Autore Maria Pace Ottieri
Titolo Il Vesuvio universale
EdizioneEinaudi, Torino, 2018, Supercoralli , pag. 282, cop.rig.sov., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-06-23908-4
LettoreRiccardo Terzi, 2019
Classe narrativa italiana , regioni: Campania , citta': Napoli , storia sociale , storia antica , scienze naturali , citta' , urbanistica












 

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Indice


  3      I.  Dormiveglia

 14     II.  En quéte

 22    III.  La tradizione si inventa

 40     IV.  La fabbrica colonia

 61      V.  Tre volte fuoco

 79     VI.  Terra dei fuochi incrociati

 92    VII.  'N coppa

107   VIII.  Vulcanologie

126     IX.  Il vulcano armadietto

136      X.  Terra dei fuochi d'artificio

147     XI.  Due città

174    XII.  Pugni

192   XIII.  Tre cognati capitani

216    XIV.  Salaam Pompei

234     XV.  Granhattan

248    XVI.  Una casa è una casa è una casa

260   XVII.  Fuggire sí ma dove


275          Ringraziamenti
277          Riferimenti bibliografici


 

 

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Capitolo primo

Dormiveglia


Dal treno il Vesuvio, il suo lato meno abitato, i due seni arrotondati uniti da una cresta appena frastagliata. Nitido, dà l'impressione di poter affondare la mano nelle pieghe del suo pelo bruno, di toccare il dorso di un gigantesco animale accucciato e decapitato.

Lo rivedo dall'alto nell'ultimo sole, attraverso uno squarcio aperto tra i palazzi grigi di corso Vittorio Emanuele, le architetture solenni di Napoli che sono color della cenere, rose e tarlate dal formicolio delle vite di chi le abita.

Da quando lo penso come un luogo da esplorare, mi appare nella nuova luce dell'interesse amoroso che nasce senza preavviso. Per quanto abituata ad amori sghembi sono la prima a domandarmi: che senso ha invaghirsi di un Don Giovanni millenario?

«Guardare il Vesuvio è per me una catastrofe, perché cosí tanti milioni, forse miliardi di persone l'hanno già fatto», scrive Thomas Bernhard nella sua prima visita a Napoli, un pensiero dettato dalla legittima presunzione di chi vuole vedere le cose per primo, sentirsi pioniere, l'impulso di chiunque si getti in un'avventura conoscitiva.

Eppure pochissimo si sa di questo vulcano silente, dei suoi rivolgimenti segreti, tutto sfugge a chi lo abita nonostante possa avvertirne i tremori poggiando i denti alla sbarra di ferro del letto, come faceva l'inventore americano Frank Alvord Perret, vulcanologo autodidatta tra i più importanti del Novecento. E molto sfugge ancora agli scienziati che non possono prevedere il momento e l'entità della prossima esplosione del Vesuvio.


I primi scheletri di vittime di un'eruzione preistorica mai rinvenuti sono dell'età del Bronzo, un uomo e una donna in fuga dall'eruzione delle Pomici di Avellino, quasi duemila anni prima di Pompei ed Ercolano, tra il 1880 e il 1680 a.C.: un'eruzione potentissima che cambiò l'aspetto della pianura campana e nel giro di un giorno trasformò un paesaggio idilliaco in un deserto grigio rimasto inabitabile per tre secoli.

Quel che si sa è che per irresistibile appello da millenni gli uomini abitano il Vesuvio, il loro tempo tenuto in scacco dal suo, lungo venticinquemila anni, tanti sarebbero gli anni del monte Somma, sebbene le piú antiche rocce di origine vulcanica, rinvenute nel pozzo di Trecase, risalgano a quattrocentomila anni fa.

Negli intervalli tra un'eruzione e l'altra, mostrando il suo volto piú benevolo e munifico, la montagna permette agli uomini di addomesticare il suo pelame, fino al prossimo accesso d'ira furibonda.

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Nel Medioevo il Vesuvio sprofondò in un oblio lungo mezzo millennio fino all'eruzione del 1631 che fece migliaia di morti e divorò la sua cima. Nei disegni del Cinquecento, il vulcano appare nella sua immagine di sfondo pacifico, un monte coperto di boschi, circondato da un rassicurante paesaggio agricolo.

Risalendo nel tempo, mi domando per la prima volta come i Romani di Pompei ed Ercolano vedessero il Vesuvio.

Al Museo nazionale archeologico di Napoli c'è un solo affresco, ritrovato nella Casa del Centenario di Rustio Vero, a Pompei, dove compare sul fondo, alle spalle del dio Bacco vestito di grappoli d'uva, una collinetta conica, coperta di vigneti e dall'aria insospettabile.

Benché i Romani lo chiamassero Vesuvio, nella preistoria, all'epoca dell'ultima glaciazione, era il monte Somma: un vulcano alto duemila metri, che precedenti eruzioni avevano demolito e sprofondato lasciando solo la base del cratere. Erano passati ottocento anni dall'ultima eruzione, ma solo diciassette anni prima, nel 62 d. C., c'era stato un forte terremoto. La montagna era silente, si era persa la memoria della sua minaccia: non la nomina Lucrezio che narra invece del lago d'Averno, né Ovidio che pure scrive dell'Etna nelle Metamorfosi, Virgilio nelle Georgiche racconta di Ercolano come di un luogo salubre e ameno alle falde del Vesuvio. Solo Strabone ne descrive la sommità di forma piana, ma cinerea e sterile, punteggiata di cavità con fessure che si aprono su rocce fuligginose in superficie come fossero state divorate dal fuoco. Annibale vide il monte eruttare nel 215 a.C. e meno di un secolo dopo Spartaco si rifugiò ignaro sulla sua sommità con la banda di schiavi ribelli che lo seguivano.

Quando la lava e il fango distrussero Pompei ed Ercolano nel 79 d.C., il monte Somma, primipara vetusta come le madri tardive della Bibbia, partorí il cono giovane, il Vesuvio, figlio matricida che per nascere la decapitò facendone sprofondare il cratere.

Sono i due coni che vediamo oggi, il «bipartito giogo» di Leopardi: a nord il residuo montuoso del Somma, con i suoi scuri boschi che diventano via via terrazze coltivate sulle pendici piú basse; a sud, verso il mare, la terra attraversata dalla raggiera delle colate laviche, suolo fertilissimo e sempre nuovo.


Il Vesuvio è un vulcano attivo e giovane nonostante l'età immemorabile, potrebbe ridestarsi e scrollarsi di dosso in un pugno di minuti le centinaia di migliaia di abitanti abbarbicati con le unghie alla sua carne.

All'epoca dell'ultima eruzione cosiddetta pliniana, perché vi morí Plinio il Vecchio e il nipote Plinio il Giovane fu il primo a darne una descrizione nelle famose tre lettere a Tacito, la pianura sottostante il Vesuvio era abitata da alcune migliaia di Romani.

Oggi i paesi vesuviani formano un'ininterrotta «conurbazione», cosí la chiamano gli urbanisti, non una città a sé e nemmeno una periferia metropolitana, ma un territorio con una delle piú alte densità abitative al mondo, oltre duemilacinquecento abitanti al chilometro quadrato, che diventano circa dodicimila a Portici: la città vesuviana.

Napoli città ha un milione di abitanti, a cui si sommano i settecentomila che vivono alle pendici del Vesuvio e i cinquecentomila nei Campi Flegrei, oltre due milioni di esseri umani abitano una terra tenuta in scacco da tre vulcani attivi, il Vesuvio a est di Napoli, la caldera dei Campi Flegrei e l'isola di Ischia, a ovest.

Non è la sua natura di montagna di fuoco, fedele alle proprie necessarie e cicliche intemperanze, seppure ancora in larga parte insondate, ma questa proliferazione abnorme di persone e costruzioni a rendere il Vesuvio il piú pericoloso vulcano del mondo e un'eventuale evacuazione della popolazione un evento senza precedenti, che potrebbe coinvolgere, se si considera la nuova città metropolitana, fino a tre milioni di persone.

[...]

Il Vesuvio è la frontiera naturale, la sola reale frontiera riconosciuta da chi lo abita. Si parte per impossibilità di restare, si resta per impossibilità di partire, il metro di misura delle speculari impossibilità è il rapporto con il Vesuvio.

Immemori? Irresponsabili? Prometeici?

Chi vive nei paesi vesuviani crede veramente che il vulcano non scoppierà mai più? O che esporre la statua di san Gennaro o della Madonna della Neve lo fermerà? O che l'unica cosa da fare sia affidarsi al proverbiale fatalismo, paralisi di ogni aspirazione al cambiamento?

Sarebbe fuorviante e frustrante cercare spiegazioni solo nell'ostinazione pervicace e incosciente. Forse ci si chiede perché milioni di persone continuino a vivere a Milano e in Lombardia, città e regione che i dati confermano tra le più inquinate d'Europa?

L'urbanizzazione delle falde del Vesuvio non è solo e tutta abusiva, in gran parte è frutto di leggi, licenze edilizie e condoni concessi dal dopoguerra a oggi, culminati dopo il terremoto dell'Irpinia, quando bisognava dare una casa agli scampati e dove si pensò di farlo? Sotto il vulcano.

Ignorata dalla grande città, ingannata da amministrazioni corrotte e ignave, tradita dalle stesse illusioni mal riposte del suo popolo, la «città vesuviana» è uno dei luoghi d'Italia dove si vive peggio.

La percezione del rischio legato al Vesuvio è schiacciata dal peso quotidiano della mancanza di lavoro, di cure sanitarie, di scuole, della possibilità di muoversi, infettata dall'onnipresenza della criminalità, insomma dalla desolazione che incombe sulla nostra modernità nelle sue facce piú estreme e ostili.

«Umilmente domando», scriveva Leopardi, «se la felicità dei popoli si può dare senza la felicità degl'individui».

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Franco Mosca, una piccola testa ricciuta da imperatore romano, ha libero accesso allo scavo non ancora aperto al pubblico, è un volontario appassionato, che legge lo scavo come una storia di suspense. Siamo ospiti della facoltà di Archeologia dell'Università di Tokyo, studenti e professori vengono a scavare nel mese di settembre.

Vent'anni fa un importante archeologo giapponese, Masanori Aoyagi, volle aprire una missione sul Vesuvio, l'obiettivo era trovare la casa dell'imperatore Augusto. Si rivolse al collega Antonio De Simone che sapientemente gli suggerí di scavare a Somma Vesuviana, in località Starza della Regina, dove sorgeva un'antica masseria reale, proprio sotto il campo di noci.

Siamo un piccolo drappello, Gerardo Iavino, Franco Mosca, Ciccio Salierno e io.

Scendiamo per una scala da cantiere, quindici metri sotto terra, davanti a noi si apre uno spazio enorme.

Da un lato un colonnato, due pareti con nicchie, un'arcata sorretta da pilastri e dall'altro, una parete decorata. L'architettura è sontuosa, absidi affrescate, pilastri in pietra vesuviana, colonne in marmi pregiati, greci e africani, alcune di un raro marmo nero, la volta decorata da un corteo di Nereidi e Tritoni e le piú belle statue dell'epoca augustea. Da questa stanza si accede a un'altra, di nuovo l'abside, uno stupendo pavimento a mosaico decorato con motivi geometrici e delfini che saltano fra le onde. Ora si sa che l'edificio fu costruito dopo l'eruzione del 79 d. C., forse nel 100, 110 d.C., nella prima età imperiale e che «con l'imperatore», come dice Franco Mosca, «ammesso che sia davvero morto da queste parti, non si sono mai visti».

Chi lo fece costruire doveva essere molto influente e potente: sono stati scavati finora tremila metri quadrati ed è emerso solo l'ingresso, un ingresso monumentale che fa pensare al preludio di uno spazio di migliaia di metri quadrati, grandioso come la villa di Piazza Armerina o la Villa Adriana a Tivoli, un parco con vari edifici, ognuno con una funzione diversa.


Una donna con veste greca, forse una divinità, è stata rinvenuta inaspettatamente a pochi metri sotto terra, mentre piú in profondità una rarissima statua di Dioniso adolescente alta un metro e sessanta, con il grappolo d'uva e un cucciolo di pantera in braccio. Come i camorristi? Che la loro sia una citazione? Chiedo a Franco. «E va buo', noi teniamo un problema, queste zone sono diventate la fonte delle cose piú brutte che stanno a Napoli, non vi dico la storia di Cutolo, ccà ce steva 'a camorra e ci starà ancora, ma non è un fenomeno cosí enorme come si dice. Questi luoghi stanno esprimendo cose incredibili, ogni volta che si tocca, la terra caccia n'ata cosa».

A ogni scempio la terra si vendica scoperchiando squarci di altissima civiltà.

«Dal fango indurito sporgeva il naso di Dioniso, lo scavo prosegui a mano, pioveva a dirotto, ormai era affiorata la testa e si continuò a scavare fino a notte fonda. La statua era per terra a pezzi. Nel timpano sul portale d'ingresso è rappresentato il flauto di Pan, l'amico di Dioniso. Mi segui?»

Si pensa a una villa romana del I secolo d.C. distrutta e sepolta per metà della sua altezza dall'eruzione del 472 d.C. nota come «l'eruzione di Pollena». Gli ultimi strati verso la superficie appartengono all'eruzione del 1631, ma i gradoni e il grosso del materiale di copertura hanno a che fare con quella di Pollena che negli anni Trenta non si conosceva. Ecco perché tutto fu ricondotto al 79 d.C.

I venti in quota soffiavano da sud a nord e l'eruzione arrivò fino a Nola, i documenti sono scarsi, ma si pensa che sia stata la piú violenta dopo il 79. L'edificio fu abbandonato e quello che vediamo oggi è piú o meno lo stato del giorno prima dell'eruzione del 472, siamo in presenza di un raro sito in grado di raccontarci cosa sia accaduto dopo l'eruzione di Pompei.

Scricchiolii. «Non preoccuparti, è l'escursione termica che fa muovere le impalcature, la sera fa piú freddo».

La scoperta della statua di Dioniso è la chiave di volta di questo luogo. Mentre altrove era scomparso, la statua ci dice che qui, fino a millecinquecento anni fa, Dioniso era ancora venerato. Con Costantino, nel 330 d.C. finisce la persecuzione dei cristiani e comincia quella dei pagani. Un secolo e mezzo piú tardi i templi vengono distrutti, le statue scompaiono per gli editti dell'impero, ma qui il culto sopravvive, vuol dire che il dio incute ancora un certo rispetto. Qualcuno avanza l'ipotesi che non fosse una villa ma un tempio pagano dedicato a Dioniso, il cui culto è continuato anche dopo l'eruzione: forse abitava qui una comunità potente che se ne fregava degli editti.

«Questo luogo deve ancora raccontare molte cose, ma già illumina le tradizioni. Gli archeologi non le conoscono, le usanze, ma noi sappiamo che Pan andava a caccia nei boschi con Dioniso, che suonava il flauto doppio. Qui si suona ancora e Ciccio è uno degli ultimi a fabbricarlo con le gemme di castagno». È l'uomo con il viso indio che ci accompagna in silenzio e per un momento mi sembra provenire anch'egli dal passato, un uomo estratto dagli scavi sul quale l'immaginifico Franco potrebbe costruire un'ipotesi di relazione tra i Romani e la civiltà Nazca.

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E invece la storia di Pomigliano nell'ultimo secolo è tutta nella fatica di emanciparsi dalla povertà dell'agricoltura, nello sforzo di trasformare le migliaia di Tonino 'O Stocco e di arrotini, impagliatori, cordai, potatori, funari, stagnini, sellai, spaccalegna, lattonieri, scalpellini, venditori di sugna, di fichi e di lupini, guarnamentari, cusetori, scarpari, ferraiuoli in operai metalmeccanici.

Il sogno del riscatto industriale cominciò ai primi del Novecento, quando il francese Alexandre Darracq apri a Napoli la filiale della sua azienda Automobili Darracq. In Italia non andò bene come in Francia e pochi anni dopo la mise in liquidazione. La comprò un gruppo di finanzieri lombardi, cambiandone il nome in Alfa - Anonima Lombarda Fabbrica Automobili. Poco prima della Grande guerra ne diventò azionista di maggioranza Nicola Romeo, un ingegnere nato a Sant'Antimo, vicino Napoli, ma vissuto a lungo in Belgio e a Milano e il nome della fabbrica diventò Alfa Romeo Milano. Dopo aver prosperato con le commesse belliche durante la Prima guerra mondiale, Romeo scelse Pomigliano d'Arco per realizzare la sua ambizione di produrre motori d'aereo, non piú di macchine, ignaro di quello che stava arrivando: la crisi della finanza mondiale del 1929. L'azienda fini alla Banca italiana di sconto e, una volta fallita di lí a poco anche la banca, nelle mani dell'Iri, l'Istituto di ricostruzione industriale creato dal Fascismo per rilanciare l'industria. L'Alfa Romeo ha accumulato molti debiti ma è famosa nel mondo, le sue automobili sportive, leggere, veloci, ardite, vincono le gare piú importanti con i piloti migliori, e i gerarchi fascisti se ne vantano.

È a questo punto che comincia davvero la storia dell'Alfa Romeo. L'Iri abbandona la politica delle industrie mal amministrate dalle banche per affidarle a privati, manager o tecnici che sappiano cos'è la produzione. A ristrutturare la fabbrica di Pomigliano è chiamato Ugo Gobbato, ingegnere veneto che viene dalle officine e ha un'esperienza internazionale, figura rara in quegli anni: si è laureato in Ingegneria in Germania, è stato direttore generale del Lingotto fino all'arrivo alla Fiat di Vittorio Valletta, ha studiato a metà degli anni Venti negli Stati Uniti l'organizzazione taylorista del lavoro, ha lavorato in Spagna ed è tornato da poco dall'Unione Sovietica dove ha impiantato e diretto per conto del governo guidato da Stalin la prima, gigantesca, fabbrica di cuscinetti a sfera prevista dal piano quinquennale.

Mussolini a Pomigliano posa la prima pietra della nuova fabbrica il 1° aprile 1939. Era un piccolo paese anonimo composto di contadini e di un pugno di famiglie proprietarie, d'un tratto divenne senza sospettarlo una pedina importante nella strategia militare del Fascismo che nonostante l'enfasi sulla ruralità, lo dirotta per sempre dalla sua vocazione agricola. L'Alfa Romeo è agli occhi del regime un investimento necessario per superare l'arretratezza bellica del Paese e assicurarsi l'indipendenza delle forniture aeronautiche.

Il ritmo impresso dall'entrata in guerra è forsennato, nel luglio 1939 si lavora già alle officine e alle scuole-officine, agli uffici, alla palestra, alle attrezzature per il dopolavoro degli operai. La fabbrica ha tre nuclei principali: la Produzione dei motori, la Produzione dei velivoli e il Centro leghe leggere. È suddivisa in piú edifici e d'estate tutti i reparti sono rinfrescati con l'aria prelevata dai pozzi artesiani sotterranei, canalizzata e forzata con un sistema di ventilazione. L'ingresso degli operai è vicino alla stazione della Circumvesuviana, da cui si snodano corridoi sotterranei che portano i lavoratori ai vari reparti, lasciando le strade in superficie libere per la circolazione dei materiali. Tutto si decide a Milano, ai vertici dell'Alfa Romeo: il potestà di Pomigliano non ha alcuna voce in capitolo, stenta perfino a raggiungere l'accordo sulle indennità da pagare ai contadini espropriati dei loro terreni per dar vita a una modernissima azienda agricola che fornisce prodotti alle mense delle fabbriche di Pomigliano e di Milano, con impianti di irrigazione, stalle con centinaia di bovini, allevamenti di conigli, maiali e polli. Con fatica il Comune strappa ai dirigenti dell'Alfa Romeo l'impegno ad assumere tra gli agricoltori locali una quota del venticinque per cento degli operai destinati alla scuola di avviamento.

Il 1° aprile dell'anno successivo, il 1940, uscirono dalle officine i primi motori assemblati. L'impianto contava 1260 macchine utensili e 6700 operai che arriveranno a 11000 nel pieno sviluppo della produzione, la metà della popolazione del paese. Intorno alla fabbrica, insieme al primo aeroporto militare del Sud d'Italia, l'architetto Alessandro Cairoli, trentenne, progetta una città che si aggiunge al vecchio paese con un disegno urbanistico che prevede le case per gli operai e gli impiegati, l'albergo per gli scapoli (molti degli operai specializzati e dei tecnici vengono da Milano), con barbiere e lavanderia interni, la scuola aziendale, lo stadio, il cinema, il teatro, la biblioteca e un asilo le cui linee, sulla pianta, ricalcano la forma del testone di Mussolini.

«Qui, proprio sotto i nostri piedi, sotto questo piazzale di cemento c'era la piscina olimpionica - ti rendi conto? - Era una progettazione unitaria, un unicum nell'industria pubblica italiana e nel Sud poi», mi dice Nino Leone. Parente di Giovanni il presidente? Si, stesso ceppo: loro erano tra le famiglie di latifondisti di Pomigliano.

Mi è venuto a prendere alla stazione della Circumvesuviana e ora scivoliamo con la sua Smart come lenti pesci sul fondo marino per le vie intitolate a celebri aviatori delle Palazzine, il quartiere residenziale, nato tra il 1942 e il 1943 a una certa distanza dall'ingresso della fabbrica per controllare meglio le maestranze in caso di rivolte. Cinque strade, otto stecche di case a tre piani, seicento appartamenti. A destra le palazzine degli operai specializzati di novanta metri quadrati, a sinistra quelle degli operai semplici di settanta, democristiani i primi, comunisti i secondi, e all'inizio di ogni strada le case più pretenziose degli impiegati, centoquaranta metri quadrati con ampi balconi tondi tipici degli anni Trenta.

«È un bellissimo esempio di razionalismo, un'architettura non mortificante. All'interno dei cortili ogni famiglia aveva un orto recintato di novanta metri quadrati che dava agli operai l'idea di un legame ancora vivo con la campagna».

Cairoli si ispirava ai complessi residenziali popolari degli anni Venti e Trenta, le cosiddette Siedlung, colonie, costruite nel verde in Germania, durante la Repubblica di Weimar e in Olanda. In soli quattro anni, con rigore geometrico, realizzò il piano urbanistico e sociale di una comunità-fabbrica, disegnando dai capannoni alle case, dallo stadio alle sedie e alle scrivanie dei dirigenti.

«Io mi emoziono ancora a pensarci. È incredibile che un architetto della sua levatura e lungimiranza, e cosí giovane, sia scomparso dalla scena subito dopo la guerra. Si spiega solo con una vera damnatio memoriae. La stessa subita dall'altro genio dell'Alfa, Ugo Gobbato».

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Pomigliano resta un luogo a sé tra i suoi fratelli vesuviani, un paese che ha visto prima degli altri i palazzi soffocare la terra, la fabbrica inghiottire migliaia di uomini, gli abitanti triplicare, poi la fabbrica risputare gli uomini che aveva inghiottito e prepararsi ad andarsene. Un paese dove il parroco scende in piazza e si dichiara contro la politica di divisione dei lavoratori perpetrata dalla Fiat, le mogli degli operai chiedono che la Fiat restituisca i miliardi avuti dallo Stato, i vecchi operai dell'Alfa Sud sono diventati punti di riferimento nelle lotte politiche e civili dei paesi vicini, gli Zezi cantano ancora «nun te fa pecora, perché 'a Fiat ti mangia».

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Quello di guida vesuviana è oggi un mestiere ambito, a numero chiuso. Sono solo quaranta le guide accreditate dall'Ente Parco del Vesuvio, molte di loro figli o nipoti d'arte, tra le meglio pagate d'Europa, perché si spartiscono una percentuale dei ricavi dei biglietti.

Il loro decano, Raffaele Matrone, una bella faccia da attore americano di film western, accesa da occhi verdissimi, ha passato la vita appollaiato ai bordi del cratere in un piccolissimo rifugio, con annesso banco dei souvenir, vino del Vesuvio e l'immancabile caffè. «Noi facciamo solo quello buono, se volete quello buono, allora siete nel posto giusto».

Un prozio di Raffaele, l'ingegnere Gennaro Matrone, «invece di godersi in pace la rendita dell'uva e delle albicocche, volle misurarsi con il Vesuvio», come scrisse il Maiuri: in soli due anni costruí di tasca propria la prima strada che saliva al Vesuvio da Boscotrecase, strada Matrone, travolta dalla lava nel 1944.

«Il Vesuvio lo si è sempre conosciuto, le generazioni prima di noi ci venivano per la lepre, i cardellini, le fascine, ma non si avventuravano mai fino al cratere. Noi scendiamo e saliamo a occhi chiusi, io non riesco a stare piú di una settimana lontano da qui, non le dico che parlo con le pietre vulcaniche, ma quasi».

L'unico impianto di risalita mai costruito al mondo su un vulcano attivo fu la funicolare del Vesuvio, aperta al pubblico il 10 giugno del 1878. L'idea venne al finanziere e imprenditore Ernesto Emanuele Oblieght, ebreo di origine ungherese-croata che per primo intuí l'affare della raccolta di pubblicità sui giornali, guadagnando moltissimo. Ci vollero sei anni e una cifra ingente, quattrocentomila lire, per varare la funicolare progettata dall'ingegner Olivieri, due vagoni, «Etna» e «Vesuvio», da otto persone l'uno, un binario per la salita e uno per la discesa, un modernissimo motore a vapore. Nonostante la celebre canzone Funiculí funiculà, scritta qualche tempo dopo a scongiurare le ire del Vesuvio per quell'irruzione tecnologica sulla sua schiena, la funicolare non ebbe mai il successo sperato: era difficile raggiungerla da Napoli e fu violentemente osteggiata dalla popolazione locale e dalle guide che arrivarono a incendiare una stazione, a tagliare i cavi e a spingere i vagoni giú da un burrone per riprendersi la loro fetta di guadagno.

Dopo dieci anni Oblieght la cedette al Thomas Cook Group che nel 1904 decise di costruire una funicolare più moderna, con motori elettrici, nuove carrozze piú capienti e un binario raddoppiato a metà percorso.

Il 7 e l'8 aprile del 1906 il Vesuvio eruttò, seppellendo sotto una coltre di cenere alta venti metri la stazione inferiore e superiore, le attrezzature, i macchinari e le vetture.


La guida vesuviana Umberto Saetta, a dispetto del suo nome sa adattarsi ai passi di chi lo accompagna e insieme rispondere alle mie infinite domande, quando mi è davanti o di fianco, perché ogni pochi metri si allontana per trafiggere con il bastoncino da cammino i pezzi di plastica sparsi ai bordi del sentiero e infilarli con consumata abilità in un'apposita tasca dello zaino senza mai levarselo dalle spalle. Con lo stesso bastoncino indica il lichene Stereocaulon vesuvianum, la carota selvatica e la centaurea endemica del Vesuvio, alcune delle venticinque specie di orchidee vesuviane, le pietre forate dai gas delle eruzioni, una roccia a forma di chaise longue affacciata al vastissimo panorama, su cui di tanto in tanto si riposa, i massi in bilico in alto sulle nostre teste che mossi da una scossa sismica potrebbero precipitarci addosso da un momento all'altro.

«La camorra quando credi che sia nata? Con l'Unità d'Italia, è là che si struttura: per far entrare Garibaldi a Napoli c'era bisogno di eliminare la polizia borbonica, il prefetto di polizia Liborio Romano accompagna Francesco II, l'ultimo re borbone, a Gaeta e affida la sicurezza della città ai piú forti capobastone dell'epoca. Ma i guaglioni dicono "io non vengo a fare il poliziotto per senzaniente" e cosí nasce la "tassa 'e Zi Peppe", il dazio nel porto piú grande d'Italia, in memoria di Garibaldi. Era nata la "Cavourra", come dice un professore di qui, l'Italia nasce su un patto scellerato tra la malavita e la nuova politica. Il Nord non esisteva, economicamente era zero; Napoli era molto piú ricca.

«Mi chiedi da dove venivano tutti questi soldi? Hai mai sentito parlare di Mongiana, in Calabria? I Borbone avevano fatto costruire una grandissima acciaieria sopra una montagna, di cui sfruttavano l'acqua. E di San Leucio? Era una comunità secondo lo stesso modello di Olivetti, troppo pericolosa per lasciarla attecchire nel Meridione».

Umberto Saetta libera i falchi, disseta gli istrici, si porta a casa i gheppi feriti, conosce tutte le specie di orchidee, ama e rispetta il Vesuvio come un luogo al quale appartiene intimamente. È un uomo delicato e appassionato, dopo gli incendi di luglio per giorni ha raccolto e portato chili di frutta agli animali selvatici sopravvissuti.

Eppure non sfugge a quel «loro» che ricorre sfuggente e cangiante in ogni suo pensiero.

«Non siamo una comunità coesa perché se lo fossimo diventeremmo un problema. Ci hanno voluto tenere nell'eterna divisione cosí siamo piú facilmente dominabili». Chi lo ha voluto? «Politiche, interessi vari».

Quando dico che gli Alleati hanno filmato l'eruzione del 1944 si rivolta. «Quali Alleati?» Gli americani e gli inglesi. «Veramente erano i tedeschi i nostri alleati, gli americani sono arrivati come invasori, non a liberarci». Preferivi i tedeschi? «Certamente no, ma non edulcoriamo la storia. Noi eravamo alleati dei tedeschi, stop. Gli americani sono arrivati perché ci siamo arresi». Ma hanno liberato l'Italia. «Gli americani hanno liberato l'Italia? Guarda io sono un antifascista prima di essere antinazista, ma... diciamoci tutta la verità, se non ci fossimo arresi non sarebbe successo niente, a Napoli siamo stati i primi a cacciare i tedeschi e salutando come nostro costume i nuovi, abbiamo gridato "è morto 'o Rre, Viva 'o Rre"».

Ecco il borbottio borbonico, gli americani come i piemontesi, l'idea che il loro arrivo non fu soltanto un'invasione o una sconfitta militare, ma una catastrofe di proporzioni tali da rappresentare l'origine di tutti i mali presenti. A dimostrazione che l'Unità d'Italia ha interrotto il fulgido avvenire del ricco e progredito Regno delle Due Sicilie: i collezionisti di primati borbonici snocciolano la prima ferrovia italiana, il primo ponte sospeso in ferro, il primo museo al mondo, Capodimonte; e poi la prima nazione a fare la raccolta differenziata e a costruire in modo antisismico, il primo osservatorio astronomico, le prime cattedre di astronomia ed economia, la prima assistenza sanitaria gratuita, il primo sistema pensionistico... Con i Borbone, recita il manifesto del Movimento neoborbonico, per l'ultima volta i meridionali sono stati una nazione, fondata da Federico II di Svevia: un popolo amato, rispettato e temuto in tutto il mondo. Rispetto e capacità di incutere timore (l'amore, lasciamolo da parte) è quanto elargiscono boss locali, che sanno anche offrire feste principesche e matrimoni regali. Proprio quando il Regno delle Due Sicilie si stava trasformando in un grande Stato moderno, l'opera delittuosa delle sette che governavano la Francia e l'Inghilterra e la brama di conquista dei Savoia ne distrussero ricchezze e tradizioni.

La crescente vigoria dei neoborbonici potrebbe offrire un'occasione per tutti, non solo per gli studiosi, di ripensare alle radici di molti mali odierni, all'Unità malriuscita, all'insipienza dei Savoia che non sapevano cosa farsene di quel Sud appena conquistato, all'acquiescenza alle vessazioni del potere. Ma questo solo a patto che si accettasse di contemplare gli altrettanto straordinari primati negativi di cui si tace: punte del novanta per cento di analfabetismo in Sicilia e di poco meno nel Regno di Napoli; ospedali cosí fatiscenti che gli stessi poveri rifiutavano di ricoverarsi; solo tre strade postali e la stragrande maggioranza dei paesi non collegati tra loro; le ferrovie, dopo l'esordio della Napoli-Portici, erano ferme a centoventicinque chilometri in tutto il Regno.

Il regime borbonico difendeva gli interessi dell'esiguo ceto dominante: la famiglia reale, l'aristocrazia di sangue e l'alto clero, poche persone che possedevano la quasi totalità delle terre. L'economista Lodovico Bianchini documenta come le spese del bilancio statale borbonico fossero assorbite principalmente dalle spese militari e di repressione: forze armate, esercito, marina, polizia, lo spauracchio erano le rivolte, piú che il conquistatore esterno. La seconda voce piú importante era quella per il pagamento del debito pubblico, sommando queste sole uscite si superavano già i 16 milioni di ducati sui circa 20 del totale. Il residuo aveva come principale voce le spese della Real Casa: alla corte di Ferdinando IV ammontavano al doppio di quelle per le opere pubbliche incluse le strade, il sistema scolastico, le pensioni, gli orfanotrofi e il «monte delle vedove» messe insieme.

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Il Vesuvio è uno dei pochi vulcani a recinto della Terra (ce n'è uno anche su Marte), nato all'interno di un edificio precedente, il monte Somma. La storia delle eruzioni del Vesuvio si può distinguere a grandi linee in tre cicli: un'attività antica fino all'eruzione pliniana del 79 d.C., un'attività intermedia compresa fra il 79 e il 1631 e un'attività successiva che termina con l'eruzione del 1944. Potrebbe seguire un periodo di riposo secolare, ma se il 1944 fosse invece un'anomalia all'interno del ciclo, una nuova eruzione potrebbe avvenire da un momento all'altro.

Ema, «eruzione massima attesa»: la dicitura comparve nel primo piano di emergenza redatto dalla Protezione civile nel 1995, per indicare l'eruzione considerata come la piú probabile in un'eventuale ripresa di attività del Vesuvio, non la peggiore delle eruzioni, ma la peggiore dell'ultimo millennio, quella del 1631, quando il Vesuvio esplose dopo cinque secoli di silenzio, classificata come subpliniana, un grado meno catastrofica della pliniana del 79 d.C.

Nessuno tra gli scienziati è tuttavia in grado di escludere che si possa verificare un'eruzione di minore potenza, solo effusiva e piú circoscritta, o di maggiore potenza. La statistica resta un artificio tutto umano per cercare di afferrare il funzionamento erratico della natura i cui processi ci appaiono regolati, per cosí dire, dal caos, o dal caso, troppe le variabili in gioco per prevederle attraverso modelli fisici e matematici.

I vulcanologi chiamano la legge che presiede alla distribuzione delle eruzioni «legge di potenza»: le grandissime eruzioni, quelle che si conoscono dai tempi geologici, e possono verificarsi a distanza di millenni, si contano sulle dita di una mano: Yellowstone, Santorini, Ignimbrite Campana, Tufo giallo napoletano, la piú recente, quindicimila anni fa. Rarissime ma catastrofiche, formano le caldere e producono effetti simili all'impatto di un meteorite. L'eruzione dell'Ignimbrite Campana, che trentanovemila anni fa diede origine alla caldera dei Campi Flegrei, è considerata la piú violenta degli ultimi duecentomila anni. Una colonna di ceneri e gas alta piú di quaranta chilometri si alzò nel cielo e dopo alcune ore collassò inondando con una nube infuocata tutto il territorio circostante fino a settanta chilometri di distanza. Gran parte della piana campana fu sepolta da una coltre di tufo alta fino a cento metri, mentre le ceneri piú sottili trasportate dai venti arrivarono in Russia e, bloccando nell'atmosfera i raggi solari, provocarono un vero e proprio «inverno vulcanico», una riduzione della temperatura terrestre di diversi gradi centigradi che in Europa oscillò da sei a nove gradi. Secondo alcune ipotesi, difficili da verificare, la mancanza di fonti di sostentamento e la desolazione del territorio furono la causa dell'estinzione dell'uomo di Neanderthal che aveva resistito a glaciazioni e disastri naturali.

Le eruzioni di media potenza sono un discreto numero e molto piú frequenti le piccole e piccolissime.

Da quando il Vesuvio è tornato nello stato di quiescenza, dopo il 1944, non si sono piú registrati parametri che possano far pensare a una riattivazione.

[...]

«Dire che prima o poi il Vesuvio esploderà è come dire che prima o poi pioverà, ovviamente la pioggia è molto piú probabile, ed è probabile che l'eruzione sarà catastrofica, cosí come è probabile che non lo sarà: è quasi certo che avverrà un'eruzione, ma quando e che tipo di eruzione non abbiamo le conoscenze scientifiche per poterlo dire». Qualsiasi previsione sull'evoluzione dei precursori e sulla tipologia e intensità della possibile eruzione, data la forte dipendenza del risultato statistico dai modelli adottati, non può che essere un azzardo, un'opinione che può variare da ricercatore a ricercatore.

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Che cosa cercano gli scienziati di oggi nelle viscere del Vesuvio?

L'energia dei vulcani deriva in gran parte dalle condizioni termiche delle camere magmatiche.

La temperatura del magma è un parametro fondamentale per comprenderne la mobilità, piú è alta e piú il magma può risalire con una certa velocità, ma allo stesso modo può arrestarsi in profondità, un fenomeno molto probabile se si osserva il comportamento di molti vulcani del pianeta.

Perché un vulcano erutti, il magma che si accumula deve aprirsi un passaggio verso la superficie fratturando le rocce soprastanti. Mentre risale formando il condotto vulcanico, può provocare terremoti, rigonfiamenti del suolo, variazioni della composizione chimica e della temperatura dei gas delle fumarole, minime variazioni del campo microgravimetrico, quei segnali precursori che gli strumenti sofisticati a disposizione degli scienziati dell'Osservatorio vesuviano, nel corso di campagne periodiche, sono in grado di cogliere.

Altri parametri importanti sono la pressione e la composizione del magma: «Acqua, calore e pressione sono gli agenti necessari per la genesi delle lave, lo sono anche per la produzione di tutti gli altri fenomeni di un vulcano», scriveva Giuseppe Mercalli.

È importante capire quanto sia effettivamente allo stato fuso e quanto invece no, perché sono informazioni che producono scenari diversi.

Le grandi camere magmatiche hanno sempre una percentuale di materiale fuso piuttosto bassa, all'interno della crosta terrestre: anche a profondità di dieci chilometri, non si verificano mai le condizioni fisiche perché il magma sia tutto allo stato fuso. È stato dimostrato da molti studi pubblicati su «Nature» e altre importanti riviste, addirittura si ipotizza che nel corso di quella che si immagina possa essere la vita di una camera magmatica, lunga alcune centinaia di migliaia di anni, il magma generalmente è fuso, cioè a 1000/1200°, in percentuali dell'uno o due per cento ed è solo il magma fuso, quindi mobile, che è in grado di attraversare le fratture della crosta terrestre e arrivare in superficie.

Con pazienza e chiarezza il geologo Stefano Carlino mi spiega i rudimenti della fisica vulcanica.


Come si fa a individuare il magma sotto la superficie terrestre?

Si può ricorrere a due metodi: le perforazioni che arrivano però a pochi chilometri di profondità, tranne in rari casi, in Islanda, per esempio, in cui sono riusciti a scendere oltre; oppure il metodo piú efficace è lo studio della velocità delle onde sismiche all'interno della crosta terrestre. A questo scopo si sfruttano i terremoti naturali o si generano terremoti artificiali provocando nelle vicinanze del vulcano, entro pozzetti a poca profondità, delle esplosioni con la dinamite. Il problema di questi esperimenti è sia di risoluzione spaziale, nel senso che le tomografie sismiche, che funzionano un po' sullo stesso principio su cui si basa l'ecografia, hanno una certa lunghezza d'onda e sono in grado di vedere solo oggetti dell'ordine di alcuni chilometri, sia di risoluzione laterale, per cui non si riesce a indagare una superficie vasta, ma solo una piccola fetta di quello che c'è effettivamente sul vulcano.

Tenendo conto di questi limiti, si è visto che c'è una zona di onde sismiche a bassa velocità, a circa otto chilometri di profondità, sotto il Vesuvio, dello spessore probabile di un chilometro e questa zona è stata interpretata come un accumulo di magma, una grande camera magmatica.

Anche sotto i Campi Flegrei è stata trovata una zona di onde sismiche a bassa velocità, affine alla prima, e il passo successivo è stato quello di dire che i due grandi bacini magmatici sono collegati, cioè che tutta la zona vulcanica, Ischia, Campi Flegrei, Vesuvio e parte della piana campana, quindi diversi chilometri quadrati, sarebbe un grande bacino magmatico. Si tratta di un'ipotesi avanzata da alcuni ricercatori e per ora non ancora provata da dati scientifici.

Per acquisirli si dovrebbe procedere a nuovi esperimenti di tomografie sismiche, le esplosioni artificiali, al costo di centinaia di milioni di euro e la mancanza di finanziamenti è cronica. La ricerca dei vulcanologi e dell'Osservatorio non è come quella della scienza medica: per ottenere finanziamenti deve dimostrare l'utilità di un simile esperimento ai fini di una valutazione del rischio, dimostrare di saper prevedere le eruzioni.


Anche il Vesuvio si assoggetta a un tempo piú abissale del suo, quello dei movimenti della Terra. Per smuovere il magma dalle zone profonde dove si accumula non bastano variazioni di temperatura, pressione, fluidità del magma: ci vogliono forze ulteriori che lo spingano in superficie.

Sono le forze tettoniche legate allo scontro tra la placca africana a sud e la placca euroasiatica a nord: l'Africa che si infila sotto la Calabria, metafora geologica del grande fenomeno antropologico che sono le migrazioni nel nostro secolo. Una subduzione parziale, un centimetro all'anno da milioni di anni, che genera due fenomeni osservabili: da un lato la formazione della catena degli Appennini e delle Alpi e dall'altro una rotazione in senso antiorario che produce l'espansione del bacino del Tirreno, come fosse un oceano in formazione, un proto-oceano.

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Le centoventidue ville vesuviane hanno oggi settecento proprietari, una quarantina sono in buono stato di conservazione, alcune acquistate da assi pigliatutto come Corrado Ferlaino e trasformate in alberghi, molte appartengono al demanio, la maggior parte agonizzano ignorate anche dagli speculatori, ma non dai gabbiani, coppie ferocissime di recenti estimatori che dall'alto delle palme o dei tetti spadroneggiano, scacazzano e si avventano su gatti randagi e passanti, pur con esiti diversi. L'Agenzia del demanio ha indetto un bando per l'affitto da sei a cinquant'anni di Villa Favorita a chi fosse intenzionato a restaurarla e offrirle un futuro. Il bando è andato deserto. Di famiglie che abitano una villa vesuviana ne sono rimaste pochissime, De Gregorio, Tufarelli, Prota, e tutte molto indaffarate ad alleggerire il fardello che grava sulle loro spalle. Come quei giocolieri che per mantenere i piatti in equilibrio su altrettanti bastoncini imprimono, ora all'uno ora all'altro, un lieve tocco, gli eredi tengono in piedi le loro ville avite nel turbine di una spietata concorrenza con le false ville vesuviane, di solito le piú in alto sul Vesuvio, per accaparrarsi feste e occasioni di assembramento di ogni risma, ma piú di ogni altra i matrimoni, opulenti per tradizione, enfatizzati di rinforzo dall'edonismo televisivo e dall'esibizionismo malavitoso, eletti a festa per antonomasia, riedizione della settecentesca economia del lusso o tenace sopravvivenza di potlatch trasmigrata dalle coste settentrionali del Pacifico alle coste meridionali dell'Europa in versione inversamente proporzionale allo status dei nubendi.

«No», scriveva Alexandre Dumas in un esilarante libro sulla Napoli degli anni Trenta dell'Ottocento, dal titolo Il corricolo , «il popolo napoletano non è infelice, perché i suoi bisogni sono in armonia con i suoi desideri [...] La sua nudità, che noi prendiamo per sofferenza, è al contrario un godimento nel clima ardente in cui il sole lo veste del suo calore [...]. Chi è infelice a Napoli è l'aristocrazia, che, con poche eccezioni, è in rovina, come l'abbiamo detto a proposito della nobiltà siciliana, per l'abolizione dei maggioraschi e dei fidecomessi; è la nobiltà che porta grandi nomi e che non ha piú di che cosa indorarli, che possiede palazzi e lascia che vengano venduti i mobili».

Mettiamoci anche l'enfiteusi, mi spiega la marchesa Federica de Gregorio Cattaneo di Sant'Elia, ovvero il diritto reale di godimento di un bene altrui, retaggio giuridico feudale che ha ridotto drasticamente i moggi di terra, chi ne aveva cento se ne ritrova dieci e la villa al centro assediata dai nuovi quartieri. Villa Giulia, la villa vesuviana della famiglia del marito Leopoldo, è ormai soffocata dal quartiere popolare di Barra, alla periferia nord di Napoli, dove tuttavia, assicura la marchesa, da antistato efficiente qual è, la camorra mantiene l'ordine e non si vede in giro una prostituta, un drogato o un nero. La costruí Luigi Vanvitelli, «1761 L.V.F.», si legge in un'incisione sul portone, per conto di don Domenico Cattaneo Della Volta, principe di San Nicandro, precettore del futuro re Ferdinando che aveva otto anni, «'o rre piccirillo», lo chiamava il Vanvitelli, quando il padre Carlo dovette lasciare Napoli per assumere la corona di Spagna. Nella Storia del Regno di Napoli Benedetto Croce descrive don Domenico Cattaneo come «famoso per la sua ignoranza e piú ancora per l'amicizia che professava all'ignoranza, persuaso che ai gentiluomini, e al sovrano dei gentiluomini, convenisse coltivare unicamente le arti cavalleresche, cioè gli esercizi del corpo, l'equitazione, la guida dei cocchi, la caccia e i festini e le partite di campagna, nelle quali dell'abilità acquistata in tali arti si poteva dar prova» e piú fedele al modello a cui lo aveva plasmato l'aio, Ferdinando non poteva crescere.

Di settecentesco la villa non ha piú quasi niente, tutto distrutto da un'ava piú vicina, Giulia Cattaneo, tra le rare nobildonne napoletane a non disdegnare i Savoia. Divenutane subito dama di corte, chiamò a rinnovare la villa l'architetto Nicola Breglia, allora di moda a Napoli, che intervenne secondo il gusto eclettico dell'epoca, talmente eclettico che in onore di Ismā`īl Pascià, ospite di Villa Favorita, comparvero perfino delle turcherie.

E sí che nello stemma del casato sono inscritte mezze lune accappottate, ovvero a testa in giú, per ricordare l'avo condottiero che a Lepanto vinse i Turchi: le guardiamo a testa in su, ricevuti a palazzo, quello di Napoli, nel corso del tour in cui la padrona di casa illustra per gli ospiti le stanze.

Lei conosce alla perfezione la storia della famiglia di suo marito, osservo.

Con un'alzata di spalle la marchesa minimizza, cosa sarà mai ricordarsi di un paio di avi per un ingegnere informatico come lei.

Federica de Gregorio Cattaneo, cinquantenne vivacissima e pennellata dal sole in ogni poro, è delegata del Regno, un regno che non c'è da un numero di anni superiore a quelli della sua durata, ma di cui molti aspettano il ritorno. Centocinquantasette anni sono poca cosa per famiglie la cui origine si perde in un passato lontano: il tempo della nobiltà, come sangue troppo denso, non scorre, è paziente, secolare, abituato a sacrificare le esistenze individuali a quelle dinastiche.

L'attesa millenaristica si lascia amabilmente ingannare da feste, cerimonie, celebrazioni, beatificazioni, raduni caritatevoli, balli, rappezzi incessanti delle proprietà di mare, di campagna, di città, visite di Borboni, infanti ottuagenari delegittimati e bambini carichi di titoli come bestie da soma, figli primogeniti e ultrogeniti, bastardigie, ordini militari cavallereschi talmente risalenti da arrivare a Costantino e al suo in hoc signo vinces, dispute fra cugini per chi sarà il nuovo re delle Due Sicilie, don Carlo o don Pedro, facce larghe dagli zigomi gonfi, lontane dai lunghi musi da levrieri degli antenati borbonici, dispute piú domestiche e quotidiane nelle famiglie locali, ma altrettanto atemporali: un mondo caparbio e immaginario su cui il sole non tramonta mai e abbronza feroce in tutte le stagioni dell'anno.

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