Copertina
Autore Omero
Titolo Odissea
EdizioneLa Lepre, Roma, 2012, Visioni , pag. 630, cop.fle., dim. 13,5x21x4,6 cm , Isbn 978-88-96052-73-0
CuratoreGiulia Capo
PrefazionePiero Boitani
TraduttoreDora Marinari
LettoreGiorgio Crepe, 2012
Classe classici greci
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Indice


 VII Prefazione di Piero Boitani
XVII Premessa


     ODISSEA

   1 Libro primo
     Commento al Libro primo, 15

  27 Libro secondo
     Commento al Libro secondo, 40

     [...]

 584 Libro ventiquattresimo
     Commento al Libro ventiquattresimo, 601


 612 Nota al lettore
 616 Indice dei personaggi e delle divinità
 625 Indice dei luoghi e dei popoli


 

 

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Pagina VII

Prefazione


Il secondo poema omerico, generalmente datato all'VIII secolo a.C., presuppone il primo, l' Iliade, del quale riprende molti personaggi e alle vicende del quale fa costante riferimento (aggiungendone anche di ignote alla narrazione dell' Iliade stessa), ma è da quello completamente diverso per tema e struttura. L' Odissea è il poema del dopo-guerra, del ritorno del reduce a casa: e doveva originariamente far parte delle narrazioni dei nóstoi, i ritorni dei vincitori greci di Troia (frequenti sono in esso il contrasto con quello tragico di Agamennone e il parallelismo con quello di Menelao).

Organizzato come l' Iliade in ventiquattro Libri, l' Odissea ha una struttura, come già sosteneva Aristotele nella Poetica, «complessa», e «intreccio doppio»: non narra infatti il ritorno di Odisseo in patria, nella sua Itaca, in sequenza cronologica, ma si serve (primo nella narrativa occidentale) di mirabili anticipazioni e flashback, e giunge alla fine (duplice, appunto: punizione dei cattivi e trionfo dei buoni) dividendosi in tre grandi sezioni. Nella prima (Libri I-IV) il protagonista è fisicamente assente dalla scena (ma la sua assenza costituisce tema ricorrente), mentre viene presentata la situazione di Itaca, nella quale i principi locali e delle isole vicine, i Proci o Pretendenti, vivono nel palazzo reale consumandone le ricchezze e facendo la corte a Penelope, la moglie che Odisseo ha lasciato venti anni prima per recarsi a Troia. Telemaco, l'unico figlio di Odisseo e Penelope, è ormai un giovane uomo e, su impulso di Atena, parte per Pilo e Sparta a cercare notizie del padre presso i suoi antichi compagni d'arme, Nestore e Menelao. Con la seconda sezione (Libri V-XII) Odisseo prende il suo posto di protagonista, dapprima ospite-prigioniero della dea Calipso sulla sperduta isola di Ogigia, poi in navigazione su una zattera verso Scheria, l'isola dei Feaci, infine nel palazzo del re di costoro, Alcinoo, dove narra le proprie avventure (Libri VIII-XII) e dunque ritorna indietro nel tempo costruendo egli stesso l'«Odissea».

Tutte le tappe di questa (Ciconi, Ciclopi, Eolo, Lestrigoni, Lotofagi, Circe, Ade, Sirene, Scilla e Cariddi, isola del Sole, Calipso: i mythoi o «apologhi di Alcinoo») sono fantastiche e ambientate in luoghi al di fuori del mondo reale (benché sin dall'antichità si sia tentato con caparbìa di ritrovarne l'ubicazione attorno al Mediterraneo o, più recentemente, in Scandinavia, e persino sull'intero pianeta). Tutte, dopo l'episodio di Polifemo, sono dominate dall'ira del dio del mare, Poseidone, del quale Odisseo ha accecato il figlio Ciclope. Θ l'ira di Poseidone a determinare il lungo errare di Odisseo (due dei dieci anni del ritorno, poiché uno egli ne passa con Circe e ben sette con Calipso), ma l'eroe non rifiuta mai, e anzi desidera, la conoscenza di luoghi, esseri e costumi strani, mostruosi e pericolosi (come le Sirene, delle quali vuole a tutti i costi ascoltare il canto mortale).

La narrazione di Odisseo esercita inesauribile fascino già sui primi ascoltatori, i Feaci stessi, che, in silenzio, sono disposti a seguire il racconto per tutta la notte; e poi attraverso i secoli sino ai nostri giorni, mentre sin dall'antichità ne emerge il carattere immediatamente esemplare, il quale darà luogo ben presto alle interpretazioni allegoriche e morali. Che l'incontro con i Mangiatori di Loto rappresenti la tentazione suprema dell'oblio è osservazione tanto ovvia a una prima lettura quanto tuttora pertinente. Il confronto con Polifemo può essere letto come lo scontro con l'altro da sé, l'inumano, il mostro (l'orco delle fiabe), il selvaggio, il primitivo, il cannibale. Le Sirene rappresenteranno la seduzione del canto, della morte, della conoscenza, della bellezza carnale (e Odisseo legato all'albero della nave quando questa passa davanti alle Sirene verrà interpretato in ambito cristiano addirittura come prefigurazione di Cristo inchiodato alla croce). Il lungo soggiorno presso Calipso, il rifiuto dell'immortalità, la «nostalgia» (letteralmente, «dolore del ritorno») potranno essere prese per incrollabile fedeltà al proprio essere uomo, per rigetto della divinità, ma anche come anelito di Odisseo non verso la terra natale, ma verso la Patria celeste (sarà il filosofo neoplatonico Plotino a consacrare questa interpretazione).

La visita all'Ade – la nekyia o evocazione dei morti: l'incontro con la madre, con Achille, Agamennone, Aiace, gli eroi e le eroine del mito – è collocata significativamente al centro di tale trama: perché costituisce l'esperienza suprema di ciò che non è più, del mondo della morte dal quale l'eroe è toccato sin nel profondo delle sue radici esistenziali (la madre), della propria giovinezza (i compagni di Troia), del passato tutto della sua gente; nel quale egli deve sprofondare per poterne emergere vivo e cosciente. Non sarà un caso, del resto, se proprio nell'altro mondo Platone presenterà Odisseo al termine della Repubblica, nell'ambito del mito di Er: dove il nostro eroe dovrà scegliere una figura per la sua prossima reincarnazione e finirà, felice, per contentarsi di quella di un uomo privato e insignificante, lontano dai furori eroici e dalle erranze infinite dell'Odisseo omerico, preannunciando quindi l'«ognuno», l'uomo comune che Leopold Bloom rappresenterà nell' Ulisse di Joyce.

Tutta la terza e ultima sezione dell'Odissea (Libri XIII-XXIV) è dedicata al ritorno a Itaca su una nave dei Feaci e alla riconquista da parte dell'eroe della sua reggia e della moglie insidiata dai Pretendenti. Odisseo, trasformato in vecchio mendicante da Atena, riparte ancora una volta da zero (già arrivando a Scheria compariva nudo e incrostato di sale, come un vero Nessuno, il nome col quale si era presentato a Polifemo). Θ questa la parte del poema nella quale si succedono in crescendo l'una dopo l'altra le scene di riconoscimento e mancato riconoscimento — con Telemaco, con il cane Argo, con la nutrice Euriclea, con Penelope, con Eumeo e Filezio, con il padre Laerte — che già avevano segnato le prime due, tali che proprio la loro presenza spingeva Aristotele a definire «complesso» il poema. A poco a poco, attraversando scene comiche (la lotta con l'altro mendicante, Iro), patetiche (la morte del cane Argo) e apocalittiche (il riso cieco dei Proci), Odisseo prepara la tremenda vendetta sui Pretendenti, sterminando tutti senza pietà dopo aver vinto la gara con l'arco proposta da Penelope per chi la voglia sua sposa. Dopo la lunga notte che marito e moglie finalmente passano insieme, il poema termina con il ricongiungimento di Odisseo al padre e la pace che Atena stabilisce tra Odisseo e i suoi da un lato e i parenti dei Proci dall'altro.

Poema sfaccettato come il suo protagonista (Odisseo è polutropos, «dai molti lati», e polumetis, dalla mente piena di molti accorgimenti), l' Odissea odora di mare e sa di salmastro, ma è anche capace di entrare nei palazzi, nelle capanne, nelle spelonche, nelle selve e nei giardini incantati. Capisce l'animo di una moglie ferma e fedele, ma sola per vent'anni, e quello di una fanciulla come Nausicaa, che per lo straniero venuto dalle acque prova un sentimento di attrazione descritto con delicatezza senza pari. Si fa commedia «borghese» quando mostra Alcinoo, il padre di Nausicaa, che pensa di maritarla allo sconosciuto del quale non sa ancora il nome ma del quale intuisce la grandezza, la saggezza e la nobiltà.

Esplora il regno tremendo della morte, restando però aperta alla luce. Θ il poema della senescenza, nel quale tutti i personaggi sopravvissuti alla guerra di Troia sono invecchiati, ma celebra la vita e il perdurante amore di moglie e marito. Penetra nella psiche di dèi, re, guerrieri, pastori, servi e, per la prima volta, delle donne (Anticlea, Penelope, Elena, Nausicaa, Circe, Calipso, Euriclea). Sonda gli abissi teologici della giustizia divina, mostrandoci un Poseidone che vorrebbe annichilire i Feaci perché hanno ricondotto Odisseo in patria. Situa al suo centro l'eroe dell'esperienza umana, dell'intelligenza, della conoscenza e della sopravvivenza: che, ridotto a nulla, rifiuta l'immortalità offerta da Calipso e penosamente riconquista la propria identità di uomo.

Epica nella forma, costituisce l'archetipo di quello che più tardi si chiamerà «romanzo». Fa poesia della memoria, del racconto poetico e del canto: Aristotele, con intuito geniale, sosteneva che la scena di riconoscimento con Alcinoo avviene «attraverso la memoria», ma questa è destata dal canto dell'aedo Demodoco, e Alcinoo stesso dice a Odisseo, un attimo prima che questi si riveli, una frase la cui sbalorditiva portata fu sottolineata da Jorge Luis Borges: «Ma dimmi anche perché piangi e gemi dal profondo del petto, / quando senti narrare il destino dei Greci e di Troia. / Questo destino lo hanno stabilito gli dèi, / che hanno voluto la distruzione di tanti uomini / perché anche le generazioni future la possano cantare». Infine, nell' Odissea il fiammeggiante spirito agonistico dell' Iliade è sostituito, scriveva l'autore anonimo del trattato Sul sublime, da un ondeggiare — «come l'Oceano, quando si ritrae in se stesso e se ne sta solo nei suoi argini» — tra «favole straordinarie».

Il poema resta poi misteriosamente, enigmaticamente aperto: perché la profezia che Tiresia pronuncia per Odisseo nel mondo dei morti promette sì il ritorno a casa, ma prefigura anche un «ultimo viaggio» verso un paese che non conosce il mare, le navi, il cibo condito col sale, e dove un remo potrà essere scambiato per una pala da grano: una landa insomma al di fuori dell'esperienza della Grecia arcaica, e dunque un viaggio potenzialmente senza fine.

Infinito infatti nel tempo e nello spazio è stato l'itinerario di Odisseo, di Ulisse, nella nostra civiltà: dai vasi dipinti dello stesso VIII secolo agli studiosi alessandrini e bizantini, dai poeti augustei alle passioni politiche degli imperatori di Roma, da Boezio all'esegesi cristiana, dalle narrazioni medievali irlandesi a Dante, sino alla pittura, alla poesia e alla musica del Rinascimento e del Romanticismo, e oltre: all' Ulisse di Joyce, a La naissance de l'Odyssée di Giono, a 2001: Odissea nello spazio. Derek Walcott, il poeta dei Caraibi insignito del Premio Nobel nel 1992, autore di una versione drammatica del poema e di un Omeros che è riscrittura dello stesso, coglie appieno il senso dell' Odissea e della sua storia nell'immaginario occidentale quando nel 1981 compone la sua breve lirica Mappa del nuovo mondo; rievocando il conflitto dell' Iliade e il sorgere del secondo poema omerico per mezzo di un nuovo inizio:

Alla fine di questa frase, comincerà la pioggia.
All'orlo della pioggia, una vela.

Lenta la vela perderà di vista le isole;
in una foschia se ne andrà la fede nei porti
di un'intera razza.

La guerra dei dieci anni è finita.
La chioma di Elena, una nuvola grigia.
Troia, un bianco accumulo di cenere
vicino al gocciolar del mare.

Il gocciolio si tende come le corde di un'arpa.
Un uomo con occhi annuvolati raccoglie la pioggia
e pizzica il primo verso dell' Odissea.

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Pagina XVII

Premessa


Il termine "Odissea" viene usato nel linguaggio comune per indicare una lunga, faticosa, a volte tremenda serie di vicende, spesso imprevedibili e inaspettate. Così è infatti una parte, forse la più famosa, delle storie che si narrano in questo poema; ma si tratta solo di un sesto dell' Odissea, dei racconti che il protagonista stesso destina all'ascolto dell'affascinata corte dei Feaci, la misteriosa gente che lo riaccompagnerà a Itaca.

La varietà e l'enormità dei fatti riferiti, come la determinazione di Odisseo nel volerli capire e risolvere, sono così eccezionali da aver proposto alle epoche e alle culture più diverse il personaggio di Ulisse come prototipo della tenacia e vivacità della mente umana. Abbiamo chiamato Ulisse — per la prima e ultima volta — la figura centrale del poema, perché questo è il suo nome in troppe e troppo grandi opere che a lui si sono ispirate, nei quasi tremila anni che ci separano da Omero. Odisseo è però altra cosa: non è l'eroe che volge la poppa della nave verso il "folle volo" dantesco; la follia non gli appartiene in alcun modo: il suo è anzi un assoluto bisogno di recuperare una dimensione in cui poter dare forma alle sue caratteristiche di zτon politikón.

A Odisseo, il vincitore numero uno della guerra di Troia – era stato lui a ideare l'inganno del cavallo di legno – Omero riserva il più lungo e il più difficile dei nóstoi, i viaggi di ritorno alla propria terra. A lui e non a un altro, perché risolvere con successo le vicende vissute da Odisseo era impresa per la quale risultavano indispensabili la sua intelligenza, il suo acume nel comprendere la mente degli altri uomini, la sua abilità manuale e tecnica, la sua — non ultima tra le sue qualità — coraggiosa forza fisica. Ma forse quello che soprattutto distingue Odisseo è la capacità di non lasciarsi sopraffare dalle situazioni spesso intollerabili che gli si propongono. Polytlas, paziente, è Odisseo: sia in senso concreto, di fronte a dolori, pene e umiliazioni; sia in senso, diciamo, metafisico: perché non si esaspera e non si pone su un piano antagonista in presenza dell'incomprensibile, dell'apparentemente illogico e ingiusto che condizionano tanti momenti della vita umana.

L' Odissea è dunque la storia del ritorno di Odisseo a Itaca: ma i fatti narrati nel poema riguardano solo gli ultimi quaranta giorni dei vent'anni trascorsi dalla sua partenza per Troia. Si tratta di giorni vissuti per una metà in mare – prima sulla zattera che riavvicina l'eroe al mondo abitato, poi nella lotta contro la tempesta scatenata da Poseidone — e per l'altra metà tra gli uomini, mentre Odisseo combatte per il recupero del proprio ruolo sia affettivo che sociale.

Nonostante la grandiosità di alcune sue fasi, la vicenda avrebbe potuto risultare troppo limitata da una dimensione "individuale". La soluzione è stata trovata inventando, per Odisseo reduce da Troia, un viaggio di ritorno degno degli eroi di novelle meravigliose, quali ne esistevano in chi sa quante e quali leggende assai più antiche dell' Odissea. I relativi avvenimenti, cronologicamente anteriori a quelli in corso nel poema – parliamo del Ciclope, di Circe, delle Sirene, di Scilla e Cariddi – vengono raccontati da Odisseo ai Feaci tra il libro IX e il XII, quelli in genere indicati come Apólogoi, i Racconti. L'invenzione si sarebbe però ridotta a puro espediente narrativo se il viaggio di Odisseo non avesse coinciso con uno scandagliare le più varie situazioni umane, con vastità e profondità tali da permetterne l'identificazione con il Viaggio dell'Uomo, tout court.

Perché questo si potesse realizzare, in primo luogo si doveva rendere adeguatamente ricca e complessa, nel protagonista del poema, la struttura fondamentale dell'essere umano, cioè quella affettiva. Dunque Odisseo è persona che ha rapporti profondi e assai intensi con le figure del Padre, della Madre, del Figlio, della Moglie; e per ciascuno di questi rapporti è stato immaginato un contesto che consente di coglierne implicazioni e sviluppi.

Ma c'è un'ulteriore invenzione a collegare immediatamente il piano individuale a quello sociale: le persone più vicine a Odisseo, già segnate dalla sua assenza da Itaca, si sono trovate a subire il violento assedio della aristocrazia locale, i cosiddetti pretendenti di Penelope. La presenza di questi personaggi determina un atteggiamento inevitabilmente più responsabile da parte di tutti i soggetti in gioco.

In particolare Telemaco, il figlio ventenne cresciuto senza il padre ma nel mito di lui, deve diventare adeguatamente adulto e maturo: per questo Atena, all'inizio del poema, provvede perché la sua necessaria crescita venga accelerata. Necessaria: perché Odisseo, rientrando a Itaca, dovrà ricorrere all'aiuto del figlio per eliminare i principi che hanno invaso la sua casa e avrà anche bisogno — se intende restaurare il potere monarchico — che il suo erede sia all'altezza della situazione. Sul piano poetico, inoltre, Odisseo non dovrà essere deluso dal desideratissimo figlio ritrovato. A parte tutto, è molto interessante il lavoro che un ragazzo fa su se stesso per diventare uomo; i primi quattro libri dell'Odissea sono destinati a raccontare questo processo e infatti vengono comunemente chiamati Telemachia.


Leggendo l' Odissea possiamo osservare come ogni passaggio sia funzionale al filo che lega il tutto e questo ci porta a cogliere e ad apprezzare dettagli che sembrerebbero altrimenti minimi, a leggere con attenzione (perché più ci addentriamo nel racconto e più capiamo che ne vale la pena): è questo probabilmente il motivo della mímesis, del realismo, dello sguardo meticoloso con cui nella poesia omerica si osservano le cose. Omero è un maestro anche perché ci ha insegnato a non trascurare nulla di quanto accade sotto i nostri occhi.

[...]

Che cosa si proponeva il cantore dell' Odissea, dando vita a questo poema? Θ forse una domanda insensata, perché l' Odissea è talmente bella da imporsi da sé come valore indiscutibile; ma il nostro immaginario è così assuefatto a questo testo, che può essere utile considerarlo con i curiosi e disinvolti interrogativi che si riserverebbero a un'opera nuova.

Per cercare una risposta partiamo dal protagonista dell' Iliade: Achille è un uomo quasi intossicato dalla sua ribellione di fronte a un ordine universale che gli sembra inaccettabile. Odisseo è invece un uomo che si è reso conto dell'ineluttabilità di questo ordine e che su tale base decide però di operare, di costruire, organizzando conseguentemente la propria esistenza e quella del mondo su cui è in grado di intervenire.

Non è una resa, la sua: è la constatazione che i limiti esistono; che, nella misura in cui si riesce a comprenderli, essi si mostrano basati su criteri non incongruenti con la mente umana; e che se un uomo si muove all'interno di questi limiti riesce a realizzare molto di più, e molto meglio, di quanto concluda barricandosi dietro un rifiuto pieno di risentimento. Θ in fondo una posizione che ha molto in comune con il «... ma non eran da ciò le proprie penne» di Dante o con il «Mais il faut cultiver notre jardin» di Voltaire.

Odisseo è assolutamente rispettoso delle regole che gli dèi hanno stabilito per gli uomini, perché sa che queste sacre leggi morali consentono la sopravvivenza della specie umana. Pensare di poter sopravvivere se disprezzi o offendi l'ospite o il mendicante, è altrettanto stupido che pensare di poter vivere senza aria.

All'inizio del canto XIX dell'Odissea c'è un momento in cui Odisseo e Telemaco stanno levando di mezzo le armi appese nella sala del palazzo. Θ notte, è buio, ma Atena con una lucerna d'oro illumina tutto nei minimi dettagli. Telemaco è stupefatto: «Ci deve essere un dio qui», dice al padre. Odisseo gli risponde di non parlare, di non cercare di capire, perché è così che si deve fare con gli dèi; egli vive e agisce sapendo che la sua mente si muove secondo la stessa logica dell'intelligenza che dà ordine all'universo. Questo è ben chiaro in molti momenti del poema, confermato dall'esplicita presenza di Atena e — attraverso i suoi segni — anche di Zeus. In molte altre circostanze ciò non accade e Odisseo può contare esclusivamente sulle sue forze; eppure agisce come se l'aiuto divino fosse altrettanto esplicitamente evidente.

I parametri che gli è lecito conoscere, e che gli sono stati fatti conoscere perché lui si muova nel loro ambito, Odisseo li rispetta scrupolosamente, nella certezza che essi garantiscono e sostengono anche quello che gli risulta inconoscibile. Si potrebbe dire che egli agisce come se la massima che ispira le sue azioni dovesse diventare, per la sua volontà, legge universale.

Θ questo forse il motivo per cui — nonostante tutte le innumerevoli distanze riscontrate tra l' Iliade e l' Odissea - è inevitabile sottolineare i legami per cui i due poemi ci sono stati trasmessi sotto il nome di uno stesso autore: perché uguale è la loro forza, uguale l'urgenza di trovare una spiegazione all'amore per la vita. Se Achille e Priamo l'avevano scoperta nell'ammirazione per la grandezza dell'uomo di fronte al dolore, Odisseo la trova nello stesso vivere escogitando soluzioni a difficoltà e a tragedie inimmaginabili. Non sembra insomma assurdo sostenere che Achille e Odisseo, due figure entrambe gigantesche, siano forse espressione di due diversi momenti della riflessione di un artista che manifesta la propria identità attraverso lo stile del suo pensiero. Θ il respiro dei due poemi ad essere potente in egual modo; ed è la dimensione degli interrogativi che in essi vengono posti, a essere ugualmente immensa. L' Iliade ha il vigore e l'esasperazione di una persona più giovane e intransigente; l' Odissea circoscrive invece lo spazio in cui muovere la mente, come si addice a chi abbia imparato a valutare le forze di cui può disporre. Ma l'energia è la stessa, e lo stesso è il bisogno di indagare la natura dell'Uomo: vero è che però dalla lettura dell' Iliade si esce desiderando di continuare la ricerca, da quella dell' Odissea sapendo di essere arrivati al punto nel quale ci si ferma. Siamo arrivati tutti a Itaca: ed è una terra piccola, aspra, sassosa, ma piena di vita.

G. C.

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Pagina 1

Libro primo
Raccontami, Musa, di quell'uomo ricco d'ingegno
che molto dovette andar vagando,
dopo aver distrutto la sacra città di Troia,
e vide i paesi di molti uomini e ne conobbe i costumi,
e molte pene soffrì errando sul mare,
cercando di salvare la propria vita
e di riportare indietro i suoi compagni.
Ma i suoi compagni, pur volendolo, non riuscì a salvarli,
quei folli che si distrussero per la loro stoltezza,
perché divorarono i buoi del Sole Iperione, e quello impedì il loro ritorno.
Racconta queste cose anche a noi, dea figlia di Zeus,
e comincia il racconto da dove vuoi.


Mentre tutti gli altri che avevano evitato l'abisso della morte erano già a casa,
sfuggiti alla guerra e al mare,
lui solo,
mentre pensava al ritorno e alla moglie,
fu trattenuto dentro profonde caverne
dalla splendida ninfa Calipso,
dea tra le dee,
che voleva farlo suo sposo.
E quando, col passare degli anni,
venne il tempo in cui gli dèi decisero che lui tornasse a Itaca,
nella sua patria,
neppure lì poté evitare difficili prove.
Tutti gli dèi ne avevano pietà, tranne Poseidone,
che era sdegnato contro Odisseo, un uomo simile a un dio,
e voleva che non ritornasse in patria.
Ma Poseidone era andato lontano, tra gli Etiopi
— gli Etiopi, i più remoti fra gli uomini, si dividono in due,
quelli dell'Oriente e quelli dell'Occidente —,
per assistere a un'ecatombe di tori e di agnelli,
e li partecipava, felice, al banchetto,
mentre tutti gli altri dèi erano riuniti nella casa di Zeus olimpio.

Tra loro prese la parola il padre degli uomini e degli dèi:
si ricordò del potente Egisto,
che Oreste, il glorioso figlio di Agamennone, aveva ucciso,
e, pensando a lui, disse agli dèi immortali:
"Ahimé! Di quante cose i mortali accusano gli dèi!
Dicono che i loro mali vengono da noi,
e invece, contro il volere del destino,
subiscono sciagure per le loro azioni scellerate!
Così Egisto, contro il volere del destino,
si unì alla moglie legittima del figlio di Atreo,
e al suo ritorno lo uccise, pur sapendo che lo aspettava l'abisso della morte.
Noi, infatti,
mandando da lui Ermete,
il messaggero veloce che vede da lontano,
gli avevamo detto di non ucciderlo e di non desiderarne la moglie:
per queste cose ci sarebbe stata la vendetta di Oreste nipote di Atreo,
quando fosse cresciuto e avesse sentito nostalgia della patria.
Così gli parlò Ermes,
ma, pur dicendo cose giuste, non persuase Egisto,
che ora ha pagato tutto."

Gli rispose Atena, la dea dagli occhi azzurri:
"Padre nostro, figlio di Crono, sommo tra i potenti,
quello ha subito una morte fin troppo giusta,
e così dovrebbe finire chiunque facesse come lui!
Ma il cuore mi si spezza per il saggio Odisseo
che, infelice, patisce lunghe pene,
lontano dai suoi,
in un'isola remota al centro del mare.
Θ un'isola boscosa, e lì ha la sua casa una dea, la figlia del terribile Atlante:
di quello che conosce gli abissi di tutto il mare
e che regge le grandi colonne
su cui poggiano, dai due lati, la terra e il cielo.
E sua figlia trattiene quell'infelice che soffre,
e sempre lo lusinga con parole dolci e seducenti
perché dimentichi Itaca,
mentre Odisseo sogna di rivedere, da lontano, il fumo che sale dalla sua terra,
e desidera la morte.
E il tuo cuore ancora non si piega, Olimpio!
Forse Odisseo non ti onorava,
celebrando per te cerimonie sacre nella vasta Troade?
Perché, Zeus, sei così adirato con lui?"

Le rispose Zeus adunatore di nubi:
"Figlia mia, quali parole ti sono uscite dai denti!
Come potrei dimenticare il glorioso Odisseo,
che supera per intelligenza tutti i mortali,
e che ha sempre offerto sacrifici agli dèi immortali
che abitano il vasto cielo?
Ma Poseidone, che senza sosta scuote la terra,
è adirato per il Ciclope che Odisseo accecò,
Polifemo forte come un dio, il più forte di tutti i Ciclopi:
lo generò la ninfa Toosa, la figlia di Forchis, custode del mare,
che si unì a Poseidone nelle oscure caverne marine.
Perciò Poseidone scuotitore della terra,
anche se non uccide Odisseo,
lo spinge lontano dalla sua patria.
Ma ora pensiamo, tutti noi, al suo ritorno
e a come potrà tornare in patria,
e Poseidone abbandonerà la sua ira,
perché non potrà combattere da solo contro il volere di tutti gli immortali".

Gli rispose Atena, la dea dagli occhi azzurri:
"Padre nostro, figlio di Crono, sommo tra i potenti,
se sta davvero a cuore agli dèi beati che l'ingegnoso Odisseo ritorni a casa,
mandiamo subito all'isola di Ogigia
Ermes, il messaggero veloce,
perché comunichi alla dea dai bei riccioli il nostro infallibile volere:
che il paziente Odisseo ritorni subito a casa.
Intanto, io andrò a Itaca per spronare suo figlio
e mettergli in cuore la forza di radunare i Greci dalla lunga chioma
e di mandar via tutti quelli che vorrebero sposare sua madre
e sono rivali tra loro,
e che sempre gli sgózzano pecore grasse
e buoi dalle zampe ricurve e dalle corna arcuate.
Lo manderò a Sparta e a Pilo sabbiosa,
perché si informi sul ritorno di suo padre,
se potrà saperne qualcosa,
e perché si conquisti una splendida fama tra gli uomini"

Detto così, si legò ai piedi i bei sandali d'oro immortali
che la portano, col soffio del vento, sul mare e sulla vasta terra,
e prese la sua forte lancia dalla punta di bronzo:
la lancia dura, grande e pesante
con la quale abbatte intere schiere di uomini valorosi,
se con essi si adira, lei che è figlia di un padre potente.


Balzò giù dalle cime dell'Olimpo e si fermò tra il popolo di Itaca,
innanzi alla casa di Odisseo, accanto alla porta dell'atrio,
con in mano l'asta dalla punta di bronzo
e con l'aspetto di uno straniero, Mente, il capo dei Tafi.
E trovò li i rivali superbi,
che si divertivano giocando a pedine innanzi alla porta,
sdraiati sulle pelli dei buoi che loro stessi avevano sgozzato,
mentre gli araldi e i servi, obbedienti,
mescolavano per loro l'acqua col vino nei crateri,
e con morbide spugne pulivano e riordinavano le tavole,
o tagliavano grandi pezzi di carne.
Per primo la vide Telemaco, bello come un dio,
che stava avvilito tra i principi rivali,
e sognava che il suo nobile padre tornasse
e scacciasse da casa sua tutti i rivali,
che riconquistasse il suo potere e regnasse di nuovo sulle sue terre.
Mentre sognava queste cose, vide Atena
e le andò incontro nel portico,
adirato che lo straniero fosse rimasto a lungo innanzi alla porta;
poi le prese la mano destra, le tolse l'asta dalla punta di bronzo
e le disse parole gentili:
"Salve, straniero,
sarai accolto bene presso di noi,
e dopo esserti ristorato col cibo, ci dirai di che cosa hai bisogno".
Detto così, si mosse innanzi, e Pallade Atena lo seguì.

Quando entrarono nella grande casa, lui appoggiò la lancia a un'alta colonna,
dentro un'astiera ben levigata,
dove c'erano molte altre lance del paziente Odisseo,
poi la accompagnò fino a un grande sedia a braccioli,
su cui era disteso un telo di lino tutto ricamato,
e sotto c'era uno sgabello per i piedi.
Per sé, vi pose accanto un sedile ornato di fregi,
distante dai principi rivali,
sia perché durante la cena, tra uomini arroganti,
l'ospite non fosse infastidito dal frastuono,
sia per potergli chiedere del padre lontano.
Un'ancella, che portava l'acqua, la versò in una bacinella d'oro
su un vassoio d'argento,
perché si lavassero,
e pose accanto a loro una tavola ben levigata;
poi si avvicinò la fedele dispensiera,
portando il pane e offrendo molti cibi,
generosa di quel che c'era;
il tagliatore di carni offrì piatti di carni scelte di ogni tipo
e pose davanti a loro tazze d'oro,
mentre l'araldo veniva spesso a versare il vino.

Entrarono i superbi rivali e subito sedettero, uno accanto all'altro,
su sedili e sedie a braccioli;
gli araldi versarono acqua sulle loro mani,
le ancelle portarono canestri di pane
e i ragazzi riempirono le tazze di vino.
Quelli tesero le mani sui cibi che erano stati preparati
e posti accanto a loro;
poi, quando ebbero saziato il desiderio di bere e di mangiare,
i rivali si dedicarono ad altre cose:
alla musica e alla danza, che sono l'ornamento del banchetto.
E l'araldo mise una cetra bellissima tra le mani di Femio,
che era costretto a cantare per loro
e che anche allora cominciò un bel canto,
accompagnandosi con la cetra.


Intanto, Telemaco parlava ad Atena dagli occhi azzurri,
avvicinando la testa alla sua, perché gli altri non l'ascoltassero:
"Straniero, ti adirerai con me se ti dirò una cosa?
A questi qui interessa solo suonare la cetra e cantare,
ed è facile per loro
perché, impuniti, mangiano il cibo di un altro:
di un uomo di cui forse le bianche ossa, sparse sopra la terra,
marciscono per la pioggia,
o forse, dentro il mare, le spingono qua e là le onde.
Se lo vedessero tornare a Itaca,
tutti preferirebbero esser veloci nella corsa, piuttosto che ricchi d'oro e di vesti;
lui, invece, è stato distrutto da un triste destino,
e per noi non c'è più speranza:
anche se qualcuno degli uomini che vagano sulla terra dice che tornerà,
il giorno del suo ritorno è perduto per noi.
Ma tu, ora, parlami sinceramente e dimmi:
chi sei e da dove vieni?
Qual è la tua città e dove sono i tuoi genitori?
Con che nave sei venuto?
Come ti hanno portato fino a Itaca i marinai, e chi erano?
Non credo, infatti, che tu sia venuto fin qui a piedi!
E dimmi anche questo, perché io possa saperlo:
dimmi se arrivi qui per la prima volta, o se eri già ospite di mio padre,
perché molti conoscono la nostra casa,
e lui stesso aveva viaggiato tra molti uomini."

Gli rispose Atena, la dea dagli occhi azzurri:
"Certo, ti parlerò molto sinceramente.
Io mi onoro di essere Mente, il figlio del valoroso Anchiafo,
e regno sui Tafi, navigatori eccellenti.
Sono appena sbarcato qui con la mia nave e i miei compagni,
mentre navigavo sul mare oscuro verso altri popoli:
andavo a Temese in cerca di bronzo, portando in cambio ferro rilucente.
La mia nave è ancorata verso la campagna, lontano dalla città,
nel porto di Reitro, sotto il Neio boscoso.
Noi due possiamo vantarci di essere ospiti l'uno dell'altro
fin dal tempo dei nostri padri:
puoi andare a chiederlo al nobile Laerte,
anche se dicono che il vecchio non viene più in città,
ma soffre la sua pena da lontano,
in campagna,
con una vecchia serva che gli prepara da mangiare e da bere,
quando la fatica gli piega le ginocchia,
mentre si inerpica per le salite del suo campo piantato a viti.
Ora sono arrivato qui e mi hanno detto che tuo padre era tornato in patria,
ma forse gli dèi gli impediscono di arrivare.
Perché certo non è morto il glorioso Odisseo,
ma lo trattiene, ancora vivo, il vasto mare:
forse, in un'isola in mezzo al mare,
lo hanno fermato degli uomini malvagi e brutali,
che lo trattengono contro il suo volere.
Io ti farò un vaticinio che gli dèi mi pongono nel cuore
e che credo si realizzerà,
anche se non sono un indovino, né un esperto di uccelli:
lui non resterà ancora a lungo lontano dalla sua patria,
neppure se lo legasse una catena di ferro;
lui saprà come tornare, perché è ricco di astuzia.
Adesso parlami tu sinceramente,
e dimmi se, già così grande, sei il figlio di Odisseo.
Gli somigli moltissimo, infatti, nel volto e negli occhi:
lo so perché ci incontravamo spesso, prima che lui partisse per Troia,
dove andarono anche gli altri capi dei Greci, sulle loro navi profonde.
Da allora non ho più visto Odisseo, né lui ha visto me."

Le rispose il saggio Telemaco:
"Anche io, ospite, ti parlerò sinceramente.
Mia madre dice che sono figlio di Odisseo,
ma io non lo so,
perché nessuno, da solo, può scoprire la sua discendenza.
Vorrei essere il figlio felice di un uomo che la vecchiaia avesse raggiunto
nelle sue terre,
invece, l'uomo di cui mi dicono figlio è ora il più sfortunato dei mortali,
se è questo che vuoi sapere"

Gli rispose Atena, la dea dagli occhi azzurri:
"Certo gli dèi non vogliono rendere ingloriosa la tua stirpe,
se Penelope ha generato un figlio come te.
Ma adesso tu parlami e dimmi sinceramente:
che cos'è questo banchetto?
Che gente è questa che lo affolla?
A che serve? Θ solo un banchetto, o una festa di nozze?
Perché questa non è una cena pagata da tutti:
tanto insolenti mi sembrano,
e con tanta prepotenza banchettano in casa tua.
Qualunque uomo assennato che entrasse qui si adirerebbe,
a vedere questa vergogna!"

Le rispose ancora il saggio Telemaco:
"Ospite, perché mi domandi queste cose?
La mia casa doveva essere una volta nobile e ricca,
quando quell'uomo era ancora in patria.
Ma ora gli dèi, che meditano sciagure per noi, hanno deciso altrimenti,
e lo hanno colpito più di tutti gli altri uomini.
E io non soffrirei tanto se lui fosse morto con i compagni nella terra di Troia,
o tra le braccia dei suoi, dopo aver messo fine alla guerra:
tutti i Greci avrebbero costruito la sua tomba
e grande gloria, in futuro, ne sarebbe venuta a suo figlio.
Ora, invece, le Arpie lo hanno travolto senza gloria:
lui è sparito, invisibile e sconosciuto,
e a me ha lasciato lamenti e pianto.
E non piango soltanto lui,
perché gli dèi mi hanno destinato anche altre disgrazie.
Infatti, tutti quelli che governano e spadroneggiano nelle isole,
a Dulichio, a Same e nella boscosa Zacinto,
e tutti i potenti di Itaca rocciosa,
chiedono in moglie mia madre
e distruggono la mia casa.
Lei non rifiuta un matrimonio che le è odioso,
ma non è capace di affrontarlo,
e questi, con i loro banchetti, rovinano la mia casa,
e presto distruggeranno anche me."

Gli rispose, sdegnata, Pallade Atena:
"Povero ragazzo! Tu hai molto bisogno di Odisseo, che è lontano,
per poter affrontare questi sciagurati rivali.
Volesse il cielo che tornasse a casa
e si fermasse innanzi alla porta con l'elmo, lo scudo e le sue due lance,
come quando io lo vidi per la prima volta,
mentre in casa nostra beveva e si rallegrava,
al ritorno da Efira, dalla casa di Ilo figlio di Mermero!
Anche lì, infatti, arrivò Odisseo con la sua nave veloce,
per cercare un veleno mortale in cui intingere le frecce di bronzo
— Ilo non glielo diede per timore degli dèi che vivono in eterno,
mio padre, invece, glielo diede perché lo amava molto —
Se Odisseo apparisse così tra i principi rivali,
avrebbero tutti vita breve e amare nozze!
Ma queste cose giacciono sulle ginocchia degli dèi:
si vedrà poi se, tornando, riuscirà o no a vendicarsi,
nella sua grande casa.
Io, invece, voglio dirti come allontanare i rivali da casa tua:
tu ascolta, e ricordati delle mie parole.
Domani, riunisci in assemblea tutti i Greci e parla a tutti,
e siano testimoni gli dèi.
Persuadi tutti i rivali a separarsi, andando ciascuno a casa sua,
e convinci tua madre,
se desidera sposarsi,
a tornare nel palazzo del suo potente padre:
li organizzeranno il matrimonio
e le offriranno molti e ricchi doni di nozze,
quanti è giusto che accompagnino una figlia che va sposa.
E ora ti darò un altro saggio consiglio, se vorrai ascoltarmi:
imbarcati subito su una nave da venti remi,
la migliore che c'è,
e vai a cercare notizie di tuo padre, che da tanto tempo è lontano,
sia che te ne parlino degli uomini,
sia che tu possa ascoltare le voci che vengono da Zeus
e che più delle altre diffondono la fama tra gli uomini.
Vai prima di tutto a Pilo e parla al glorioso Nestore;
di li vai a Sparta, dal biondo Menelao,
che è stato l'ultimo a tornare, fra i Greci dalla corazza di bronzo.
E se ascolterai qualcosa sulla vita e sul ritorno di tuo padre,
anche se sarai tormentato da questi uomini violenti, sopportali ancora un anno;
se invece saprai che è morto, che non c'è più,
tu, appena tornato in patria, costruiscigli un tumulo,
rendigli gli onori funebri
— molti e solenni, come è giusto —,
e poi affida tua madre a un nuovo marito.
Quando avrai compiuto tutte queste cose,
dovrai impegnarti, con la mente e col cuore,
a decidere come ucciderai i rivali dentro casa tua:
se con l'inganno, o apertamente.
E non dovrai comportarti da ragazzino: non ne hai l'età.
O forse non sai quanta fama si è conquistato fra tutti gli uomini
il glorioso Oreste,
per aver ucciso l'assassino di suo padre, il traditore Egisto,
che lo aveva privato del padre famoso?
Anche tu, mio caro,
poiché vedo che sei forte e bello,
sii coraggioso,
perché possano essertene grati anche i tuoi discendenti!
Ma ora io tornerò sulla mia nave veloce,
tra i miei compagni,
che certo si sono molto adirati, stando ad aspettarmi.
Tu abbi cura di te e ricordati le mie parole."

Le rispose il saggio Telemaco:
"Ospite, tu mi hai detto queste cose con affetto, come un padre al figlio,
e io non me ne scorderò mai.
Ma ora rimani qui, anche se hai fretta di partire,
perché tu possa ritornare lieto sulla tua nave,
dopo aver fatto un bagno ed esserti riposato,
portando con te un dono di valore, molto bello,
che ti resti come ricordo di me:
un dono di quelli che chi ospita offre a chi è stato ospitato."

Gli rispose Atena, la dea dagli occhi azzurri:
"Non trattenermi: ho bisogno di riprendere il cammino.
Il dono che vorresti offrirmi me lo darai, da portare a casa,
al mio ritorno.
E sceglilo davvero bello:
ti sarà ricambiato con uno di eguale valore."

Detto così, si allontanò, Atena dagli occhi azzurri:
volò in alto come un uccello,
ma ispirò forza e coraggio nel cuore di Telemaco,
e gli ricordò suo padre, con molta più forza di prima.
Lui, riflettendo su queste cose, se ne meravigliò:
capì che a parlargli era stato un dio.
e, bello come un dio, ritornò subito tra i rivali.


Per loro cantava Femio, il famoso cantore,
e quelli stavano ad ascoltare in silenzio,
mentre lui narrava il doloroso ritorno da Troia
che aveva imposto ai Greci Pallade Atena.
Dall'alto della casa, sentì quel canto meraviglioso la figlia di Icario,
l'accorta Penelope,
e discese per l'alta scala del suo palazzo,
ma non da sola, perché la seguivano due ancelle.
Quando giunse tra i principi rivali, bella come una dea,
si fermò accanto a un pilastro dell'alto tetto,
tendendo innanzi alle guance il velo rilucente,
e aveva al suo fianco, a ognuno dei due lati, un'ancella fedele.
Poi, piangendo, disse al meraviglioso cantore:
"Femio, tu conosci molte altre cose capaci di affascinare i mortali:
le storie degli uomini e degli dèi che i cantori sanno celebrare.
Cantane qualcuna, e tutti ti ascolteranno in silenzio,
ma smetti questo triste canto che sempre mi spezza il cuore,
perché su di me pesa un dolore intollerabile,
e mi tormento ricordando l'uomo che ho perduto:
l'uomo la cui fama attraversa tutta la Grecia e arriva fino ad Argo."

Allora il saggio Telemaco le disse:
"Madre mia, perché vuoi impedire al fedele cantore di rallegrarci
come vuole il suo cuore?
I responsabili dei mali non sono certo i cantori:
il responsabile è Zeus,
che assegna ciò che vuole a ciascuno degli uomini, durante la vita.
Non è una colpa, per costui, cantare il triste destino dei Greci:
fra tutti i canti, infatti, gli ascoltatori preferiscono quello che è più nuovo.
La tua mente e il tuo cuore dovranno avere la forza di ascoltarlo,
perché Odisseo non fu il solo a cui fu negato il ritorno da Troia:
lì morirono molti altri uomini.
Ma tu ora torna nelle tue stanze, ai tuoi lavori,
al telaio e al fuso,
e ordina alle ancelle di dedicarsi ai loro lavori.
Dei racconti si interesseranno gli uomini:
tutti gli uomini, ma soprattutto io, che sono il capo di questa casa."
Lei, stupita, tornò nelle sue stanze
e si chiuse nel cuore le sagge parole del figlio.
Salita al piano superiore con le sue ancelle,
continuò a piangere Odisseo, il suo sposo,
finché Atena dagli occhi azzurri non versò sulle sue palpebre il dolce sonno.


I rivali strepitavano nella sala ombrosa
perché tutti volevano andare a letto con lei,
ma il saggio Telemaco si rivolse a loro così:
"Dico a voi,
che chiedete di sposare mia madre e siete pieni di superbia e violenza:
ora godiamo del banchetto e non facciamo chiasso,
perché è bello ascoltare un cantore come questo,
che per la voce somiglia agli dèi.
All'alba, poi, andremo tutti a sederci in assemblea,
e li vi dirò chiaramente di andar via dalla mia casa,
di prepararvi altri banchetti, pagandoli a vostre spese
e alternandovi nelle vostre case!
Se invece vi sembra più piacevole e più bello
distruggere impunemente le sostanze di un uomo,
consumatele pure,
ma io invocherò gli dèi eterni
perché Zeus voglia che le vostre colpe siano un giorno ripagate.
E allora voi morrete invendicati dentro questa stessa casa."

Così disse, e tutti, mordendosi le labbra con i denti,
si meravigliavano che Telemaco avesse parlato con tanto coraggio.
Gli disse, infine, Antinoo figlio di Eupite:
"Telemaco, certamente gli dèi stessi ti insegnano
a straparlare e a fare discorsi arditi!
Attento che il figlio di Crono non ti faccia re di Itaca circondata dal mare,
come ti spetterebbe perché discendi da tuo padre!"
E Telemaco gli rispose:
"Antinoo, anche se ti adirerai con me per ciò che sto per dire,
io questo vorrei ottenerlo, se Zeus me lo concedesse.
O pensi che questo sia il peggio che possa toccare agli uomini?
Non è male essere un re:
la casa di un re si riempie subito di ricchezza,
e lui stesso viene onorato.
Ma certo, in Itaca circondata dal mare,
ci sono altri, giovani e vecchi, che possono diventare re:
uno di questi abbia il titolo, se è morto il glorioso Odisseo.
Così, io sarò padrone della mia casa
e dei servi che il glorioso Odisseo acquistò per me."

Gli disse allora Eurimaco, il figlio di Polibo:
"Telemaco, queste cose giacciono sulle ginocchia degli dèi:
chiunque dei Greci regnerà su Itaca circondata dal mare,
tu tieniti le tue ricchezze e regna nella tua casa.
Nessuno, infatti, dovrà venire a strapparti i tuoi beni,
finché Itaca sarà abitata.
Ma ora voglio che tu, mio caro, mi parli di quello straniero:
da dove viene? A quale popolo dice di appartenere?
Dov'è la sua famiglia, e dove sono i suoi campi?
Ti porta, forse, notizie del ritorno di tuo padre?
O è venuto qui viaggiando per il proprio guadagno?
Come se ne è andato in fretta, senza fermarsi per farsi riconoscere!"

Il saggio Telemaco gli disse:
"Eurimaco, il ritorno di mio padre è impossibile:
non credo a nessuna notizia, anche se qualcuno me ne portasse,
e non mi interessano i vaticini,
anche se mia madre invita in questa casa degli indovini e li interroga.
Questo straniero è un ospite di mio padre e viene da Tafo.
Dice di essere Mente, il figlio del valoroso Anchialo,
e di regnare sui Tafi, navigatori eccellenti."
Così disse Telemaco,
ma dentro di sé aveva riconosciuto la dea immortale.
Quelli, intanto, si dedicavano, felici, al ballo e al dolce canto,
aspettando che venisse la sera.
E quando la sera oscura discese sui loro divertimenti,
solo allora andarono a dormire, ciascuno a casa sua.


Telemaco andò a letto nella stanza bellissima
che era stata costruita per lui dentro il palazzo,
in alto e in una zona appartata.
Salendo con lui, portava fiaccole accese la sapiente Euriclea,
la figlia di Opo, che era figlio di Pisenore.
Laerte l'aveva comprata quando era ancora fanciulla, col proprio danaro,
pagando venti buoi,
e l'aveva tenuta nella sua grande casa come una sposa fedele,
ma non era mai andato a letto con lei,
evitando così la collera della moglie.
Quella andava con lui e portava le fiaccole accese
perché lo amava più di tutte le altre donne della casa
e aveva avuto cura di lui fin da quando era bambino.
Aprì la porta della bella stanza,
e lui sedette sul letto,
si svestì della sua morbida tunica
e la gettò tra le mani della vecchia fedele.
Questa, dopo aver ben distesa la tunica e averla sospesa a un piolo,
accanto al letto adorno di intagli,
uscì dalla stanza,
richiuse la porta con la maniglia d'argento
e tirò con la cinghia il paletto.
E Telemaco, avvolto in morbide coperte di lana,
pensò per tutta la notte al viaggio di cui gli aveva parlato Atena.

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Pagina 15

Commento al Libro primo


Chiunque, dopo aver letto l' Iliade, si avvicini all' Odissea avverte subito un tono molto diverso. Il linguaggio è più semplice, anche a leggerlo in traduzione, e in greco poi questa diversa facilità è evidentissima.

Il fatto è che il "tragico" ha preso un'altra via. Se tragica è la situazione di chi è duramente combattuto nel prendere una decisione, l' Odissea è invece il poema delle leggi già date, delle regole già imposte: gli dèi hanno già detto agli uomini quali sono le cose da non fare; adesso, se gli uomini pagano pesantemente per le loro azioni, se la prendano con se stessi. Lo scontro faccia a faccia tra Agamennone e Achille, a proposito di onore e di potere, fa parte di un'altra epoca: il loro contrasto nell' Iliade aveva comportato il coinvolgimento di Zeus stesso, il suo impegno solenne perché venisse riconosciuta dai Greci la colpa di Agamennone, e la conseguente carneficina di cui sappiamo dai ventiquattro canti di quel poema.

Nell' Odissea invece non si ha più la pretesa o la speranza di poter portare i propri dubbi al cospetto della più alta divinità, che su di essi prenderà posizione: gli esseri umani si sono resi conto del fatto che molti dei loro interrogativi rimarranno senza risposta. Odisseo è il prototipo dell'uomo che di questo è consapevole, ma non se ne lascia deprimere o schiacciare. Lo spazio in cui egli può capire e agire è comunque così ampio e interessante da appagare la sua mente, la sua emozione e la sua audacia: e il poema che da lui prende nome testimonia infatti della vastità, della profondità e dell'intensità della sua storia.

I nóstoí, i ritorni alle loro terre dei Greci che hanno combattuto a Troia, ci sono già stati tutti: manca l'ultimo nóstos, quello di Odisseo. L'aver distrutto la sacra rocca di Ilio è il punto di arrivo dell'Odisseo antico, il personaggio che conoscevamo nell' Iliade: il guerriero che aveva un suo fine, e che lo ha perseguito e raggiunto. Ora il fine è un altro: è il ritorno alla dimensione personale e quotidiana, il recupero della propria umanità, sia nella realtà dell'io individuale, sia nel ruolo sociale di chi ha responsabilità di altri. Ammesso e non concesso che un uomo possa veramente presumere di provvedere al destino degli altri: e fin dai primi versi del poema, in cui si dice di Odisseo che "cercava di riportare indietro i suoi compagni", sappiamo che ciò non è possibile. Ognuno decide per sé e non c'è modo di risolvere i nodi altrui: quelli con i quali persone che ci interessano, che ci stanno anche molto a cuore, hanno irrazionalmente intricato la propria vicenda.

Odisseo tornerà per ultimo, perché il suo nóstos è inteso come il processo che l'uomo deve compiere per poter essere chi veramente vuole essere. Quello vissuto dall'uomo Odisseo è un processo di conoscenza – di sé e degli altri e delle cose – talmente vario, profondo ed estremo, che attraverso di lui viene vissuto dall'Uomo, da tutti gli uomini. Dall'Uomo inteso nella sua dimensione concreta e reale, sia come individuo che nei suoi rapporti sociali, ma non in una prospettiva metafisica. Odisseo non si pone domande di ordine spirituale: se l' Iliade ha un respiro religioso e filosofico, l' Odissea – anche se vi hanno ampio spazio potenti divinità e mostri spaventosi – è il poema dell'uomo tra gli uomini.

Non per nulla la prima parola del primo verso del I libro, del primo verso del Proemio, è Andra, l'uomo: e questo sarà il tema dell' Odissea. Così come la prima parola dell' Iliade, Mκnin, l'ira, ci aveva subito detto che il tema di quel lunghissimo canto sarebbe stata la rivolta, da parte dell'uomo Achille, nei confronti di un ordine delle cose che gli si manifestava ingiusto e incomprensibile.

Che cosa dice il Proemio dell' Odissea, per introdurre questa indagine sull'Uomo in sé? Tanto per cominciare, non cita il nome del protagonista – a maggior evidenza, diremmo, dell'universalità del suo mito. Quest'uomo è stato trascinato (plànchthe) ampiamente, nello spazio e nel tempo "molto dovette andar vagando" – dopo che aveva distrutto la sacra città di Troia. Il suo lungo errare gli aveva consentito di vedere con i suoi occhi le comunità di molti uomini e di capirne i costumi: ma il suo scopo era stato sempre quello di salvare la propria vita e di riportare a casa i suoi compagni. Però in questo non è riuscito: a causa delle loro colpe, dice Omero. Ma è pur sempre lui, che non ha potuto salvare gli uomini di cui era il capo, e che non lo hanno più riconosciuto come efficace aiuto, nella loro disperazione.

Quella che il Proemio annuncia sembrerebbe essere, insomma, la storia di un fallimento: e come tale si inserisce tra le vicende umane in modo così facile da comprendere, che proprio non importa da dove si cominci: «Racconta queste cose anche a noi — chiede Omero alla Musa — partendo da dove vuoi»: amóthen, perché l'antefatto del poema è veramente una storia piena di irrazionalità.

E allora si comincia dal fatto che il solo nóstos, il solo ritorno che mancava, per i reduci da Troia ancora vivi, era quello di Odisseo. Odisseo desiderava ("aveva cercato", kechreménon) "il ritorno e sua moglie" così come aveva desiderato la salvezza dei suoi compagni. Odisseo è un uomo che percepisce se stesso all'interno di un contesto sociale – la famiglia, la città – ed è questo contesto che desidera recuperare. Il suo scopo è realizzarsi nella comunità e in questo senso è proprio l'uomo "di cultura", l'uomo "moderno".

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