Copertina
Autore Georges Perec
Titolo Le cose
SottotitoloUna storia degli anni Sessanta
EdizioneEinaudi, Torino, 2011, Letture 34 , pag. XLI+126, cop.fle., dim. 13,5x20,8x1 cm , Isbn 978-88-06-20698-7
OriginaleLes choses. Une histoire des années soixante
EdizioneJulliard, Paris, 1965
PrefazioneAndrea Canobbio
TraduttoreLeonella Prato Caruso
LettoreRenato di Stefano, 2011
Classe narrativa francese
PrimaPagina


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Pagina 5

Per prima cosa l'occhio si poserebbe sulla moquette grigia di un lungo corridoio, alto e stretto. Le pareti sarebbero armadi di legno chiaro, dalle luccicanti guarnizioni di ottone. Tre stampe, raffiguranti l'una Thunderbird vincitore a Epsom, l'altra un battello a pale, il Ville-de-Montereau, la terza una locomotiva di Stephenson, guiderebbero verso un tendaggio di pelle, sorretto da grossi anelli di legno nero venato, che un semplice gesto basterebbe a far scorrere. Alla moquette, allora, si sostituirebbe un pavimento di legno quasi giallo, ricoperto in parte da tre tappeti dai colori smorzati.

Sarebbe una stanza di soggiorno, lunga circa sette metri, larga tre. A sinistra, in una specie di alcova, un ampio divano di pelle nera consunta sarebbe affiancato da due librerie di ciliegio chiaro, nelle quali i libri si ammucchierebbero alla rinfusa. Sopra il divano, un portolano occuperebbe tutta la lunghezza del pannello. Dietro un tavolinetto basso, sotto un tappeto da preghiera di seta, attaccato al muro con tre chiodi di ottone dalla grossa capocchia, in corrispondenza del tendaggio di pelle, un altro divano, perpendicolare al primo, rivestito di velluto avana, condurrebbe a un mobiletto alto, laccato rosso scuro, provvisto di tre ripiani sui quali poggerebbero alcuni ninnoli: agate e uova di pietra, tabacchiere, bomboniere, portaceneri di giada, una conchiglia di madreperla, un orologio da tasca d'argento, un bicchiere molato, una piramide di cristallo, una miniatura dalla cornice ovale. Piú discosto, dietro una porta imbottita, alcuni scaffali sovrapposti, ad angolo, conterrebbero cofanetti e dischi, accanto a un grammofono chiuso di cui si vedrebbero solo quattro manopole d'acciaio bulinato, e sopra il quale risalterebbe un'incisione raffigurante il Grand Défilé de la fête du Carrousel. Dalla finestra, adorna di tende bianche e marrone tipo tela di Jouy, si scoprirebbero pochi alberi, un minuscolo parco, un breve tratto di strada. Un secrétaire a tamburo, ingombro di carte, di astucci, si accompagnerebbe con una poltroncina viennese. Un tripode reggerebbe il telefono, un'agenda di pelle e un blocco per appunti. Poi, al di là di un'altra porta, dopo una libreria girevole, bassa e quadrata, sormontata da un grande vaso cilindrico a decorazioni azzurre, pieno di rose gialle, con sopra uno specchio ovale montato in una cornice di mogano, un tavolo stretto, completo di due panche rivestite di tessuto scozzese, ricondurrebbe al tendaggio di pelle.

Tutto sarebbe marrone, ocra, fulvo, giallo: un universo di colori un po' appassiti, dai toni dosati accuratamente, quasi con preziosità, in mezzo ai quali sorprenderebbero alcune macchie piú chiare: l'arancione quasi sgargiante di un cuscino, qualche volume variopinto sperduto fra le rilegature. In pieno giorno la luce, entrando a fiotti, renderebbe quella stanza un po' triste, nonostante le rose. Sarebbe una stanza per la sera. Allora, d'inverno, tirate le tende, con alcuni punti di luce - l'angolo delle librerie, la discoteca, il secrétaire, il tavolino fra i due divani, i vaghi riflessi nello specchio - e le vaste zone d'ombra dove brillerebbe ogni cosa: il legno lucido, la seta pesante e ricca, il cristallo molato, il morbido cuoio, sarebbe un porto di quiete, un mondo di felicità.


La prima porta darebbe in una camera col pavimento ricoperto di una moquette chiara. Un largo letto inglese ne occuperebbe tutto il fondo. A destra, ai lati della finestra, due scansie alte e strette conterrebbero alcuni libri instancabilmente riletti, album, carte da gioco, vasi, collane, oggettini da nulla. A sinistra, un vecchio armadio di quercia e due servimuti di legno e ottone avrebbero di fronte una poltroncina imbottita, ricoperta di seta grigia finemente rigata, e un mobile da toeletta. Una porta semiaperta, comunicante con una stanza da bagno, lascerebbe intravedere spugnosi accappatoi, rubinetti di ottone a collo di cigno, un grande specchio girevole, un paio di rasoi inglesi e i loro astucci di pelle verde, boccette, spazzole dal manico di corno, spugne. I muri della camera sarebbero tappezzati di tela stampata, il letto sarebbe ricoperto da un plaid scozzese. Un comodino, con una ringhiera di ottone traforato su tre lati, reggerebbe un candeliere d'argento provvisto di un paralume di seta di un grigio chiarissimo, un orologio quadrato, una rosa in un bicchiere a calice e, sul piano inferiore, giornali ripiegati, qualche rivista. Piú in là, ai piedi del letto, ci sarebbe un grosso puf di cuoio naturale. Alle finestre, le tendine di voile scorrerebbero su bacchette di ottone; le tende grigie, di lana pesante, sarebbero tirate a metà. Nella penombra, la stanza sarebbe ancora chiara. Al muro, al di sopra del letto preparato per la notte, tra due piccole lampade alsaziane, la straordinaria fotografia in bianco e nero, lunga e stretta, di un uccello in pieno volo, sorprenderebbe per la sua perfezione un po' formale.


La seconda porta rivelerebbe uno studio. Le pareti, dall'alto in basso, sarebbero tappezzate di libri e riviste, e qua e là, per rompere la successione delle rilegature e delle brossure, stampe, disegni, fotografie - il San Gerolamo di Antonello da Messina, un particolare del Trionfo di San Giorgio, una prigione di Piranesi, un ritratto di Ingres, un piccolo paesaggio a penna di Klee, una fotografia color seppia di Renan nel suo studio al Collège de France, un grande magazzino di Steinberg, il Melantone di Cranach - fissati su pannelli di legno inseriti tra gli scaffali. Un po' a sinistra della finestra e leggermente di sbieco, una lunga tavola lorena sarebbe coperta da una larga cartella rossa. Ciotole di legno, lunghi portapenne, vasetti d'ogni specie conterrebbero matite, fermagli, graffette, punti metallici. Un mattone di vetro servirebbe da portacenere. Una scatola rotonda di cuoio nero, decorata d'arabeschi d'oro zecchino, sarebbe colma di sigarette. La luce verrebbe da una vecchia lampada da tavolo, difficilmente orientabile, munita di un paralume di opalina verde a visiera. Da ciascun lato del tavolo, quasi dirimpetto l'una all'altra, sarebbero disposte due poltrone di legno e pelle con alti schienali. Ancora piú a sinistra, lungo la parete, un tavolo stretto strariperebbe di libri. Una poltrona-club di pelle verde bottiglia condurrebbe a classificatori metallici grigi e a schedari di legno chiaro. Un terzo tavolo, ancora piú piccolo, reggerebbe una lampada svedese e una macchina per scrivere ricoperta di una fodera d'incerato. In fondo ci sarebbe un letto rivestito di velluto oltremare, stretto, con tanti cuscini di tutti i colori. Un treppiede di legno dipinto, quasi al centro della stanza, reggerebbe un mappamondo di argentone e cartapesta, ingenuamente illustrato, finto antico. Dietro la scrivania, per metà mascherata dalla tenda rossa della finestra, una scaletta di legno lucido potrebbe scorrere lungo una sbarra d'ottone che farebbe il giro della stanza.


La vita, qui, sarebbe facile, sarebbe semplice. Tutti gli obblighi, tutti i problemi che comporta la vita materiale, troverebbero un'ovvia soluzione. Una domestica verrebbe ogni mattina. Ogni quindici giorni sarebbero consegnati a domicilio il vino, l'olio, lo zucchero. Ci sarebbe una cucina ampia e luminosa, con piastrelle azzurre stemmate, tre piatti di maiolica decorati di arabeschi gialli, a riflessi metallici, armadi a muro dovunque, una bella tavola di legno bianco al centro, sgabelli e panche. Sarebbe piacevole venire a sedersi ogni mattina dopo la doccia, appena vestiti. Sulla tavola sarebbero pronti una grande burriera di grès, barattoli di marmellata, miele, fette di pane tostato, pompelmi tagliati a metà. Sarebbe presto. Sarebbe l'inizio di una lunga giornata di maggio.


Aprirebbero la posta, sfoglierebbero i giornali. Accenderebbero la prima sigaretta. Uscirebbero. Il lavoro li tratterrebbe solo poche ore, la mattina. Si ritroverebbero per la colazione, un panino imbottito o una bistecca, a seconda dell'umore; prenderebbero un caffè a un tavolino all'aperto, poi, a piedi, lentamente, rincaserebbero.

Raramente il loro appartamento sarebbe in ordine, ma proprio quel disordine ne costituirebbe il maggior fascino. Non se ne occuperebbero quasi: si limiterebbero a viverci. La sua comodità sembrerebbe loro un fatto acquisito, un dato di partenza, uno stato della loro natura. La loro vigilanza sarebbe volta altrove: al libro da aprire, al testo da scrivere, al disco da ascoltare, al dialogo quotidianamente ripreso. Lavorerebbero a lungo. Poi cenerebbero in casa o uscirebbero a cena; ritroverebbero gli amici; passeggerebbero insieme.


Talora avrebbero l'impressione che tutta una vita potrebbe armoniosamente trascorrere fra quelle pareti ricoperte di libri, fra quegli oggetti cosí perfettamente familiari che finirebbero per ritenerli creati da sempre per il loro esclusivo consumo, fra quelle cose belle e semplici, dolci, luminose. Ma non se ne sentirebbero vincolati: certi giorni, se ne andrebbero alla ventura. Nessun progetto sarebbe loro impossibile. Non conoscerebbero il rancore, l'amarezza, l'invidia, dato che i loro mezzi e i loro desideri si accorderebbero su ogni punto, in ogni tempo. Quest'equilibrio lo chiamerebbero felicità, e saprebbero, in virtú della libertà, della saggezza, della cultura, preservarla, scoprirla in ogni momento della vita comune.

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Gli sarebbe piaciuto essere ricchi. Credevano che avrebbero saputo esserlo. Avrebbero saputo vestirsi, guardare, sorridere come persone ricche. Avrebbero avuto il tatto, la discrezione necessari. Avrebbero dimenticato la loro ricchezza, avrebbero saputo non ostentarla. Non se ne sarebbero vantati. L'avrebbero respirata. I loro piaceri sarebbero stati intensi. Gli sarebbe piaciuto camminare, bighellonare, scegliere, gustare. Gli sarebbe piaciuto vivere. La loro vita sarebbe stata un'arte del vivere.

Tutto ciò non è facile, anzi. Per quei due giovani, che non erano ricchi, ma che desideravano esserlo solo perché non erano poveri, non poteva esserci situazione piú scomoda. Avevano solo ciò che meritavano di avere. Proprio nel momento in cui sognavano spazio, luce, silenzio, erano riportati alla realtà, neppure sinistra, ma semplicemente angusta - e forse era ancor peggio - di un alloggio esiguo, dei pasti quotidiani, delle vacanze rimediate. Era ciò che corrispondeva alla loro situazione economica, alla loro posizione sociale. Era la loro realtà, e non ne avevano un'altra.

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Il guaio delle inchieste è che non durano. Nella storia di Jérôme e di Sylvie era già contemplato il giorno in cui avrebbero dovuto scegliere: o conoscere la disoccupazione, la sottoccupazione, oppure integrarsi piú solidamente a un'agenzia, entrarvi a orario completo, diventare impiegati. Oppure cambiar mestiere, trovare un lavoro altrove, ma questo significava solo spostare i termini del problema. Se è facile ammettere, infatti, da parte di individui che non hanno ancora raggiunto la trentina, che mantengano una certa indipendenza e lavorino come gli va, se anche talvolta si apprezza la loro disponibilità, la loro apertura mentale, la varietà della loro esperienza o anche quel che si chiama la loro polivalenza, in compenso si esige, d'altronde alquanto contraddittoriamente, da ogni futuro collaboratore che, una volta superata la soglia dei trent'anni (rendendo cosí, per l'appunto, i trent'anni una soglia), dia prova di sicura stabilità, e siano garantite la puntualità, la serietà e la disciplina. I datori di lavoro, soprattutto nella pubblicità, non solo rifiutano di assumere individui che abbiano superato i trentacinque anni, ma esitano ad aver fiducia in qualcuno che a trent'anni non ha mai avuto un posto stabile. Quanto poi a continuare, come se niente fosse, a servirsene solo saltuariamente, anche questo è impossibile: l'instabilità non è presa sul serio; a trent'anni si ha il dovere di essere arrivati, oppure non si è niente. E nessuno è arrivato se non ha trovato il proprio posto, se non si è fatto la cuccia, non ha le sue chiavi, il suo ufficio, la sua targhetta.

Jérôme e Sylvie pensavano spesso a questo problema. Avevano ancora qualche anno davanti ma la vita che facevano, la pace, certo relativa, che conoscevano, non sarebbero state mai un fatto acquisito. Tutto si sarebbe sgretolato, non gli sarebbe rimasto nulla. Non si sentivano schiacciati dal lavoro, la loro vita era assicurata, bene o male, a seconda degli anni, senza che un mestiere bastasse a inaridirla. Ma questo non poteva durare.

Non si resta mai per molto tempo semplici intervistatori. Appena formato, lo psicosociologo arriva al piú presto ai gradi superiori: diventa vicedirettore o direttore di agenzia, o trova in una grande azienda un posto invidiato di capoufficio, preposto all'assunzione del personale, all'orientamento, ai rapporti sociali, o alla politica commerciale. Sono belle posizioni: gli uffici sono ricoperti di moquette; ci sono due telefoni, un dittafono, un frigorifero da salotto e perfino, talvolta, un quadro di Bernard Buffet appeso al muro.

Ahimè, spesso pensavano e talvolta si dicevano Jérôme e Sylvie, chi non lavora non mangia, sí, ma chi lavora non vive piú. E credevano di averlo sperimentato, una volta, per alcune settimane. Sylvie era diventata documentalista in un centro studi, Jérôme programmava e sbobinava le interviste. Le loro condizioni di lavoro erano piú che piacevoli: arrivavano quando ne avevano voglia, leggevano il giornale in ufficio, scendevano spesso a prendere una birra o un caffè, e addirittura provavano per il lavoro che svolgevano con tanta indolenza una sicura simpatia, incoraggiata dalla vaghissima promessa di un impiego solido, di un contratto vero e proprio, di una promozione accelerata. Ma non resistettero a lungo. I risvegli erano terribilmente tetri; i ritorni, ogni sera, nel métro stracarico, pieni di rancore; si lasciavano cadere sul divano abbrutiti, sporchi, e sognavano solo lunghi week-end, giornate vuote, mattinate a letto.

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Non avrebbero saputo dire esattamente che cosa fosse mutato con la fine della guerra. A lungo gli parve che l'unica impressione che potevano provare fosse quella di un compimento, di una fine, di una conclusione. Non un happy end, non un colpo di scena, ma anzi una fine languente, malinconica, che lasciava dietro di sé un senso di vuoto, di amarezza, che annegava nell'ombra dei ricordi. Un po' di tempo era trascorso, era fuggito; un'età era passata; era ritornata la pace, una pace che non avevano mai conosciuto; la guerra era finita. Di colpo sette anni precipitavano nel passato: i loro anni di studenti, gli anni degli incontri, i migliori anni della loro vita.

Forse non era cambiato nulla. Gli capitava di affacciarsi ancora alla finestra, di guardare il cortile, i giardinetti, l'ippocastano, di ascoltare il canto degli uccelli. Altri libri, altri dischi erano venuti ad accumularsi nelle scansie pericolanti. La puntina del giradischi cominciava a logorarsi.

Il lavoro era sempre lo stesso: rifacevano le stesse interviste di tre anni prima: Come si rade? Si lucida le scarpe? Avevano visto e rivisto film, fatto viaggi, scoperto nuovi ristoranti. Avevano comperato camicie e scarpe, maglioni e gonne, piatti, lenzuola, gingilli.

Quel che c'era di nuovo era tanto insidioso, tanto evanescente, tanto legato alla loro unica storia, ai loro sogni. Erano stanchi. Erano invecchiati, sí. Avevano l'impressione, a volte, di non avere ancora cominciato a vivere. Ma sempre piú la loro vita gli pareva fragile, effimera, e si sentivano senza forze, come se l'attesa, l'imbarazzo, le ristrettezze li avessero logorati, come se tutto fosse stato naturale: i desideri insoddisfatti, le gioie imperfette, il tempo perso.

Talvolta avrebbero voluto che tutto durasse, che nulla mutasse. Sarebbe bastato lasciarsi andare. La vita li avrebbe cullati. Si sarebbe allungata nel corso dei mesi, degli anni, senza cambiare, quasi, senza mai reprimerli. Sarebbe stata la serie armoniosa dei giorni e delle notti, una variazione quasi impercettibile, la ripresa incessante degli stessi temi, una felicità continua, un sapore perpetuo che nessuno sconvolgimento, nessun tragico evento, nessuna peripezia avrebbe rimesso in causa.

Altre volte non ne potevano piú. Volevano battersi e vincere. Volevano lottare, conquistare la felicità. Ma come lottare? Contro chi? Contro che cosa? Vivevano in un mondo strano e cangiante, l'universo variopinto della civiltà mercantile, le prigioni dell'abbondanza, gli affascinanti tranelli della felicità.

Dov'erano i pericoli? Dove le minacce? Milioni di uomini hanno lottato, e stanno ancora lottando, per il pane. Jérôme e Sylvie non credevano certo che si potesse lottare per i divani Chesterfield. Eppure sarebbe stata proprio questa la parola d'ordine che li avrebbe piú facilmente mobilitati. Nulla li riguardava, cosí pensavano, nei programmi, nei piani: s'infischiavano delle pensioni anticipate, delle vacanze piú lunghe, dei pasti gratuiti, delle settimane di trenta ore. Volevano la sovrabbondanza; sognavano lo stereo Clément, le spiagge deserte solo per loro, i giri del mondo, gli alberghi di lusso.

Il nemico era invisibile. O piuttosto era in loro, li aveva corrotti, infettati, devastati. Erano le vittime della farsa: esserini docili, fedeli riflessi di un mondo che li disprezzava. Erano sprofondati sino al collo in una torta della quale non avrebbero mai avuto che le briciole.

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Pagina 82

Dinanzi a loro si aprivano alcune porte. Scoprivano piscine all'aria aperta, patii, sale di lettura, camere silenziose, teatri, voliere, giardini, acquari, musei in miniatura, concepiti a loro uso esclusivo, dove erano esposti, ai quattro angoli di una stanzetta dai pannelli smussati, quattro ritratti fiamminghi. Certe sale erano rocce, altre erano giungle; in altre veniva a infrangersi il mare, in altre ancora passeggiavano pavoni. Dal soffitto di una sala circolare pendevano migliaia di orifiamme. Labirinti inesauribili risuonavano di musiche soavi; una sala dalle forme stravaganti sembrava avesse la sola funzione di suscitare interminabili echi; il pavimento di un'altra, secondo le ore del giorno, riproduceva lo schema variabile di un gioco complicatissimo.

Nei sottosuoli immensi, a perdita d'occhio, funzionavano docili macchine.


Si lasciavano trasportare di meraviglia in meraviglia, di sorpresa in sorpresa. Gli bastava vivere, esistere, perché il mondo intero si offrisse. I loro bastimenti, i loro treni, i loro razzi solcavano l'intero pianeta. Il mondo gli apparteneva, con le sue province coperte di grano, i mari pescosi, le cime, i deserti, le campagne fiorite, le spiagge, le isole, gli alberi, i tesori, le officine immense, da tempo abbandonate, nascoste sotto terra, nelle quali si tessevano per loro le piú belle lane, le piú splendide sete.

Conoscevano innumerevoli felicità. Si lasciavano portare al gran galoppo da cavalli selvaggi, attraverso grandi pianure ondeggianti di erbe alte. Scalavano le cime piú elevate. Scendevano veloci con gli sci ai piedi su pendii scoscesi disseminati di abeti giganteschi. Nuotavano in laghi immobili. Camminavano sotto la pioggia scrosciante, respirando l'odore delle erbe madide. Si stendevano al sole. Da un'altura scoprivano vallette ricoperte di fiori di campo. Camminavano in foreste senza limiti. Si amavano in camere piene di ombre, di folti tappeti, di profondi divani.


Poi sognavano porcellane preziose, decorate di uccelli esotici, libri rilegati in pelle, stampati in elzeviro su carta giapponese, con ampi margini bianchi intonsi sui quali l'occhio riposava deliziosamente; tavoli di mogano, abiti di seta o di lino, morbidi e confortevoli, pieni di colori; camere spaziose e chiare, bracciate di fiori, tappeti Bukhara, dobermann saltellanti.

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Tentarono di fuggire.

Non si può vivere a lungo con frenesia. Troppo forte era la tensione in quel mondo che prometteva tanto e che non dava niente. La loro impazienza era al limite. Credettero di capire, un giorno, che ci voleva un rifugio.

La vita, a Parigi, segnava il passo. Non progredivano piú. E si vedevano talvolta - infierendo di continuo l'uno sull'altra con quella dovizia di falsi particolari che segnava ogni loro sogno - piccoloborghesi di quarant'anni: lui, animatore di una rete di vendite porta a porta (la Protezione familiare, il Sapone per i ciechi, gli Studenti bisognosi), lei, buona massaia, l'appartamento pulitino, la macchina, la pensioncina di famiglia dove avrebbero passato le vacanze, la loro brava televisione. Oppure, all'opposto, ed era ancor peggio, vecchi bohème, maglioni a collo alto e pantaloni di velluto, ogni sera allo stesso caffè di Saint-Germain o di Montparnasse, vivacchiando di espedienti sporadici, meschini fino in cima alle loro unghie nere.

Sognavano di vivere in campagna, al riparo da ogni tentazione. La loro vita sarebbe frugale e limpida. Avrebbero una casa di pietra bianca, all'ingresso di un villaggio, caldi pantaloni di velluto a coste, grosse scarpe, una giacca a vento, un bastone con la punta di ferro, un cappello, e farebbero ogni giorno lunghe passeggiate nei boschi. Rincaserebbero poi per prepararsi tè e toast, come gli inglesi, metterebbero grossi ceppi nel caminetto; metterebbero il disco di un quartetto che non si stancherebbero mai di sentire, leggerebbero i grandi romanzi che non avevano mai avuto tempo di leggere, accoglierebbero gli amici.

Queste evasioni campestri erano frequenti, ma raramente raggiungevano lo stadio di veri progetti. Due o tre volte, è vero, s'interrogarono sui mestieri che la campagna poteva offrirgli: non ce n'erano. L'idea di diventar maestri li sfiorò un giorno, ma se ne disgustarono subito, pensando alle classi sovraccariche, alle giornate massacranti. Parlarono vagamente di diventare librai ambulanti, o di andare a fabbricare ceramiche rustiche in una masseria abbandonata della Provenza. Poi gli piacque immaginare che sarebbero vissuti a Parigi solo tre giorni alla settimana, guadagnandovi quanto bastava per vivere agiatamente il tempo che rimaneva nella Yonne o nel Loiret. Ma questi embrioni di partenza non andavano mai molto in là: non ne consideravano mai le possibilità o, piuttosto, le impossibilità reali.

Sognavano di abbandonare il lavoro, di mollare tutto, di partire alla ventura. Sognavano di ricominciare da zero, di ricominciare tutto su basi nuove. Sognavano rotture e addii.

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X o La storia delle Cose

di Andrea Canobbio


1. «... a causa di quel libro, sono stato considerato come uno "specialista" della "Società dei Consumi" con tutte le implicazioni che una qualifica simile comporta oggi: spesso negato in quanto scrittore, ma esaltato in quanto "sociologo", c'è mancato poco che alla luce (per quanto fosca) degli avvenimenti di maggio, io non passassi per una specie di piccolo Marcuse francese». Cosí Georges Perec in una lettera a un amico, nel dicembre 1968. Le cose, il suo primo romanzo, era uscito il 1° settembre 1965 e il successo fu cosí ingombrante da oscurare per anni l'uscita dei nuovi libri. Prix Renaudot, piú di centomila copie vendute, traduzioni in venti lingue. Soltanto La vita istruzioni per l'uso, nel 1978, raggiungerà e supererà quel risultato.

Scorrendo le recensioni dell'epoca, sembra che Perec avesse qualche ragione di lamentarsi dei critici. «Romanzo? No. Testimonianza sociologica interessante piuttosto che opera letteraria» («L'Express»). «È piú saggio e stimolante considerare Le cose come fonte di riflessione, non come opera d'arte» («le nouvel Observateur»). «L'opera non ha nulla a che vedere con un romanzo. È il documento di un sociologo letterario» (« Parisien libéré»). Piú sfumati i giudizi di «Le Monde» e «Les Lettres françaises» che riconoscono almeno qualità formali e tensione letteraria. Alla fine, comunque, prevale la tesi che si tratti di un documento.

Ma era giustificato il timore che alla luce (fosca) degli avvenimenti del Maggio, Le cose diventassero un annuncio della rivolta? Piú che raccontare la contestazione, il libro ne racconta la fine: l'accettazione di una vita regolata dal lavoro e dalla macchina sociale. I due protagonisti, Jérôme e Sylvie, due giovani parigini non ancora trentenni, desideravano «moquette, tavoli, poltrone, divani ... incantati e quasi sommersi già dalla vastità dei loro bisogni, dalla ricchezza esibita, dall'abbondanza offerta». Desideravano essere ricchi, pensavano di meritare la ricchezza perché avrebbero saputo «vestirsi, guardare, sorridere come persone ricche». Ma per potersi permettere le cose tanto sognate non erano disposti a compromessi, non volevano svendere la loro libertà, e questa era la loro forma di rivolta: «chi non lavora non mangia, sí, ma chi lavora non vive piú». Avevano quindi vissuto per qualche anno, nel crepuscolo della giovinezza, come eterni studenti, prendendo tempo con impieghi saltuari, aspettando che un miracolo (il caso, la lotteria, un'eredità) li mettesse al posto che meritavano, per godere della vita a lungo fantasticata: la comunione perfetta con le cose. La guerra d'Algeria, le manifestazioni in sostegno del FLN, il clima da guerra civile, avevano ritardato il momento delle grandi decisioni. Sconfitti, Jérôme e Sylvie avevano tentato una fuga a Sfax, in Tunisia, dove il vuoto totale del deserto li aveva schiacciati in una «vita senza niente». Avevano smarrito il gusto per le cose; le cose che si trovavano in quell'angolo di mondo, d'altronde, erano completamente prive di aura. «Persi nelle macerie di un vecchissimo sogno», avevano deciso di rientrare. E a Parigi si erano resi conto che tornare alla vecchia vita non era piú possibile, e avevano accettato l'offerta di un posto fisso in provincia.


[...]


3. Nel 1959 Perec fondò con alcuni amici un gruppo letterario e lo battezzò «La Ligne générale», in omaggio al film di Ejzenstejn, che con Lukács era il loro punto di riferimento. L'ambizione «non da poco» (come racconta ironicamente, affettuosamente Claude Burgelin) era quella di metter su una rivista per «rifondare l'estetica marxista». Il marxismo restava un orizzonte necessario anche se nessuno dei membri aveva la tessera del PCF e anzi preferivano mantenersi indipendenti dal partito (di realismo socialista alla Zdanov non ne volevano sentir parlare). La rivista non uscí mai, forse proprio per un veto del PCF, ma il gruppo continuò a riunirsi e discutere, pubblicando articoli su «Partisans», «La Nouvelle critique», «Clarté». Della Ligne générale facevano parte coloro che sarebbero rimasti gli amici di sempre di Perec: Marcel Bénabou, Jacques Lederer, Claude Burgelin, Jean Crubellier, Pierre Getzler, Roger Kléman. In particolare Burgelin e Bénabou, dopo la morte dell'amico, avrebbero scritto alcuni tra i piú bei saggi sulla sua opera.

Un altro membro della Ligne, Paulette Pétras, diventò moglie di Perec nel 1960. La giovane coppia andò ad abitare al numero 5 di rue de Quatrefages, la via in cui abitano Jérôme e Sylvie nelle Cose, conducendo una vita che per molti dettagli («appartamento, mestieri che ho praticato, viaggio in Tunisia») era quella di Perec e di sua moglie. Jérôme non ha le ambizioni letterarie di Georges, ma è uguale al suo creatore nel non essere piú studente e non essere ancora qualcosa di socialmente etichettabile. Non è uno scrittore (non ha una vocazione «prepotente», se non per le cose), ma conduce una vita simile a quella di un intellettuale squattrinato, ed è ciò che tutti chiamerebbero un «intellettuale» (perché, secondo la definizione sarcastica di Perec, «potevano, proprio come gli altri, arrivare; ma loro volevano soltanto essere già arrivati»).

Nei trentacinque metri quadri di rue de Quatrefages gli amici si riunivano a parlare di letteratura, di cinema, di politica; le riunioni si prolungavano oltre la cena e le discussioni talvolta per tutta la notte. Una volta Perec volle convincere il critico cinematografico ufficiale del gruppo, Michel Martens, che Hiroshima mon amour era un capolavoro, e alle prime luci dell'alba Martens capitolò, ammise di avere torto e annunciò di aver cambiato idea e di volersi dimettere dalla carica, perché non avendo saputo difendere la sua «linea» rischiava di non saper difendere in futuro la «linea generale».

Dalle discussioni con gli amici nascono quattro articoli che Perec pubblicò su «Partisans»:

Il nouveau roman e il rifiuto del reale.

Per una letteratura realista.

Impegno o crisi del linguaggio.

Robert Antelme o la verità della letteratura.

Ha ragione Burgelin quando dice che il tono degli articoli è categorico e semplicista, che la veemenza e il dogmatismo rischiano di lasciare perplesso il lettore di oggi (e tanto piú il lettore di Perec). Ma quando il «voler-essere-marxista» non prende il sopravvento, tra le righe degli articoli si legge un'idea di realismo che permette di capire in modo piú completo l'evoluzione poetica di Perec. In particolare il saggio su Robert Antelme è uno dei ponti che conducono alle Cose e oltre (ci torneremo piú avanti).

Il primo e principale obiettivo critico di Perec, ancor piú di Sartre, è Alain Robbe-Grillet, l'alfiere del nouveau roman. Robbe-Grillet sostiene che il mondo «non ha profondità. È impenetrabile. Se gli tolgo i significati che gli hanno aggiunto, è perché, in definitiva, non è possibile dargliene alcuno». Aggiunge Perec: «Questo mondo impenetrabile, indecifrabile (perché non c'è nulla da decifrare), evidentemente non è possibile cambiarlo, né trasformarlo». Ciò denunciava, per la Ligne générale, l'ideologia profondamente reazionaria sottesa alle teorie estetiche del nouveau roman. Che paradossalmente, «protetto dal solido mito dell'avanguardia, è riconosciuto da tutta la sinistra come la buona letteratura». E invece non è buono per nulla: con Robbe-Grillet (che quindici anni dopo sarà un fervente ammiratore della Vita istruzioni per l'uso e lo sosterrà per il Prix Médicis) Perec usa un'ironia feroce: «Confonde la descrizione di un mondo disumanizzato con la descrizione disumanizzata del mondo, un po' come se confondesse una descrizione della noia con una descrizione noiosa».

Ma se le cose non erano le larve anemiche e asettiche raccontate da Robbe-Grillet, qual era il loro vero volto?


4. Le cose appassionavano Perec perché traboccavano di significati:

C'è una distinzione molto semplice tra il nouveau roman e quello che ho cercato di fare. Robbe-Grillet è completamente dalla parte del linguaggio «denotato» (come dice Barthes) e io sono completamente dalla parte del linguaggio che circonda le cose, di ciò che ci sta sotto, di tutto ciò che le nutre, di tutto ciò che instilliamo in loro... L'impressione che ho provato, scrivendo questo libro, è stata quella di trovarmi in un terreno straordinariamente melmoso, una specie di pantano, dove ho sguazzato.


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6. Nel 1980, per la rivista «l'Arc», dedicata a Flaubert, Perec scrive un breve articolo intitolato Prestiti da Flaubert. Il primo paragrafo è dedicato alle Cose e vale la pena di riportarlo per intero:

Indipendentemente dagli altri modelli (di cui il piú importante resta il seminario di Barthes sul linguaggio pubblicitario), Le cose sono state redatte sotto l'influenza esplicita dell' Educazione sentimentale, il cui sottotitolo - Storia di un giovane uomo - generò per un attimo uno dei titoli provvisori del libro - Storia di una giovane coppia. Questa copia della scrittura di Flaubert si concretizzava la maggior parte delle volte in parafrasi («Ti ricordi?» dirà Jérôme. Ed evocheranno il tempo passato...) in trasposizioni piatte (E si passerebbero la mano sul volto, dubitando dei propri occhi, credendo di sognare ancora; spalancherebbero la finestra) in caricature (il signor Podevin, suo zio, morto ab intestato...) [pot-de-vin significa bustarella], in allusioni (il battello a pale Ville-de-Montereau) e, a quanto ricordo, soltanto in tre citazioni quasi letterali: «Tre piatti di maiolica decorati di arabeschi gialli, a riflessi metallici», «signori che, catalogo alla mano, esaminavano i quadri» e «c'erano in cielo nuvolette bianche, ferme».

Poi Perec elenca in dettaglio dieci citazioni inserite nella Vita istruzioni per l'uso, e alla fine riprende: «Il perché di questi prestiti sistematici non mi è mai apparso molto chiaro. Nel primo caso (Le cose) si trattava senza dubbio di un'appropriazione, di un voler-essere-Flaubert...»

Negli anni piú vicini alla pubblicazione del libro, aveva fornito dettagli leggermente diversi. Per esempio, nella conferenza all'Università di Warwick del 1967 aveva detto che Flaubert gli era «servito in tre modi». Primo, aveva ripreso delle scene dall' Educazione sentimentale: la vendita all'asta; il viaggio in nave; la manifestazione politica (altrove chiamò queste scene «figure esemplari come carte di tarocchi»). Secondo, aveva usato «una trentina di frasi senza mettere le virgolette». Terzo, «ho costruito le mie frasi esattamente come Flaubert costruisce le sue, cioè con un ritmo ternario». Subito dopo l'uscita del libro aveva parlato specialmente dell'uso della distanza (del narratore dal personaggio), imparata prima da Brecht e poi da Flaubert, e della «necessaria freddezza» che questa comporta. «Tutto Flaubert è fatto di questa tensione tra un lirismo quasi epilettico e una disciplina rigorosa: è questa freddezza appassionata che ho voluto adottare, senza riuscirci sempre, d'altronde».

Interventi di diversa natura, quindi, concorrevano all' appropriazione: citazioni (piú o meno letterali, alcune caricaturali), ricostruzione di scene simili (all'interno delle quali possono agire le citazioni, come spie), costruzione ternaria nella frase (tre aggettivi per un nome, tre nomi in un elenco, tre proposizioni in una frase). E su tutto la terribile, implacabile ironia di Flaubert. Quel modo di rendere manifesta l'inadeguatezza o il cattivo gusto o la miseria morale o l'ignoranza o la volgarità o la debolezza o la banalità o la stupidità o l'enfasi romantica, senza condannarle.

Anche Le cose era un libro che voleva mostrare senza giudicare (da qui l'ambiguità). E questo si otteneva con due mezzi: l'ironia e la freddezza. Un esempio facile di ironia:

Questa era la vera vita, la vita che volevano conoscere, che volevano fare: era per quei salmoni, per quei tappeti, per quei cristalli che, venticinque anni prima, un'impiegata e una pettinatrice li avevano messi al mondo.

E per quanto riguarda la freddezza:

La freddezza è un mezzo per creare nella frase una specie di gelo. Per gelare il linguaggio, c'è in Francia una ricetta ben sperimentata che è l'imperfetto come lo utilizzava Flaubert.

Perec, in realtà, usa tre tempi verbali: nel primo capitolo, quello dell' utopia paradisiaca (Burgelin), dove viene immaginato l'appartamento modello, regna il condizionale; nel corpo centrale del libro, dove agisce la continua frustrazione del desiderio, regna l'imperfetto; nell'ultima parte, dove la macchina sociale prende il controllo della vita dei protagonisti condannandoli al godimento insipido, regna il futuro.

Ma perché volersi appropriare di Flaubert, perché voler-essere-Flaubert?

In un certo senso il perché era evidente: Flaubert era stato il maestro delle dinamiche non-lineari del desiderio. Il protagonista dell' Educazione sentimentale, Frédéric Moreau, insegue per metà della vita la donna che ama, la signora Arnoux, senza riuscire mai ad averla e accettando in qualche modo il continuo differimento del possesso, come se fosse consapevole che il possesso consumerebbe del tutto il suo desiderio. Quando, dopo molti anni, la signora Arnoux ritorna a cercarlo, Frédéric pensa, con «una specie di repulsione», che sia venuta a offrirsi e si ritrae spaventato. Il percorso dei desideri di Jérôme e Sylvie è altrettanto tortuoso: i due non si limitano a sognare i tipici oggetti della società dei consumi, vogliono qualcosa di più, e sanno già che anche possedendolo ci sarà sempre qualcosa di piú desiderabile, in una «magistrale gerarchia» virtualmente infinita: «dalle Church's alle Weston, dalle Weston alle Bunting e dalle Bunting alle Lobb». Cosí come in Frédéric, che vorrebbe assomigliare a un eroe da romanzo, c'è del bovarismo in Jérôme e Sylvie, che vorrebbero appartenere a un'élite di rentiers, dettando il gusto piú che seguirlo passivamente, e che alla fine si devono invece accontentare delle briciole, gli scarti del mercato delle pulci. Desiderare di diventare grands bourgeois (finché non accettano di appartenere alla classe media) è la garanzia che i loro desideri restino impossibili e non si esauriscano mai. Cosí, il loro lavoro di psicosociologi li porta a incontrare semplici consumatori, «gente che credeva alle marche, agli slogan», con un evidente e immotivato senso di superiorità.


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10. In un testo famoso, Note su quello che cerco, pubblicato sul «Figaro» nel 1978 e poi raccolto in Pensare/classificare, Perec paragona il suo lavoro a quello di un contadino che coltiva diversi campi, e ne individua quattro, «quattro modalità d'interrogazione che pongono forse in fin dei conti la stessa domanda»: la modalità «sociologica» di cui farebbero parte Le cose, Specie di spazi, i vari Tentativi di descrizione di un luogo; la modalità «autobiografica», con W o il ricordo d'infanzia, La bottega oscura, Mi ricordo, Luoghi in cui ho dormito; la modalità «ludica» di cui fanno parte i palindromi, lipogrammi, pangrammi, anagrammi, isogrammi, acrostici, le parole crociate; la modalità «romanzesca», il desiderio di scrivere «libri che si divorino a pancia sotto sul letto», La vita istruzioni per l'uso ne è un esempio. Dopo aver diviso le carte, con un gesto da prestigiatore Perec le rimescola dicendo che le quattro modalità s'intrecciano sempre tra loro e che perciò nessuno dei suoi libri sfugge a una certa «impronta autobiografica» (o ludica, o romanzesca, o sociologica). Era quindi solo per semplificare il lavoro ai critici e chiarire le idee ai lettori che tredici anni dopo accettava l'etichetta sociologica per Le cose.


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Davanti ai testi di Perec si viene presi dalla sindrome di Poe, che nel Gordon Pym legge caratteri misteriosi nella forma dei burroni dell'isola di Tsalal. Vengono in mente le parole che l'autore stesso scrisse a proposito di un romanzo di Queneau: «Di sorpresa in sorpresa, di scoperta in scoperta, Un rude inverno si incammina piano piano verso l'inesauribile».

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