Copertina
Autore Antonio Padellaro
CoautoreAntonio Tabucchi, Corrado Stajano, Nando Dalla Chiesa, Oliviero Beha, Maurizio Chierici, Sandra Amurri
Titolo Io gioco pulito
EdizioneBaldini Castoldi Dalai, Milano, 2009, I saggi 384 , pag. 184, cop.ril.sov., dim. 15x22x2 cm , Isbn 978-88-6073-550-8
LettoreRiccardo Terzi, 2009
Classe politica , media , paesi: Italia: 2000 , destra-sinistra
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Breve premessa                                        7

Io                                                    9

Marco Travaglio                                      33

Noi e «l'Unità»                                      59

Furio Colombo                                        69

Lettere dal vuoto                                   115

Appelliamoci all'Europa (Antonio Tabucchi)          117

Il Paese di Pulcinella (Corrado Stajano)            123

Foto di gruppo con macerie (Nando Dalla Chiesa)     135

Casta e anti-casta (Oliviero Beha)                  145

I sonnambuli dell'informazione (Maurizio Chierici)  153

Confesso che ho creduto (Sandra Amurri)             161

Giocare pulito                                      167

Indice dei nomi                                     177


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

BREVE PREMESSA


Era la fine d'agosto del 2008, se non sbaglio un venerdì, quando ho scritto e consegnato il mio ultimo pezzo per «l'Unità». Da quel momento, ogni mattina (come succede a chi ha fatto per una vita sempre la stessa cosa), non ho smesso d'immaginare che giornale avrei fatto, con quali articoli e con quali titoli. Ma non avendo più un giornale ho pensato a un libro. Nessuno poteva licenziarmi. Nella peggiore delle ipotesi non avrei trovato un editore. Occorreva però una notizia che riuscisse a giustificare l'impiego di tante pagine e di tanta carta. Non bisognava cercare molto. Avevamo un delitto. L'assassinio della speranza di cambiamento nel nostro Paese. Avevamo una storia da raccontare. La descrizione di una sconfitta storica. Con il trionfo di tutto ciò che non siamo e che non vogliamo.

Come era stato possibile che il governo Prodi, nato al culmine di una progressiva avanzata elettorale del centro-sinistra, implodesse dopo poco più di un anno? E che in quindici mesi il Partito democratico dilapidasse buona parte del patrimonio di consensi e di calore suscitato dalle famose primarie? Dove erano finiti i tre milioni e mezzo di cittadini che avevano incoronato Walter Veltroni leader del Pd? Come è stato possibile che quindici mesi dopo, da un giorno all'altro, quel leader gettasse la spugna senza fornire una vera spiegazione del suo drammatico abbandono? Ma il vero delitto è stato quello commesso sulla pelle dell'Italia e degli italiani. Un Paese che in un miscuglio diffuso di scetticismo, cinismo e crisi economica galoppante ha continuato a sostenere Silvio Berlusconi, il suo disinvolto populismo, la sua esibizione di impunità, il suo arrogante conflitto d'interessi, la sua gestione personale dei più potenti mezzi d'informazione pubblici e privati.

Avevamo dei testimoni. Importanti. Attendibili. E avevamo più di una pista per ricostruire colpe e responsabilità. Ma era una storia troppo ingarbugliata per scriverla da solo. Perciò questo libro è molte cose insieme. Un lavoro collettivo fondato sulla collaborazione e sull'amicizia delle firme che mi hanno accompagnato in questi anni all'«Unità»: Marco Travaglio, Furio Colombo, Antonio Tabucchi, Corrado Stajano, Nando Dalla Chiesa, Oliviero Beha, Maurizio Chierici, Sandra Amurri.

Questo libro è in fondo la continuazione di un giornale. Un modo per non sentirsi soli. Una lezione per non trovarci mai più in un disastro simile.

Θ un libro che comincia male. Con l'autore che replica alle sue stesse amare domande.

Θ un libro che, forse, finisce bene. «Io gioco pulito» non è una vanteria o il sentirsi migliori degli altri. Θ una dimostrazione. Nella vita e nella politica si può vincere — e si può vincere meglio — con il rispetto delle regole. Affidandosi di nuovo a quei princìpi di lealtà, onestà, capacità, generosità, rispetto degli altri, fondamento di ogni consesso civile e messi sotto i piedi dal disprezzo di un'orda violenta e rapace.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 19

– Prima parli di fiction, ora di format. Non siamo mica al Grande Fratello.

– Sotto certi aspetti l'Italia assiste ogni giorno a un Grande Fratello della politica che si svolge in uno spazio ermeticamente chiuso, dentro una realtà artificiale completamente scollegata dalla vita degli uomini. Del resto Edmondo Berselli ha spiegato bene che alla base dei picchi di audience raggiunti dal berlusconismo di governo c'è un format ben collaudato che sostituisce la politica come complesso strutturato di regole.

– E funziona?

– Certamente, visto che il format è una forma di comunicazione e che la comunicazione è l'anima stessa di questa politica. Contenuti trasmessi secondo modalità standardizzate di tipo essenzialmente mediatico-televisivo. Come spiega Berselli, tutto si basa sul format del capro espiatorio: «Si individua un nemico vero o virtuale – gli immigrati clandestini, i fannulloni della pubblica amministrazione, i clienti delle prostitute – e lo si etichetta esponendolo alla pubblica opinione. Θ un format che rassicura ed esorcizza. Infallibile perché sgrava la coscienza. C'è un'altra Italia a cui dare la colpa di tutto. Un'Italia fortunatamente minoritaria, insignificante rispetto ai sessanta milioni di brave persone. Il contenuto populistico del format è fortissimo perché inibisce qualsiasi distinguo. Semplificazioni demagogiche che creano consenso. Scorciatoie che mobilitano risorse emotive nella società, antidoto al nichilismo, allo sradicamento morale e all'assenza di senso caratteristica dell'età contemporanea. Perfino i poveri nella soap opera sono pochi e risultano trattabili con espedienti tipo la social card. Il format offre soluzioni narrative con terapie che portano all'individuazione della causa, come se la causa fosse una sola, e la curano con un colpo di scena». C'è una sola obiezione che si può muovere a questa analisi così acuta.

– Quale?

– Che anche la sinistra ha cercato di crearsi un suo format. Con effetti però molto meno brillanti vista l'audience. Persiste nel credere che per la sua opera di persuasione sia sufficiente occupare spazi televisivi. Θ il loro oscuro oggetto di desiderio. Ho trovato fantastico che poche ore dopo aver abbandonato il Pd in mezzo a una strada l'ex leader dello schieramento a noi vicino si sia ricordato di piazzare un suo caro amico nel cda Rai. Il teleschermo nuovo sole dell'Avvenire. Al Pd mancano i voti ma non le tv. Due se le sono fatte in casa: YouDem e Red tv. Hanno una programmazione dignitosa, ma con misteriosi dati d'ascolto. Quando erano al governo in ogni tg, da mane a sera, ciascuno dei numerosi partiti e cespugli della coalizione spediva un proprio figurante a spiegarci che abitavamo nel migliore dei mondi possibili. Con il risultato di inferocire vieppiù una cittadinanza già duramente provata da stangate fiscali e recessione. Stando all'opposizione le cose sono andate ancora peggio. Davanti all'efficace fiction berlusconiana l'opposizione presenta il suo «benaltrismo»: per risolvere i problemi del Paese ci vorrebbe «ben altro» rispetto alle trovate a effetto dei Brunetta e delle Carfagna. Ma così di fronte alle «soluzioni» della destra la sinistra finisce per apparire parolaia e inconcludente. Non hanno ancora capito che le comparsate a Ballarò o a Porta a Porta sono controproducenti se al format populistico non ne opponi uno più convincente.

– E quale?

– Il format della sincerità.

– Non mi dire. Se è una fiction come dici, come diavolo fa a essere sincera?

– Lo ha spiegato bene Galli della Loggia paragonando cinema italiano e televisione: «Da una parte un cinema ricco di idee, di talenti, vitale e competitivo. Che non solo ha contribuito a formare come nessun altro la coscienza vera del Paese, ma che ha saputo spesso esprimere significati morali ed estetici di valore universale». Secondo Galli della Loggia autori come Avati, Muccino, Tornatore, Giordana raccontano con il timbro della verità e della poesia storie che parlano di noi, che riguardano il nostro passato e il nostro presente. Forse la qualità non è sempre questa, ma indubbiamente c'è un abisso tra il cinema e le fiction che ci propinano le varie tv pubbliche e private: «Dialoghi surreali. Scenografie e location posticce. Interpreti mal scelti. Recitazione sempre sgangherata, fuori tono, enfatica. Insomma, il trionfo dell'inautentico, dell'implausibile, del finto».

– Che c'entra tutto ciò con sinistra e destra?

– Θ semplice. La destra è quello che è. Rozza. Fascistoide. Xenofoba. Impresentabile. Gente che spesso e volentieri allunga le mani sulla cosa pubblica considerandola cosa nostra. Però, non avendo una reputazione da difendere, si mostrano per quello che sono. Berlusconi ci fa vergognare di essere italiani ma almeno non si nasconde, non finge, non è ipocrita.

– Stai per dire che la sinistra invece si nasconde, finge ed è ipocrita?

– Talune fiction sembrano proprio scritte nel loft del Pd. La ricerca ossessiva del nazionalpopolare, del «semplice ma avvincente e profondo». Il risultato è il patetico, il falso, la tirata retorica e il grido che sanno unicamente di artificio.

– Non ti sembra di esagerare?

– Ricordo un'assemblea sulla crisi dell'«Unità» alla Federazione della stampa. Un clima di solidarietà sincera a cui si unì l'allora premier Romano Prodi con parole di grande apprezzamento. Poi interviene il buon Realacci, esponente del famoso «partito nuovo che non è un nuovo partito», e in sostanza ci dice che per salvarci dobbiamo parlare meno di Berlusconi e più dei Cesaroni, una fiction di grande successo ambientata nel quartiere romano della Garbatella. Ma quanto ha giovato al Pd affidarsi a questi eroi dei nostri giorni? Nella foga di innovare, svecchiare, modernizzare, probabilmente non hanno ottenuto il voto dei Cesaroni ma sicuramente ne hanno perduti molti di più.

– Un esempio di questo distacco tra finzione e realtà?

– Il cosiddetto lodo Alfano. Berlusconi chiede una legge che gli garantisca l'immunità nei processi. Un'evidente porcata che lui non cerca di nascondere dietro alibi pseudoistituzionali. Il suo messaggio è: «Ho stravinto le elezioni, il popolo è con me e faccio quello che mi pare». A questo punto i suoi escogitano una geniale chiamata di correo. Si estenda l'immunità a tutte le alte cariche dello Stato, Quirinale compreso. Ed ecco che va in onda la fiction dell'opposizione. Nel partito nuovo si levano alti lai contro l'iniqua legge e in Parlamento si vota contro. Poi quando il capo dello Stato, uomo di sinistra e supremo custode della Costituzione, promulga l'iniqua legge, subito il sinedrio democratico plaude alla firma del Colle, definendola ineccepibile. Nessuno che trovi nulla da ridire su questo evidente strappo della Costituzione – tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Ed ecco che il grido artificiale si tramuta in uno sbatter di tacchi. Certo che Napolitano è al di sopra di ogni sospetto. Certo che è stato costretto a bere l'amaro calice. Ma quando sull'«Unità» provo rispettosissimamente a esprimere la delusione di tanti nostri lettori, apriti cielo! La grande stampa registra partecipe l'indignazione che promana sul Supremo Palazzo e parla di «gelo» del Quirinale. Siamo un gradino sotto l'«ira», altra espressione amata dai titolisti dei giornali in quanto breve. Annunciati dal rullar dei tamburi accorrono i corazzieri di complemento.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 69

FURIO COLOMBO


Noi,«l'Unità» e Berlusconi

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 72

— Come ricorderai, il primo numero della nuova «Unità» uscì il 29 marzo del 2001, in piena campagna elettorale con un titolo sulla potenza di fuoco di Berlusconi: Cento miliardi per comprarsi l'Italia. Sbagliammo per difetto perché i miliardi (di lire) che il Cavaliere si era messo a disposizione erano molti di più. La mattina dopo arrivarono le prime telefonate della dirigenza Ds che ci invitava in maniera amichevole a non fare dell'antiberlusconismo la cifra del giornale. Era lo stesso ritornello un po' ossessivo che ci era stato lanciato contro ai tempi dell'«Espresso» di Claudio Rinaldi, dove ero vicedirettore. Anche allora l'accusa era di aver provocato con l'antiberlusconismo dei danni enormi alla causa della democrazia perché in questo modo si finiva per dare ancora più spazio a Berlusconi. Obiezione che ho sempre considerato come una colossale sciocchezza.

— Che io definirei anche misteriosa, perché sarebbe come immaginare la campagna elettorale di Obama senza attacchi alla politica di Bush, che sono stati quotidiani, spietati, puntuali, molto dettagliati e precisi, come «la politica della povertà», «la politica della illegalità», «la politica della guerra» e «la politica dell'unilateralismo». Su queste quattro accuse Obama ha fondato la sua campagna elettorale, non ha mollato mai e non si è mai lasciato dire che l'antibushismo non l'avrebbe portato da nessuna parte. Perché lui stava andando in una direzione precisa: voleva sbalzare via dal potere quelli che sarebbero stati gli eredi politici e morali di George Bush per occuparne il posto e fare un'altra America. In questo modo egli ha rotto gli schemi insegnando ai democratici, che si erano adattati a stare dentro i limiti per timore di apparire poco patriottici, a non avere quei timori e a non stare più al gioco.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 76

Successivamente lui mi fece cercare attraverso un banchiere comune amico, italiano ma attivo negli Stati Uniti. All'epoca avevo pubblicato con Rizzoli un libro intitolato Carriera: vale una vita? in cui mi rivolgevo ai giovani. Quel mio amico banchiere mi disse: «La prossima volta che sei a Milano dimmelo, così andiamo ad Arcore perché Berlusconi ha piacere d'incontrarti».

Sono stato invitato a pranzo, con i lussi e i pregi di casa Berlusconi. Egli ha fatto venire suo figlio Pier Silvio, che allora era molto giovane, ha voluto che gli dedicassi una copia di questo libro non «per trovare un lavoro», come anche lui scherzosamente diceva, perché forse un lavoro lui ce l'aveva già, ma perché nel libro c'erano tanti discorsi fatti ai ragazzi su come distinguere il proprio futuro, cercare di essere realisti nel capire che cosa interessava loro. Insomma diversi aspetti che venivano benevolmente giudicati positivi e, appunto, non essendo ancora antiberlusconiano, ero ancora nell'ordine delle persone «normali».

– Lui stava già pensando alla discesa in campo?

– Θ possibile che si stesse preparando, ma non ci fu alcun tentativo di arruolamento alla Di Pietro. Abbiamo parlato molto di Italia e Stati Uniti confrontando le posizioni dei due Paesi e devo dire che, a quel tempo, le posizioni di Berlusconi sul lavoro e la protezione del lavoro erano molto più a sinistra, almeno per come me le ha espresse, di quelle di Ichino oggi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 78

— Qui, però, per completare il quadro vanno aggiunti ancora due episodi. Il caso ha voluto che non tanto tempo dopo l'incontro di Arcore, quando Berlusconi decise di scendere in campo, io mi trovassi in Italia.

In quell'occasione sono stato invitato dal Tgl a essere uno dei tre giornalisti che avrebbero assistito alla presentazione della famosa videocassetta registrata con cui Berlusconi è entrato in politica.

Ricordo che — dopo aver visto il documento che era abbastanza stravagante perché spiegava, anni dopo la caduta del Muro e la fine del comunismo nel mondo, che lui scendeva in campo per salvare l'Italia dal comunismo — io, trovandomi nella condizione privilegiata di essere uno dei tre che poteva commentare quell'evento, decisi di esprimermi subito sulla singolarità del mezzo scelto per divulgare l'annuncio. Dissi: «Un momento, io non conosco nessun Paese democratico in cui sarebbe stata messa in onda una cassetta invece di un candidato, perché l'opinione pubblica ha diritto al controinterrogatorio del candidato, ha diritto a fare domande, ha diritto a chiedere, ha diritto alla persona viva. La videocassetta non si manda in onda in una televisione americana, né in quella inglese, né in quella tedesca o francese per nessuna ragione, a meno che si tratti di un ostaggio, di qualcuno che è privato della propria libertà e che per serie e motivate ragioni non può intervenire di persona. Mai per un candidato politico! Noi, quindi, in questo telegiornale stiamo accettando che qualcuno si presenti in politica senza la propria faccia e questo lo trovo strano».

Θ un fatto incancellabile che Berlusconi è entrato in politica attraverso un video che impediva di rivolgergli ogni tipo di domande: da quelle sui tanti processi in cui era implicato a quelle sulle sue scelte politiche e di programma. Mi sono subito reso conto dell'anomalia, ed era stata un'intuizione giusta, perché da quel momento in poi nessuno a Berlusconi ha mai più fatto domande degne di questo nome!

Il mio ultimo incontro con Berlusconi risale al 1996. Ero stato appena eletto alla Camera e come accade ai nuovi deputati vagavo un po' sperduto nei corridoi di Montecitorio. Fino a quando, in una di quelle mattine d'attesa Berlusconi, mi fece fare varie «vasche» del Transatlantico tenendomi sottobraccio e dicendomi che di un democratico come me ci si poteva fidare e che avrei dovuto dargli una mano per riformare finalmente questa televisione. Intendeva la Rai.

— Il solito seduttore.

— Ecco, lì cominciava un tipo di seduzione che su di me non aveva mai provato, anche perché credo che avesse e abbia un buon istinto in questo senso: sa che cosa si compra e cosa non si compra. Ma c'è un altro incontro di cui voglio parlare.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 83

— Ma l'intimidazione ha anche un altro versante e ancora più delicato: quello economico-finanziario. Il quattordicesimo uomo più ricco del mondo, secondo «Forbes» — secondo altri il settimo, più ricco del sultano del Brunei — le cui fantasiose capacità di imporsi sono note nel mondo, è in grado di influenzare direttamente e indirettamente una quantità di consigli di amministrazione per ragioni diverse: una è per affinità diretta nel mondo dell'informazione, perché possiede le televisioni che possiede, poi i giornali e l'editoria che possiede, per cui è naturale che la gente che si orienta verso l'editoria e la televisione stia attenta, in quanto lui controlla una quantità di posti desiderabili. Più quelli della Rai, a cui non si arriva certo con la patente di antiberlusconiani. Ma poi è in grado di contare dal punto di vista delle banche, dal punto di vista della finanza, dal punto di vista delle assicurazioni e delle costruzioni, di raggiungere gli interessi diversi degli altri azionisti che non hanno di per sé a che fare con l'informazione, con le notizie e con le televisioni, attraverso convenienze o sconvenienze gravi nei vari campi in cui queste persone sono attive.

Sappiamo tutti che il mondo degli affari, specialmente in un Paese a orizzonti relativamente limitati come l'Italia, è un club nel quale i vari soci si guardano con attenzione e nel quale l'essere favoriti o sfavoriti da un potente ha un'importanza enorme.

Fino a quando questo mondo è stato ampiamente triangolato dalla presenza degli Agnelli o dei De Benedetti, c'erano delle aree di compensazione e di riequilibrio. Una volta cadute queste aree di compensazione, in cui ci sono degli angoli nei quali puoi trovare non dico una controprotezione, ma, insomma, una zona meno insicura, il dominio di Berlusconi adesso appare assolutamente totale e, come tale, si sta manifestando.

— L'altra sera ho visto una brava collega chiedere a Sandro Bondi come fa la destra italiana a essere così vincente. Vedrai che fra poco qualche altro bravo collega chiederà ai ministri berlusconiani come fanno a essere così belli, bravi e buoni.

— Θ il clima in cui viviamo. L'espressione spagnola che si usava ai tempi dei gerarchi di Franco, quando si diceva che operavano sin vergόenza, nel senso che non ponevano alcun limite formale e apparente alla loro intrusione nella vita pubblica e anche in quella privata dei cittadini soggetti alla dittatura di Franco. Ebbene, questo atteggiamento sin vergόenza, senza vergogna, è abbastanza tipico del fatto di governare di questo ultimo Berlusconi, persino per il suo comportamento alla Camera.

A me è accaduto di alzarmi per far notare — cosa che, per qualche ragione che non so, le opposizioni non fanno — che un solo deputato berlusconiano votava per cinque, caso raro e di bravura straordinaria. Un «pianista» davvero favoloso, dato che l'apertura della votazione dura pochi secondi e riusciva a votare da solo per quattro deputati assenti e pagati.

Quello che mi ha stupito e che ho denunciato è stato il fatto di dire che lo faceva senza vergogna. Una volta si faceva mettendo i giornali davanti, preparando una pila di libri, invece adesso no, il «pianista» si esibiva come un virtuoso dello strumento: in piedi, dando i due voti all'estremo del banco da cinque, poi quelli interni, poi il suo!

Quando mi sono alzato per denunciare quel malcostume davvero esagerato, il deputato Consolo del Pdl ha così ribattuto: «Ma non vi siete ancora accorti che avete perduto le elezioni e che abbiamo vinto noi?!»

Questo è l'argomento chiave che molte volte usa anche la Lega: quando si denuncia l'incredibile grado di xenofobia e di barbarie delle cose che propongono, una peggiore dell'altra, man mano che passa il tempo, oppure si denuncia l'incredibile sottomissione della destra, già An, che accetta con le parole di Bocchino di dirci quanto buoni sono questi tormenti e persecuzioni a carico di immigrati che sono venuti a lavorare da noi, c'è di nuovo qualcuno che si alza e che dice: «Ma non vi siete accorti che avete perso le elezioni? Abbiamo vinto noi!» e la vittoria viene presa come ragione di prepotenza, di occupazione, di arbitrio.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 123

IL PAESE DI PULCINELLA

Corrado Stajano


Non era facile da mettere in pratica, allora, quel messaggio del ragazzo partigiano Giacomo Ulivi, fucilato dai fascisti sulla piazza Grande di Modena il 10 novembre 1944. Nella sua lettera dal carcere aveva scritto agli amici: «Non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere!»

E non è facile oggi. Sono mutati i tempi, è impropria una comparazione storico-politica con il passato di sessant'anni fa, anche se il presente, diverso nel profondo, è penosamente difficile e ha conservato tanti segni del passato. Quelle parole di Giacomo Ulivi hanno mantenuto purtroppo un sapore contemporaneo e valgono anche oggi, tra stanchezze, umiliazioni, depressioni, voglia di rinuncia e di fuga dalla vita collettiva.

Il disagio è infatti sommo in chi crede nella giustizia e nella libertà e assiste senza difese allo spappolamento di una società che non sembra del tutto consapevole dei pericoli che la minacciano. Il sistema parlamentare è apparentemente intoccato, ma l'esibita onnipotenza del governo, l'autoritarismo come regola, il populismo sbracato, il mancato rispetto dei princìpi, il disprezzo per la Costituzione, il riaffiorare del razzismo, la menzogna usata quotidianamente senza vergogna, la cultura calpestata, l'ignoranza come sigillo di un'epoca, un estremismo irresponsabile che viola le prerogative dello Stato di diritto, la «dittatura della maggioranza», secondo la lezione di Alexis de Tocqueville, fanno da cardine a questa stagione politica.

Nasce così il disincanto di molti, fomentato per di più dalla debolezza dell'opposizione, dagli errori e dalle meschinerie di frazioni della maggioranza di centrosinistra al tempo del governo Prodi, dalla errata campagna elettorale che seguì la caduta del Professore, dalla presuntuosa scelta di chiusura del «nascente» Partito democratico, portatrice della sconfitta e dell'esclusione della sinistra dalla rappresentanza politica parlamentare, tre milioni e mezzo di persone vittime anche di un gruppo dirigente dissennato.

La delusione e il desiderio di non volerne più sapere sono dunque reali e moltiplicano le solitudini, nel diffuso delirio dell'io, mentre lo spirito solidale si assottiglia ogni giorno di più.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 127

Gli italiani. Tocca parlare di loro, dei milioni che hanno legittimamente votato, quindici anni di seguito, per Berlusconi. E per capire sarebbe indispensabile andare un po' più in là nel tempo, rileggere, con qualche testo di antropologia e di psicoanalisi, i classici che hanno scritto sul carattere degli italiani, da Dante a Machiavelli, da Stendhal a Leopardi, a Gobetti, a Gramsci, a Calvino. Passano gli anni e i secoli, cambiano le condizioni del vivere, ma le diagnosi restano identiche, nel profondo: mancanza di senso dello Stato, mancanza di senso della società, infinita lontananza tra comunità e istituzioni, visione negativa della vita, odio per la politica, il dubbio costante che il vivere rettamente sia inutile, il fastidio per la questione morale, i sussulti civili di breve durata, il subitaneo smorzare la passione, il trasformismo, l'assenza di una vera classe dirigente, la debolezza della borghesia, la mancanza di un'opinione pubblica.

«Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave senza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di provincie, ma bordello!» (Dante, Purgatorio, canto VI).

«Le classi superiori d'Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de' popolacci. Quelli che credono superiore a tutti per cinismo la nazione francese, s'ingannano. Niuna vince né eguaglia in ciò l'italiana. Essa unisce la vivacità naturale (maggiore assai di quella dei francesi) all'indifferenza acquisita verso ogni cosa e al poco riguardo verso gli altri cagionato dalla mancanza di società, che non li fa curar gran fatto della stima e de' riguardi altrui. [...] Se gli strànieri non conoscono bene il modo di trattare degl'italiani, massime tra loro, questo viene appunto dalla mancanza di società in Italia, onde è difficile a un estero il farsi una precisa idea delle nostre maniere sociali» (Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani, 1824).

«Quando i ladri presero la città, il popolo fu contento, fece vacanza e bei fuochi d'artificio» (Ennio Flaiano, «Il Mondo», 1960).

«Vi siete mai chiesti perché l'Italia non ha avuto, in tutta la sua storia – da Roma a oggi – una sola vera rivoluzione? La risposta – chiave che apre molte porte – è forse la storia d'Italia in poche righe. Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi: Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani... Gli italiani sono l'unico popolo (credo) che abbiano alla base della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia la rivoluzione» (Umberto Saba, Scorciatoie e raccontini, 1963).

«L'Italia è un Paese che si regge sull'illecito» (Italo Calvino, Apologo dell'onestà nel paese dei corrotti, «la Repubblica», 15 marzo 1980).


Come hanno potuto e come possono milioni di persone affidarsi, e seguitare a farlo, a un uomo privo di cultura non soltanto politica, un personaggio spregiudicato, un borderline del Novecento come Silvio Berlusconi, che è riuscito a farsi luce in un mondo di ombre dove nulla è chiaro e dove nulla è stato chiarito a proposito delle origini della sua ricchezza?

«Scende in campo», come ama dire, nel gennaio 1994 per salvare se stesso dalla catastrofe finanziaria che lo minaccia. Ha allora debiti per migliaia di miliardi, i suoi protettori politici, senza i quali non avrebbe potuto fare un passo, hanno perso l'autorevolezza di un tempo. Si sente in pericolo. L'uomo dell'antipolitica entra così in politica, la politica salvatrice. Sarà circondato da allora da una legione di avvocati (spesso parlamentari di Forza Italia) in guerra con la giustizia. Θ imputato, per anni, in un'infinità di processi: falso in bilancio, frode fiscale, corruzione in atti giudiziari, concussione, irregolarità edilizie, falsa testimonianza, finanziamenti illeciti. Si difenderà coi denti, e le cause in cui sarà protagonista rappresenteranno il suo primario e vero impegno di uomo di Stato. Si servirà di tutti i mezzi, beffeggerà i tribunali prolungando con artifici la durata dei processi e, quando potrà disporre in proprio del potere politico, preparerà da sé le leggi utili a imbrigliare la giustizia dannosa per il suo interesse privato, cancellarla, vanificarla. E si servirà delle amnistie e delle immunità, oltre che delle sue leggi ad personam, per uscire indenne da processi ben istruiti e forniti di prove. Userà la prescrizione che gabellerà per assoluzione: i megafoni dell'informazione sono a sua disposizione per diffondere il falso e far di lui una vittima, un perseguitato dalla giustizia.

I magistrati sono per Berlusconi il nemico. Il 4 settembre 2003, nell'intervista a due giornalisti inglesi dello «Spectator», li definisce così: «Sono doppiamente matti. Per far quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana». Θ il presidente del Consiglio dei ministri in carica a parlare in questo modo.

Il 17 febbraio 2009, la decima sezione del tribunale di Milano presieduta da Nicoletta Gandus ha inflitto a David Mills, avvocato inglese del presidente del Consiglio, una sentenza di condanna a quattro anni e sei mesi di carcere per concorso in corruzione in atti giudiziari. Il corruttore, Silvio Berlusconi, era accusato di aver comprato il silenzio di Mills su operazioni finanziarie segrete e forse illegali donandogli seicentomila dollari. Era riuscito a schivare la sua probabile condanna e a uscire dal processo soltanto perché, il 21 luglio 2008, era entrata in vigore la legge Alfano che assicura l'immunità alle quattro più alte cariche dello Stato. La Consulta deve decidere, con calma — come ha annunciato il nuovo presidente — se la norma viola la Costituzione. Intanto Berlusconi è libero come un grillo: i giornali di tutto il mondo deridono la povera Italia patria del diritto, quelli nostrani, in gran maggioranza, hanno nascosto la grave notizia. Alexander Stille, il 19 febbraio 2009, ha iniziato così il suo articolo sulla «Repubblica». «Allora, fammi capire», mi ha scritto un mio collega giornalista americano, «viene condannato per corruzione il coimputato del primo ministro ma si dimette il capo dell'opposizione (Veltroni). Che strano Paese, l'Italia.» Poi, mi chiama più tardi un'altra collega americana che chiede: «Ma è possibile che non avrà conseguenze gravi la condanna di David Mills? Dopo tutto se Berlusconi non avesse fatto passare il lodo Alfano sarebbe stato condannato anche lui? Come spieghi il fatto che cose di questa gravità passano come se nulla fosse?»


Come poteva Walter Veltroni condurre una campagna elettorale senza nominare mai Berlusconi, facendosene un vanto, il segno della nuova politica, lui ammiratore degli Stati Uniti, dove durante le elezioni i leader degli schieramenti opposti si danno botte da orbi? «Il candidato della coalizione avversaria», lo definiva. Non sapeva, Veltroni, con chi aveva a che fare? In mancanza di esperienza diretta — ipotesi impensabile — avrebbe potuto leggere qualche libro. C'è tutta una bibliografia, ormai, sull'uomo di Arcore, ma bastano Il venditore di Giuseppe Fiori e L'ombra del potere di David Lane, oltre ai libri di Marco Travaglio, Gianni Barbacetto, Giorgio Bocca, Paolo Sylos Labini, Franco Cordero, per avere un panorama approfondito del personaggio e della sua visione della vita e della politica nel passato e nel presente. Altro che dialogo, altro che condivisione dei fini, se erano questi gli obiettivi.

Prendere le distanze da Prodi, poi, è stata un'altra scelta nefasta. Come se quel governo, faticato, ma che ha messo in cantiere non poche buone leggi – lo si riconosce adesso – fosse un nemico da lasciare fuori dalla porta dando così ragione all'avversario, regalandogli carte assai utili per il confronto.

Si è visto subito, del resto, quali erano i progetti berlusconiani: un pericolo per la democrazia, una lacerazione continua dello Stato di diritto. Il lodo Alfano, anzitutto, e poi il caso Englaro usato con nequizia, il disprezzo per ogni forma di garanzia, la legge sulle intercettazioni che paralizza le indagini giudiziarie, l'intenzione di governare soltanto tramite i decreti legge, l'accordo sul nucleare firmato in una villa romana con il presidente francese Sarkozy senza una discussione in Parlamento, l'«aula sorda e grigia» che anche lui detesta perché fa solo perder tempo con le sue regole.

Su quel che accadde nell'ultima legislatura è uscito nell'inverno scorso un libro che fa accapponare la pelle, scritto da un giornalista serio, Rodolfo Brancoli, che lavorò nella segreteria di Prodi: Fine corsa. Il sottotitolo dovrebbe far vergognare molti uomini della maggioranza di Prodi che si dilaniarono per piccoli e grandi interessi di parte Le sinistre italiane dal governo al suicidio.

Un'amara verità. Brancoli annota tutto quel che vede e che sente. Ne esce un panorama terrificante sulla politica degenerata e su quel che si mosse in quegli anni per scalzare Prodi: da Bertinotti al cardinal Ruini, da Luca di Montezemolo a Dini e a Mastella, fino alla stagione della sconfitta dalla quale uscì con dignità soprattutto Romano Prodi.

Si capisce anche da quel libro come il conflitto di interessi, un macigno che pesa sul Paese, sarà difficile, forse impossibile da risolvere e da sradicare. Non esiste in Occidente un tycoon presidente del Consiglio, proprietario di tre reti televisive, di case editrici, di giornali, di banche, assicurazioni, imprese pubblicitarie, una squadra di calcio, in grado di influenzare – ma è un eufemismo – la televisione pubblica. L'uomo più ricco d'Italia – un modello di speranza per gli italiani? – con il suo denaro e il suo potere condiziona massicciamente la vita politica. Nell'indifferenza generale. O nella paura.

Il centrosinistra non ha neppure affrontato il problema nella XIII legislatura, quando fu al governo, e nel 2006-2008 quando ci ritornò. Sui giornali era difficile parlarne. L'antiberlusconismo era considerato, e lo è ancora, una bestemmia. Non bisognava e non bisogna «demonizzare» il presidente.

Θ inutile recriminare, ma è difficile non pensare ai macroscopici errori fatti da uomini di piccolo cabotaggio, incoscienti, forse corrotti, incapaci di immaginare quel che sarebbe successo con il ritorno di Berlusconi a palazzo Chigi e a palazzo Grazioli, casa e bottega senza confini ben definiti.


Θ uscita sui giornali, dopo l'incontro di Berlusconi con Sarkozy a villa Madama, una triste fotografia. Il presidente del Consiglio scherza in giardino con i carabinieri della banda musicale, ride, probabilmente racconta loro una delle sue barzellette. E allunga le braccia e i polsi verso di loro come se dovessero mettergli le manette. I carabinieri purtroppo ridono.

Il Paese di Pulcinella?


L'invocazione del ragazzo partigiano Giacomo Ulivi resta senza risposta per l'oggi e per il domani. La società sembra passiva, i moti di indignazione hanno breve durata, la protesta non scuote le città.

Esiste però una società minuta fatta di piccoli gruppi, comunità, scuole, cantieri sociali, corsi di formazione, centri di studio e di ricerca, libere università, botteghe solidali, associazioni antimafia. La politica e la grande informazione non sanno neppure che esistono. Ma sono la società, una rete enorme di energie positive, diversa perché più colta rispetto agli anni Settanta, che cerca di compensare quel che i partiti fantasma e le istituzioni assenti faticano a fare. Potrebbe essere nascosta là dentro la piccola speranza, potrebbe nascere di lì la riscossa ribelle?

Corrado Stajano

| << |  <  |