Copertina
Autore Pierfranco Pellizzetti
Titolo Fenomenologia di Antonio Di Pietro
SottotitoloLo star system all'italiana, trappola per la democrazia
Edizionemanifestolibri, Roma, 2010, Hide Park Corner , pag. 160, cop.fle., dim. 14,5x21x1 cm , Isbn 978-88-7285-628-4
LettoreGiorgia Pezzali, 2010
Classe paesi: Italia: 2010 , biografie
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Indice


In nome della legge                                      9

Il carisma banalizzato in star system                   29

Tonino sotto il fuoco amico                             47

Di Pietro getta la maschera                             63

Dal mimetismo della Destra alla Sinistra Zelig          79

La politica delle persone perbene                       93

Per la Democrazia: oltre lo star system                111

La notte degli sciamani                                131

Note                                                   151

Bibliografia                                           157


 

 

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Pagina 9

In nome della legge



                            «Non è poi tanto grave portare all'occhiello
                                la legion d'onore, mentre in genere sono
                              gravi le ragioni per cui la si è meritata»
                                                                 Picabia

                                    «denaro e santità / metà della metà»
                                     Un proverbio che ripeteva mia nonna



Un magistrato-questurino tra Kant e Husserl

Lo dichiaro subito: chi cercasse fra queste pagine dedicate al leader di Italia dei Valori, l'ex magistrato Antonio Di Pietro, denigrazioni condite da gossip o partigianerie apologetiche resterebbe immediatamente deluso. Non è certo questo il loro obiettivo. L'intento perseguito – piuttosto – è quello di analizzare fenomenologicamente un caso: i carichi di pregiudiziale ostilità e soprattutto di abbandono da innamoramento che si indirizzano verso un personaggio pubblico, esempio di un più generale quanto curioso ritorno all'idolatria sotto le apparenze della politica, riscontrabile in consistenti settori della cosiddetta società civile.

Tutto ciò alla ricerca di concetti logici originati da intuizioni come concreta "esperienza vissuta" – l' Erlebnis di Edmund Husserl – rispetto a un fenomeno situato nel nostro spazio e nel nostro tempo (seppure con un piccolo dubbio: che c'azzecca l'Estetica Trascendentale kantiana con Tonino da Montenero di Bisaccia?).

Dunque, "dipietrismo" e il suo contrario, più che Antonio Di Pietro. Nell' inverno del nostro scontento democratico.

Prima di intraprendere questo viaggio mentale ho cercato ispirazione rivedendo la cassetta di un film del Pietro Germi annata 1949, forse la sua regia più alla John Ford: "In nome della legge", quel western di ambientazione siciliana che anticipò il filone del nostro cinema civile degli anni Sessanta. In particolare gli ultimi fotogrammi, dove il pretore ventiseienne Guido Schiavi (Massimo Girotti) avanza nella piazza polverosa dell'ipotetico paese di Capotraso, luogo-simbolo della Sicilia sotto il tallone di una Onorata Società ancora rurale, affiancato dal fido maresciallo dei carabinieri Bricò (Saro Urzì) per arrestare il mafioso assassino di un minorenne rivale in amore. Quel suo «in nome della Legge, ti dichiaro in arresto» ha una tale forza civile che perfino il Padrino locale – Massaro Passalacqua (Charles Vanel) – ne riconosce la superiorità etica rispetto all'antica legge tribale, imponendo ai propri accoliti di farsi da parte di fronte all'uomo dello Stato.

Una scena che – si direbbe – preconizza e anticipa il futuro faccia a faccia tra Giovanni Falcone e don Masino Buscetta; quando – così ci è stato raccontato – il boss della Mafia pre-corleonese venne condotto a rimettere in discussione il proprio codice d'onore arcaico proprio nel confronto diretto con l'essenza incommensurabilmente più evoluta di quello repubblicano, incarnato dal giudice che lo stava interrogando.

Il nostro immaginario collettivo reca larghissime influenze da parte dalle figure del coraggio e della dedizione che difendono a sprezzo del pericolo la legalità, inducendo positivi effetti di immedesimazione: i giudici in lotta contro le corporazioni del Potere e le loro malefatte.

Fenomeni di immedesimazione che – nel secondo dopoguerra italiano – diventarono speranza di rifondazione morale della nostra vita pubblica, man mano che la politica democratica andava tradendo il proprio compito di strumento primario della decisione collettiva per rintanarsi in un professionismo senza passione e senza generosità. O molto peggio...

Insomma, un'opera che potremmo definire di "supplenza".

Una supplenza da parte della magistratura che scoperchiava periodicamente fetide sentine del malaffare: i ricorrenti scandali che punteggiavano ormai a scadenze fisse le cronache della vita pubblica nazionale e locale. Ernesto Rossi, sulle pagine de Il Mondo di Mario Pannunzio, coniò il termine "Scandalusia".

Un crescendo rossiniano: dal primo e secondo "scandalo petroli" (1974 e 1980), conseguenti alla reiterata scoperta dei rapporti di scambio intercorrenti tra i partiti di governo e le società petrolifere per ottenere l'autorizzazione all'aumento dei prezzi a fronte di finanziamenti sottobanco, alle rivelazioni da parte del Senato degli Stati Uniti di mazzette pagate dalla società aeronautica Lockeed a nostri personaggi politici di prima fila (tra cui il fantomatico Antelope Kobbler) per la vendita di velivoli allo Stato italiano; alla scoperta nel 1982 della lista con i 953 nomi degli affiliati alla loggia massonica P2 del maestro venerabile Licio Gelli, autore di un paragolpista Piano di Rinnovamento Nazionale.

Un crescendo accompagnato da morti ammazzati: il finanziere della Mafia (e limitrofo a Giulio Andreotti) Michele Sindona, il banchiere caro alla curia vaticana Roberto Calvi, il giornalista Mino Pecorelli che sapeva troppo.

Eppure il quadro politico ancora teneva, assorbendo gli effetti più pericolosi di questi scandali. Ad esempio, nel 1983 viene incarcerato il Presidente craxiano della Regione Liguria – il savonese Alberto Teardo (già ex maschera di cinematografo) – insieme a una ventina di mezze figure che fungevano da uomini di mano di un racket per estorcere mazzette agli imprenditori locali (arrivato ad organizzare attentati ai cantieri dei taglieggiati renitenti). Però l'inchiesta sarà mantenuta opportunamente entro i confini della provincia di Savona, per non lambire "intoccabili" coinvolti.

E poi a insabbiare ci pensavano i vertici della magistratura, in cui ancora prevaleva largamente il personale in carica dal tempo del Fascismo, con quella mentalità "sopire e troncare" di chi si sente parte integrante del Gotha: il "pretore d'assalto" (in futuro si sarebbe detto: "la toga rossa") Giorgio Almerighi, che con i colleghi Adriano Sansa e Carlo Brusco aveva avviato la prima indagine sui misfatti politica-petroli, verrà accusato nientepopodimenoche di "attentato alla Costituzione". Magari ci si servirà di giudici al servizio della Cupola per intralciare i giudici al servizio della legalità democratica: da Claudio Vitalone (poi parlamentare Dc in quota andreottiana) ad Antonio Alibrandi (quello che arrestò i vertici di Bankitalia perché tentavano di riportare ordine nei pasticci di Sindona e il cui figlio militava nell'estrema Destra dedita all'assassinio politico).

Se poi neppure questo bastava, ci avrebbe pensato ad aggiustare tutto qualche killer giunto da oltre oceano, come il balordo italoamericano che l'11 luglio 1979 attendeva sotto casa l'uscita mattutina dell'avvocato Giorgio Ambrosoli , liquidatore dell'impero sindoniano in bancarotta.


Scandalusia a Milano

Il 17 gennaio 1992 a Milano inizia l'operazione "Mani Pulite" (poi detta "Tangentopoli") con l'arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio ingegner Mario Chiesa, sorpreso a intascare una tangente dal titolare di un'impresa di pulizia: 7 milioni di vecchie lire; la prima tranche del 10 per cento per una commessa di 140 milioni. Una consuetudine "ambientale", si scoprirà a posteriori.

Chiesa è un socialista di fede craxiana ma – a botta calda – il lider maximo Bettino minimizza, definendolo «un mariuolo, una mela marcia».

Per inciso, oggi Silvio Berlusconi, antico sodale di Craxi, usa per i nuovi Mario Chiesa, tratti alla luce dalle penombre affaristiche del suo partito grazie alle inchieste della magistratura e nonostante il fuoco di sbarramento governativo, l'ancora più eufemistico appellativo di "birbantelli".

Purtroppo per il prototangentista Chiesa (e soprattutto per i boss che governavano la nazione), a quel tempo la faccenda non si chiuse lì.

Nasce lì ma di certo non si chiude, perché a Milano è avvenuto un fatto politico imprevisto: lo sfondamento elettorale della Lega Nord, l'orda valligiana con alla testa il celodurista Umberto Bossi, ha sovvertito più che altrove gli equilibri tradizionali del Potere (al tempo sintetizzato nell'acronimo CAF: l'alleanza tra Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani e – appunto – Bettino Craxi, per contenere l'attacco dell'ultimo Enrico Berlinguer, il segretario del Pci che, dopo il fallimento della strategia di Compromesso Storico, iniziava a porre la cosiddetta "Questione Morale"). Uno sfondamento avvenuto nell'area lombarda che disarticola le capacità di controllo da parte della corporazione di partito, che in quel possedimento del regno "scandaluso" fa perno soprattutto sul Partito Socialista craxiano.

Afferrando il bandolo regalatole dagli equilibri politici in movimento e infilandosi nel corridoio giusto, la magistratura milanese metterà a ferro e fuoco per venticinque mesi l'intero sistema collusivo politica-affari del tempo. Dunque, sconvolgendo non solo la politica ma anche la finanza e l'imprenditoria: 4.525 personaggi arrestati e incarcerati, 25.400 avvisi di garanzia, il coinvolgimento nelle indagini di 1.069 parlamentari e uomini di partito. Dieci suicidi eccellenti.

A quel tempo l'economista Mario Deaglio aveva stimato in 10 mila miliardi di lire la tassa impropria che gravava sugli italiani in quanto costo della corruzione (oggi, secondo la Banca Mondiale, la tassa-corruzione è arrivata a quota 40 miliardi di euro; che diventano 60 secondo la Corte dei Conti: almeno 12 volte rispetto a quel 1992).

Il pool della Procura della Repubblica di Milano (formato dai magistrati Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Gherardo Colombo e Ilda Boccassini, guidato dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli assieme al suo vice Gerardo D'Ambrosio), con le sue indagini che andavano allargandosi a tutto il territorio nazionale innescò l'incontenibile indignazione dell'opinione pubblica, rivoluzionando – di fatto – l'intera scena politica italiana. Partiti storici come la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano, il Psdi, il Pli, il Pri sparirono o furono fortemente ridimensionati, tanto da far parlare del passaggio a una "Seconda Repubblica". Intanto iniziavano a crollare pure i mammasantissima: Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti sgarrettati nella corsa alla Presidenza della Repubblica, in cui venne eletto un personaggio al di sopra di ogni sospetto come Oscar Luigi Scalfaro; Craxi costretto a rinunciare alla Presidenza del Consiglio, sostituito dal fido (?) Giuliano Amato, e poi a una frettolosa latitanza nella tunisina Hammamet per evitare gli effetti penali delle azioni giudiziarie.

In quel momento l'intero Paese e larga parte del sistema mediatico è schierato dalla parte dei giudici. Persino la RAI per qualche tempo dimentica di essere naturaliter colonizzata dai partiti, assicurando una copertura totale alle inchieste, in presa diretta e con un gusto insolito per l'informazione-verità che giunge a sfiorare il truculento: indimenticabile l'interrogatorio ripreso dalle telecamere del segretario democristiano Forlani, con quel primo piano sui fiotti di bava che spuntano ai lati della bocca del potentissimo esponente politico.

Questo il contesto in cui nasce il "mito Di Pietro": tra "l'uomo della provvidenza" e "il giudice senza macchia e senza paura".

Così lo racconta un giornalista milanese che ha vissuto quei giorni in presa diretta, sempre schierato dalla parte del magistrato: «Nel biennio di Mani Pulite, univa destra e sinistra, comunisti e fascisti, cattolici e mangiapreti, rudi leghisti che agitavano il cappio e raffinati intellettuali che inneggiavano al rinnovamento e salutavano la vittoria della società civile sull'invadenza dei partiti. Un consulente dei circoli della destra americana, Edward Luttwak, glorificò Di Pietro come eroe della "rivoluzione italiana". Tifavano per lui, e con toni da stadio, anche Galli della Loggia e Vittorio Feltri, Marcello Pera e Carlo Giovanardi».


Una biografia segnata dall'eccezionalità

Questa l'autobiografia, un tantinello idealizzata, che ora leggiamo nel suo sito: «nato il 2 ottobre 1950 a Montenero di Bisaccia (CB), Antonio Di Pietro da adolescente ha trascorso un breve periodo in seminario a Termoli per poi trasferirsi a Roma dove si diploma perito tecnico.

In seguito, a causa dell'endemica penuria di lavoro che affliggeva l'Italia di quegli anni, emigra in a Bomenkirch (Germania), dove lavora la mattina alla catena di montaggio, il pomeriggio in una segheria e la sera studia Legge.

Nel 1973 torna in Italia e sposa Isabella Ferrara, che gli darà Cristiano, il primo figlio. Impiegato civile dell'Aeronautica Militare, si iscrive a Giurisprudenza, conquistando la sospirata laurea nel 1979. Il primo impiego con il nuovo titolo in mano è quello di segretario comunale in un paese del Comasco; entra poi in polizia dove diventa commissario del IV distretto di Milano. Ma Antonio Di Pietro non è un poliziotto qualsiasi, e si vede subito.

Non solo dimostra di avere acume e tenacia ma anche un particolare fiuto nel risolvere i casi apparentemente impossibili.

Θ Di Pietro, ad esempio, che risolve l'enigmatico caso del "mostro di Leffe", rivelando che dietro la mano che aveva sterminato un'intera famiglia si celava la figura di un bancario.

Nel 1981 la scelta che gli cambierà la vita e che cambierà il corso del Paese: vince il concorso in Magistratura e, dopo un breve periodo presso la Procura della Repubblica di Bergamo, passa alla Procura di Milano in qualità di Sostituto Procuratore, specializzato nei reati informatici e nei crimini contro la Pubblica Amministrazione.

Il 17 febbraio 1992, giorno dell'arresto di Mario Chiesa – militante di spicco del Partito Socialista Italiano – inizia l'era di "Mani Pulite". Bettino Craxi, l'allora segretario del PSI, tenta di sminuire il fatto definendo Chiesa un "mariuolo", ma l'inchiesta dilaga e travolge inaspettatamente tutto il mondo della politica.

A conclusione della vicenda le persone indagate saranno oltre tremila e il valore delle tangenti e dei fondi neri scoperti ammonterà a migliaia di miliardi di lire. Il nome di Antonio Di Pietro viene scandito nelle piazze, ormai è lui il moralizzatore d'Italia.

Per se stesso il magistrato venuto dal niente prospettava un futuro diverso. Forte del consenso popolare, decide di lasciare la magistratura e di entrare in politica. A Milano rimane fino al 6 dicembre 1994 quando, a conclusione dell'ultima sua requisitoria nel processo Enimont, si toglie la toga, si rimette la giacca e chiude la sua carriera di magistrato.

Pochi mesi prima il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi gli aveva offerto inutilmente il ministero dell'Interno nel suo governo. Di Pietro comincia a muoversi nell'agone politico da battitore libero».

Così sta scritto.

Se non ci mettesse in guardia qualche accenno involontario alla sfrenata iomania dipietrista, sfuggito alla tastiera del suo ghost-writer e agiografo (non tanto la vanteria, un po' stile Maigret di provincia, del proprio «fiuto nel risolvere casi impossibili»; quanto – piuttosto – l'affermazione da delirio d'onnipotenza che le sue scelte personali di vita «cambiano il corso del Paese"». Sic. Ma non lavorava in un pool?), quasi ci potremmo commuovere.

Di certo Edmondo De Amicis ci sarebbe andato a nozze con questa vicenda tipo Dagli Appennini alla Ande dell'emigrato con la valigia di cartone; da Piccolo scrivano fiorentino che studia di notte e lavora di giorno; puro Sangue romagnolo, che difende gli inermi al prezzo della propria vita...

Eppure qualcosa non torna, in siffatta ricostruzione di esemplare eccezionalità retorica. In questa storia che assomma buona parte dei più patetici stereotipi su "l'italiano brava gente": emigrante, studente-lavoratore, fedele servitore dello Stato.

Qualche passaggio resta sempre oscuro, anche tralasciando le improvvide frequentazioni di personaggi border line; tipo l'assicuratore Giancarlo Gorrini, con relativi prestiti (un cento milioni di vecchie lire per l'acquisto di un appartamento in quel di Curno e la messa a disposizione della famosa berlina Mercedes 300 CE. Favori costosi, non si è mai saputo a fronte di quali contropartite); sintomo plateale di una spregiudicatezza che i critici non hanno mancato di rinfacciargli.

Si diceva, passaggi oscuri. Ad esempio come mai il Nostro dovette precipitosamente cambiare aria allontanandosi dalla sua prima sede in magistratura – Bergamo – per ragioni rimaste nel vago. Ne hanno sussurrato in molti. Chi ne parla più esplicitamente è il giornalista Filippo Facci, in un voluminoso saggio (Di Pietro, la storia vera) che olezza malevolenza e Mediaset lontano un chilometro. Eppure qualche fatto rimane agli atti. Ad esempio la denuncia per sequestro di persona dell'imprenditore Fausto Tombini, arrestato il 5 ottobre 1983 e poi dimenticato in carcere perché il Di Pietro aveva cose più importanti da fare. Ancora – ad esempio – la sua bocciatura a magistrato di tribunale da parte della Corte d'Appello di Brescia («fondati dubbi circa l'equilibrio, la diligenza, la riservatezza, lo scrupolo nello svolgimento del lavoro e l'adeguata preparazione professionale del magistrato», questa la motivazione).

Di certo il suo protagonismo, il suo aggirarsi in jeans con il revolver nella cintura, non potevano che produrre effetti di rigetto tra gli abitanti delle valli orobiche, macchine da lavoro strutturalmente refrattarie a modelli di comportamento da film poliziesco genere "Monnezza".

Fatto sta che – secondo una leggenda metropolitana – quando alcuni magistrati milanesi vanno da Francesco Saverio Borrelli ad esprimere perplessità sulla scelta del collega trasferito da Bergamo quale portavoce della nascente inchiesta "Mani Pulite", si sentono rispondere dal Procuratore Capo che lui ha elementi per tenere al guinzaglio il buon Tonino. E che questa scelta dipende da valutazioni esclusivamente "di immagine": la sua parlata rustica quanto incerta, l'aria sbulinata e quelle mani larghe come badili, quel suo standing da magistrato contadino, assai meglio possono innescare fenomeni d'immedesimazione "di popolo" del carattere introverso e professorale di un Pier Camillo Davigo o l' allure radical chic di un Gherardo Colombo; la chioma da Erinni della fulva Boccassini.

Per sfortuna di Borrelli (ammessa e non concessa la veridicità del gossip), presto l'incredibile successo mediatico dell'inchiesta determinerà lo strappo di quel mai specificato "guinzaglio".

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Parole come pietre

Nell'opera sistematica di manipolazione del linguaggio, a cura indefessa degli esperti di comunicazione preposti a riconfigurare la realtà a vantaggio di Silvio Berlusconí, un peso crescente va assumendo l'uso della parola "odio", i cui principali indiziati sarebbero alcune Procure e il politico Antonio Di Pietro. Al duplice scopo di trascinare gli oppositori nelle sabbie mobili delle smentite e dell'auto-giustificazione, a fronte dell'addebito imbarazzante di essere mossi da sentimenti meschini, e – insieme – convincere i propri supporter che le argomentazioni critiche non vanno tenute in benché minima considerazione, in quanto pure manifestazioni di invidia.

Insomma, l'odio – che in passato assumeva persino valenze positive (pensiamo a "l'odio di classe" dei vecchi comunisti) – ora viene reintrodotto nel dibattito politico come un qualcosa di cui ci si dovrebbe vergognare. In quanto tale, uno strumento di delegittimazione morale della parte avversa criminalizzata.

Puro remake letterario, e di bassissima lega: «nell'universo concentrazionario immaginato da George Orwell in "1984", vi era una istituzione che più di ogni altra "incuteva un autentico terrore": il ministero dell'Amore. Era l'unico privo di finestre perché nulla doveva trapelare all'esterno. Ai contatti con il mondo provvedeva il ministero della Verità, dove si cancellava la memoria delle notizie sgradite e se ne confezionavano di verosimilmente false. Solo íl partito poteva decretare quando il vero era falso, e il falso vero». Nel frattempo l'orrore orwelliano si è pure aggravato, nel passaggio del partito unico all'autocrazia, al dominio assoluto di un solo individuo.

Sicché – ci si chiede – è proprio vero che quella parte di italiani descritta come "odiatrice" di Belusconi sarebbe composta da frustrati per l'impossibilità di imitare il satrapo riccone di Arcore, il suo stile di vita gaudente e narcisistico, la sua io-mania senza freni e limiti?

In effetti, nonostante la reiterazione ossessiva del messaggio (che in pubblicità svolge la funzione di trasformare qualsivoglia bubbola in verità indiscutibile), l'argomentazione resta sempre a livello di "Asilo Mariuccia". Tipo, "chi lo dice lo è / cento volte più di me". Ennesima conferma del rincretinente ritorno all'infanzia che in Italia affligge il discorso pubblico. Per cui, se uno critica una posizione politica, si sente ribattere: «ma allora ce l'hai con me». Sciocchezze, ovviamente. Un po' come all'epoca del Cofferati antagonista (bei tempi!) si accusava il sindacato di "fare politica" (e quando mai un sindacato non lo ha fatto?). Anche in questo caso argomentazioni sul demenziale, comunque molto efficaci per la trasformazione della politica in vendita di un prodotto.

A prescindere che è legittimo nutrire animosità verso chicchessia (a patto di non tradurre il proprio sentimento in atti concretamente lesivi), è inesatto affermare che una metà del Paese odia Berlusconi; semmai lo disprezza profondamente, in quanto personificazione di aspetti giudicati inaccettabili, insopportabili. Ossia la dissoluzione di un patrimonio di principi a cui molti non intendono rinunciare.

Questo determina la creazione di due campi sociali contrapposti e incomunicabili. Soltanto che Berlusconi ha saputo federare a blocco i propri supporter; ossia gli abbienti, inguaribilmente refrattari all'idea di politiche redistributive ("roba da comunisti"), e gli impauriti, in paranoia da protezione perché attanagliati da confuse sensazioni di rischi incombenti. Mentre non si segnalano contestuali aggregazioni sul fronte opposto, che resta sostanzialmente disperso e quindi politicamente inerte.

Infatti le ragioni dell'alterità rispetto al Cavaliere di Arcore sono plurime, variegate e non facilmente sovrapponibili: dal rifiuto dell'assiomatica dell'egoismo in chi coltiva l'idea di solidarietà al fastidio di una certa "borghesia delle buone maniere" (forse residuale) per l'apologia dell'insolenza e le sue pratiche, dalla priorità attribuita alla legalità in quanti si riconoscono nell'ordine repubblicano sancito dalla Costituzione ai propugnatori della laicità contro il rinascente oscurantismo, ai contestatori di una restaurazione verticistica attraverso il silenziamento dell'autocomunicazione orizzontale resa possibile dai new media, come nel caso dei ragazzi del Popolo Viola.

Rivoli che partono dal comune rifiuto senza però confluire in una soggettività unificata. Anche perché fanno riferimento tanto a valori che un tempo avremmo definito "di sinistra" (ragione, consenso, giustizia) quanto di "destra" (ordine, tradizione, gerarchia).

L'impossibilità di raggiungere compromessi ragionevoli in un confronto tra posizioni senza il benché minimo punto di contatto ("o/o") determina quel conflitto distruttivo che sta scardinando irrimediabilmente l'intero Paese. Una situazione drammatica cui siamo giunti perché la politica ha rinunciato al ruolo di "levatrice del futuro" (la proposta di un progetto di società in cui riconoscersi per "sovrapposizione", come direbbe John Rawls; pur partendo da premesse diverse) facendosi ingabbiare nei paradigmi prepolitici della furberia da sensali in un foro boario riverniciato a nuovo dalle escogitazioni promopubblicitarie, in cui portafoglio e pancia eclissano cuore e mente. Terreno su cui vince sempre chi è più furbo e la sa raccontare meglio. Ma anche chi sa portare dalla propria parte un uditorio più vasto.

Non contrastato sul terreno delle regole del gioco come sull'organizzazione delle istanze coalizionabili, Berlusconi continua a imperversare. Anche perché l'antiberlusconismo è fatto di stati d'animo che non diventano strategia. Ossia, rimangono sostanzialmente a livello di sacche di resistenza psicologica, alle supplenze protagonistiche varie (i già citati magistrati, comici e giornalisti). In definitiva, surrogati d'immagine che non possono modificare i rapporti di forza vigenti, sostituirsi alla dura e concreta opera della politica rettamente intesa (e – ad oggi – data per desaparecida).

Comunque un impiccio al consolidamento definitivo del dominio che – in quanto tale – deve essere lapidato, bollandolo da "area dell'odio".

Perché – come è stato detto – "le parole sono pietre".

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Tirando le fila

Tirando le fila, si può dire che le ipotesi di azione per il ripristino di condizioni democratiche nel gioco politico italiano fanno riferimento a tre possibili vie:

– la via dalemiana;

– la via dipietrista;

– la via della democrazia presa sul serio.

La prima opzione, rinominata riferendosi al massimo esponente nazionale della Realpolitik a sinistra, fonda le proprie argomentazioni sulle analisi in materia di flussi del consenso che hanno dominato negli ultimi decenni, influenzando in particolare le strategie della Sinistra. Di fatto arrecandole danni irreparabili, soprattutto in Italia.

Tali costruzioni teoriche ipotizzano una sorta di "modello idraulico assoluto", per cui si vincerebbero i confronti elettorali semplicemente sottraendo elettori allo schieramento contrapposto; grazie al riposizionamento "centripeto" della propria immagine di soggetto politico, a prescindere da coerenza, rigore e contenuti.

Puro camaleontismo che impone l'accantonamento dei tratti identitari più significativi e riconoscibili a vantaggio di una genericità che renda indistinguibili. La chiamano "conquista del centro". Strategia che ha un corollario altrettanto fasullo: quello che, nell'eclisse delle ideologie, si attrarrebbe l'elettorato altrui con la fantomatica "buona amministrazione" purchessia (riparare i marciapiedi? Aggiungere un cassonetto della spazzatura?), magari "creativa" (le inflazionate "notti bianche"?). Il fatto è che i margini operativi di manovra della politica in materia gestionale sono pressoché inesistenti. E non è certo un marciapiedi riparato (ovviamente, va riparato) che determina conversioni negli "antipatizzanti", o sposta consensi in una situazione altamente polarizzata quale quella in cui ci troviamo. Se proprio vogliamo dirlo, tale risultato si potrebbe ottenere facendo ben altro: ossia, offrendo cornici mobilitanti di senso e significato. Ma questo è un altro discorso...

Tornando al punto, la terapia del camaleontismo non ha funzionato bene in Germania con la "sinistra al cachemire" di Gerhard Schrφder, nell'Esagono ha portato poca fortuna ai camuffamenti para-gollisti di Ségolène Royal. Però si diceva: c'è Tony Blair e il suo New Labour in Gran Bretagna... Cosa succederà in quel d'Albione staremo a vedere alla prossima puntata elettorale. Tuttavia, quanto appare chiaro è che certe magie ormai non si accendono più neanche oltre Manica.

Comunque la ricetta dello "scippo a Destra", da parte di una Sinistra alla Zelig, in Italia sconta il dato ulteriore che qui da noi c'è Berlusconi. Sicché i mimetismi centristi hanno comportato la totale sottomissione alla volontà di potenza del Cavaliere e al suo strapotere mediatico. Per cui si è avvalorata la tesi demenziale che l'antiberlusconismo favorirebbe il berlusconismo, che il concedere all'avversario terreno di manovra e qualsivoglia pretesa (anche la più umiliante) sarebbe il massimo dell'astuzia politica.

Cedevolezza che ha prodotto disaffezione e rifiuto nell'elettorato di sinistra. Al tempo stesso ha dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio come i presunti adepti del marketing politico (la cosiddetta "Teoria della Voce" di Albert Hirschman sulla simmetria comportamentale tra elettore e cliente, cara ai sedicenti esperti di un realismo aziendalizzato) in materia non ne capiscono un beato nulla. Francamente.

Infatti che cosa dice la teoria dell'orientamento al cliente nei periodi di stanca del mercato (in ambito politico, quando gli schieramenti sono bloccati nel reciproco rifiuto)? Spiega come il primo obiettivo debba essere il mantenimento della clientela "captive" (quella che i marchettari definiscono "fidelizzata").

Invece le teste lucide della Sinistra hanno fatto l'esatto opposto: smettere di fidelizzare i propri "clienti" per inseguire quelli altrui. Come il cane della celebre favoletta, quando rinuncia alla bistecca che tiene tra le fauci per afferrare il suo riflesso nell'acqua. Risultato: nessuno sfondamento a destra, contestuale crescita dell'astensionismo a sinistra. Come – del resto – ce ne offrono riprova le recenti elezioni regionali francesi, dove l'elettorato ha mollato Sarkozy per Le Pen o l'astensione. Mica per fare "il salto della quaglia" votando la Gauche.

Ciò dovrebbe imporre la profonda revisione del "modello idraulico" e delle sue ricette, di cui si diceva: innanzi tutto ciò significa impegnarsi a promuovere il flusso dal non voto al voto dei potenziali sostenitori, offrendo all'elettorato connotati nitidi e comportamenti conseguenti.

Insomma, oggi si vince o si perde nella misura in cui si riesce o meno a sgelare quel voto in ghiacciaia che in teoria già sarebbe proprio. Sempre che lo si sappia rimotivare.

Resta ancora un dubbio: come mai tante "teste finissime" quali quelle a sinistra non si rendono conto di una così palese ovvietà? Forse l'unica risposta plausibile è psicologica: non possono fare diversamente.

Insomma, i personaggi cresciuti nelle penombre della politica politicante risultano geneticamente inadatti a un confronto politico affrontato a muso duro. Visto che i loro files mentali sono stati programmati solo per piccoli tatticismi e grandi "inciuci".

Per questo ha ragione da vendere chi un giorno esclamò in piazza Navona: "con questi dirigenti non vinceremo mai". Ma anche con questi consigliori delle tesi idrauliche più balorde.

Una testa realmente "fine" – John Maynard Keynes – diceva che «le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate sono più potenti di quanto comunemente si ritenga. In realtà il mondo è governato da poche cose all'infuori di quelle. Gli uomini della pratica che si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso schiavi di qualche scribacchino accademico». Anche quando lo scribacchino induce all'errore i politici che si abbeverano al suo sapere. Che non vogliono vincere quanto restare personalmente in sella.

Questo – in sostanza – il senso generale della prima via.

La seconda opzione – come già ripetuto lungamente – è quella di giocare la partita secondo le regole imposte da Berlusconi. Soluzione che produce un protagonismo subalterno, condannato ineluttabilmente a rafforzare quello dominante. Con ciò ci si riferisce – sia chiaro – all'abbaglio di ridurre la politica di sinistra alla pura e semplice mediatizzazione. Fermo restando l'indiscutibile contributo a strategie di cambiamento che può essere assicurato dalla comunicazione, tanto nella sfera della controinformazione quanto in quella simbolica. Come è avvenuto con la straordinaria esperienza della trasmissione "Rai per una notte" di Michele Santoro, canalizzata il 25 marzo scorso da un network variegato di media televisivi, che ha rotto l'embargo imposto dal governo sull'informazione politica (in particolare l'oscuramento della trasmissione Annozero).

Dunque, un'essenziale opera di supporto creando l'indispensabile mood per la mobilitazione di energie collettive; ma che – lo si ribadisce ancora una volta – non può assolutamente essere concepita in termini sostitutivi dell'essenza politica: la discussione partecipata per la deliberazione.

Sicché, stante il fatto che entrambe le due prime opzioni, di cui si diceva, sono quello che sono (cioè percorsi traversi, destinati a condurci ineluttabilmente verso un binario morto in quanto entrambi subalterni all'egemonismo culturale berlusconiano, seppure differentemente: la via dalemiana sottomessa alle logiche collusive, quella dipietrista improntata ai criteri della spettacolarizzazione protagonistica), sarebbe ora di tornare a prendere sul serio la democrazia. E comportarsi in conseguenza.

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