Copertina
Autore Federico Pedrocchi
Titolo Parole per il futuro
SottotitoloPiccolo vocabolario per il prossimo decennio
EdizioneAmbiente, Milano, 2012, Tascabili , pag. 190, cop.fle., dim. 13x18,5x1,4 cm , Isbn 978-88-6627-043-0
PrefazioneMassimo Cirri, Piercarlo Pirovano
LettoreCorrado Leonardo, 2012
Classe politica , economia , beni comuni , ecologia , informatica: reti
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


PREFAZIONE IN FORMA DI STORIA FAMILIARE          7
di Massimo Cirri

INTRODUZIONE                                    13

BENE COMUNE                                     15

BIG DATA E CLOUD                                23

BIOMIMESI                                       35

CUSTOM E STANDARD                               43

GEOPOLITICA DELLE RISORSE                       55

GOVERNANCE                                      61

GRAFENE                                         73

GREENWASHING                                    77

INFOMOBILITΐ                                    83

LIMITI                                          93

MEDICINA                                       101

NANOTECNOLOGIE                                 113

NICCHIE                                        119

REALTΐ AUMENTATA                               129

RESILIENZA                                     135

SHARING                                        145

SMART CITY                                     151

SMART GRID                                     163

SOBRIETΐ                                       169

STAMPANTI 3D                                   179


POSTFAZIONE                                    183
di Piercarlo Pirovano

BIBLIOGRAFIA                                   187


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

INTRODUZIONE


Si parla di futuro, dunque. Intenzione non banale, dato che viviamo in tempi nei quali: 1) è in corso la più grande crisi a memoria d'uomo; 2) la morfologia geopolitica del pianeta è in totale trasformazione; 3) sul palcoscenico dell'innovazione si stanno presentando nuove tecnologie di potenziale grande impatto. Prudenza vorrebbe che si stesse zitti, quindi, trovandosi immersi in un lunapark di tale portata. Nelle pagine che seguono, però, non troverete uno di quei saggi che vogliono stupirvi prevedendo fatti di cui oggi non v'è traccia. Ecco: tracce di futuro, invece, segnali deboli che già oggi contengono tutte le frequenze di sonorità ben più corpose che ci attendono (quelle vecchie foto dei fratelli Wright, che se ne stanno a una decina di metri dal suolo, con camicia, cravatta e pure un gilet, ma si capisce già tutto...). L'intento è quello di spiegare perché ora i segnali sono tenui e perché diventeranno boati. Ma non per tutte le voci vale questa motivazione, perché si analizzeranno anche tematiche molto trasversali — un esempio? Governance — di cui si deve parlare per via di fatti ed emergenze che sono giunte, crediamo, alla stretta finale. Crediamo? Beh sì, una percentuale di auspici è presente in questo libro. Ma non si tratta di idee di chi l'ha scritto o di chi ha immaginato e realizzato questo libro. Sono tanti e tante a desiderare che una stagione di grandi trasformazioni si possa finalmente aprire. E perché le cose cambino, desiderarlo con forza è una premessa essenziale.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

BENE COMUNE


Negli ultimi decenni dell'800 avviene un fatto singolare nella storia della conoscenza prodotta dalla nostra specie. Con gli studi di Ludwig Boltzmann , uno dei fisici più importanti di tutti i tempi, si chiude un grande capitolo della scienza, iniziato un secolo prima da un altro grande personaggio, Nicolas Léonard Sadi Carnot. Un capitolo che va ben oltre i confini della fisica. Θ la termodinamica, teoria che ci consegna il principio fondamentale alla base dell'Universo, l'entropia. Poiché la Natura, quella che si esprime sul nostro pianeta, altro non è che una delle tante manifestazioni locali dell'Universo, se ne ricava che l'entropia è la cornice entro la quale ci tocca vivere. Negli stessi decenni di quella fine '800 si sviluppa l'economia neoclassica, filosofia del mercato e della produzione di beni che, nei fatti, pone al centro delle sue tesi la non esistenza della Natura.

Un caso, dunque, di sorprendente divaricazione culturale.

Come si dirà in certi passaggi delle voci di questo testo, la nostra specie non può sostenere di aver mai posseduto una cultura ambientalista. Quando gli umani arrivarono nelle grandi praterie del Nord America, riuscirono in poco tempo a distruggere tutti i grandi mammiferi che colà risiedevano. Ma anche molto tempo dopo, verso la fine del '700, a causa della costruzione delle navi della sua potentissima flotta, in Inghilterra gli alberi più alti rimasti erano le margherite. L'unica significativa differenza è che fino a poco tempo fa potevamo anche fare gli sbruffoni con la Natura, ma non le si faceva che dei graffi. Ma già da non pochi anni, entrati come siamo in pieno Antropocene – era nella quale è l'umanità che può determinare i cambiamenti ambientali del pianeta – le cose sono cambiate.

Scrive Serge Latouche a proposito dell'economia neoclassica, che essa "... ignora l'irreversibilità delle trasformazioni dell'energia e della materia. Viene oscurato per esempio il fatto che i rifiuti e l'inquinamento, pur essendo prodotti della attività economica, non rientrano nel processo di produzione così come si è andato determinando" (Latouche S., 2008).

Appunto: della Natura possiamo farne a meno. Lo scontro con la Natura, si sosteneva, era inevitabile. Lei ha un sacco di risorse e materie prime e non le rende disponibili facilmente. Ci si lamentava del fatto che il ferro non fosse sotto forma di mele attaccate agli alberi (il che peraltro non ci avrebbe portato alla scoperta della gravitazione, ma solo alla morte di un giovane fisico di nome Isaac Newton ). Dopodiché, si diceva, ecco che gli uomini devono competere, perché strappare valore alla Terra è una guerra, un gioco nel quale, come tutti i giochi, se uno vince è perché altri perdono.

Da quell'impronta dell'economia neoclassica si fa ancora molta fatica, oggi, a liberarsi, sebbene in quell'edificio di certezze tanto paradossali sono apparsi crepe gigantesche e crolli a vari piani. Un effetto, in particolare, si fa sentire nel comportamento economico moderno, conseguenza di quella separatezza che le logiche di mercato ritengono di poter avere. Consiste nello sviluppo di attività molto specifiche, di comparti di impresa verticali, e quindi l'allontanarsi inevitabile di una visione di insieme. L'ultimo passaggio lo descrive bene Richard B. Norgaard, docente di Economia e risorse all'Università di Berkeley: "Gli individui si formano in una cultura che valorizza aspetti molto specifici dell'universo economico, e perdono la visione d'insieme. Il bene comune è ignorato per far emergere ciò che è bene per il singolo" (R. B. Norgaard, 2011). La definizione che usa Norgaard è "economismo", ovvero il credere nel primato dell'economia su tutto.

Eccoci al punto: il bene comune. Come in molte altri voci di questo libro, iniziamo da un contesto più ampio per arrivare a un tema molto specifico che si pone con grande forza su quel palcoscenico che il futuro sta oggi costruendo (anche se non è detto che la rappresentazione sarà necessariamente un successo...). Sono accaduti molti fatti importanti in questi ultimi anni che dovrebbero garantire a questo concetto una straordinaria attenzione nel prossimo futuro. Per questo lo si è inserito nei temi di questo libro. Una scelta che contiene anche una quota di auspicio, ammettiamolo senza problemi. Però sono tante le voci e le competenze diverse che si stanno facendo sentire.

Fatti importanti, si è detto poco fa, accaduti di recente. Quante persone sono rimaste sbalordite nell'apprendere che una intera nazione può essere attaccata da una pattuglia di operatori finanziari che, a bordo di computer, spostano colossali cifre di euro, dollari, yen, ignorando le sorti di centinaia di milioni di individui? Difficile trovare un esempio di attività che stia maggiormente agli antipodi del concetto di bene comune. L'Europa deve difendersi dalla speculazione: è oggettivamente un evento paradossale.

Ci sono anche altri marcatori che stanno a evidenziare le forze che agiscono contro la cultura del bene comune, cultura che si alimenta della "percezione" di una comunità che condivide una quotidianità, potremmo dire. Un'azienda che operi su più mercati internazionali può ritrovarsi così tanto priva di interessi locali da non svolgere alcun ruolo nella costruzione della comunità, mentre la dimensione del lavoro è una componente fondamentale nella "manutenzione" della socialità. In Italia abbiamo conosciuto un'esperienza di grande valore, in questo senso, quella della Olivetti, azienda con grande attenzione ai rapporti interni fra management e dipendenti, come alle relazioni con il territorio di riferimento. Nessuna semplificazione, tuttavia: la globalizzazione è anche un grande antidoto verso localismi che, ben lontani da propagare culture della condivisione, sono stati levatrici di grande aggressività. L'alchimia del bene comune, dunque, è complessa, e ha più dimensioni, si muove in più spazi. Un problema analogo, ma che si muove su scala individuale, lo troviamo nel territorio dei manager dei livelli alti. Oggi il problema è esploso in Cina, mentre in Europa e Stati Uniti lo si conosce già da una ventina d'anni e ora è più attenuato per via della pesante crisi. Il manager che non si sente partecipe di alcun progetto aziendale, questo è il problema. Lavora badando a preservare un suo status indipendente dall'azienda – quindi evita di prendere rischi che un decisore deve mettere in conto – ed è permanentemente disposto a cambiare lavoro, anche entrando nell'organico di diretti competitor. Un po' come i giocatori di calcio contemporanei, che possono giocare in due squadre cittadine in una stessa stagione. Ma anche qui, che dire: non si vorrà mica inneggiare a una delle forme più disastrose di autoreferenzialità asociale, ovvero il tifo acritico? Siamo sempre in preda a una oscillazione non facile da bloccare. Sono ormai non pochi i lavori di ricerca che, negli anni, hanno sottolineato come le contrade senesi separate dalla tradizione del palio rappresentino un problema per la socialità complessiva del luogo.

Bene comune, quindi, è un arco di comportamenti che deve comprendere il superamento del veto di giocare in cortile per i bambini – alcune recentissime, e poche, ordinanze comunali, in Italia, stanno rendendo illegale l'applicazione di tale veto; la percezione dei bambini come bene comune dovrebbe essere in cima alla lista dei valori comunitari – per arrivare alla cooperazione internazionale. Ora, ci si potrebbe anche accontentare di risultati locali, in una città, senza che questo atteggiamento culturale vada oltre? Interrogativo complesso. La storia dell'ultimo secolo ci consegna non poche esperienze di paesi fieri delle loro democrazie, fortemente impegnati, allo stesso tempo, a organizzare colpi di stato in altri continenti o a mantenere colonie. Perché poi ci sono traiettorie che dal quartiere portano dall'altra parte del globo, quando si parla di certi beni comuni.

L'acqua, per esempio.

Comunque: una crescita progressiva, che parta anche dal basso, dal locale, potrebbe certamente essere utile. Durante una seduta del Parlamento tedesco, a fine giugno 2012, dopo una storica riunione del Consiglio europeo nella quale Angela Merkel ha dovuto accettare le condizioni poste da Italia, Spagna e Francia, il ministro tedesco dell'Economia, Wolfgang Schδuble, ha dichiarato: "Non mi va di discutere se la Merkel e la Germania abbiano vinto o abbiano perso. Quello che voglio sapere è se ha vinto l'Europa, ed è questo che io credo sia successo". Quello che sta accadendo in Europa, e quello che accadrà nei prossimi anni, ci dirà se l'orizzonte politico di questo nuovo paese si sta avvicinando. Quello monetario, accompagnato anche dagli assetti economici, è stato importante ma, come si è già detto prima, pensare che l'economia sia un motore primario è un errore grave. Dal quale discende anche l'altro corno della vicenda, ovvero il mito della crescita infinita. Ne parliamo alla voce Limiti. Possiamo realizzare una diffusa cultura del bene comune se rimane attiva questa idea che vi possa essere una gara continua verso traguardi sempre più alti? Perché di questo si tratta: una gara. E allora ritorniamo al fatto che vi saranno vincitori e vinti. Gara collaborativa, con le regole attuali del mercato, è una espressione che suona come deserti boscosi e lumache veloci.

Quando si deve valutare se un comportamento che non va bene ha la possibilità di evolvere in una pratica positiva, è sempre bene domandarsi se ciò che non va bene sia effettivamente non conveniente. La storia, come sempre, ci è d'aiuto. Varenna è un paese sul Lago di Como, e da Como dista 35 chilometri. Nel 1126 Varenna fu attaccata e saccheggiata dai comaschi. Un po' di anni dopo, nel 1169, fu Varenna ad attaccare l'Isola Comacina (600 metri di lunghezza per 150 di larghezza) che le sta di fronte nel lago, circa un chilometro dalla riva. La distrusse. Se oggi Como attaccasse Varenna, questa azione avrebbe gravi conseguenze per i comaschi. E anche un attacco all'Isola Comacina sarebbe visto molto male. Nove secoli fa queste cose, invece, potevano convenire a chi le faceva. Anche molto. Christian de Duve, Nobel per la medicina nel 1974, in Genetica del peccato originale (Raffaello Cortina, 2010), scrive: "La selezione naturale ha privilegiato i tratti che favoriscono la coesione all'interno dei gruppi e l'ostilità fra gruppi diversi. [...] Ha favorito tratti come la solidarietà, lo spirito di cooperazione, la tolleranza, la compassione, l'altruismo, fino al sacrificio personale [...] Queste buone disposizioni sono però generalmente limitate ai membri di determinati gruppi. [...] Ciò che io come biologo ho voluto sottolineare in questo libro, è che esse derivano da tratti innati, iscritti e preservati nei nostri geni dalla selezione naturale. Utili in passato, in una certa fase della nostra evoluzione, questi tratti sono diventati nocivi". Per cambiare le cose cattive e farle diventare buone, allora, bisogna verificare in che punto del percorso ci si trova.

Un insieme di ricerche, provenienti da più aree di studio, oggi ci dicono che ignorare la necessità di un cambiamento che ci porti verso una cultura del bene comune, è "tecnicamente" errato. Come attaccare Varenna: non è più un'iniziativa disdicevole, è tecnicamente sbagliata, ed è per questo che non può più accadere. Molti indicatori sullo stato dell'ambiente ci segnalano questa evidenza, lo sappiamo. Gli inquinamenti sono transnazionali e così troviamo le bottiglie di plastica delle acque minerali del Trentino che galleggiano fra la Groenlandia e l'Islanda. Oppure ci si deve difendere, in Lombardia, da insetti che ci arrivano con gli aerei cargo dalla Tanzania, e qui ci mangiano la corteccia degli alberi. Come si vedrà nella voce dedicata alle nuove frontiere della Medicina, le popolazioni del mondo si stanno mischiando – e questo per molti aspetti è un dato positivo, produttore di pace – ma è un cambiamento che richiede capacità di confrontarsi, riconoscersi e stare insieme, mutamento senza alternative perché niente ha mai fermato, nella storia dell'umanità, questo processo. Ma è abbastanza inutile produrre i mille esempi che supportano questa realtà. Ci troviamo quindi in uno di quei passaggi critici nella storia di una specie, dove l'insieme delle condizioni ambientali, intese nel senso più ampio possibile, richiedono un cambiamento. L'evoluzionismo ci dice che, solitamente, se non lo si mette in atto, si scompare.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 61

GOVERNANCE


Il 7 agosto del 2008 il settimanale The Economist pubblicava un articolo con il seguente titolo: "Confessions of a risk manager" ("Confessioni di un manager del rischio"). Autore anonimo, e infatti nella pagina appariva la silhouette nera di un uomo di spalle, come nelle interviste televisive di quei personaggi che raccontano fatti troppo inquietanti perché se ne conosca la fonte. Nessun nome, quindi, ma la dichiarazione esplicita di appartenere a un grande gruppo bancario nel quale, il nostro manager del rischio, aveva un ruolo di alto livello. L'uscita dell'articolo fece molta impressione, soprattutto in Usa e Gran Bretagna. Come in Jurassic Park il lieve tremolio delle gocce d'acqua sulla carrozzeria della jeep segnalava l'approssimarsi del Tirannosauro, così un paio di cartelle provenienti da una fonte così autorevole come punto d'osservazione delle vicende in corso erano giustamente interpretate come il segnale debole di un frastuono imminente.

Nelle banche ci sono dipartimenti addetti alla stima dei rischi finanziari, e altri dipartimenti che fanno business. La relazione fra i due reparti operativi dovrebbe essere forte, come in un esercito, dove chi fa i piani di attacco è impegnato a valutare i rischi potenziali delle varie opzioni sul campo. Vi può sembrare strano – meglio terrificante? – che in una grande banca con sedi in tutto il mondo possa verificarsi uno scontro violento fra le due funzioni? E infatti le cose andavano in quel modo in quei mesi del 2008 nei quali stava avvicinandosi quello che lo stesso The Economist avrebbe poi definito "il conto più salato della storia". Stati Uniti, Gran Bretagna ed Eurolandia si preparavano a versare svariati trilioni di dollari sul fuoco della più grande crisi economica di tutti i tempi, se si calcola l'ammontare della ricchezza, appunto, andata in fumo.

Scriveva nel suo articolo l'anonimo manager del rischio: "Ai loro occhi noi non facevamo fare guadagni alla banca. Peggio, con i nostri 'no' bloccavamo il business a priori". Anche quelli del dipartimento Rischi, prima del 2008, ritenevano che nessun tornado si stesse avvicinando, ma poi i segnali forti iniziarono a farsi vedere e il proporre un atteggiamento decisamente più cauto era visto dai trader, i commerciali della banca, come una intollerabile mancanza di senso degli affari.

Governance è un termine oggi usato in più contesti, riferendosi ai metodi che singole persone o gruppi mettono in atto per gestire un'impresa comune. La sua origine, tuttavia, è ancorata a una attività ben precisa, che possiamo ricavare dal Dizionario dei diritti umani edito da Utet: "La governance è stata vista, in definitiva, come un modo di perseguire un'azione unitaria da parte di una società complessa, espressione di interessi pluriarticolati, e quindi come il percorso attraverso il quale le differenti posizioni di cittadini, imprese, associazioni – o, più in generale, di più soggetti sociali – sono tradotte in scelte effettive di politiche (Kohler e Koch, 1999)". A guardar bene, questa definizione si impegna ben poco nel proporre la governance come un'azione che ha un fine positivo. C'è quell'"azione unitaria" all'inizio, ma poi non si fa riferimento a effetti virtuosi di buon governo. Anzi, è probabile che "azione unitaria", arrivati a oggi, rimandi, per la stragrande maggioranza di lettori e lettrici, alla Banda Bassotti, compagine disneyana tremendamente più innocua, per altro, di quella aggregazione di personaggi che ha infilato il mondo nel tunnel oscuro in cui si trova. Sì, un'affermazione come questa potrebbe essere interpretata come un residuo dei proclami leninisti contro le banche promulgati intorno al 1900 (che lui, Lenin, diceva si dovessero assaltare). Un tale giudizio, tuttavia, dovrebbe confrontarsi con un passaggio della relazione finale prodotta dalla Independent Commission on Banking nominata dal governo inglese, relazione presentata il 12 settembre del 2011 e nella quale, a proposito della necessità di nuove leggi sul funzionamento delle banche, si propone, per proteggere il risparmio dei cittadini, una suddivisione netta – in termini legislativi, appunto – fra utility banking, quelle per i risparmiatori, e casino banking, quelle... per chi?, la domanda sorge spontanea. L'uso del termine casino – proprio questo appare nel testo – nella lingua inglese è riferito a quello che noi chiamiamo casinò, importandolo dal francese. Ma non si può dire che l'ulteriore significato nostrano stoni con gli eventi.

Allora: abbiamo una Commissione di uno dei grandi governi del pianeta che individua un'attività bancaria assimilabile al gioco d'azzardo. Facendo questo esprime evidentemente un giudizio su quanto è accaduto, e cioè che una robusta compagine di operatori finanziari si è presentata alle slot machine di Las Vegas con sacchetti pieni di gettoni presi ai risparmiatori; ma resta profondamente oscuro come sia possibile che altri denari (quali?, fra l'altro), bruciati in un casinò, non finiscano per generare comunque delle pesanti aggressioni alla vita delle persone.

Ragioniamo, quindi, su un aspetto particolare del concetto di governance, lasciando perdere il versante tecnico della questione, ovvero le possibili e diverse strategie che si sarebbero potute adottare. Come abbiamo fatto in altre pagine di questo libro, il tema che ci sembra centrale, guardando al futuro, è quello culturale. Diciamola meglio: quali categorie mentali, quali interpretazioni della convivenza fra umani, quali processi emotivi sono alla base del "conto più salato della storia"?

Al Mit, Massachusetts Institute of Technology di Boston, è stato varato un progetto al quale stanno partecipando molti istituti e ricercatori di tutto il campus. Si chiama i^2, dove "i" sta per intelligenza; l'elevamento al quadrato rimanda al fatto che oggi può iniziare un secondo viaggio dopo quello che, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, partì sempre da queste parti, al Mit, con le prime ricerche sulla Cibernetica, alle quali seguirono quelle sulla Computer Science e l'Intelligenza Artificiale interpretate come aree di indagine che, usando le macchine, studiavano anche la nostra mente. Ma il quadrato sta anche per "ne abbiamo bisogno di più, di intelligenza".

Negli ultimi decenni nuove e potenti strumentazioni, sia teoriche sia tecnologiche, hanno sviluppato grandi conoscenze sul funzionamento del nostro cervello, ed è tempo, dicono quelli di i^2, di interrogarsi nuovamente su cosa sia l'intelligenza umana. La scelta di iniziare questo nuovo percorso è da loro motivata con una serie di problematiche scientifiche molto precise, ma si è anche espressa una ragione fondante generale: l'intera società planetaria è entrata in un'era nella quale le decisioni da prendere sono molto complesse e le ultime "prestazioni" degli apparati decisionali non lanciano segnali confortanti dal punto di vista della governance.

Il profilo di ricerca del progetto, è bene sottolinearlo, è molto alto, come fu quello della Cibernetica sessanta anni fa. Come allora, l'impostazione delle ricerche è molto trasversale: computer scientist, matematici, fisici, lavorano insieme a storici, economisti, psicologi, architetti, filosofi.

Ragionare sui fondamenti, quindi. La grande crisi a questo spinge, e che le cose stiano così è raccontato da molti episodi degli ultimi anni.

Il manager del rischio di cui si diceva all'inizio, scriveva nella sua confessione a The Economist: "Nel 2007 credevamo di vivere in un mondo senza rischi; in una sessione di brain storming con alcuni collaboratori non riuscivamo a identificare da dove potessero venire le minacce esterne per la nostra banca". Come si è detto, nell'anno successivo il nostro uomo e il suo team avevano cambiato idea, ma nel 2007 c'erano già decine di milioni di americani che avevano consumato tutto il denaro a disposizione su quattro, cinque, anche sei carte di credito con interessi al 18%, avendo redditi familiari che avrebbero richiesto due secoli per coprire il debito contratto. Perché un tale disastro non fu considerato una macroscopica criticità? Non sarebbe corretto liquidare la questione affermando che si sapeva tutto ma conveniva a molte lobby, apparati, enti vari, pensare ai propri vantaggi infischiandosene di quanto sarebbe accaduto a qualche miliardo di persone. Non sarebbe corretto sia perché la stragrande maggioranza di coloro che ragionavano in questo modo hanno finito per fare la parte di quegli sciacalli che rubano, lungo la costa, nelle case terremotate, senza accorgersi che sta per arrivare l'onda di tsunami; ma anche perché c'era davvero chi credeva che la macchina finanziaria fosse in grado di superare ogni ostacolo. Questo lato della vicenda, questo delirio di onnipotenza, è uno spazio mentale che va indagato in profondità. Merita farlo anche perché la necessità di una nuova cultura della governance non può essere motivata da un impegno per nuove regole, che pur ci vuole, che è certamente essenziale, ma che deve essere un importante effetto secondario di una "percezione delle cose", definiamola così, che deve venire prima.

Prendiamo il caso delle agenzie di rating, Moody's, Standard&Poor's, Fitch, per citare le più famose. L'opinione del Governatore della Bce, Mario Draghi, è che "si debba farne a meno", espressa in una dichiarazione davanti alla Commissione affari economici e monetari del Parlamento europeo a gennaio 2012. 0lli Rehn, Commissario europeo agli Affari economici, si è espresso così durante la stessa riunione: "Le agenzie di rating non sono istituti di ricerca imparziali ma hanno i loro interessi e svolgono il loro ruolo molto in linea con il capitalismo finanziario Usa". Non tutto, attenzione, perché negli stessi Stati Uniti le critiche sono tutt'altro che sottotono. Si può leggere nell'apertura di un articolo del New York Times del 17 agosto 2011: "Il Dipartimento della Giustizia (quello americano, ndr) sta indagando sulla possibilità che la più grande agenzia di rating del paese, Standard&Poor's, abbia valutato in modo improprio dozzine di titoli ipotecari nel periodo della crisi finanziaria". "Improprio" qui significa che S&P giudicava molto solida, nel 2008, l'affidabilità dei mutui concessi dalle banche che stavano per fallire. Siamo nell'agosto 2011, quando si pensava che il peggio della crisi fosse stato superato. Prosegue l'articolo del NYT: "Dall'inizio della crisi i modelli di valutazione e di business delle agenzie di rating hanno ricevuto molte critiche da più parti, anche in audizioni e rapporti del Congresso, dove si è sollevata la necessità di capire se le valutazioni siano state guidate da strategie di profitto". Queste agenzie, infatti, sono strutturalmente non indipendenti. Esprimono giudizi su tutti, paesi, banche, aziende, ma basano i loro guadagni su specifici clienti che pagano per essere valutati, in un rapporto che definire distorto è il minimo che si possa fare.

La Enron Corporation, colosso americano nel campo dell'energia crollato nel 2001 dopo aver truccato in lungo e in largo propri bilanci, versò all'agenzia di rating Andersen Consulting 52 milioni di dollari nel solo 2002.

Quindi: che senso ha affermare che il problema delle agenzie di rating si pone come necessità di una loro regolamentazione? C'è un'idea molto diversa di come va gestita l'economia mondiale che deve emergere. Soprattutto se si tiene presente che già alla proposta di nuove regolamentazioni, un pool di banche americane e inglesi si è immediatamente dichiarata in totale disaccordo, dicendo che non può essere tolta loro quella fondamentale leva promozionale che le agenzie conferiscono certificando alla clientela di una banca "comprate i titoli XY, perché sono tripla A". Ma questa clientela non è la stessa che si è già trovata per le mani i titoli spazzatura? Come vedete i contorni dell'intera vicenda iniziano ad assumere i tratti di una malattia mentale. Sotto il grande soffitto della governance c'è anche un altro interrogativo che galleggia a mezz'aria da tempo e che è il seguente: cosa possiamo dire in merito alla comprensione dei fatti economici da parte del largo pubblico? Perché, se al centro della storia c'è l'esigenza di introdurre nuovi valori alla base della governance, questo è un mutamento che non può fare a meno di una consapevolezza di massa. Lo abbiamo visto nella storia dell'ambientalismo, quando, tornando agli anni '60 del secolo scorso, era decisamente difficile ottenere una partecipazione della popolazione anche su questioni di base nella salvaguardia dell'ambiente, come non sversare nei fiumi gli scarichi industriali; o ritenere che fosse del tutto normale avere una pubblicità delle sigarette Camel nella quale un medico in camice le offriva a una sua paziente mentre nel testo si diceva che era la sigaretta più fumata dai dottori. Un record si raggiunse nel dicembre del 1961 quando apparve, su riviste come Life, un babbo Natale che fumava Lucky Strike.

Quando, nel 1976, un reattore chimico dell'Icmesa, rompendosi, liberò 150, forse 200 – la quantità esatta non fu mai stabilita – chilogrammi di diossina in una vasta area intorno a Seveso, piccolo paese della Brianza, uno dei problemi principali incontrati dagli operatori che erano in contatto giornaliero con i residenti, era far loro capire che dalla fabbrica non erano uscite migliaia di tonnellate di una polvere chimica, e in quel caso, certo, si sarebbe vista una patina distesa su tutti i campi e le strade. Se la diossina non si vedeva, ciò non significava che non fosse molto pericolosa, e quindi l'evacuazione temporanea di quelle zone era inevitabile.

In totale analogia con la vicenda di Seveso, ci si può chiedere se nel largo pubblico esista una consapevolezza delle dinamiche economiche. Meglio: il comportamento economico delle persone è razionale? Da una quindicina d'anni, e negli ultimi con maggiore intensità, molte ricerche di psicologia e neuroscienze ci stanno dicendo, con una quantità rilevante di esperimenti, che la razionalità è cosa ben lontana dal nostro comportamento di consumatori, un dato che spinge verso l'alto la responsabilità di chi, nei processi di governance politico-economica, ha il ruolo di gestire percorsi ed eventi. Θ così, infatti, e una delle prime apparizioni sulla scena della irrazionalità economica di massa fu quella della Signora Linda, che si guadagnò anche un premio Nobel. A ritirarlo, in realtà – la Signora Linda non esiste – fu il suo creatore, Daniel Kahneman, nel 2002, insieme a Vernon Smith, economista. Nobel per l'economia, ma Kahneman è uno psicologo, considerato uno dei padri fondatori della finanza comportamentale. Nell'esperimento, progettato da Kahneman, la Signora Linda – questo lui raccontava nei suoi test con campioni di persone – è una donna di 31 anni, brillante, all'università si è laureata in filosofia, single, è molto impegnata in battaglie sociali contro il razzismo e le armi nucleari. A questo punto Kahneman chiede ai suoi soggetti quante probabilità ci sono che Linda lavori come cassiere in una banca. La risposta, molto ampia, è: ben poche. Allora si passa a un'altra domanda: come la mettiamo con la probabilità che Linda, oltre a essere cassiere di banca, sia anche impegnata nelle battaglie femministe? Bene, la gente dice che a questo punto la combinata cassiere-femminista aumenta le probabilità. Si prosegua: Linda va spesso a sparare a un poligono di tiro. La probabilità scende. Vota per la sinistra radicale. Si sale di nuovo.

Fermiamoci. Uno dei concetti base della statistica ci segnala come ogni volta che si aggiunge una condizione le probabilità diminuiscano. Non c'entra nulla l'atteggiamento culturale verso la vita. Possiamo attribuire a Linda una catena lunghissima di "su e giù", per finire dicendo che è anche figlia di un direttore di banca. Si va sempre nella stessa direzione: le probabilità scendono, perché chiediamo coincidenze sempre più forti.

La comprensione di ciò che è più o meno probabile è un asse portante nelle scelte di tipo economico di cittadini e cittadine. Questo esperimento di Daniel Kahneman, insieme ad altre sue ricerche, è poi stato seguito da un'intera scuola di ricercatori provvisti di un know-how che comprende economia, neuroscienze, psicologia, ai quali si deve un nuovo e importante paradigma: aver dimostrato sperimentalmente che non siamo una specie razionale per quanto riguarda l'economia. L' homo oeconomicus che sta alla base del pensiero economico classico, è una specie che sostanzialmente non esiste.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 93

LIMITI


Il concetto non è affatto nuovo in quel vasto territorio delle questioni ambientali, al quale questo libro dedica una considerevole attenzione. Non è nuovo perché il limite si affaccia nel teatro delle grandi questioni economiche e politiche nel 1972 con il famoso rapporto su I limiti dello sviluppo commissionato dal Club di Roma (Meadows D.H., Meadows D.L. et al., 1972). Quella apparizione, quarant'anni fa, fece, come si usa dire, un botto trasversale. Qualcuno osava affermare che il pianeta non poteva reggere uno sviluppo continuo, e ciò non piacque né a destra, né al centro; e nemmeno a sinistra, dove fu spesso criticato come il tentativo di bloccare una evoluzione della ricchezza generale che, redistribuita, poteva finalmente arrivare a tutti e non a pochi. Fu avversato, il limite, anche da componenti significative delle estreme sinistre nate dal '68. Insomma, non piaceva a nessuno, eppure con quel rapporto si era prodotto uno degli strumenti fondanti dell'ambientalismo. Nel futuro che ci attende, sull'intera strumentazione, teorica e pratica, basata sul concetto di limite, si giocherà una partita decisiva che potrebbe essere sintetizzata in questo modo, ricorrendo a un gergale da film d'azione: diamoci un taglio oppure si ballerà forte. Come già segnalato in altre voci di questo testo, l'idea che il "taglio" debba significare enormi sacrifici e una vita austera – del resto garantiti dalle periodiche crisi economiche, e sarà il caso di riflettere su questo aspetto — è un'idea sbagliata, perché possiamo perfettamente costruire un modus vivendi piacevole, suggestivo, stimolante, e non sprecone.

Una delle cose più singolari, quindi, che emergono da una analisi delle idiosincrasie espresse dalla nostra specie nei confronti del concetto di limite, è che tale paradigma è alla base del funzionamento dell'intero Universo, e quindi anche del nostro piccolissimo pianeta. Gli stati della materia sono ancorati al concetto di soglia; quella delle temperature che consentono acqua negli oceani e non ghiaccio, per esempio, oppure la loro completa evaporazione. O quelle soglie di pressione che su certi pianeti danno luogo a laghi di metano. Se la forza nucleare forte, quella che tiene insieme i protoni e i neutroni che si trovano nel nucleo dell'atomo, cambiasse la sua intensità per un 2%, l'idrogeno, che è alla base del funzionamento delle stelle, si sarebbe consumato tutto nei primi 5 minuti dopo il Big Bang. Per ogni aereo, data la sua struttura e il suo peso, esiste una velocità critica di guasto a un motore in fase di decollo. Se il guasto avviene prima che tale velocità sia raggiunta, allora si può interrompere il decollo, se si è oltre non c'è altro da fare che alzarsi in volo e pensare al guasto dopo — ed è già un bel problema — perché frenare il velivolo è decisamente sconsigliabile. C'è poi una soglia anaerobica per ogni essere vivente, ovvero il limite oltre il quale non si possono chiedere sforzi ulteriori al fisico.

Non basterebbe un milione di pagine per elencare l'oceano di limiti e soglie nel quale siamo immersi. Come è possibile, allora, che questo dato così uniforme e compatto non faccia ancora parte del codice genetico dei nostri pensieri? Non ne faccia parte stabilmente e in modo pervasivo, perché va detto che c'è senza dubbio una crescita costante di sensibilità in questa direzione. Un segno importante lo si è avuto con l'edizione 2011 del Festival dell'Economia di Trento, uno degli appuntamenti più significativi, in questo campo, a livello mondiale, edizione che aveva come tema centrale "I confini della libertà economica". Come ha sottolineato l'economista Tito Boeri, direttore del festival trentino, nella conferenza stampa di lancio dell'iniziativa, "non è più un tabù anche parlare di 'nuova politica industriale' tra chi in passato si era pronunciato apertamente contro gli aiuti di stato a settori specifici. Si discute non solo di imporre tetti alle retribuzioni delle superstar, ma anche di limitare la dimensione di alcune imprese, soprattutto nel settore finanziario, per impedire che queste diventino 'troppo grandi per fallire'. Ci si difende dall'arrivo di capitali esteri, definendo come strategici settori che hanno ben poco a che vedere con considerazioni legate alla difesa nazionale, alla sicurezza o all'ambiente". Si può quindi affermare: se le cose vanno male, ecco che i pilastri dell'economia liberista sono messi in discussione dagli stessi che li hanno eretti. Il che fa pensare che queste criticità siano ben note, come sostiene l'economista cileno Manfred Max-Neef (da un'intervista alla rivista statunitense Democracy Now, settembre 2010): "Ci comportiamo in modo sistematicamente contrario all'evidenza delle cose. Sappiamo perfettamente quello che dobbiamo fare. Non c'è nessuno che non lo sappia. I politici, in particolare, lo sanno perfettamente. [...] [il problema è] che gli economisti non sanno come funzionano gli ecosistemi, non sanno nulla di termodinamica, né della biodiversità". Θ vero: che una economia in sviluppo costante, ovvero un processo con crescita infinita, non possa trovare spazio all'interno di un sistema fisico finito — tale è il nostro pianeta — dovrebbe, prima d'ogni altra considerazione, risultare evidente da un punto di vista termodinamico. Ritorna la domanda da cui siamo partiti: come può essere che si usino da più di un secolo le leggi della termodinamica in migliaia di applicazioni diverse, e poi ci si dimentichi di questa scienza nel valutare il sistema che le contiene tutte, la Terra? Tim Jackson, in Prosperità senza crescita (Edizioni Ambiente, 2011), fornisce i numeri di questa sfida irrazionale: "Se [l'attuale economia globale] continua a crescere allo stesso ritmo, nel 2100 sarà 80 volte quella del 1950. Questa eccezionale escalation dell'attività economica globale non ha precedenti nella storia. [...] Ma che dire di un mondo nel quale 9 miliardi di persone (cifra prevista per il decennio 2040-2050, ndr) potrebbero tutte raggiungere il livello di ricchezza e abbondanza atteso per le nazioni dell'Ocse? Ci sarebbe bisogno di un'economia pari a 15 volte quella attuale, e 200 volte quella del 1950". Guardiamoci intorno e cerchiamo di immaginarci una quotidianità della nostra vita nella quale tutti i consumi siano cresciuti di 15 volte rispetto a oggi. Vi viene in mente come potrebbe essere un supermercato?

Dobbiamo, però, essere più accurati nell'analisi di questa vicenda, analisi che non può limitarsi alla lunga enumerazione di cifre e parametri che dimostrano la necessità di acquisire la saggezza di una società limitata. C'è altro da prendere in considerazione, perché esiste un problema culturale che va posto al centro delle riflessioni. Naturalmente: c'è una quota di personaggi in circolazione, sia con capacità decisionali rilevanti sia semplici cittadini, che – come sostiene Max-Neef – intuisce perfettamente come stanno le cose ma non ha alcuna intenzione di occuparsi del futuro, soprattutto di quello che sta immediatamente oltre le stime sulla propria longevità. Al di fuori di questa cerchia troviamo "modi di pensare" – bene o male questa è la definizione migliore – che presentano deficit culturali di varia provenienza. Molti di natura scientifica, per esempio. Affermare che la storia dell'umanità è sempre quella, segnata da una crescita sostanzialmente progressiva del benessere, senza comprendere che è molto sospetta una curva che per ogni secolo cresce di qualche unità e poi, in pochi decenni, si impenna con valori pari a 200 volte quelli precedenti, bene, tale affermazione deriva da una mancanza di conoscenze scientifiche di base. Θ una falla da riparare, quindi, se vogliamo muoverci nella direzione giusta.

Una sequenza di ricerche molto accurate nel campo della cosiddetta psicoeconomia hanno dimostrato quanto sia profondo il comportamento irrazionale che il pubblico esprime nei confronti dell'acquisto di prodotti, nell'uso dei fidi bancari, e in quella gestione di prodotti finanziari che da un paio di decenni è diventata una attività molto diffusa. Irrazionalità che pessimamente si accoppia con quelle teorie economiche che disegnano una razionalità intrinseca del mercato. Il caso Bill Miller è uno degli esempi più lampanti. Brillante gestore di fondi statunitense, di lui si scrisse negli anni '90 "nessun altro fondo ha mai fatto meglio per quindici anni consecutivi negli ultimi quarant'anni" (Consilien Observer, prestigiosa rivista del Credit Suisse). Descrive bene la vicenda Paolo Legrenzi in Psicoeconomia della vita quotidiana (Laterza, 2011): "In realtà ci sono seimila gestori come Bill Miller... La questione va quindi riformulata: se migliaia di persone lanciano una moneta all'inizio dell'anno, e lo fanno per molte decadi, qual è la probabilità che qualcuno, per quindici anni di seguito, ottenga sempre croce? Immaginate che vi siano mille gestori di quel tipo di fondi... che comincino a fare un lancio di moneta all'anno a partire dal 1991. Il calcolo delle probabilità ci dice che dopo un anno a circa metà dei gestori è uscita croce; dopo due anni è un quarto dei gestori a ottenere sempre croce, dopo tre anni un ottavo, e via così. La probabilità che dopo quindici anni un gestore specifico, il Bill Miller del 1991, abbia sempre avuto croce come risultato, è una su 32.768. Quindi la probabilità che uno qualsiasi, tra i mille iniziali, sia riuscito a farlo... è circa del 3%". Fatevi i conti e vedrete che è così. Quindi: la corsa degli investitori a versare soldi a Bill Miller, probabilmente dopo aver letto articoli vari su sofisticate strategie finanziarie, dovrebbe essere in realtà motivata da fattori ben diversi e cioè, per dirla efficacemente, che il signor Miller è dotato di un robusto fattore B.

Nella percezione del pericolo che si corre a non porre limiti interviene un altro scenario emotivo, quello che riguarda la percezione del rischio. Dan Gardner, in Risk (Virgin Books, 2009), raccoglie un lungo elenco di contraddizioni, che lui declina sulla realtà americana ma che si possono facilmente estendere a ogni paese e relativa popolazione, contraddizioni che è corretto definire paradossali. Grande è il timore di essere sottoposti a più di due o tre esami radiografici in un anno, ma nessuno si sofferma a pensare che l'esposizione al sole estivo su spiagge e montagne è ben più pericolosa; solo negli Stati Uniti si ha un milione di persone colpite da cancro alla pelle ogni anno. Non si lasciano giocare fuori casa i bambini, per il timore di agguati di maniaci, ma il tasso di obesità fra i minori è cresciuto in modo impressionante negli ultimi decenni, con i gravi effetti che questa condizione può sviluppare nella vita di una persona. Ci sono controlli severi, con relative punizioni, per gli sportivi che usano prodotti chimici di varia natura per aumentare le prestazioni, ma, scrive Dan Gardner, si accetta che il football americano generi individui "disarticolati nel corpo, aggrediti da dolori permanenti, veri e propri relitti di mezza età". Né si può dire che il terrorismo internazionale sarebbe percepito come un rischio mortale per la società se le sue gesta fossero prive di vittime. E infatti è così, la sua pericolosità è sostanzialmente valutata in questo modo. Eppure negli ultimi cento anni "non sono più di 20 le azioni terroristiche che hanno causato più di cento morti, mentre nei soli Stati Uniti, ogni anno abbiamo, come effetto della criminalità comune, cinque volte tanto le vittime delle Torri Gemelle". Eppure nella battaglia contro il terrorismo si investono cifre enormi, assolutamente non comparabili con quelle dedicate a prevenire le condizioni nelle quali si sviluppa la criminalità.

Θ quindi rilevante il peso che queste – come vogliamo complessivamente definirle? Distorsioni interpretative della realtà? – hanno sul riconoscimento del limite come paradigma non aggirabile nella nostra esistenza. Possiamo tornare a Manfred Max-Neef: "Abbiamo raggiunto una fase della nostra evoluzione nella quale si è generata una conoscenza enorme... Mai nella storia dell'umanità si è accumulato un patrimonio conoscitivo confrontabile con quello sviluppato negli ultimi 100 anni. Il punto è che la conoscenza non è sufficiente. Quello che ci manca è la comprensione. [...] Possiamo sapere tutto dal punto di vista sociologico, antropologico, teologico, biologico e biochimico di quel fenomeno che si chiama amore, ma non ne comprenderemo mai la sostanza fino a quando non ci innamoreremo".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 145

SHARING


Certo deve essere successo qualcosa di grosso, negli ultimi tempi, se un magazine come Time si interroga su come salvare il capitalismo (19 gennaio 2012, pag. 30), dichiarando, nei titoli, che deve finire questa storia che esso, periodicamente, collassa in crisi, alcune delle quali disastrose. Con sharing siamo tra le ultime voci di questo libro, e un filo rosso che le attraversa un po' tutte è quello che ci dice: abbiamo bisogno di nuovi paradigmi economici e nuove gestioni delle cose. Ci sono strumenti nuovi che ci danno grandi possibilità di risparmio, di comunicazione, di organizzazione della vita, di creazione di benessere; ma se non li gestiamo con nuove modalità, ci ritroveremo con i soliti vecchi problemi irrisolti.

Sharing, ovvero condividere, è di fatto una delle manifestazioni più importanti di quel cambiamento che dovrebbe intervenire – e i primi segnali, magari deboli, possiamo forse dire che si fanno vedere – con la diffusione dell'idea di Bene comune. Sulla strada per individuare nuove dinamiche e rapporti economici, la condivisione di beni si presenta come una buona garanzia di raggiungere la meta, e si può essere ottimisti perché il (qualcosa) sharing, sta davvero dilagando. Dalle biciclette, come noto, fino al lavoro. Come mai? Indubbiamente ci sono dei motivi di convenienza economica; anche di semplificazione della vita, ed ecco che la motivazione si fa un po' più sofisticata; ma poi affiorano indubbiamente anche degli atteggiamenti più profondi, quando vediamo che la rete fa crescere esponenzialmente lo scambio di case per periodi anche abbastanza lunghi. La rete, appunto: è uno strumento che permette degli incontri abbastanza ravvicinati con persone che stanno molto lontane; ci si vede in video, ci si parla, si scambiano immagini, e la scelta di andare a vivere uno nella casa dell'altro, per un mese o anche tre, si concretizza. Sembra – è una immagine confortevole – che ci fosse bisogno di uno strumento per relazioni avanzate, uno strumento che prima non c'era e frenava una disponibilità mentale. Poi certamente ci sono anche nuove culture che si sono affacciate sulla scena della quotidianità.

Comunque, lasciare la propria casa, con tutte le cose e le storie che ci stanno dentro – magari anche un gatto o un cane – beh vuol dire che l'apertura verso la condivisione è forte.

Si moltiplicano anche le aree di lavoro condivise. Fino a non molti anni fa l'obiettivo di una sede prestigiosa era considerato come centrale nella storia di un'azienda. Oggi va sfumando, e per le start up, le giovani aziende, la scelta di trovarsi in un ambiente che vede la concentrazione di tante altre esperienze lavorative è anche dettata dal desiderio di condividere molti momenti informali, di favorire la circolazione di idee, di utilizzare contributi incrociati alla soluzione dei problemi, e non solo, quindi, dall'esigenza di abbassare i costi, peraltro importante, e questo non si discute. Ma il motivo principale per cui il concetto di sharing merita essere analizzato in una voce a sé stante, è un altro. Per descriverlo bisogna accennare a un tema che in questi ultimi anni si è discusso ampiamente: il rapporto fra Pil e felicità, la sensazione di essere contenti di stare al mondo. Il tema, in realtà, non è recente perché si affaccia nel 1974 quando Richard A. Easterlin, geografo con interessi socioeconomici, disegna un grafico semplice dove la crescita del Pil negli anni, negli Stati Uniti, è confrontata con le risposte date, sempre negli anni, a una domanda del tipo: "Nell'insieme, ti consideri molto felice, abbastanza felice, o non molto felice?". Easterlin lavorò su diverse inchieste fatte dal 1946 in avanti, pubblicate in quel suo articolo, ora famoso, "Does economic growth improve the human lot?" (Easterlin R. A., 1974); ma il confronto è continuato negli anni successivi, dando sempre lo stesso risultato: il Pil cresce e la felicità decresce. Θ bene subito segnalare che esiste una vasta e diffusa interpretazione molto semplicistica e superficiale di questa biforcazione, che molte ricerche, mirate a comprendere meglio il dato, hanno dimostrato ampiamente, senza però ottenere il risalto dovuto (sono, questi, i rischi che si corrono quando l'ambientalismo si fa catturare dal clima polemico nel quale spesso deve agire). Se si approfondisce, quindi, si scopre che il grafico possiede quell'andamento da un certo reddito in poi. Il che vuol dire, per esempio, che se foste oggi interessati a proporre una serie di conferenze, in Mali, dedicate a illustrare la validità del grafico di Easterlin, fareste bene a tener presente che quel paese è pieno di pietre: se uno vuol prenderne una in mano basta che si chini e la trova lì, vicino ai piedi. Ma non è necessario recarsi nelle zone più povere del mondo per vedere che si ha correlazione positiva fra aumento del reddito e felicità. Altra cosa, invece, è se si ragiona in una prospettiva futura e nel farlo si prendono in considerazione i fondamenti del pensiero economico dominante – perché ne abbiamo avuto uno, perdente, con idee diverse e questo non va dimenticato – quelli che non hanno dubbi: il mercato deve crescere, dare più soldi a tutti, e la felicità è cosa fatta. Su questa tesi si sono fatte davvero molte ricerche. Senza citarle nel dettaglio – una bella sintesi la si può trovare in Il mercato siamo noi, scritto da Leonardo Becchetti (Bruno Mondadori, 2012) – queste indagini ci dicono che:

a) un primo fattore da considerare, puramente economico, è che se il Pil cresce ma i costi dei servizi, le tasse, e della vita in genere (affitti, trasporti ecc.) si portano via una bella fetta degli stipendi, ecco che motivi per essere felici si trovano difficilmente. Molto cambia, allora, a seconda dei paesi, e anche delle regioni.

b) Dopodiché, iniziano a farsi vedere dinamiche sociali, culturali, psicologiche. Una società nella quale il confronto con i "vicini" – quelli di casa, quelli al lavoro, quelli che si incontrano quando si va in vacanza – è fortemente basato sul livello dei consumi che ci si può permettere (nella società americana dei decenni successivi al secondo dopoguerra questo fu un trend possente, e in quel periodo fece i suoi conti Easterlin), ecco che il non poter avere un frigo nel cui congelatore si possano mettere cetacei, fa sì che la famiglia si incupisca. Ne segue una dinamica altamente critica, come spiega Leonardo Becchetti, nel libro già citato, quando parla dell'effetto tapis roulant: "Ci muoviamo ma in realtà siamo sempre allo stesso punto in termini di felicità perché, se anche gli altri migliorano le loro condizioni economiche esattamente come noi, le distanze relative restano immutate e la nostra soddisfazione pure". Certo, perché il confronto con i "vicini" – Becchetti li definisce i "pari" – è diabolicamente subdolo: dobbiamo essere almeno come loro mentre ci impegniamo a superarli.

c) Quale componente è fondamentale per sentirsi felici? Beh, che il desiderio di qualcosa di piacevole si realizzi. Le aspettative, dunque. Qui si apre una delle divaricazioni più problematiche delle società contemporanee, società che vanno ben oltre le tradizionali realtà europee e statunitense: il mondo narrato dai più diversi strumenti di comunicazione – anche una campagna politica può diventare un formidabile diffusore di immaginari – e quello realmente praticabile da centinaia di milioni di uomini e donne. Θ una forbice che taglia un numero eccezionalmente basso di nastri.

d) Siamo arrivati al tema centrale di questa voce. Molte ricerche e molte analisi ci consegnano un dato di grande importanza. Possiamo evocarlo partendo da uno dei volti più drammatici delle crisi economiche: i casi di suicidio di lavoratori che perdono il posto o che finiscono anche in lunghi periodi di cassa integrazione. Studiando le ragioni profonde di questo malessere si scopre che la perdita economica è, certamente, un fattore che agisce sullo stato d'animo; ma è la perdita relazionale che pesa maggiormente. Lo stesso problema emerge anche con il passaggio alla condizione di pensionati. Di esempi e inchieste ne abbiamo in abbondanza. Se interroghiamo le persone, insomma, scopriamo che il bisogno di socialità, anche quando se ne sta giù, nascosto, a volte anche inconscio, è molto forte. Scrive Becchetti: "I beni relazionali sono una delle poche cose che, in una società che soddisfa (e crea!) qualunque desiderio nei consumatori paganti, non troviamo fra gli scaffali di un supermercato. [...] Se ho il desiderio di un gelato e ho i soldi lo compro. [...] Se organizzo una festa e ma non viene nessuno degli invitati non posso godere del bene relazionale. [...] Tecnicamente diciamo che il bene relazionale è un bene con caratteristiche opposte a quelle del bene privato. [...] [il bene relazionale] è soltanto con l'altro che posso consumarlo".


In molte voci di questo libro ci si è voluti interrogare su quali strumenti, oppure segnali, tendenze, stanno oggi affiorando come anticipatori di grandi cambiamenti. E poiché una trasformazione positiva non si avvera semplicemente descrivendola, è importante capire se abbiamo meccanismi in grado di agevolarla, di esserne un parziale ma importante innesco. Per un mondo con molti beni relazionali, la condivisione, lo sharing, si presenta come un valido strumento.

| << |  <  |