Copertina
Autore Anna Pacilli
CoautoreT. Fattori, C. Della Volpe, L. Tornatore, R. Musacchio, M. Agostinelli, al.
Titolo Calendario della fine del mondo
SottotitoloDate, previsioni e analisi sull'esaurimento delle risorse del pianeta
EdizioneIntra Moenia, Napoli, 2011 , pag. 270, ill., cop.fle., dim. 13,5x21x2 cm , Isbn 978-88-95178-89-9
CuratoreAnna Pacilli, Anna Pizzo, Pierluigi Sullo
PrefazioneSerge Latouche, Riccardo Petrella
LettoreLuca Vita, 2011
Classe economia , ecologia , beni comuni , energia , sociologia
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Indice


Presentazione di Anna Pizzo e Pierluigi Sullo                  5

Introduzione di Serge Latouche                                 7

                2100 La crisi dell'acqua

La risorsa più essenziale: l'acqua è vita, non «oro blu»      18
di Riccardo Petrella

Uno sguardo fuori dal tempo: l'inizio del mondo               35
di Tommaso Fattori

                2015 Petrolio in riserva

Ominidi sull'orlo di una crisi climatico-energetica           54
di Claudio Della Volpe

                2100 Più sei gradi

Piccolo manuale per capire come abbiamo danneggiato           68
la serra che ci permette di vivere
di Luca Tornatore

Come il calendario umano va a sbattere                        79
contro il calendario di Madre Terra
di Roberto Musacchio

                2035 Nucleare in riserva

L'esaurimento dell'uranio                                     90
di Mario Agostinelli

                2050 La fine delle foreste

In silenzio parlò l'ultimo albero                            102
di Marinella Correggia

                2050 Il collasso della biodiversità

La sesta estinzione di massa                                 114
di Gianni Tamino

                2050 Agricoltura senza terra

Un'agricoltura senza agricoltori, una terra senza cibo       128
di Antonio Onorati

                2050 La guerra urbana

C'è sempre stato tanto spazio, ma è ancora così?             140
di Rossella Marchini e Antonello Sotgia

                2030 Due miliardi di auto

Dove parcheggeremo le automobili che circoleranno nel mondo? 156
di Andrea Masullo

                2025 Una montagna di rifiuti

Una montagna di rifiuti ci sommergerà: sarà la fine del      168
sistema di smaltimento o dello spazio per buttarli via?
di Alessio Ciacci

                2011 La chimica è ovunque

La chimica quotidiana                                        180
di Eva Alessi

                2030 Servono due pianeti

La nostra insostenibile impronta sulla Terra                 194
di Gianfranco Bologna

                2050 Un mare senza pesce

Cosa stiamo facendo ai nostri mari                           206
di Federica Barbera e Sebastiano Venneri

                2012 La fine del mondo

La fine del mondo è già cominciata: non spingete,            218
scappiamo anche noi
di Daniele Barbieri

                2011 Conclusioni

Una risorsa essenziale è già esaurita: la conoscenza         230
di Guido Viale

Produzione di merci a mezzo di natura                        256
di Giorgio Nebbia


 

 

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Pagina 5

Presentazione
di Anna Pizzo e Pierluigi Sullo



Questo libro non vi stupirà con i suoi effetti speciali. Come «2012», ad esempio, il filmone hollywoodiano che vi fa vedere la California mentre esplode come un vulcano e scivola in mare. Non vi intratterrà nemmeno raccontandovi storie di mondi paralleli o futuri come quelli di Isaac Asimov o di altri grandi della fantascienza. Non cercherà neppure di terrorizzarvi gridando, come un profeta invasato, che il giudizio universale è imminente. Molto più pacatamente, e in modo convincente, vi spiegherà — fornendo cifre, dati, circostanze, nomi di protagonisti — come l'Isola di Pasqua, chiamata dai suoi abitanti Rapa Nui, sia in piccolo un esempio per tutto il pianeta. Di noi umani rischiano di restare grandi monumenti, come le gigantesche ed enigmatiche statue che da quella isola scrutano l'oceano, mentre l'umanità sarà costretta a prendere congedo dalla sua Terra. Perché quel che Serge Latouche chiama «economia della crescita infinita», cioè del consumo senza freni, sta letteralmente divorando il solo pianeta di cui disponiamo. Ogni bene essenziale, dal petrolio all'acqua, dal suolo edificabile al mare, dallo spazio per nuove automobili alla biodiversità, ha una data di scadenza, proprio come lo yogurt che trovate sugli scaffali del supermercato. Solo che, una volta «scaduto» l'equilibrio climatico, ad esempio, non ci si potrà rifornire in un altro supermercato.

A conversare con tutti i lettori che vorranno prestare ascolto a questi decisivi argomenti abbiamo chiamato molti tra i migliori osservatori, scienziati, analisti in circolazione. Ed è forse la prima volta che il loro lavoro, concentrato su un singolo tema, diventa un coro in cui ciascuno a suo modo intona la canzone di Madre Terra. Persone che nelle università si dedicano alla ricerca, altre che sono attive in grandi associazioni ambientaliste o in movimenti come quello per l'acqua pubblica, scrittori e giornalisti, svolgono racconti appassionanti e drammatici, indicano possibili soluzioni e individuano colpevoli. Fino alla morale conclusiva: quel che ci manca prima di tutto, scrive Guido Viale, è una «risorsa» che non si trova in una miniera o in un pozzo petrolifero, ma nella nostra testa, la conoscenza, la capacità di imparare dagli errori e di cambiare rotta.

Perciò questo libro, edito dalla casa editrice Intra Moenia, reca in copertina anche un simboletto ancora poco noto: DKmO. Che significa «Democrazia chilometro zero» e indica una campagna, una rete di persone e comitati cittadini sparsi in tutto il paese, il cui scopo è trovare nuovi modi della democrazia, far sì che siano i cittadini a decidere sui loro beni comuni. Cambiare rotta significa per noi innanzitutto questo.

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Pagina 7

Introduzione
di Serge Latouche



                            «Le foreste precedono i popoli, i deserti li seguono»

                                                       Chateaubriand (1840 circa)



La catastrofe (la nakba, la shoah) ha a che vedere con il crollo (collapse), tema reso popolare da Jared Diamond. Per aver distrutto il suo ambiente senza potersi adattare alla nuova situazione, una civilizzazione sparisce. Gli esempi citati più spesso sono quelli della sparizione dovuta a un disboscamento eccessivo combinato con la rigidità delle culture implicate: la civilizzazione Maya, quella delle valli dell'Indo (Mohenjo-Dahro, Harappa) o dei vichinghi della Groenlandia. E naturalmente la società dell'Isola di Pasqua, esperienza microcosmica che è divenuta, a torto o a ragione, emblematica della sindrome da collasso ecologico e della sorte possibile del nostro macrocosmo. Non è certo che la storia corrisponda esattamente al mito, ma lo scenario della catastrofe annunciata che ci aspetta al varco, in compenso, corrisponde bene alla tentazione occidentale illustrata nel libro che state cominciando a leggere.


1. La sindrome dell'Isola di Pasqua

Strano destino, quello di Rapa Nui (espressione tradotta con «Isola Lontana» o «Grande Ramo»), che dà il suo nome agli autoctoni (i «rapanui»), isola che viene anche e più giustamente chiamata «Makiterani» (letteralmente «Degli dèi che guardano il cielo») o ancora «Te Pito No To Henua» (letteralmente «Ombelico del mondo»). Per il suo isolamento, le sue piccole dimensioni e l'incredibile ricchezza del suo passato ancora misterioso, l'Isola di Pasqua ha esercitato e continua ad esercitare uno strano fascino al quale io stesso non sono sfuggito. Ben prima della comparsa del libro di Jared Diamond, «Collasso», ben prima del film che Kevin Reynolds ha prodotto con Kevin Kostner, «Rapa Nui» (1994), che ha segnato un nuovo Avatar nel destino dell'isola, si giudicava già abbastanza diffusamente che la decadenza della civilizzazione dei colossi (i «moai», enormi statue di dèi che fissano l'oceano, ndt) fosse l'esito di un processo d'impoverimento delle risorse. Questa tesi ha ottenuto, con il libro di Diamond, una consacrazione quasi scientifica che è arrivata ovunque, pare fino al presidente Sarkozy. Maledetta Isola di Pasqua!

C'é una ipotesi tutta diversa, per conto mio, che evocavo nel 1986 nel mio libro «Faut-il refuser le développement?». L'Isola di Pasqua mi appariva emblematica non tanto di una catastrofe ecologica quanto della follia degli uomini. «La storia del processo di sottosviluppo – scrivevo – malgrado le sue innumerevoli varianti e la sua infinita diversità, potrebbe essere riassunta in modo esemplare nel destino dell'Isola di Pasqua. In questo universo minuscolo di 118 chilometri quadrati sperduto in mezzo al Pacifico poche migliaia di abitanti – si stima che nel diciottesimo secolo 10 mila abitanti circa potevano viverci simultaneamente – erano convinti di essere soli al mondo fino al 5 aprile 1722, quando l'Africaansche Galey dell'olandese Jacob Roggeven attraccò nei pressi dell'isola. Oltre le loro spiagge non c'erano che gli dèi le cui immagini di pietra, i giganteschi 'moai', erano fieramente eretti sul bordo dell'oceano, testimoni muti del mondo degli uomini. Ma gli dèi che sbarcarono un certo giorno di Pasqua del 1722 erano solo degli dèi di carne e di sangue. Ancora prima che dilagassero la morte, le epidemie, la prostituzione, la deportazione, lo sfruttamento, la schiavitù, il turismo internazionale e la Bibbia (perché i «rapanui» hanno ahimé conosciuto tutto questo), il mondo degli isolani non esisteva più e gli dèi di pietra guardavano solo miserabili indigeni perduti nello stupore». E aggiungevo, in una lunga nota: «In realtà, l'universo dei 'rapanui' era già in crisi prima del 1722, ma da poco tempo. Bisogna supporre un probabile intervento anteriore di europei o vedere una strana coincidenza tra una crisi interna e una intrusione esterna? Anche se la prima ipotesi non basta a spiegare tutto, la seconda non permette in nessun caso di attribuire alla sola crisi interna la fine del mondo dell'Isola di Pasqua, come alcuni hanno tentato di fare». Di seguito, per illustrare le vicissitudini dei «rapanui» davo «qualche notizia»: « 1770: lo spagnolo Felipe Gonzalez fa firmare agli indigeni un trattato e fa erigere le prime croci. 1786: La Perouse (navigatore francese del Settecento, ndt) introduce dei montoni, dei maiali e delle nuove piante. 1804: l'equipaggio della nave americana Nancy tenta di rapire uomini e donne. 1859-62: razzie peruviane di schiavi per lo sfruttamento del guano. Cattura del re, la popolazione è decimata. Di fronte alle proteste della Francia e alla richiesta di Monsignor Jaussen, vescovo di Tahiti, il centinaio di sopravvissuti ripartono per l'isola, solo 15 vi arrivano, portatori di diverse malattie. 1870: l'avventuriero francese Jean-Baptiste Dutro-Bornier inizia uno sfruttamento agricolo e si proclama re, traffica con la mano d'opera che manda a Tahiti per onorare i suoi debiti. 1872: La Flore (con Pierre Loti, scrittore francese e marinaio, a bordo) razzia una statua colossale per il Musée de l'Homme. 1888: il cileno don Policarpo Toro arriva a prendere possesso dell'isola a nome del suo paese. 1864-1933: i missionari bruciano gli ultimi «legni parlanti», tavolette ricoperte di segni. 1967: l'isola diviene un dipartimento cileno, primo insediamento turistico».

Le disavventure dei «rapanui» non si fermano qui. La lavorazione del film di Kostner, nel 1994, inonda l'isola di dollari e destabilizza la sua economia. E per terminare (provvisoriamente), nel 2010 gli indigeni rifiutano, con una schiacciante maggioranza, che venga trasferito per un viaggio di 15 giorni, organizzato dal gruppo Louis Vuitton, uno dei 980 «moai», un colosso di cinque metri di altezza e pesante 13 tonnellate, prestato dal governo cileno.

Uno studio interessante e documentato di un universitario delle Hawai, Terry Hunt, comparso di recente su «Science» e ripreso da un climatologo dell'università di Liverpool, Benny Peiser, ha contestato l'ipotesi della crisi puramente ecologica e rafforzato la mia. Tuttavia, la ricerca attribuisce il collasso non a una perdita di senso ma alle brutali razzie schiaviste (e all'azione dei topi...). «È un genocidio e non un ecocidio ad aver causato la sparizione dei 'rapanui'», scrive l'autore. L'una cosa non esclude evidentemente l'altra («una catastrofe ecologica ha davvero avuto luogo su Rapa Nui», aggiunge in effetti Hunt). Ma per parte mia tenderei ad attribuire più importanza al collasso dell'universo simbolico che alla brutale razzia umana e al disboscamento.

In ogni caso, il mito dell'Isola di Pasqua illustra, a modo suo, la tentazione della dismisura che spinge le società, e in modo particolare la nostra, verso l'autodistruzione. Se l'opera di Diamond ha molto contribuito a rendere popolare il tema del collasso ecologico, quella di Joseph Tainter è senza dubbio più interessante. Le società complesse, secondo Tainter, tendono ad affondare perché le loro strategie di sfruttamento dell'energia sono sottoposte alla legge dei rendimenti decrescenti. Lo sviluppo delle ineguaglianze e dell'eterogeneità hanno bisogno di sempre maggiori risorse (schiavi, legname, tasse, ecc.) mentre i suoli e gli uomini si esauriscono: una parte sempre più importante della popolazione ha interesse a sottrarsi. Non potendo più assicurare il mantenimento, il sistema collassa: una tragedia per le classi dominanti ma non necessariamente per gli altri. È stato così per l'impero romano e per la civilizzazione Maya. La nostra civilizzazione della crescita si basa nell'essenziale su un consumo esponenziale di energia fossile «Sul pianeta — secondo Richard Heinberg — vivono oggi tra 2 e 5 miliardi di esseri umani che probabilmente non esisterebbero senza i combustibili fossili». Certo, gli organismi basati sulla fotosintesi riescono a catturare ogni anno un po' più del doppio della quantità di energia totale utilizzata annualmente dagli esseri umani, ma negli Stati Uniti la quantità di energia captata dalla fotosintesi equivale all'incirca solo alla metà dell'energia utilizzata. E siamo molto lontani dal poter recuperare questa energia della biomassa. Secondo molte previsioni, con la fine del petrolio a basso prezzo la capacità di accoglienza dell'umanità globale cadrà, forse, al di sotto del suo livello pre-industriale. Sarebbe un collasso paragonabile al destino dell'Isola di Pasqua.


2. La catastrofe produttivista

Le catastrofi che ci riguardano sono, però, quelle dell'antropocene (con questo termine diversi scienziati, come Paul Crutzen, Premio Nobel per la chimica, designano una nuova epoca geologica del pianeta, il cui inizio risale ai primi dell'Ottocento, provocata dallo sfruttamento delle riserve fossili, ndt). Per catastrofi dell'antropocene si intendono quelle provocate dalla dinamica di un sistema complesso, la biosfera, in evoluzione con l'attività umana e da essa alterata. Adottando la ragione geometrica, l'uomo inserisce le conseguenze materiali del suo modo di vita sulle curve esponenziali del degrado del suo ecosistema (gas serra, scomparsa delle energie fossili, accumulazione di veleni, distruzione di specie...).

La catastrofe produttivista è il destino implacabile di una società della crescita che rifiuta il mondo reale in nome della sua artificializzazione. Ricercare la crescita a tutti i costi vuol dire prima di tutto non andare troppo per il sottile sui mezzi per ottenerla. Nello studio delle inchieste che seguono la maggior parte degli incidenti importanti, che si tratti di Chernobyl, della mucca pazza o dello scandalo del sangue contaminato, per dare solo qualche esempio recente abbastanza ben documentato, si viene colpiti dalla quantità incredibile di inefficienze, di inosservanze dei regolamenti in vigore (con la complicità delle autorità incaricate di farli rispettare), di infrazioni alle leggi nazionali e internazionali. Questi imbrogli, abusi e raggiri sono dovuti nell'essenziale a tre fattori: la vanità, l'avidità e la volontà di potenza.

La cecità e l'arroganza degli scienziati, degli esperti, dei responsabile, degli ingegneri e dei tecnici, favorite dal culto della scienza e dalla fede nel progresso, hanno un ruolo complementare ma essenziale da giocare in questo concerto infernale, quello della sete di ricchezza e di potere. Non è tanto la soggettività apparente ad essere qui in causa, quanto la logica stessa del sistema, che crea le condizioni della catastrofe, compreso il produrre certi fattori soggettivi. Infine, per farla breve, sarebbe forse più appropriato definire l'antropocene come «la parentesi del petrolio» o «la bolla industriale».

«Forse il destino dell'uomo – scrive Nicholas Georgescu-Roegen – è di avere una vita breve ma febbrile, eccitante e stravagante, piuttosto che una esistenza lunga, vegetativa e monotona». Certo, bisognerebbe però che la vita dei moderni super-consumatori fosse davvero eccitante e che, al contrario, la sobrietà fosse incompatibile con la felicità e anche con una certa esuberanza gioiosa. Non è quel che risulta dal lavoro della New Economics Foundation, che ha creato da qualche anno – incrociando il risultato di inchieste sulla sensazione di benessere vissuto, la speranza di vita e l'impronta ecologica – un indice della felicità (Happy Planet Index) che ribalta sia l'ordine classico del PIL pro capite che quello dell'Indice dello sviluppo umano (IDH). Nel 2006 si piazzavano al primo posto Vanuatu, la Colombia e Costa Rica, mentre l'Italia era in 66esima posizione e la Francia solo in 129esima, e gli Stati Uniti in 150esima. Nel 2009, la classifica pone in testa il Costa Rica, seguito dalla Repubblica Dominicana, dalla Giamaica e dal Guatemala. L'Italia si classifica al 69esimo posto e gli Stati Uniti al 114esimo.

Questo paradosso si spiega con il fatto che la società cosiddetta «sviluppata» si basa sulla produzione massiccia di decadimento, ossia una perdita di valore e un degrado generalizzato delle merci, che l'accelerazione dell'«usa-e-getta» trasforma in rifiuto, sia delle persone escluse o licenziate dopo l'uso, dell'amministratore delegato o del manager da buttare nella disoccupazione, i senza fissa dimora, i clochards e altri rifiuti umani.

Eppure... Ammettiamo, come dice molto bene Richard Heinberg, che «è stata una festa formidabile. La maggior parte di noi, per lo meno quelli che hanno vissuto nei paesi industrializzati, non hanno conosciuto la fame, hanno apprezzato l'acqua calda e fredda del rubinetto, le macchine a portata di mano che ci permettono di spostarci rapidamente e praticamente senza sforzo da un luogo all'altro, o ancora altre macchine per lavare i nostri abiti, per divertirci e informarci, e così di seguito». E allora? Oggi che abbiamo esaurito la dote «dobbiamo continuare a compiangerci fino al triste epilogo e coinvolgere l'insieme del resto del mondo nella caduta? Oppure bisogna riconoscere che la festa è finita, far pulizia dietro di noi e preparare i luoghi per quelli che verranno in seguito?».

Si può anche giustificare l'incuria nei confronti del futuro con ogni sorta di ragioni non necessariamente egoiste. Se, come Schopenauer , giudichiamo che la vita è una faccenda che non vale la pena, è quasi una forma di altruismo risparmiare ai nostri figli il mal di vivere.

La via della decrescita si basa su un postulato inverso, condiviso dalla maggior parte delle culture non occidentali: per misteriosa che sia, la vita è un dono meraviglioso. Ed è vero che l'uomo ha la facoltà di trasformarla in un dono avvelenato e, dopo l'avvento del capitalismo, non si è privato di questa opportunità. In queste condizioni, la decrescita è una sfida e una scommessa. Una sfida alle credenze più radicate, dato che questo slogan costituisce una insopportabile provocazione e una bestemmia per gli adoratori della crescita. Una scommessa, perché niente è meno certo della necessaria realizzazione del progetto scelto di una società autonoma della sobrietà. Tuttavia, la sfida merita di essere colta e la scommessa di essere tentata. La via della decrescita, che tutti gli «obiettori alla crescita» difendono, è quella della resistenza, ma anche quella della dissidenza di fronte al rullo compressore dell'occidentalizzazione del mondo e del totalitarismo rampante della società del consumo mondiale. Se gli obiettori alla crescita organizzano la resistenza e insieme agli indigeni d'America marciano sul sentiero di guerra, essi esplorano la costruzione di una civilizzazione della sobrietà scelta, alternativa all'impasse della società della crescita. Oppongono al terrorismo della cosmocrazia e dell'oligarchia economica e politica, mezzi quanto più possibile pacifici: non violenza, disobbedienza civile, diserzione, boicottaggio e – naturalmente – le armi della critica. È questa via che i nostri autori esplorano con convinzione, dopo aver illustrato con forza e precisione tecnica le minacce che pesano sulla nostra civilizzazione della crescita.


Infine, in questi tempi di appelli indecenti, da parte delle nostre élites, al rigore e alla privazione (soprattutto per gli altri) e di concorrenza masochista tra gli Stati a chi spingerà più lontano i sacrifici umani, è importante dire alto e forte, contro la falsa alternativa tra crescita e austerità, che esiste la possibilità più confortante di una società dell'abbondanza frugale.

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Pagina 18

La risorsa più essenziale:
l'acqua è vita, non «oro blu»
di Riccardo Petrella



La crisi mondiale dell'acqua

La crisi «mondiale» e globale dell'acqua, oggi, si riassume in cinque aspetti critici.

1) Non accesso all'acqua per miliardi di esseri umani. Il diritto umano all'acqua e, quindi, il diritto alla vita per tutti è largamente disatteso.

2) Rarefazione crescente dell'acqua di qualità buona per usi umani. È il risultato di un sistema economico inefficiente, predatore e ineguale.

3) Mercificazione dell'acqua. Da elemento «sacro» essenziale e insostituibile per la vita a merce da sfruttare.

4) Privatizzazione dei servizi idrici e conseguente loro sottomissione alle logiche finanziarie capitaliste private. L'acqua non è più una «res publica», è fuori dalla democrazia, è diventata un bene-risorsa sotto il controllo di forti poteri finanziari, industriali e commerciali mondiali.

5) L'accettazione dell'inevitabilità delle guerre dell'acqua nell'immaginario collettivo. Il futuro della vita sul pianeta in mano ai «signori dell'acqua» in lotta per la supremazia e la loro sicurezza.


1. Il diritto umano, universale, all'acqua è largamente disatteso

L'acqua, che è vita (senza acqua, niente vita), non è accessibile a più di 1,2 miliardi di persone (le cifre ufficiali dell'ONU del 2010 parlano di 880 milioni di persone, ma si tratta di cifre sottostimate). Inoltre 2,6 miliardi di esseri umani non hanno accesso ai servizi igienico-sanitari, nemmeno a una latrina pubblica (meno che mai a una toilette a casa). In queste condizioni, la salute di miliardi di persone non è affatto garantita tanto che ogni giorno, secondo l'UNICEF, 5.000 bambini di meno di 6 anni muoiono per malattie direttamente causate dall'assenza di acqua potabile e di igiene. L'equivalente di 18 Jumbo (Boeing 747) ciascuno con 330 bambini a bordo che, quotidianamente, si sfracellano al suolo, senza superstiti.

Nel 2009, in Italia, 60 milioni di persone si sono emozionate, hanno pianto, manifestato, protestato, organizzato veglie e fiaccolate, per settimane, attorno alla domanda se fosse o no giusto staccare i tubi che mantenevano in vita una giovane donna, Eluana Englaro, in coma da anni. Questi milioni di cittadini italiani non fanno nulla, non protestano né piangono per i 5.000 bambini morti ogni giorno per assenza d'acqua. Perché?

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Elementi di base per un Manifesto dell'acqua per il XXI secolo

Ma le attuali classi dirigenti, al di là delle differenze di sfumature, sono convinte che si deve rispondere ai problemi posti dall'acqua con la triade tecnologia, finanza, mercato. Secondo loro, la soluzione tecnologica chiave sta nel trattamento delle acque reflue e il loro riciclaggio, e nella dissalazione dell'acqua di mare. L'obiettivo fondamentale resta il seguente: produrre sempre più acqua da utilizzare/consumare.

Non stupisce, pertanto, il ruolo determinante della finanza privata. E la triade si chiude nel seguente modo: affinché la finanza internazionale privata possa reperire i fondi necessari e scegliere gli investimenti più convenienti ed efficaci, il mercato, e solo il mercato, è in grado di promuovere le innovazioni tecnologiche più adeguate nei tempi e nelle modalità più economicamente favorevoli per i vari «shareholders» interessati.

Alla triade dei dominanti è necessario sostituire la «tavola dei 6 principi» seguenti:

I. Nessun essere umano deve essere privato dell'accesso all'acqua potabile e ai servizi igienico/sanitari. L'accesso all'acqua e ai suoi usi deve essere garantito a tutti senza discriminazione di razza, sesso, religione, nazionalità reddito e ceto sociale.

II. L'acqua appartiene agli abitanti della Terra e alle altre specie viventi. È un bene comune pubblico, patrimonio dell'umanità, essenziale e insostituibile per la vita. L'acqua per la vita non è una merce, non è un bene economico mercantile, non è l'«oro blu». È tempo di riconoscere l'acqua come il primo bene comune pubblico mondiale. È, pertanto, necessario escludere i servizi idrici dai negoziati sulla liberalizzazione dei servizi nell'ambito della WTO (Organizzazione mondiale del commercio).

III. Il governo dell'acqua – di tutte le acque (acque minerali comprese) – e di tutte le attività relative al ciclo integrale dell'acqua deve essere sotto la responsabilità pubblica dello Stato e, in tale contesto, assicurato da istituzioni e organismi pubblici statali e parastatali (imprese, enti economici, consorzi intercomunali e interterritoriali) intra e inter-nazionali, continentali, transnazionali, mondiali. Tocca all'ONU – più esattamente a una nuova organizzazione politica mondiale dell'umanità – agire in quanto soggetto promotore e garante di un governo mondiale dell'acqua giusto, sostenibile, partecipato.

IV. Il finanziamento dei costi associati al governo pubblico dell'acqua per la vita, per garantire a tutti il diritto umano all'acqua, deve essere preso a carico dalla collettività, dalla finanza pubblica, mediante, in particolare, la fiscalità generale e specifica e sistemi tariffari pubblici giusti e appropriati. Il principio «chi consuma paga» è sostituito dal principio «il cittadino è responsabile dell'acqua». Quello «chi inquina paga» da «inquinamento zero. È vietato inquinare».

V. L'acqua è questione di democrazia. Essa implica un alto grado di partecipazione attiva dei cittadini alle decisioni in materia di governo dell'acqua, dal locale al globale.

VI. È possibile costruire la pace, la sicurezza, nel mondo, per tutti gli abitanti della Terra, a partire dal governo pubblico dei beni comuni mondiali, in particolare dell'acqua. Il governo delle acque transnazionali costituisce un campo di sperimentazione privilegiata per la promozione della sicurezza comune e della sovranità condivisa e vissuta in maniera responsabile da parte dei popoli appartenenti allo stesso bacino idrografico. Non si possono lasciare le chiavi del divenire della vita di interi continenti ai detentori di capitale finanziario privato. È urgente dare vita a un Parlamento Mondiale dell'Acqua.


La «tavola dei 6 principi» può essere concretizzata, a titolo di esempio, con le seguenti proposte pratiche: portare al 10 per cento la superficie delle terre agricole per l'agricoltura biologica nei paesi «occidentali» entro il 2012 e vietare l'uso della terra per la produzione di bio etanolo (agrocombustibile); eliminare le perdite d'acqua per irrigazione a pioggia, sostituendola con altri metodi meno dispendiosi; cessare le sovvenzioni all'irrigazione attuale spostandole a favore di altri metodi; condizionare la produzione di culture alle disponibilità idriche locali (principio della eco-condizionamento); sanzionare severamente le comunità territoriali che non tengono i libri di campagna e i catasti industriali; fare rispettare le leggi esistenti in materia di protezione del suolo e di tutela delle risorse idriche; fare il censimento dei pozzi e far rispettare la regolamentazione dell'uso e della manutenzione; ridurre del 50 per cento i pesticidi entro il 2015 e vietarne la vendita libera.

Ancora: sostituire le bottiglie di plastica per le acque minerali e le acque di sorgenti; ripubblicizzare la gestione delle acque minerali e regolamentarne la distribuzione interregionale; vietare la pubblicità commerciale delle acque minerali; creare un'autorità nazionale delle acque laddove non esiste e, su queste basi, costituire un'Organizzazione Mondiale dell'Acqua di cui farebbe parte un Tribunale internazionale delle acque; vietare la vendita/esportazione commerciale dell'acqua tra regioni e tra paesi; adottare accordi sovranazionali vincolanti in materia di conservazione e uso delle acque dei bacini idrologici transnazionali; ripubblicizzare la gestione dei servizi pubblici laddove necessario e reinventare sistemi di finanziamento pubblico degli investimenti per infrastrutture e per i servizi idrici; promuovere il partenariato pubblico/pubblico; adottare il principio di eco-condizionamento sui prelievi d'acqua dai bacini fluviali; adottare un accordo internazionale sulla moratoria della costruzione di grandi dighe; affidare a organismi economici (o imprese) pubblici la gestione del ciclo integrale delle acque (incluso il riciclaggio delle acque usate trattate e il dissalamento dell'acqua del mare).

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Uno sguardo fuori dal tempo:
l'inizio del mondo
di Tommaso Fattori



In principio era l'acqua. Acqua che doveva essere prevalentemente allo stato liquido perché la vita potesse nascere e autoriprodursi sulla Terra: mari, oceani, laghi, fiumi, paludi. Perchè ciò si verificasse il pianeta doveva trovarsi non troppo vicino al Sole né troppo lontano: la temperatura terrestre doveva essere non eccessivamente calda né avere la freddezza degli spazi siderali. I gas dell'atmosfera dovevano trattenere parte del calore proveniente dal Sole e contenere ossigeno: solo questo incredibile equilibrio avrebbe potuto permettere alla vita di fare la propria comparsa.

L'acqua, assieme all'anidride carbonica, è la materia prima per la fotosintesi clorofilliana, nutre tutti gli animali ed è perciò elemento fondamentale della vita umana stessa. Per un'affascinante corrispondenza fra microcosmo e macrocosmo, il 71 per cento della superficie terrestre è ricoperta d'acqua, più o meno la stessa percentuale che compone il nostro corpo. D'altra parte, l'acqua è un elemento costitutivo di tutte le cellule, animali e vegetali. La stessa quantità d'acqua circola all'interno del pianeta fin dall'inizio dei tempi: la stessa acqua che ha dissetato i dinosauri e ha alimentato piante ormai scomparse adesso circola in noi o negli alberi dell'Amazzonia, come parte di un inarrestabile ciclo idrologico globale. Ogni volta che si discute d'inquinamento della risorsa idrica, di caos climatico e di mercificazione, dobbiamo ricordare che ciò che noi facciamo all'acqua lo facciamo alla vita stessa.


Uno sguardo dallo spazio: l'acqua nell'era dell'Antropocene

Uno spettatore esterno, che osservasse la Terra dallo spazio, vedrebbe un pianeta blu e probabilmente lo chiamerebbe «pianeta acqua». Sarebbe indotto a credere che gli abitanti di questo pianeta possano avere qualsiasi problema fuorché quello della scarsità di questo bene. Ma sarebbe in errore. Prima di tutto si sbaglierebbe per motivi indipendenti dall'uomo e dalle sue attività: la maggior parte dell'acqua presente sul pianeta - ossia il 97,5 per cento - è contenuta nei mari e negli oceani ed è inadatta per la maggior parte delle forme di vita vegetali, animali e per le attività umane a causa dell'alta salinità. «Acqua, acqua ovunque, e neanche una goccia da bere», si lamentava il vecchio marinaio nella «ballata» di Samuel T. Coleridge. Il restante 2,5 per cento di acqua «dolce» - cioè con un basso contenuto salino - è in gran parte intrappolata nei ghiacci polari, almeno finché questi non si sciolgano definitivamente a causa del riscaldamento globale.

Così, solo una piccolissima parte dell'acqua presente sulla terra si trova allo stato liquido nei fiumi, nei laghi e nelle falde sotterranee: appena lo 0,75 per cento del totale (di cui lo 0,01 per cento nelle acque superficiali). Una parte dell'acqua è tenuta perennemente in moto da un ciclo di evaporazioni e condensazioni i cui motori sono l'energia del sole e la gravità. Mediamente, sulla superficie delle terre emerse precipitano 100 mila miliardi di tonnellate di acqua, ma la distribuzione di queste precipitazioni è diseguale, tanto che alcuni continenti ne hanno in abbondanza, altri soffrono un deficit idrico.

Ma occorre chiarire subito un punto nodale: la mancanza d'accesso all'acqua potabile per un numero enorme di persone sul nostro pianeta non è dovuto, storicamente, alla diseguale distribuzione «naturale» della risorsa, né alla sua scarsità locale. Se quasi un miliardo e mezzo di esseri umani non ha accesso all'acqua potabile e 2,2 milioni di persone muoiono ogni anno per malattie causate dall'insufficienza d'acqua, ciò dipende essenzialmente dalla povertà, e quindi da precise scelte di deresponsabilizzazione da parte dei decisori politici e della comunità internazionale. In Amazzonia, fra le aree più ricche di acqua dolce al mondo, quasi la metà della popolazione non ha accesso all'acqua solo perché non può pagarne il «prezzo» alle multinazionali che gestiscono il servizio.

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I sistemi produttivi lineari producono oggetti destinati a diventare rifiuti in tempi sempre più brevi, perché si possa consumare di più («obsolescenza programmata degli oggetti») ed esternalizzano i costi ambientali. Ci si rifiuta di vedere che ogni merce non solo ha un costo monetario, non solo ha un costo energetico, ma ha anche un costo in materia. Occorrono «bilanci di materia» (in unità fisiche) per sapere quale e quanta materia prima è stata utilizzata in ciascun processo umano. Merci, beni e servizi si producono non a mezzo denaro, ma a mezzo natura, cioè per mezzo di beni prelevati dalla natura e trasformati. Il fine dei bilanci idrici - per determinare il costo in acqua di ciascun prodotto agricolo, zootecnico e industriale - è quello di riorganizzare la produzione sul risparmio della risorsa e sulla salvaguardia della sua qualità. Pensare all'intero ciclo di vita dei prodotti significa conoscere la quantità totale di acqua necessaria per produrli, utilizzarli e smaltirli. Insomma, occorre imparare a vedere l'«invisibile»: mostrare come dietro prodotti apparentemente solidi, come un'autovettura, vi siano enormi quantità di liquidi: un'auto di una tonnellata ha un costo in acqua di circa 150 tonnellate. Altri esempi banali: per produrre un chilo di carne di manzo servono fra gli 11 e i 20 mila litri d'acqua; dietro una tazza di caffé vi sono 140 litri d'acqua; per produrre un chilo di granturco occorrono 900 litri d'acqua.

Riassumendo, potremmo dire che la disponibilità effettiva d'acqua dolce nel nostro tempo dipende da:

1) distribuzione e quantità delle precipitazioni, oggi influenzate dai mutamenti climatici;

2) caratteristiche geologiche, geomorfologiche e vegetali del territorio, oggi modificate da interventi umani quali la deforestazione e la cementificazione (caratteristiche che determinano il livello di rigenerazione di fiumi e falde sotterranee);

3) prelievo di acqua e inquinamento della risorsa dovuti ai sistemi produttivi agricolo, zootecnico, energetico e industriale;

4) densità degli insediamenti umani e delle urbanizzazioni (cui sono connessi ancora una volta prelievo e inquinamento);

5) presenza di infrastrutture che garantiscono l'accesso all'acqua e modi di «gestione» di queste stesse infrastrutture (in caso di gestione privata la fascia povera della popolazione resta esclusa dal servizio idrico, per esempio).

Per quanto l'acqua rimanga tecnicamente una risorsa rinnovabile (ed inesauribile) all'interno di un ciclo idrologico chiuso, nell'era dell'Antropocene e dell'Homo oeconomicus il modello produttivo e di vita sta saccheggiando questo bene ad un ritmo superiore alla capacità naturale di rigenerazione della risorsa e la sta distruggendo inquinandola: la disponibilità di acqua dolce di buona qualità si fa così sempre più scarsa. Una risorsa inesauribile è resa di fatto esauribile, nella sua quantità disponibile per la vita. Questa scarsità è stata quindi prodotta dall'uomo. Paradossalmente l'acqua diviene così uno dei più grandi «affari» del nuovo millennio. Come c'è chi gioisce per lo scoppio di guerre o per il terremoto dell'Aquila, vi è anche chi trae vantaggi economici da questa distruzione della risorsa. Le multinazionali dell'acqua vedono nella scarsità un'occasione di profitto: niente di meglio di una domanda globale in aumento e di un'offerta in diminuzione per far crescere il prezzo della merce.

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Una risorsa essenziale
è già esaurita: la conoscenza
di Guido Viale



Il mistero politologico italiano

Ma perché, nel paese che ha avuto il più grande partito comunista e il più forte movimento operaio dell'Occidente, una cultura di sinistra egemone per almeno tre decenni, una delle manifestazioni più radicali e prolungate del «'68» e la maggiore proliferazione dei gruppi della sinistra radicale siamo poi caduti tanto in basso da diventare lo zimbello di tutta l'Europa, sia di destra che di sinistra?

Per alcuni, perché non sono stati elaborati gli anticorpi che hanno permesso invece ad altri popoli e paesi di non venir travolti — o di venir travolti in misura minore — dall'ondata di demagogia e populismo che ha accompagnato gli sviluppi della globalizzazione nel corso degli ultimi due decenni; e che rischia di avere effetti ancora più deleteri con lo scoppio e il prolungarsi — a tempo indeterminato — della crisi economica. Per altri, perché la maggior parte delle risorse di quelle organizzazioni, o di una parte preponderante di esse, è stata per anni impegnata nel contenere, nel contrastare, nello screditare, assai più che nell'assecondare, le spinte sociali di cui pretendevano la rappresentanza; lasciando così liberi i germi della reazione di sviluppare indisturbati tutte le loro potenzialità; o addirittura alimentandoli. Forse le due tesi non sono così alternative come la loro contrapposta formulazione potrebbe far credere.


Specificità e generalità del caso italiano

Nelle condizioni materiali che stanno alla base del regime berlusconiano c'è certamente un risvolto specificamente italiano; ma ce ne è anche uno, sicuramente più rilevante, di dimensioni planetarie, o comunque transnazionali. Entrambi sono il portato di una mutazione antropologica con cui occorre fare i conti. Anche se i suoi tratti sono complessi, la cifra di questa mutazione è riconducibile a quella «dittatura dell'ignoranza» che ha dato il titolo a un recente testo di Giancarlo Majorino (Tropea, 2010).

In Italia Silvio Berlusconi non ha «sdoganato» soltanto il fascismo, ancora largamente diffuso tra i ranghi dell'ex Alleanza nazionale, e anche altrove. Questo è stato, almeno in parte, un mero epifenomeno della politica. Quello che Berlusconi ha veramente sdoganato è l'ignoranza; l'orgoglio di essere ignoranti; il disprezzo, questo sì di stampo fascista, per i saperi, qualsiasi sapere, e per i loro cultori (identificati con gli «intellettuali»); la pretesa di «fare» e saper fare anche senza conoscere e sapere; la convinzione, latente anche prima di lui nello spirito nazionale, ma promossa a piene mani dal sentire di cui è espressione il suo regime, di essere migliori di tutti gli altri: in particolare di arabi, «negri», cinesi, slavi, ebrei, a seconda dei gusti. Oggi è del tutto normale per personaggi (brutti, stupidi e cattivi) come Borghezio, Gentilini o Calderoli considerarsi esemplari di un mondo e di una razza superiori; e considerare e trattare figure come Mandela, Evo Morales o Gandhi, e soprattutto i popoli che li hanno espressi, come esemplari di un universo subumano.

Questo sdoganamento dell'ignoranza, il cui strumento principale è stata in Italia la televisione, privata e di Stato — la peggiore del mondo; e non solo nei notiziari e nelle trasmissioni «politiche», quanto soprattutto nella pappa securitaria (fondata sulla propalazione della paura) e decerebrata rifilata quotidianamente al pubblico culturalmente più indifeso dalle trasmissioni di intrattenimento — si è innestato tuttavia su alcuni processi di fondo che attraversano il panorama mondiale da decenni.


Eclisse della cultura scritta

Il primo è il passaggio epocale — uso questo termine abusato a ragion veduta, perché in questo caso lo ritengo appropriato — dalla cultura scritta dei libri, dei giornali e delle riviste alla cultura audiovisiva della televisione e di internet. Solo due o tre altri passaggi hanno avuto sulla storia umana un peso paragonabile: quello tra cultura orale e scrittura, quello dal manoscritto alla stampa e, forse, quello dalla lettura ad alta voce alla lettura mentale. In tutti e tre i casi, le modalità di trasmissione e comunicazione precedenti non sono state eliminate (ancora oggi si imparano a memoria canzoni e persino poesie; qualcuno scrive ancora a mano; molti leggono a voce più o meno sommessa); ma soverchiate sicuramente sì.

Se è vero che i «contenuti» veicolati su questi supporti possono essere gli stessi — ma in genere non lo sono — le modalità di trasmissione e di recepimento ne alterano radicalmente la portata. In fin dei conti, il medium è il messaggio. Su questo punto non occorre insistere perché è stato ampiamente analizzato: la pagina scritta richiede attenzione, sforzo, riflessione, invita a costruire schemi e griglie per sistemare — e sistematizzare sulla base di un principio di coerenza — quanto appreso. L'audiovisivo è molto più volatile; consente — anche se non necessariamente impone — una ricezione più passiva; non comporta, se non in rari casi, uno sforzo di apprendimento e meno ancora di interpretazione o di «traduzione»; permette di passare da un tema all'altro — o addirittura da un universo all'altro — con la semplice pressione di un tasto; non si deposita, o si deposita solo flebilmente, nel costrutto mentale del recipiente; soprattutto si rinnova ogni giorno, cancellando o relegando nell'oblio quello che era stato detto o comunicato solo ieri.

[...]


Il fondamentalismo

Il secondo processo a cui è riconducibile la dittatura dell'ignoranza è il fondamentalismo, non solo religioso – islamico, cristiano, giudaico o induista: ma sempre vissuto come fattore identitario, con effetti sanguinosi perseguiti in nome del bene contro il male – ma anche «razziale»: trasferendo magari dal piano biologico a quello culturale – in senso «antropologico» – la pretesa superiorità di un'etnia o di una nazione sull'altra. Il fondamentalismo moderno è stato e viene alimentato soprattutto da una reazione difensiva nei confronti dei processi di precarizzazione, di sradicamento, di perdita delle proprie certezze, di aumento dell'insicurezza indotti dalla globalizzazione.

Cresce in tutto il mondo il numero delle persone disposte a sostenere che nella Bibbia, nel Corano, nelle Upanishad o nel Vangelo – spesso senza conoscerne o senza nemmeno saperne leggere il testo – o in loro interpretazioni schematiche, dogmatiche o addirittura false, e comunque sempre autoritarie, è contenuto tutto quello che una persona giusta deve sapere; e pronte a negare qualsiasi evidenza, scientifica, filosofica, o di buon senso, che ne contraddica anche solo una singola sentenza.

Anche in questo caso il berlusconismo, questa volta anticipato dalla Lega, disinvoltamente passata dall'adorazione del dio Po, o Eridano, e dai riti celtici, all'alleanza con Cristo Re, ha saputo e potuto mettere a frutto la sostanza fondamentalmente razzista di questa chiusura culturale. Lo ha fatto con un'alleanza tra trono e altare configurata ad hoc per coprire reciprocamente le rispettive debolezze. Il risultato più feroce e grottesco di questo innesto sono le dissertazioni pseudoscientifiche sullo statuto dell'embrione, sulla tempistica dell'estinzione della vita o sull'omosessualità. E lo sarà probabilmente ben presto anche l'imposizione del creazionismo, come già avviene in molte scuole degli Stati Uniti.

Il vuoto culturale indotto o favorito da questi due processi – la prevalenza della cultura audiovisiva su quella scritta e il fondamentalismo – convive con, o addirittura si qualifica come, una sorta di pragmatismo «di ordinanza», imposto dalla cosiddetta fine delle ideologie: in realtà di una sola ideologia, quella socialista, con la sua appendice comunista; che forse ideologia non era, bensì un insieme di saperi, seppur parziali e di parte, e certo irrigiditi da una codificazione autoritaria, e in questa forma sicuramente inadatti all'interpretazione del mondo attuale; ma la cui cancellazione ha lasciato dietro di sé solo macerie.

Perché le altre cosiddette «ideologie» dei due secoli scorsi non sono certo scomparse. Quella cattolica – la «dottrina sociale della chiesa» nelle varie formulazioni che hanno tenuto uniti molti partiti occidentali per più di un secolo – o genericamente cristiana, lungi dallo scomparire, è possentemente risorta negli ultimi decenni in forme più radicali, brutali e «ideologiche», sotto le vesti, appunto, di integralismo fondamentalista. E quella liberale, trasmutatasi in fondamentalismo liberista, ha ormai occupato tutta la scena planetaria sotto forma di «pensiero unico». Che altro non è che la forma più schematica e idiota di un «mercatismo» da tempo impegnato a identificare tutte le manifestazioni della vita umana, e a volte anche quelle della natura, con una sorta di totalitario «darvinismo sociale»: un meccanismo fondato sulla competizione e la selezione comandato dal gioco di un mercato concorrenziale che non è mai esistito e mai esisterà in quella forma. Se non negli scritti dottrinari di centinaia di migliaia di accademici che hanno fatto da scudo alla prassi dei rispettivi allievi.

I quali, come ha ben illustrato Naomi Klein in «Shock Economy» (Rizzoli, 2007), dalle istituzioni universitarie in cui sono stati allevati hanno finito per occupare tutti i gangli vitali degli organismi che governano i processi della globalizzazione economica: dalla Banca mondiale alla WTO, dal FMI alla Commissione Europea, fino a coinvolgere i vertici di quasi tutti gli Stati sia dell'Occidente che di quelli nati dalla dissoluzione dell'impero sovietico, e persino della Repubblica popolare cinese, che pure si dichiara ancora «comunista».

Proprio perché autentica ideologia, che non ha alcun riscontro non solo nella realtà dei processi economici (i «mercati» reali), ma nemmeno nella prassi di chi la professa solo per farne un paravento delle proprie scelte, il liberismo o «pensiero unico» può essere senz'altro identificato con la forma più dispiegata e diffusa di ignoranza: una forma, cioè, non solo di occultamento della verità, ma di orgoglio nel volerla ignorare. Mentre i suoi proseliti, di destra e di sinistra, o né di destra né di sinistra, non sono che i sacerdoti di questa «dittatura dell'ignoranza».

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Produzione di merci
a mezzo di natura
di Giorgio Nebbia



Non è vero che le merci si producono a mezzo di soldi, e neanche a mezzo di merci: le merci (e i servizi che anche loro, tutti, richiedono oggetti materiali) si producono a mezzo di natura. In maniera analoga a quanto avviene nei cicli biologici, anche i cicli economici consistono nel prelevare dei beni materiali dai corpi naturali - aria, acque, suolo, depositi o stocks di minerali, rocce, combustibili fossili - nel trasformarli in oggetti utili, con inevitabile formazione di scorie e di rifiuti che finiscono nei corpi naturali. Solo capendo come la materia circola in una economia dai corpi naturali ai processi di produzione e di «consumo», e poi come e dove la materia ritorna nei corpi naturali come scorie e rifiuti, solo così si può capire come funziona una economia.

Le merci, gli oggetti «economici» vengono usati dagli esseri umani per ottenere servizi: muoversi, scaldare edifici, nutrirsi, abitare, comunicare, eccetera; dopo l'uso (impropriamente chiamato «consumo») le merci in parte finiscono come scorie e rifiuti nei corpi naturali, in parte (mezzi di trasporto, edifici, strade, mobili, eccetera) vengono immobilizzate per tempi lunghi o lunghissimi nell'universo degli oggetti fabbricati, negli stocks della tecnosfera che si dilata continuamente.

Alla fine di questa circolazione natura-merci-natura, per esempio alla fine di ogni anno, i corpi naturali vengono impoveriti come massa contenuta e ne viene peggiorata la composizione chimica e fisica. Sono i fenomeni di «alterazione ambientale» che conosciamo con i nomi di inquinamento, impoverimento delle riserve di risorse naturali, erosione del suolo, frane e alluvioni, congestione stradale, eccetera. Tali alterazioni ambientali arrecano danni monetari ai vari soggetti economici di una società, fanno crescere la povertà soprattutto dei soggetti più deboli.

Le leggi per la limitazione dei danni ambientali presuppongono la conoscenza dell'origine e dei caratteri delle modificazioni ambientali: ad esempio chi ha immesso acidi nell'aria? O metalli tossici nelle acque? Chi ha provocato l'abbassamento delle falde idriche? Presuppongono cioè la conoscenza della circolazione di materia e di energia nella tecnosfera.

Mentre gli ecologi (bene o male) sanno (possono) redigere una contabilità in unità fisiche (chili di materia, joule di energia) dei cicli della natura (o almeno di alcuni), i governi e le imprese sanno effettuare soltanto dei calcoli parziali dei flussi di materia e di energia attraverso l'economia, non conoscono l'origine, la quantità e la composizione della maggior parte delle sostanze inquinanti e comunque non sanno fare i loro conti altro che in unità monetarie: quanti euro di materie prime e di lavoro entrano in un processo, quanti euro si ricavano vendendo le merci e i servizi prodotti, quanti euro costa la depurazione degli scarichi o lo smaltimento dei rifiuti.

A dire la verità, delle idee sulla circolazione natura-merci-natura erano state avanzate da Quesnay nel XVIII secolo, da Marx e poi da Walras, ma la vera grande svolta si è avuta negli anni venti del Novecento, nell'Unione Sovietica, in quel periodo di grandi fermenti e speranze; il governo bolscevico instaurato da Lenin doveva ricostruire un paese devastato dalla guerra e dalla crisi economica, con industria e agricoltura arretrate, con una popolazione dilaniata da divisioni e odi interni. Non sarebbe stato possibile risollevare l'industria del grande paese, ricco di risorse naturali, non sarebbe stato possibile riportare gli alimenti e le merci nei negozi, senza una pianificazione capace di indicare le priorità produttive: elettricità, carbone, concimi, acciaio, grano, eccetera. E la pianificazione richiedeva la conoscenza di un quadro completo delle produzioni e dei loro rapporti: quanti concimi e trattori occorrono per aumentare la produzione di grano; quanto carbone per aumentare la produzione di acciaio; quanto acciaio per produrre i trattori?

Per dare una risposta a tali domande Lenin mobilitò i migliori ingegni economici, matematici, tecnico-scientifici del paese (fra cui il giovane Leontief che avrebbe ottenuto il premio Nobel per l'economia proprio per i suoi studi sui flussi intersettoriali nell'economia), per costruire il primo bilancio economico dell'URSS. Visto in prospettiva si trattava di un lavoro gigantesco; occorreva avere attendibili informazioni statistiche, comprendere come ciascun settore economico vende merci a tutti gli altri settori e rifornisce, con le proprie tasse, le tasche dello Stato; come le famiglie vendono il proprio lavoro ai vari settori economici e col ricavato acquistano i beni e i servizi necessari.

Una grande circolazione di denaro e di beni materiali: ciascun settore produttivo e di consumi finali e di servizi compra beni fisici da tutti gli altri settori e a tutti gli altri settori vende beni fisici: materie prime, energia, metalli, grano, automobili, concimi, tessuti, carne, lavoro, servizi di trasporti, eccetera. E questa gran massa di dati doveva essere rappresentata in una forma matematica adatta a rispondere alla domanda: per far aumentare del 10 per cento la produzione di acciaio, di quanto deve aumentare la produzione di minerali, la richiesta di mano d'opera, di quanto aumenteranno i consumi delle famiglie? Una idea che discendeva dalla trattazione marxiana della circolazione e della riproduzione dei beni.

Purtroppo una contabilità fisica comporta la necessità di confrontare e sommare cose estremamente eterogenee, ferro con patate, macchine con legname, carbone con zucchero, eccetera, e di superare problemi di duplicazioni contabili: lo stesso chilo di ferro va contato quando il minerale viene venduto alle acciaierie, quando le acciaierie vendono acciaio alle fabbriche dei trattori, quando l'industria meccanica vende i trattori al settore dell'agricoltura, eccetera: il chilo di ferro è sempre lo stesso ma viene contato quattro (e magari molte altre) volte.


La contabilità in moneta

Davanti a tali difficoltà gli economisti hanno ripiegato sulla redazione di una contabilità in unità monetarie sulla base delle quali è stato elaborato, con opportuni artifizi contabili, intorno al 1940, il concetto di prodotto interno lordo, quel PIL di cui i governanti seguono con ansia l'aumento o la diminuzione. Al fine di evitare duplicazioni, il PIL annuo è stato definito come la somma della quantità di denaro che arriva ai settori dei consumi finali delle famiglie e dei servizi, più la quantità di denaro che viene investita per macchinari, edifici, eccetera, a vita media e lunga, più il costo delle merci e dei servizi esportati, meno il prezzo delle merci e dei servizi importati.

Peraltro processi di produzione e di consumo, anche quelli apparentemente immateriali, descritti dagli scambi monetari, sono accompagnati, come si è già accennato, non solo dal movimento di migliaia o milioni di tonnellate di minerali, fonti energetiche, prodotti agricoli e forestali, metalli, merci, eccetera, per cui si paga un prezzo, ma anche dal movimento di una quantità, molte volte maggiore, di molti altri beni materiali tratti dalla natura. Dalla natura si acquistano, senza pagare niente, l'anidride carbonica necessaria per la fotosintesi dei vegetali e l'ossigeno indispensabile per la respirazione animale e per le combustioni industriali, o i sali del terreno necessari per la crescita delle piante; inoltre, nei vari processi vengono generate altre cose, come l'anidride carbonica e gli altri gas che finiscono nell'atmosfera, o le sostanze liquide e solide che finiscono nelle acque o sul suolo alterando i caratteri e la futura utilizzabilità di questi corpi naturali, spesso senza che venga pagato alcun risarcimento a nessuno.

[...]


La contabilità della natura

Vari studiosi hanno proposto di sostituire la contabilità nazionale in unità monetarie con una contabilità in unità fisiche, cioè con la misura della massa dei materiali - tratti dalla natura, trasformati dal lavoro umano e restituiti poi come scorie alla natura - che attraversano un'economia, una contabilità che, per l'ineluttabile principio di conservazione della massa, deve essere in pareggio: non ammette evasioni, o frodi, perché anche il denaro illegale, che sfugge al PIL, viene pure investito in edifici, macchinari, merci, automobili, battelli, eccetera, che richiedono un movimento fisico di pietre, cemento, mattoni, minerali, fonti di energia, acciaio, plastica, eccetera, movimento che può sfuggire nei conti in denaro ma non può sfuggire nella sua forma fisica, naturale. Non a caso Marx, nella «Critica del Programma di Gotha», ricorda che la natura è la fonte dei valori di uso e che di essi consta la reale ricchezza.

La redazione di una contabilità nazionale in unità fisiche richiede la soluzione di grossi problemi pratici. Per far quadrare i conti bisogna avere informazioni statistiche sulle entrate e uscite di materiali, in unità di chili o tonnellate, per ciascun settore di attività: agricoltura, industrie, servizi, trasporti, consumi finali delle famiglie, comprese le materie tratte (gratis) dall'aria o dal suolo o sottosuolo, comprese le materie immesse come rifiuti o scorie nell'aria, nelle acque, nel suolo. Per definizione, in ciascun settore economico entra esattamente la stessa quantità di materia che esce dallo stesso settore economico verso gli altri settori, verso i consumi finali e verso i corpi naturali, tenendo naturalmente conto delle importazioni ed esportazioni e della massa di materiali a vita lunga - il cemento e il tondino degli edifici, il bitume delle strade, l'acciaio dei mezzi di trasporto, dei treni, delle rotaie e dei ponti, i mobili e gli arredi domestici, gli elettrodomestici, eccetera - che restano immobilizzati come stocks dentro l'economia, dentro la tecnosfera, per un periodo di tempo più lungo dell'anno a cui si riferisce generalmente l'analisi.

L'esame delle tavole intersettoriali in unità fisiche spiega bene fenomeni noti spesso solo qualitativamente: le attività economiche comportano un impoverimento delle riserve di beni naturali - materiali di cava e miniera, fertilità del suolo, risorse idriche - e un peggioramento della qualità dei corpi riceventi ambientali: aria, acqua, suolo. Informazioni fondamentali per la politica ambientale, per identificare i settori da cui provengono le scorie inquinanti e per fargli pagare i danni ambientali, per incentivare usi e materiali alternativi a quelli esistenti, divieti di scaricare rifiuti nei corpi riceventi naturali, per orientare produzione e consumo di materiali e merci, eccetera.

La contabilità in unità fisiche è l'unico sistema in cui non si possono fare sbagli, né imbrogli, né omissioni, a condizione di disporre di dati statistici adeguati che devono essere cercati con pazienza e abilità, superando gravi vuoti di informazione intenzionali (segreti commerciali o militari) o mancanza di rilevamenti, talvolta anch'essi intenzionali. Ad esempio, la conoscenza della effettiva massa di rifiuti è impedita dalla continua modificazione delle denominazioni dei vari tipi di rifiuti, indicati nei documenti ufficiali talvolta come rifiuti, talvolta come materie seconde, talvolta come fonti di energia rinnovabili; il trasferimento di molte competenze (si fa per dire) alle Regioni e ad enti locali (privi, talvolta intenzionalmente, di adeguate strutture di rilevamenti statistici) impedisce di avere esatte informazioni sui flussi di materiali estratti dalla cave, sui prodotti agricoli, sui prelevamenti di acqua. A questo si aggiungano le mancanze di informazioni sulle importazioni e esportazioni clandestine, sulle denunce fraudolente di produzioni agricole e industriali, sui segreti relativi ai commerci di materiali militari, eccetera. Tanto meno le imprese e le loro organizzazioni forniscono dati esaurienti e attendibili sui flussi di materiali coinvolti nel loro operare - e fanno male, perché migliori conoscenze sui bilanci di massa e energia dei loro cicli produttivi farebbe loro bene ai fini della efficienza, competitività e sicurezza.

Sulla base di una contabilità fisica dei flussi dell'economia è possibile elaborare la valutazione di un prodotto interno materiale lordo (PIML), con lo stesso criterio con cui viene misurato il PIL in unità monetarie. Per l'Italia nel 2009 si tratta di un valore di circa 850 milioni di tonnellate, pari a circa 550 chili per 1.000 euro di PIL, poco meno di 15 tonnellate per persona all'anno. Questo significa che ogni persona in Italia, per mangiare, abitare, muoversi, lavorare, guardare la televisione o andare a spasso, richiede ogni anno circa duecento volte il proprio peso di materiali, provenienti dall'aria, dalle cave, dalle attività agricole e industriali e dalle importazioni, poi restituiti come gas, liquidi o rifiuti solidi nell'ambiente naturale, o immobilizzati dentro l'universo degli oggetti materiali, che così si dilata, anno dopo anno.

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