiosa, o invero in qualsiasi umana vita, contribuisce a riempire una vita di amor di Dio in risposta all'amore di Dio per noi". Di simili omelie erano fatti i libri di Francesco, e ulteriore forza con tutta probabilità veniva loro dalla frustrazione sessuale, perché è probabile che egli abbia rispettato la lettera dei suoi voti.

È evidente un certo contrasto fra il tipo di santità di San Francesco d'Assisi e quella degli altri due. Forse c'entra il cambiamento radicale che l'invenzione della stampa portò al modo con cui si diffondevano i concetti. Teresa e Francesco di Sales si possono classificare come santi della comunicazione: la loro reputazione dipende soprattutto da quello che hanno scritto, anche se naturalmente la loro vita deve esibire una coerenza almeno di superficie con questi scritti. Francesco d'Assisi invece fu necessariamente un santo d'azione; la sua vita doveva creare direttamente una grande impressione sugli altri, prima che si prendessero la briga di avviare il processo laborioso di produrre manoscritti che ne parlassero. Se questo cambiamento nel modo in cui si diffondono le idee bastasse a spiegare l'apparente cambio della natura della santità, ne consegue che gli altri santi recenti dovrebbero somigliare più al secondo Francesco che al primo. Ma non è sempre così.

Ignazio di Loyola, basco, è un santo nato dopo l'invenzione della stampa: fu considerato "sempre un po' di più e un po' più grande di ciò che diceva o scriveva". Proveniente dalla classe della piccola proprietà terriera, nel suo destino avrebbe dovuto esserci una combinazione fra cavaliere errante e signorotto indipendente, perché aveva competenze di gestione sia civile che militare. Quando era giovane, in Spagna i racconti leggendari e le canzoni dei trovatori erano ancora di moda (non lo erano più da tempo in Francia e Inghilterra) e forgiavano la fantasia delle persone della sua classe. Ignazio, o Inigo, si lanciò con zelo nella carriera prevista. Aveva fama di persona litigiosa, coraggiosa, ambiziosa, veloce a estrarre la spada in difesa del suo onore, donnaiolo, innamorato di una dama irraggiungibile della cerchia reale – e poco colto.

Sui trent'anni, si trovò a cercar di convincere una guarnigione riluttante a difendere la città di Pamplona contro truppe francesi. Fu un tentativo donchisciottesco: i cittadini si arresero immediatamente, sapendo per esperienza che cosa poteva significare un assedio. Senza la loro collaborazione non c'era niente da fare, ma Ignazio guidò lo stesso una breve resistenza, e una palla di cannone "gli passò fra le gambe", ferendolo seriamente. Dopo i primi soccorsi da parte di un medico francese fu rimandato al castello di famiglia, dove subì una serie di interventi alla gamba destra che lo tennero a letto per quasi un anno.

Nel castello c'erano (solo?) due libri: una vita romanzata di Gesù e un florilegio di vite di santi non meno fantasioso. Ignazio passò l'anno scorrendo e meditando queste due opere. Alla fine era quasi un altro uomo. Lasciò il castello vestito da pellegrino, con l'intenzione di andare a Gerusalemme. L'incompletezza della sua rigenerazione morale emerse quando fece un tratto di strada con un musulmano. Il musulmano concordava che la Vergine Maria fosse vergine subito prima della nascita di Gesù, ma non era d'accordo che la situazione si fosse conservata dopo il parto. Dovette allontanarsi molto velocemente quando la pazienza di Ignazio venne a mancare. Ignazio era indeciso se dovesse inseguirlo e accoltellarlo "per difendere l'onore di nostra Signora". Alla fine, fu il suo mulo a decidere, scegliendo una strada diversa da quella del musulmano.

Il cambiamento in lui si completò nel corso dell'anno seguente, durante una lunga sosta presso Barcellona, che trascorse soprattutto in preghiera e penitenza. Qui scrisse i suoi famosi Esercizi spirituali, un breve manuale basato sulla sua esperienza personale di come ricercare la conoscenza di Dio e lasciarsi ricostituire da Lui. Alla fine di questo secondo anno egli sapeva che avrebbe dovuto formare una compagnia, conosciuta poi col nome di Compagnia di Gesù, o Gesuiti, dedita a promuovere l'onore di Dio. Ma prima doveva adempiere al suo voto di visitare Gerusalemme, e poi avrebbe dovuto rimediare alle molte lacune della sua cultura andando all'università.

Il pellegrinaggio non richiese molto tempo, ma ci vollero dieci anni per completare la sua istruzione. Non ebbe molta fortuna nelle università spagnole, perché l'Inquisizione continuava a metterlo in prigione e a interferire con le sue attività collaterali di predicazione. Alla fine si recò a Parigi, dove conseguì una laurea. Sempre lì, si fece alcuni amici che, dopo avere eseguito gli esercizi spirituali, giunsero a considerarlo la loro guida.

Negli ultimi anni di vita, continuò a ricevere "illuminazioni" (comunicazioni provenienti direttamente da Dio, pensava) e visioni della Trinità, ma la maggior parte del tempo la trascorse in un ufficio romano a scrivere lettere di guida, incoraggiamento e anche di tipo amministrativo per l'ordine dei Gesuiti, che era in continua crescita e prima della sua morte aveva raggiunto il Giappone e le Americhe. I suoi compagni avevano insistito nell'eleggerlo "generale", una situazione a cui tentò invano di sfuggire. Forse l'addestramento militare giovanile lo aveva troppo compenetrato perché potesse seguire l'esempio di Francesco e ritirarsi in solitudine in un eremitaggio.

Nei rapporti con le donne a quanto sembra fu più competente dei due Francesco. La stessa formazione giovanile, che gli aveva impedito di sfuggire al suo dovere, in questo caso forse lo ha aiutato. Era di bell'aspetto, carismatico, e attraeva le devote. Alcune di quelle del periodo di Barcellona rimasero in buoni rapporti con lui per tutta la vita. Le trattava con affetto, a quanto pare senza i favoritismi dimostrati da un Francesco né le paure dell'altro. Si impegnò molto anche nel dare assistenza alle prostitute, senza l'ambiguità di motivi dimostrata dal signor Gladstone in iniziative analoghe. Però rifiutò di permettere alle donne di entrare nell'Ordine, anche se una delle signore di Barcellona cercò di aggirarlo appellandosi direttamente al Papa. Più tardi ella accusò Ignazio di averla derubata del suo denaro, ma un'indagine indipendente dimostrò che in realtà era lei a essere in debito con lui. Il risultato fu che il Papa si persuase a sostenere la linea di Ignazio. Possiamo considerare segno della sua santità o di una reale devozione di lei (o entrambe le cose), che la signora "ritornasse a Barcellona senza rancore".


Anatomia della santità

Sappiamo che i santi si occupano di idee come Dio e amore, spesso ignorando le preoccupazioni di ogni giorno. Intuire la perfezione di Dio tende a far risaltare la propria indegnità, e può indurre alcuni a eccessi di penitenza. Si dice che Ignazio abbia danneggiato la sua salute in modo permanente mentre era a Barcellona, con le eccessive mortificazioni, ma poi cercò di evitare che altri seguissero il suo esempio. Pochi santi sono riusciti a mettere d'accordo un ideale di carità con un amore più terreno, specialmente sessuale. Teresa cercò di raggiungere un ideale sublimando ciò che sapeva dell'amore fisico, ma solo la sua ignoranza di quest'ultimo glielo permise. L'approccio di Francesco d'Assisi fu il più frequente: si limitò a respingere qualsiasi possibilità di coinvolgimento sessuale. L'altro Francesco dà l'impressione di esservi rimasto preso, proprio come tanti psicoterapeuti odierni che si innamorano delle pazienti. Ignazio coltivò la sua disposizione naturale per l'amicizia e cercò di generalizzarla, per lo più con successo. Ma anche lui non era in grado di gestire situazioni con colleghe donne. Il fatto è che l'amor di Dio, portato agli estremi a cui aspirano i santi, non è compatibile con l'amore di un individuo basato sulla biologia, neanche con quello di se stessi e del proprio corpo. I concetti e i programmi necessari, in qualche misura, sono reciprocamente esclusivi.

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CAPITOLO 13

Leggi, fisica, storie


Le riflessioni che svilupperemo in questo capitolo sono organizzate un po' come un treppiede con le gambe poco stabili. La prima e più instabile riguarda il ruolo della causalità nella spiegazione scientifica. Poi c'è un piccolo excursus su quello che la materia potrebbe essere "realmente". Infine, un accenno a due tipi molto insoliti di esperienza soggettiva. Potrà sembrare un percorso un po' a sobbalzi ma, d'altra parte, non possiamo aspettarci che anticipare il futuro sia solo rose e fiori. Chi ne ha, dovrà lasciare da parte le simpatie per il riduzionismo estremo che ha caratterizzato certa scienza del XX secolo. Il nuovo secolo si concentra sulla complessità, sulla condizione emergente, sulla ricchezza e la pura meraviglia del mondo in cui viviamo.


Causalità

Aristotele classificava le cause in un modo utile ancora oggi. Ne distingueva quattro tipi, riconducibili alle seguenti categorie moderne:

- cause materiali (la palla rimbalza perché è fatta di gomma),

- cause efficienti (la palla rimbalza perché io l'ho lanciata),

- cause formali (la palla rimbalza per le leggi della dinamica),

- cause finali (la palla rimbalza perché il cane possa rincorrerla).

Le cause finali, giustamente, sono guardate con grande sospetto quando appaiono nelle spiegazioni scientifiche, come ogni tanto succede, in genere sotto l'etichetta "teleologia". Non ci sono procedimenti standard per gestirle, e spesso risultano estremamente ingannevoli. Noi non ne tratteremo. Per fare un esempio, David Hanke dell'Università di Cambridge ha descritto come nel suo settore, la biologia vegetale, pensare teleologicamente abbia malamente distorto le priorità di ricerca. Siccome si tende a dare per scontato che lo "scopo" di una pianta sia la fotosintesi verde, c'è una tendenza a ignorare lo stato sbiancato o eziolato, non-verde, che pure per certi aspetti è, dei due, il più complesso e interessante.

Le cause materiali sono importanti nella ricerca, più che altro come considerazioni di fondo, e spesso vengono etichettate come ontologia. Una volta che siamo d'accordo sull'ontologia appropriata per il settore scientifico che ci interessa, possiamo procedere con la ricerca delle cause "reali". Come la maggioranza dei filosofi e dei neuroscienziati odierni, anch'io parto dal presupposto che l'ontologia appropriata per spiegare il libero arbitrio sia una qualche forma di materialismo. Vorrei lasciar da parte questo tipo di cause nel presente capitolo, ma non posso farlo.

Le cause efficienti sono la sostanza di ogni spiegazione scientifica: in che modo una cosa ne fa avvenire un'altra. Quando uno scienziato, o anche una persona normale, usa la parola "causa", di solito significa "causa efficiente". Sono loro che ci permettono spiegazioni a catena del tipo: il vetro della finestra si è rotto perché la palla lo ha colpito perché l'ho calciata male.

Le cause formali sono le leggi fisiche. Il vetro si è rotto a causa della legge di conservazione dell'energia: quando la palla è entrata in contatto con il vetro, gli ha trasferito più energia di quanta potesse sostenerne. Questo tipo di causa pone vincoli a quali cause efficienti possano esistere e a come esse possano operare. Lastre di vetro e palloni esistono, sostanzialmente, grazie alle leggi della teoria dei quanti, e interagiscono in modi descritti dalle leggi della dinamica e della fisica dello stato solido. Uno degli obiettivi principali della ricerca è scoprire e descrivere le cause formali. Trovarne una veramente importante è la strada più breve per un premio Nobel.

Ma il confine fra cause efficienti e formali è molto meno distinto di quanto in genere si pensi. È chiaro che c'è un percorso esplicativo unidirezionale fra, per esempio, la legge di conservazione della quantità di moto e la descrizione di tipo "causa efficiente" del magnifico tiro che ho fatto ieri sera al tavolo di biliardo. In quel caso, stiamo parlando di un evento specifico, localizzato, e di una legge che regola il comportamento di tutta la materia dovunque. Ci sono anche cosiddette leggi che, in linea di principio se non in pratica, possono essere dedotte da altre più fondamentali, esaminando le relative cause efficienti; per esempio, quelle dell'idraulica. Queste possono essere considerate il prodotto di cause efficienti, e più specificamente dell'interazione fra le molecole dell'acqua (che a sua volta si può ricondurre alla teoria dei quanti). Oltre alle leggi ci sono, diciamo, le ordinanze locali, come quelle della fisiologia. È evidente che esse non sono altro che proprietà derivate o emergenti delle cause efficienti che agiscono, per esempio, nei vasi sanguigni o nei polmoni. Tuttavia si comportano come se regolassero il funzionamento del sistema in oggetto.

Spesso gli psicologi lamentano di non avere leggi simili a quelle dei fisici. Forse sbagliano. Forse pensano di non averne perché hanno chiamato con nomi diversi quelle che di fatto sono leggi. Per esempio, qualcuno ha preso in considerazione l'idea che le grandi leggi-quadro della psicologia, l'equivalente della conservazione dell'energia o della quantità di moto, siano lì, non riconosciute, perché portano il nome di "principi morali". Ma, in relazione al libero arbitrio, ci servono leggi meno universali di quelle (ipotetiche) dell'etica. Qualcosa di equivalente alla legge di Ohm dell'elettricità andrebbe bene: tutti la considerano una bella legge solida, anche se in linea di principio potrebbe essere ricavata da principi più fondamentali.

In effetti, sembra che oggetti simili alla legge di Ohm siano noti alla psicologia, sotto il nome di attrattori. Come dicevamo parlando del Dottore, essi descrivono le traiettorie seguite da certi sistemi complessi, forse caotici. Nel caso della neuropsicologia, il sistema complesso da considerare non è fatto di idee, come nel caso del Dottore, ma delle attività neurali che sottostanno alla psicologia. Allargando la visuale, sembra che gli attrattori abbiano un ruolo anche nella psicologia sociale, dove i sistemi complessi sono composti non di singoli neuroni, come nella neuropsicologia, ma di individui.

Gli attrattori non hanno ancora la capacità previsionale della legge di Ohm, perché i sistemi in cui li troviamo sono così complessi che in genere si riesce a scoprire quali sono presenti in un sistema solo esaminando più volte come esso si evolve. Tuttavia, ci sono capacità di previsione, già oggi. Per esempio, gli attrattori "strani" della climatologia mostrano come si possano prevedere i dettagli di quello che può succedere in un sistema caotico, anche se non è possibile prevedere esattamente quale stato, fra i molti possibili, il sistema occuperà effettivamente.

Qui il punto essenziale è che gli attrattori presenti in un sistema dipendono, almeno in parte, dalla natura del sistema. Un sistema strutturato in un certo modo, con componenti di un certo tipo, conterrà attrattori diversi da sistemi simili, ma organizzati diversamente o con componenti diversi. Può sembrare un'affermazione poco chiara, ma in sostanza sto dicendo che l'evolversi di un sistema complesso dipende in qualche misura da come è fatto. Lo descrivo in termini di attrattori per sottolinearne gli aspetti simili a leggi.

Poiché la coscienza può influire sul cervello, ci sono tutte le ragioni di pensare che possa anche influire sugli attrattori che ne dirigono il comportamento. Ma essa stessa è qualcosa del "suo" cervello. Quindi sembrerebbe avere un significato l'affermazione che la coscienza può influire sulle leggi, o almeno sulle entità simili a leggi, che ne controllano il comportamento. D'altra parte, forse quest'affermazione non è molto più di un gioco di parole, visto che esperienza conscia e libero arbitrio sembrano aver a che fare molto più con informazione e storie che con la natura fisica del cervello. In altre parole, essa cade se materia e informazione sono di natura distinta a livello essenziale. Non posso accendere un fuoco con una poesia, perché poesia e fuoco hanno ontologie diverse; ma posso accendere un fuoco con la carta su cui è scritta una poesia, perché carta e fuoco condividono un'ontologia. Solo se non esistono barriere ontologiche invalicabili fra materia e informazione percepita, la coscienza può influire sugli aspetti delle leggi che governano il suo comportamento.

Si potrebbe dire che non è necessario speculare sulla natura della materia. In questo libro, ho dato per certo che la coscienza (ciò che è insieme risultato di, e produttore di storie) e certi aspetti delle funzioni cerebrali legati alla memoria (la relativa materia) si possano reciprocamente identificare a tutti gli effetti pratici. In altri termini, ho ipotizzato che la poesia sia ciò che è stampato su quella carta. Posta così crudamente, l'affermazione sembra quantomeno discutibile. Ma è chiaro che il rapporto fra storie e memorie nel cervello è ben altro che il rapporto fra un poema, diciamo la Divina Commedia, e il libro su cui è stampato. L'inchiostro tipografico non subirebbe conseguenze se invece della Divina Commedia stampassimo l' Orlando furioso; il contenuto del poema non cambierebbe se usassimo un inchiostro diverso.

Al contrario, le storie e le loro tracce neurali si influenzano a vicenda. In genere si ritiene che questo sia del tutto spiegabile (in via di principio se non in pratica) in termini di causa efficiente. Il formarsi di un ricordo modifica neuroni; le modifiche di neuroni creano ricordi: tutto spiegabile in termini della macchina di de La Mettrie. Vorrei fare un passo ulteriore, per suggerire che il rapporto di reciprocità fra i due vada oltre la macchina, anche perché comprende la modificabilità delle cause formali che operano in un sistema neurale (cioè gli attrattori considerati analoghi alla legge di Ohm). Perché ciò sia possibile, storie e memorie dovrebbero avere una qualche base ontologica comune. Neuroni e memorie sono fatti di atomi e di campi. Le storie sono fatte di informazione e di significato. Sembrano cose molto diverse. Sul significato possiamo dire poco: abbiamo visto che sfugge ancora quasi completamente al pensiero scientifico. Ma non è impossibile che, nonostante le apparenze, atomi e informazione risultino essere le due facce opposte della stessa medaglia.


Ancora fisica

Pare che, verso la fine del XIX secolo, il grande studioso di termodinamica Lord Kelvin dichiarasse che ormai, in fisica, non restava altro che fare un po' di conti. Cinquant'anni più tardi, sir Arthur Eddington faceva affermazioni che Kelvin avrebbe considerato misticismo, e J.B.S. Haldane rincarava: "L'universo non è semplicemente più strano di quanto immaginiamo: è più strano di quanto possiamo immaginare". Altri trenta o quarant'anni, e molti scienziati fiduciosamente preannunciavano una Teoria del Tutto (TdT). Ma la TdT resta sfuggente, e siamo di nuovo in un'era di dubbio.

Ci sono diversi motivi per tornare a pensare che in effetti forse sappiamo molto poco sulla natura reale della materia e dell'universo.

Una è la ben nota incompatibilità fra le nostre due teorie più fondamentali, quella dei quanti, per la fisica del piccolissimo, e la relatività generale, per il grandissimo. Gli specialisti di teoria delle stringhe sperano di risolvere presto la difficoltà, ma altri sono molto più scettici.

Fa riflettere la scoperta dei cosmologi che la materia visibile, di cui siamo fatti noi e le stelle, rappresenta solo il 5% della massa/energia dell'universo. Un altro 25% sarebbe "materia oscura", che interagisce con la nostra solo attraverso la gravitazione. Il rimanente 70% sarebbe "energia oscura", considerata responsabile dell'accelerazione nell'espansione dell'universo da poco scoperta. In pratica, ci dicono gli esperti, oggi non sappiamo praticamente nulla del 95% di tutto ciò che esiste! Le teorie in materia sono ancora in una fase vaga ed esplorativa.

Un altro buon motivo perché la fisica sia cauta nel dichiarare di aver raggiunto una comprensione completa della materia risiede nella scoperta di quanto sia pervasivo il fenomeno dell'entanglement quantistico.

Per certi aspetti, le particelle entangled devono essere considerate un oggetto unico, anche se si trovassero ai lati opposti di una galassia. Questo potrebbe significare che spazio e tempo non sono proprietà fondamentali dell'universo, ma derivano da qualcos'altro, sulla cui natura per il momento possiamo solo tirare a indovinare. A quanto pare, la materia è un fenomeno molto più meraviglioso e sfuggente di quanto normalmente ci si renda conto.

Nonostante le attuali incertezze, c'è un filo che percorre con continuità la meccanica quantistica dalle sue origini. Quando Schrödinger definì la sua funzione d'onda, la concepì come un'onda fisica. Presto si capì che non era così. L'interpretazione preferita fu di un'onda di probabilità, il cui quadrato dà la probabilità che una certa misurazione produca un certo risultato. Per dirla in un altro modo, la funzione d'onda è un sommario di tutto ciò che potremo mai sapere su un oggetto quantistico: è una fonte di informazione. Ma non si può accedere a tutte quelle informazioni, come ha insegnato Heisenberg: se misuro la posizione di un oggetto con precisione, perderò informazione sulla sua quantità di moto; se misuro lo spin in una direzione, perdo il valore dell'altra direzione. Eppure, tutta l'informazione, accessibile e inaccessibile, in un certo senso è "là", nella funzione d'onda. La funzione d'onda è un modo di esprimere ciò che la materia è.

John Wheeler, noto per aver dato il nome ai buchi neri nel 1952, circa dieci anni più tardi coniò la frase "its from bits" (cose dai bit). Voleva dire che le particelle e i campi che formano la materia potrebbero derivare dall'informazione, anziché il contrario. Noi tendiamo a pensare alle particelle come fondamentali, mentre l'informazione sarebbe una specie di derivato delle loro interazioni. Ma ci sono molti indizi che dovremmo ragionare nell'altra direzione. Più entriamo nella natura fondamentale della materia, più essa ci appare astratta e simile all'informazione.

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