Autore Moni Ovadia
Titolo Un ebreo contro
SottotitoloIntervista a cura di Livio Pepino
EdizioneAbele, Torino, 2021 , pag. 128, cop.fle., dim. 12x17x1 cm , Isbn 978-88-6579-241-4
LettoreLuca Vita, 2021
Classe biografie , teatro italiano , religione , paesi: Israele









 

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Indice


   7  I.   Ebreo per scelta

  26  II.  Musica, teatrante, saltimbanco

  50  III. Popoli dell'esilio: ebrei, rom, migranti

  82  IV.  La politica

 104  V.   Palestina e altre polemiche

 126  VI.  Post scriptum


 

 

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Pagina 7

I.
Ebreo per scelta



Comincio azzardando una presentazione in pillole. Moni Ovadia: ebreo, musica, teatrante, sempre dalla parte degli ultimi, spesso controcorrente, riconoscibile anche per la sua inconfondibile kippah. Possiamo partire da qui? È una sintesi in cui ti riconosci?

Più che un identikit può essere una guida per la nostra conversazione. Ma devo correggere un errore.

Ti ascolto, pronto a fare ammenda.

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Pagina 16

Questo è ciò che ha cominciato ad affascinarmi. Poi è seguita l'ermeneutica dei grandi maestri di cui ti ho parlato che mi hanno aperto nuovi orizzonti nella direzione dell'universalismo. Pensa, c'è una narrazione chassidica che si chiama «l'elogio dell'ateismo». Nientemeno! In questa narrazione c'è un maestro (un rabbi) che si interroga: «Dio ha creato tutto. Perché mai ha creato l'ateismo?». E si spacca la testa alla ricerca di una risposta. Ed ecco l'illuminazione: perché l'ateismo può spianare la strada a un atto di pietà. «Se viene da te un uomo malato, perseguitato, povero, disperato e ti chiede aiuto, non fare come i bigotti, non dirgli di mettere le sue pene nelle mani di Dio, ma comportati come se Dio non esistesse e non fosse mai esistito, come se ci fosse una sola creatura in tutto l'universo che può aiutare quel disgraziato: tu». Così - spiega il maestro - ti si può chiedere anche di saper diventare ateo (senza Dio) per assumerti la responsabilità dell'altro. Ci sono nella tradizione chassidica degli insegnamenti di una grandezza, di una profondità che lasciano senza parole. Pensa al carattere rivoluzionario di un'impostazione nella quale il primato, l'aristocrazia di un movimento non è dei sacerdoti ma dello schiavo, dello straniero, del meticcio. Non lo dico io che sono matto o visionario. Tutto questo sta nella migliore cultura dell'ebraismo. C'è una descrizione...

Continua, ti seguo.

C'è una descrizione illuminante di un grande rabbino americano, che è stato anche un romanziere di successo, Chaim Potok. Nella sua Storia degli ebrei questo rabbino scrive che a seguire Mosè fu una banda terrorizzata e piagnucolosa di asiatici male in arnese, israeliti discendenti di Giacobbe, accadi, ittiti, mesopotamici, transfughi egizi e soprattutto una vasta massa di habiru, termine proto sinaitico che indicava delinquenti, ruffiani, contrabbandieri, tagliagole. Questi erano gli ebrei che seguirono il profeta balbuziente. Dove trovi una simile elezione dal basso? La ritrovi in Gesù di Nazareth, l'ebreo Gesù di Nazareth, secondo cui gli ultimi saranno i primi e in ogni caso sono "beati". E, attenzione! Il termine "beato" in ebraico (ashrei) rimanda sì alla felicità ma, secondo André Chouraqui (un grande scrittore e filosofo, ebreo algerino, che ha tradotto in francese la Bibbia, i Vangeli e anche il Corano), anche al cammino, alla marcia, dunque fa riferimento a una sorta di felicità dinamica. Un concetto rivoluzionario, che i romani non potevano accettare... Ecco, questi sono i riferimenti del mio essere ebreo. E mi inducono a continuare, rapsodicamente, come so e posso, i miei studi. Scoprendo sempre nuove cose. Così recentemente ho trovato un'osservazione formidabile di Lévinas. Questa: «La filosofia parla greco, l'etica parla ebraico». E naturalmente Lévinas propone l'etica come filosofia prima.

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Pagina 34

[...] Uno spettacolo che «sa di steppe e di retrobotteghe, di strade e di sinagoghe» e che propone «il suono dell'esilio, la musica della dispersione», in una parola della diaspora.

Effettivamente la commistione di cui parli è unica.

Sì, e in essa assume un rilievo particolare un elemento che ho sviluppato molto. Quello dell'umorismo ebraico, soprattutto yiddish. Ci sono diverse forme di umorismo ebraico, ma quello della diaspora, l'umorismo yiddish, è del tutto particolare. Come diceva il direttore del teatro yiddish di Tel Aviv, il mio amico Shmuel Atzmon: «Israeli humor is for the guts, yiddish humor is for the soul and the mind» (L'umorismo israeliano è per le budella, l'umorismo yiddish è per l'anima e la mente). Vedi, l'umorismo yiddish è un umorismo sull'orlo dell'abisso. Ridi mentre ti stanno perseguitando. È lo strumento per riuscire a mantenere la tua vitalità e la tua intelligenza. L'umorismo yiddish può fare ridere molto ma è uno strumento per fare pensare. Un esempio classico è quello del vecchio ebreo, in un'Ucraina occupata dai nazisti, tutto sudicio, avvolto in un cappotto sdrucito, coperto di giornali per resistere al freddo infame, il sudiciume in tutte le rughe della faccia, con quell'aria da ebreo propria della propaganda antisemita, che incrocia un ufficiale nazista il quale vede in lui tutto quello che ha imparato a odiare. Chissà perché l'ufficiale, invece di colpirlo, di sparargli, viene fuori con una parola di odio sferzante come una revolverata: «Porco». Al che il vecchio ebreo si inchina con sussiego e rialzandosi risponde: «Onorato, io mi chiamo Rabinovich». È un umorismo che può diventare persino metafisico o raggiungere una raffinatezza dolorosa e comica insieme. Come quella del povero ebreo che avvisa un ricco mercante, anch'egli ebreo, che sta arrivando un pogrom, che arrivano i cosacchi e alla reazione infastidita e spocchiosa del mercante («Che me ne frega a me che ce l'ho passaporto russo») risponde sorridendo: «Ma quelli non picchiano su passaporto, picchiano su faccia».

Certo è un umorismo particolare. Non saprei nemmeno se definirlo tale.

È questa fragilità che si eleva a lanciare al carnefice un ultimo appello, per dirgli di non essere così stupido, di salvarsi dalla sua idiozia. Sulle storielle yiddish del periodo sovietico io ho scritto anche un libro: Lavoratori di tutto il mondo, ridete. Ce ne sono migliaia. Come quella di Krusciov, allora primo segretario del Partito comunista, che va a visitare una fattoria dove allevano maiali. Essendo un contadino, Krusciov si mette a giocare con le scrofe, prende i maialini e li gira, cavalca i maiali. Così nel servizio fotografico che arriva alla Pravda c'è sempre Krusciov fra i maiali. In redazione non si sa che cosa fare. «Che didascalia mettiamo?». Uno dice: «Beh, scriviamo: il compagno, il primo segretario Nikita Sergeevic Krusciov e i maiali». «Ma che, vuoi andare in Siberia? Idiota!». «Allora scriviamo: Fra i maiali». «No!! Per l'amor di Dio». «Con i maiali». «No, no, non ci siamo». Si decide allora di sentire Rabinovich, l'ebreo sospetto di trozkismo relegato nell'archivio. «Rabinovich, ci devi salvare. Queste sono le fotografie del servizio che abbiamo su Nikita Sergeevic. Dacci una didascalia, non possiamo mettere la foto senza». Rabinovich pensa, rumina e dopo un po' propone una didascalia che viene accolta con entusiasmo da tutta la redazione. La didascalia è: «Il terzo da sinistra è il compagno Krusciov».

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Pagina 38

Il tuo registro stilistico è chiaro. E non mi sorprende che abbia un che di unico nel nostro panorama teatrale. Ma torniamo a come è stato accolto.

In Italia abbiamo sempre avuto un grande successo. Oylem Goylem, per esempio, è stato ripreso e rilanciato anche sulle reti Rai, nonostante la sua complessità. Una teatrologa italiana, Paola Bertolone, ha persino scritto un libro, Moni blues, in cui racconta questo mio stile. Alcuni spettacoli hanno avuto un successo unico. Soprattutto in Italia. Anche all'estero non sono mancati i successi, a volte straordinari ma senza un riconoscimento stabile perché c'è stata sempre una certa diffidenza: «Cosa c'entra un italiano con la cultura yiddish?», dicevano. I pregiudizi esistono dappertutto.

Puoi essere più esplicito?

Ti faccio un esempio. Un mio amico americano, Ken Shuman, critico d'arte del New York Times, scrisse un lungo articolo su di me e sul mio teatro. Ebbene, i suoi lettori gli scrivevano: «Yiddish theatre in Italy: does it make sense?». Per loro l'Italia era, ed è, solo commedia dell'arte. Io ho sfondato il pregiudizio, al punto che il fondatore del teatro yiddish israeliano, Shmuel Atzmon, mi ha definito il più importante al mondo nel campo della cultura yiddish, ma il mio essere italiano mi ha penalizzato all'estero. Una volta negli Stati Uniti mi chiesero: «Ci sono ebrei in Italia?». «Sì - risposi - siamo direi più o meno trentacinquemila». E questo signore: «Ce ne sono più in questo block [isolato] che in tutta l'Italia». Loro hanno una specie di arroganza tipicamente americana. Ma non solo negli Stati Uniti. Ti racconto un'altra esperienza. Sono stato in Argentina dove ho recitato dei miei testi in castigliano. Ho avuto il più grande successo della mia vita, avevo paura che il pubblico salisse sul palco per recitare con me, tanto è stato il coinvolgimento. Quindici minuti di applausi, vere e proprie ovazioni. Un delirio. Credi che mi abbiano di nuovo invitato? No, niente! Perché non vengo riconosciuto come espressione di una cultura universale. Per questo ho un rimpianto. Se l'avessi saputo prima, mi sarei trasferito in Germania e avrei finto di essere un ebreo polacco...

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Pagina 42

Un giorno si parlerà di Dario Fo come oggi si parla del Ruzzante. Dario Fo è stato uno dei giganti della storia del teatro mondiale di tutti i tempi. Ci davamo del tu e sono andato spesso a casa sua. Si rideva e si scherzava. Ma continuavo a guardarlo come si guarda a un maestro. Era una macchina teatrale, capisci. Una personificazione del teatro. Un uomo che, con un maglione nero e un microfono appeso, ha creato paesaggi, umanità, epopee, ha nobilitato gli ultimi fra gli ultimi. Il tutto con un maglione nero e un microfono e nient'altro. E Milano non ha saputo fare altro che dargli l'Ambrogino d'oro. Capisci, l'Ambrogino d'oro, chi se ne frega! E non dargli prima e dedicargli poi la sua Palazzina Liberty. Funerali da regnanti a teatranti che non sapevano neppure cosa fosse la sua arte e a lui nessun riconoscimento istituzionale, neanche dopo che ha ricevuto il Nobel. Dario Fo è stato - e forse è ancora - il drammaturgo più rappresentato al mondo e nella sua città non c'è un teatro che lo ricorda. È una vera indecenza! Ogni volta che ne parlo io scoppio per l'indignazione.

Fin qui mi hai parlato del tuo teatro, del tuo percorso. Ma ora mi viene spontaneo chiederti una riflessione di carattere generale. Che cos'è secondo te il teatro? Come lo definiresti? Tempo fa ho sentito una tua bella intervista, non ricordo dove, nella quale, per farlo, citavi un sonetto in romanesco di Gigi Proietti.

È vero. Il sonetto si intitola Viva er teatro e i primi due versi che, in effetti, ho citato spesso sono semplici e di rara efficacia: «Viva er teatro, dove tutto è finto ma gnente c'è de farzo». L'affermazione che tutto è finto ma niente è falso spiega la magia del teatro come luogo di verità, sempre possibile perché protetta dalla pietas della finzione. Il teatro può dire anche verità spietate, indicibili in altri contesti. Spesso la verità è terribile, è orrore, è la Medusa mitologica che pietrifica. Ma la finzione nel teatro è come lo scudo di Perseo: permette di guardare in faccia la crudeltà più abissale e trarne ammaestramento senza restare pietrificati. È questo che, tra le altre cose, mi affascina del teatro.

È affascinante anche il modo in cui lo descrivi.

Ne vuoi una prova? Non è certo un caso che il più grande esponente della letteratura occidentale sia, secondo eminenti critici, un teatrante: William Shakespeare. Sotto il cielo di Shakespeare c'è tutto, in particolare l'avventura dell'uomo moderno: ci trovi la psicanalisi, il marxismo, lo stalinismo e quant'altro vuoi. Pensa all'invettiva contro il denaro che percorre il Timone di Atene: è semplicemente prodigiosa, al punto che Marx, il quale conosceva molte opere di Shakespeare a memoria, la inserisce addirittura nel primo libro de Il Capitale. E pensa a Riccardo III, l'anaffettivo Riccardo III che compie crimini su crimini con assoluta indifferenza: come Stalin che era, appunto, anaffettivo e non aveva più sentimenti di empatia per gli esseri umani. E Amleto: non è un trattato di psicanalisi? La grandezza di Shakespeare è impressionante, ma prima ancora è impressionante il teatro: luogo di verità, sacrario laico della centralità umana dove tutti possono accedere. Basta pagare il biglietto e nessuno ti chiede chi sei, perché sei venuto e cosa vuoi trovare.

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Pagina 60

Gran parte della storia del popolo ebraico è, dunque, la storia dell'esilio, dell'esodo. È, come hai detto, una storia condivisa con il popolo dei rom e dei sinti.

Certo. I rom e i sinti erano popolazioni aristocratiche del Nord dell'India. Non è vero che avessero una vocazione a vagabondare permanentemente. È che li cacciavano. Dove li accoglievano stavano, cercando di essere quello che erano, cittadini dei posti in cui erano, con il loro modo di vivere, quello che avevano maturato in secoli e millenni di consuetudini e di coazione. Non è che loro abbiano una vocazione al nomadismo. Non è vero. Io ho amici rom che vivono stanziali. Per esempio i miei musicisti, che per me sono come fratelli, più che fratelli. Ebbene, loro hanno sempre vissuto stanziali. In Romania, dove sono nati, vivevano in appartamenti, in case. Il mio fisarmonicista, che si chiama Albert mi dice: «Sai, i rom, come gli ebrei, usano una definizione per i non-rom». Per gli ebrei il termine goy (che significa "gente") indica coloro che non fanno parte dell'identità ebraica e del suo modello culturale e spirituale. Per i rom è lo stesso: i non-rom vengono definiti gagé. Ebbene mi racconta Albert: «Quando eravamo in Romania a Costanza, abitavamo in collina e mia madre mi diceva sempre: non scendere in città se no i gagé ti rubano». I rom e i sinti non hanno mai fatto guerra a nessuno. Eppure hanno subito l'inenarrabile. Ci sono due libri che lo raccontano e che dovrebbero essere libri d'obbligo: Rom, genti libere. Storia, arte e cultura di un popolo misconosciuto e Rom, questi sconosciuti e li ha scritti il mio amico Santino Spinelli, un rom abruzzese (ché i rom stanno in Abruzzo da cinquecento anni). Quello che hanno passato i rom e i sinti è inimmaginabile. Nessuno può neppure rappresentarselo, è impossibile tante sono state le violenze e le vessazioni. Ancora a fine Ottocento in alcuni Paesi i rom erano considerati schiavi e non si veniva condannati per aver bruciato le loro case con dentro la famiglia. La stragrande maggioranza di noi non ha la più pallida idea di cosa hanno passato. Ancora oggi, mentre gli ebrei vengono trattati dai più (a eccezione degli antisemiti) in modo civile e rispettoso (anche per il peso della memoria), i rom possono ancora essere criminalizzati, vessati, malmenati impunemente. Su di loro si possono vomitare calunnie. Recentemente un giornalista - che io e alcune associazioni antirazziste abbiamo denunciato - ha detto che bisogna "dezingarizzarli". Il tutto sulla base di pregiudizi: i rom rubano! Perché nei quartieri a Napoli non si ruba? Mentre negli Stati Uniti o in Canada, dove sono accettati e ben inseriti, i rom fanno le professioni e i lavori più vari, compresi l'insegnamento all'università e la gestione di imprese. E nella Jugoslavia di Tito i rom erano uno dei popoli che componevano la Federazione, liberi secondo la loro cultura e le loro abitudini. Il mio amico Joviza Iovich, un fisarmonicista leggendario, maestro dello stile serbo, gestiva un ristorante pizzeria dove serviva duemilacinquecento coperti; poi, con la guerra, ha perso tutto. Ma tuttora vive in un appartamento e mantiene la famiglia col suo mestiere di musicista.

È una storia terribile.

È così. Ora gli ebrei che vivono in Israele sono armati fino ai denti mentre i rom sono ancora disarmati e perseguitati. Eppure rom ed ebrei della diaspora sono stati il paradigma dell'europeo. Avevano parenti in ogni Paese, parlavano molte lingue, si sentivano tedeschi in Germania, italiani in Italia, belgi in Belgio e avevano quel dono dell'ubiquità che dovrebbe avere un europeo. Io sono italiano, sono europeo italiano, ma sono tutti e due. Perché non c'è un'identità unica. I rom e gli ebrei lo hanno prefigurato: in cambio hanno avuto lo sterminio. Eppure se, per evitare lo sterminio, si sceglie il nazionalismo si arriva alla catastrofe, perché il nazionalismo è sempre foriero di guerre e di discriminazioni. I carnefici dei lager erano ipernazionalisti. Il nazionalismo è un instrumentum regni fondato sulla discriminazione e sulla persecuzione delle minoranze.

Una situazione che stiamo drammaticamente vivendo...

L'espressione più tipica del nazionalismo, diventata addirittura uno slogan per alcune forze politiche, è «padroni a casa nostra».

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Pagina 104

V.
Palestina e altre polemiche



Abbiamo dato a questa conversazione il titolo Un ebreo contro. Già nelle cose che ci siamo detti sin qui la ragione di quel titolo è emersa con chiarezza. Ma ora vorrei affrontarla in modo ancora più esplicito. Ci sono alcune questioni sensibili nelle quali ti sei buttato a capofitto, anche contro il pensiero dominante e finanche rompendo antiche amicizie. La prima, e più rilevante, è la questione della Palestina. Tu, ebreo, tra i rappresentanti più noti della cultura ebraica nel nostro Paese, ti sei schierato con nettezza dalla parte dei palestinesi e contro la politica del Governo dello Stato di Israele.

È così, seppur con una necessaria precisazione. Io non ho mai contestato e non contesto - ci mancherebbe - il diritto dello Stato di Israele di esistere e di difendere i propri confini, stabiliti dalla legalità internazionale. Quel che contesto radicalmente sono le politiche nazionaliste e reazionarie dei Governi israeliani che si sono succeduti nei decenni e le loro scelte di persecuzione del popolo palestinese, la cui dirigenza ha talora fatto scelte sbagliate ma che ha il sacrosanto diritto di esistere e di abitare nei propri territori. E questo dovrebbe saperlo e rispettarlo uno Stato in cui vivono i discendenti di un popolo che ha subito il martirio della Shoah.

Vuoi esplicitare meglio questa affermazione?

Volentieri. Nel 1947-48, all'atto della fine del mandato britannico sulla Palestina e della fondazione dello Stato di Israele, più di settecentomila arabi palestinesi furono costretti ad abbandonare le loro città e i loro villaggi. Fu la cosiddetta nakba (catastrofe), un vero e proprio esodo. Che cosa è successo da allora? Esattamente l'opposto di una pace, di un ritorno di parte di quel popolo nel proprio Paese, di una convivenza pacifica di due popoli interessati a convivere e a integrarsi. Al contrario - nonostante alcuni tentativi di accordo sottoscritti ma poi regolarmente disattesi - si sono susseguite guerre e campagne di odio. Situazioni nelle quali gli Stati arabi hanno irresponsabilmente alimentato il conflitto contestando il diritto di esistere dello Stato di Israele. Ma altrettanto, e forse peggio, ha fatto Israele. I territori palestinesi sono stati occupati e colonizzati e oggi, nelle zone controllate dagli israeliani, c'è un vero e proprio apartheid con uno stillicidio di assassinii, vessazioni, furti, arbitrii, spoliazioni con un sadismo gratuito che non risparmia i più deboli, le donne, i vecchi e soprattutto i bambini; i territori in cui abitano i palestinesi sono strozzati economicamente, ridotti alla povertà e spesso sottoposti a incursioni, rastrellamenti, bombardamenti; il 19 luglio del 2018 si è arrivati addirittura ad approvare una legge costituzionale (la legge sullo Stato-nazione) che formalizza come principi guida della politica dello Stato la discriminazione e il razzismo. Così ha commentato questa legge, sul quotidiano Haaretz, Gideon Levy, uno dei più lucidi intellettuali e giornalisti del Paese: «Il Parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato una delle leggi più importanti della sua storia, oltre che quella più conforme alla realtà. La legge sullo Stato-nazione [che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, incoraggia la creazione di comunità riservate agli ebrei, declassa l'arabo da lingua ufficiale a lingua a statuto speciale] mette fine al generico nazionalismo di Israele e presenta il sionismo per quello che è. La legge mette fine anche alla farsa di uno Stato israeliano "ebraico e democratico", una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l'intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l'inganno. Se lo Stato è ebraico non può essere democratico, perché non esiste uguaglianza. Se è democratico, non può essere ebraico, poiché una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell'origine etnica. Quindi la Knesset ha deciso: Israele è ebraica. Israele dichiara di essere lo Stato nazione del popolo ebraico, non uno Stato formato dai suoi cittadini, non uno Stato di due popoli che convivono al suo interno, e ha quindi smesso di essere una democrazia egualitaria, non soltanto in pratica ma anche in teoria». Questa è la situazione. E io dovrei tacere? Aggiungo...

Ti ascolto.

Aggiungo che quanto ho detto è documentato da migliaia di osservatori indipendenti e che l'occupazione dei territori palestinesi è stata ripetutamente dichiarata illegale dalla comunità internazionale, a partire dalle risoluzioni 242 e 338 dell'ONU. E sai come risponde Israele? L'ultima tecnica è quella di negare l'evidenza, affermando che le risoluzioni della comunità internazionale chiedono il ritiro da territori occupati e non dai territori occupati. C'è da non crederci! È un artificio sofistico che in yiddish si chiama chuzpe, che vuol dire aver la faccia come il deretano. Se lo usano i deboli è un'arma di sopravvivenza, ma quando lo usano i forti è un'oscenità ripugnante. Ma c'è una cosa che mi fa ancora più rabbia.

Quale?

La strumentalizzazione. La dirigenza israeliana ha capito che l'uso strumentale della Shoah funziona da deterrente nei confronti di chiunque voglia criticare la sua politica colonialista e si comporta, di conseguenza, nel modo più spregiudicato. Con un paradosso vergognoso e devastante. Mentre afferma di difendere il popolo ebraico, il Governo di Israele, adottando una legge ipernazionalista e razzista, assume nei fatti la leadership dell'onda nera e antisemita che emerge in alcune parti del mondo, quella degli Orban e degli altri governanti di Visegrád, dei Trump, dei Salvini, delle Le Pen. Ricordo che l'ex presidente degli USA Donald Trump, grande sostenitore dell'attuale Governo di Israele, è stato eletto con il fattivo apporto di razzisti e di furiosi antisemiti. Grazie a loro oggi si può fare propaganda di odio contro gli ebrei ed essere appassionatamente filo israeliani. Gli ebrei della diaspora, possono essere complici di questo schifo? Molti lo stanno facendo ma coloro che credono nei valori della democrazia, dell'uguaglianza, deì diritti universali non hanno altra scelta che separare le loro sorti dal cosiddetto sionismo. E questo vale anche per gli ebrei israeliani che condividono gli stessi valori. Personalmente, per quello che conto, io auspico questa radicale separazione, pur sapendo che sarà foriera di dolori, di travagli e lacerazioni. La auspico perché la straordinaria maestà del pensiero ebraico si salvi dall'estinzione promossa da una banda di ottusi zeloti alleati de facto con la peggior feccia antisemita. Abbi pazienza se mi infervoro ma devi farmi dire ancora un paio di cose.

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