Autore Simone Pieranni
Titolo La Cina nuova
EdizioneLaterza, Bari-Roma, 2021, I Robinson Letture , pag. 196, cop.fle., dim. 14x21x1,7 cm , Isbn 978-88-581-4515-9
LettoreRiccardo Terzi, 2022
Classe paesi: Cina , storia: Asia












 

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Indice


Memoria / Futuro                      3

Socialismo / Mercato                 27

Meritocrazia / Corruzione            51

Metropoli / Campagna                 75

Pubblico / Privato                   99

Airpocalypse / Civiltà ecologica    121

Lavoro / Automazione                145

Ordine e caos                       169


Bibliografia e ringraziamenti       187


 

 

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Pagina VII

Nella Cina contemporanea convivono elementi che a noi occidentali sembrano contraddizioni insanabili: í grattacieli si stagliano là dove c'era solo campagna, un colossale inquinamento industriale si affianca alla più avanzata ricerca di fonti di energia sostenibile, l'oblio della memoria accompagna una pulsante spinta verso il futuro. Se possibile - tra gli elogi per l'efficienza amministrativa e sanitaria e le critiche all'autoritarismo tecnologico - la pandemia ha finito per renderci ancora più complicata la comprensione di questo paese, come se le lenti con cui proviamo a interpretarla si fossero ancora una volta sfocate.

Eppure, se le indaghiamo nel profondo, pronti ad aprirci allo spettro di complessità che nascondono, si può scoprire che nella Cina nuova queste dualità danno vita a nuove forme di dialettica tra potere e cittadini in una realtà sempre più rilevante anche nella nostra quotidianità, grazie e non solo al suo rinnovato peso economico.

Contemplare e ragionare sulla Cina non è semplice: pur avendoci vissuto a lungo e occupandomene ogni giorno, non posso affermare di conoscere questo paese che si presenta ogni volta sfuggente, mutato, in divenire. Ma come sosteneva Simon Leys, «chi scrive di Cina scrive di se stesso»: analizzare le discordanze e i discanti cinesi, confrontarsi con essi, in fondo, è un modo come un altro per interrogarci sul nostro modo di stare al mondo, di percepire l'altro, il lontano, il misterioso e di valutare con onestà i nostri pregiudizi.

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Pagina 5

Memoria



A soli 15 anni, nel 1862, Zhang Deyi fu scelto come uno dei primi dieci studenti ammessi al Tongwen Guan, il Collegio dei traduttori a Pechino istituito dall'allora dinastia Qing (l'ultima a regnare sul territorio cinese). Dopo quattro anni di studio fu ritenuto pronto e si unì alla missione - la prima ufficiale - di «accertamento dei fatti» della corte Qing in Europa. Dopo l'Europa, nel 1868, fu la volta degli Stati Uniti. I suoi diari sono uno strumento straordinario per capire quale fosse, allora, la coscienza dei cinesi della propria storia. E non solo, perché Zhang, pur impressionato dalle sue conoscenze «occidentali», visse il suo incredibile periodo fuori dai confini cinesi insieme a una grande frustrazione: non capiva perché gli occidentali chiamassero la Cina con un nome che i cinesi ignoravano: «Dopo decenni di interazioni diplomatiche e commerciali, gli europei dovrebbero sapere molto bene che il mio paese si chiama Da Qing Guo [il grande stato Qing] ma insistono nel chiamarlo Cina, Zhaina, Qina, Shiyin, Zhina, Qita. Non so su quale base gli occidentali lo chiamano con questi nomi!».

[...]

Tra rimozioni e ostentazioni, il paesaggio urbano della Nuova Cina scandisce il tempo della memoria per i suoi abitanti: essere circondati ogni giorno da qualcosa di nuovo, perdere la bussola delle proprie camminate perché all'improvviso scompaiono i punti di riferimento urbani o ne nascono di nuovi, crea quel senso di smarrimento di cui scriveva Johnson sul «Guardian» nel 2016.

Alcuni luoghi, invece, non sono stati ricostruiti. Perché? Perché giustificano la narrazione storica del Partito comunista. È il caso dell'antico Palazzo d'Estate, o anche «Giardino della perfetta luminosità». In questo caso, nonostante le richieste di restauro, le autorità hanno deciso di lasciare le rovine in bella mostra. Il fatto è che il Palazzo - luogo di residenza estiva per gli imperatori Qing - venne saccheggiato e distrutto da inglesi e francesi nel 1860 durante la seconda guerra dell'oppio. È un monito e una conferma: i cinesi hanno vissuto il «secolo delle umiliazioni» ad opera degli occidentali e questo ricordo deve essere ben presente nella memoria di ogni cinese, perché «giustificatorio» della nuova intraprendenza cinese che afferma il ritorno al centro del mondo.

La memoria, ne discende, è un concetto piuttosto mobile per i cinesi e da sempre «truccato» da chi è deputato a scrivere la storia. Questo accade tanto più oggi, periodo nel quale il Partito comunista - oltre a rinnovare in modo continuo il panorama urbano del paese - guarda al passato per trovare la propria legittimazione, grazie a un racconto «epico» proposto dalla leadership del Pcc. Pensiamo solo alla Nuova Via della Seta: quando il presidente Xi Jinping ha presentato nel 2013 il suo progetto «One Belt One Road», ha descritto l'antica strada carovaniera come qualcosa di essenzialmente cinese. In realtà il termine fu creato da un occidentale (il geografo tedesco Ferdinand von Richthofen) e per lungo tempo la lingua parlata lungo le rotte commerciali fu il persiano. La storia, dunque, oggi più che mai serve al Partito comunista per marcare una linea di continuità, in alcuni casi con chiari accenti di natura etnica, tra presente e passato. E come sempre accade in questi casi, il Pcc non ammette discussioni, anche per quanto riguarda la storia recente. Nel 2018 Xi Jinping ha fatto approvare una legge dall'Assemblea nazionale (quanto di più simile esiste in Cina ai parlamenti occidentali, benché abbia solo la funzione di ratificare quanto deciso dal Consiglio di Stato, l'organo esecutivo, a sua volta controllato in toto dal Partito comunista) che impone a «tutta la società» di onorare gli eroi rivoluzionari e i martiri approvati dal Partito, rendendo la diffamazione un potenziale reato punibile dalla legge. Chun Han Wong, commentatore di fatti cinesi sul «Wall Street Journal», a questo proposito scrisse che «rafforzare il controllo sulla storia cinese è una priorità per il presidente Xi Jinping, che ha rivendicato la legittimità del governo comunista affermando che lui e il suo Partito al governo stanno guidando il ritorno della Cina alla grandezza del passato». Per questo eroi e martiri hanno un posto di rilievo nelle campagne di propaganda che spesso risalgono alle radici rivoluzionarie del Partito. «I funzionari hanno affermato che è necessaria una legislazione forte per promuovere il patriottismo e reprimere il nichilismo storico, termine ufficiale per lo scetticismo sui contributi del Partito al progresso della Cina». Insieme alla legge è arrivata la censura di libri, articoli, saggi. Questi ritocchi storici, in realtà, non sono l'unico modo che il Partito ha di controllare il passato; in alcuni casi la memoria è travisata o completamente annullata.

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Pagina 15

Futuro



Il soffitto è blu scuro, puntellato di piccole luci, come stelle distratte in un cielo notturno. Ai lati sono poste alcune finestre che permettono di regolare la luce di questo lungo corridoio, contrassegnato dalla presenza di oggetti - distanziati qualche metro l'uno dall'altro - che sembrano delle piccole capsule spaziali, quelle dei film di fantascienza, quando i protagonisti devono scappare da un'astronave. Si tratta del luogo dove in Cina sono state crioconservate le prime persone che hanno deciso di sottoporsi a questa specie di sonno, di limbo indefinito. Lo scopo: resuscitare quando le malattie che ne avrebbero provocato la morte vera e propria saranno curabili.

[...]

Per la maggior parte dei pazienti, il costo della crioconservazione è proibitivo. Il solo azoto liquido costa circa 50.000 yuan (7.500 euro) all'anno e deve essere reintegrato ogni 10-15 giorni. Negli Stati Uniti questa pratica è attiva da molto tempo, in Cina da meno, ma indica la presenza dei transumanisti, coloro che credono che in un futuro i corpi possano essere risvegliati e dotati di medicinali o inserti tecnologici per garantire una sorta di immortalità. Non siamo di fronte alla «singolarità», la macchina che diventa umana in tutto e per tutto, bensì alla fiducia che la scienza in un futuro possa garantire vite ben più lunghe di quelle attuali. Il tema è molto caro alla fantascienza, e non è un caso che uno dei primi cinesi ad aver compiuto questa scelta sia l'editore de Il problema dei tre corpi , l'opera di Liu Cixin diventata simbolo della fantascienza cinese contemporanea, crioconservato negli Stati Uniti. Il sito di Alcor, l'azienda presso la quale si è fatto «congelare», ne ha dato ampio risalto: «Du Hong, membro di Alcor A-2833, è stato dichiarato clinicamente morto il 30 maggio 2015 all'età di 61 anni. Du Hong, un membro della neurocryopreservation, è stato il primo paziente cinese di Alcor e il 138° paziente in totale».

Il fenomeno del transumanesimo è decisamente limitato in Cina - si tratterebbe in totale di 500 persone -, ma nel luglio del 2018 il 798, un ex complesso industriale trasformato in un hub artistico, ha ospitato la conferenza Humanity+, un meeting dei transumanisti cinesi che ha avuto anche ospiti internazionali. Una sparuta minoranza, rispetto all'immensa popolazione cinese, ma che indica una sorta di propensione al futuro dei cinesi. Pochi mesi dopo la conferenza dei transumanisti, a novembre, uno scienziato cinese ha annunciato la nascita di due gemelli con un Dna modificato in modo da renderli immuni al virus Hiv. È questo il futuro immaginato dai cinesi? Corpi conservati e risvegliati quando potranno essere curate malattie mortali? Esseri umani dai geni modificati per resistere ad avversità, virus e con super poteri? Super cinesi in grado di conquistare il mondo e ridurci in schiavitù?


Nel corso della storia cinese il futuro, in quanto concetto, è stato analizzato dalle diverse e principali correnti filosofiche, il confucianesimo, il taoismo e il buddismo. Secondo il professore della Southern University of Science and Technology di Shenzhen Wu Yan, in Cina ha sempre prevalso una visione del mutamento «concepita in termini di fluttuazione, il che vale a dire che il futuro, lungi dall'essere "stagnante", ripete sempre il moto già avvenuto come le onde». Si tratta di una caratteristica riscontrata nella Cina antica e che in generale invitava la popolazione a non concepire il futuro in termini catastrofici. Un «invito» che pare essere vivo ancora oggi, come dimostra un sondaggio pubblicato nel 2020 nel quale i cinesi emergono come i più ottimisti riguardo il futuro. Da Confucio a oggi, questa speranza di un futuro migliore è mutata e appare determinata dal fatto di sapere che, pur essendo inseriti in una società dinamica quanto letale, in grado di compiere una vera e propria selezione naturale, i cinesi possono giocarsi il proprio avvenire, migliorare le proprie condizioni di vita.

[...]

Un esempio è costituito dal modo con il quale oggi in Cina viene radicalmente cambiato il messaggio di un fenomeno occidentale come fu - ad esempio - quello del cyberpunk, un filone letterario sviluppatosi a metà anni Ottanta nel quale si descriveva un futuro distopico a causa della sempre maggiore invasività delle tecnologie nelle nostre vite. A modo loro gli scrittori di cyberpunk segnalavano, all'epoca, alcuni futuri possibili, compreso quello del dilaniamento sociale delle società e delle istituzioni statali, soppiantate da una guerra costante tra multinazionali alla ricerca di dati. Tutto questo era sempre ambientato in città - spesso asiatiche, come vedremo - oscillanti tra ipertecnologia riservata a pochi e immane povertà riservata ai molti. Negli anni Ottanta il paese più avanzato tecnologicamente sembrava essere il Giappone, per questo la letteratura speculativa creata dal filone letterario cyberpunk descriveva un futuro distopico che trovava per lo più in Asia una sua location d'eccellenza. Se il Giappone fungeva da luogo nel quale la tecnologia prendeva vita nei nostri immaginari, la Cina era la terra della nostra proiezione coloniale: un territorio devastato dai signori della guerra, dove estinguere l'idea di Stato-nazione e ricreare un futuro fatto di scontri tra bande e multinazionali dell'hi-tech. È così che William Gibson inventa il termine 'cyberspazio' in Neuromante , ambientato in Giappone, mentre è in una Cina divisa da appartenenze etniche o ideologiche che Neal Stephenson ne L'era del diamante organizza il suo mondo dominato dal diluvio delle nanotecnologie e dai «creatori di materia».

Oggi in Cina c'è un grande revival del cyberpunk - forse perché, come sostengono molti autori cinesi di fantascienza, la Cina è cyberpunk.

[...]

Morto Mao nel 1976, arriva Deng Xiaoping e lancia le «quattro modernizzazioni». La fantascienza rinasce, ma ristagna nella palude della Cina lanciata verso il successo: grande crescita ma anche arricchimenti selvaggi, banditismo economico e sociale.

Si giunge al 1999. Al gaokao, il temutissimo esame di maturità, il tema presentato agli studenti è il seguente: «Se la memoria si potesse trapiantare». Si tratta dello stesso titolo di un racconto apparso su una delle riviste di fantascienza pubblicate in quel periodo. In pochi giorni il magazine diventa uno dei più venduti e la fantascienza ritorna sulla cresta dell'onda. Da lì in avanti il tempo accelera: nel 2015 e nel 2016 l'algoritmo di AlphaGo - sviluppato da Google DeepMind - vince sui campioni europei e mondiali di Go, il gioco di strategia inventato dai cinesi. Per il Partito comunista è «il momento»: la Cina lancia con ingenti finanziamenti la sua corsa all'Intelligenza artificiale ed è così che un intero popolo si ritrova mobilitato a brevettare, programmare, inventare con un obiettivo - diventare il paese più avanzato in termini di Ai entro il 2030. La fantascienza diventa l'espressione più limpida di questa tensione e per una volta esce dai confini nazionali. Mentre Alpha-Go sconfiggeva i campioni di Go, Liu Cixin vinceva il premio Hugo, il Nobel della fantascienza, con Il problema dei tre corpi, diventando un caso letterario mondiale.

In Cina però non c'è solo Liu Cixin.

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In Pechino pieghevole la scrittrice Hao Jingfang immagina la capitale come un cubo di Rubik: i livelli della metropoli appaiono e svaniscono consentendo a tre fasce di popolazione tre forme di vita differenti in tempi diversi. Tempo, spazio e diseguaglianza, il trittico che è valso a Hao il premio Hugo per í racconti, prima donna asiatica a vincerlo e a trovare una propria strada all'interno del mondo sci-fi. Se Chen Qiufan è cyberpunk (il suo Waste Tide è a tutti gli effetti una distopia), Hao è «iper-realistica», qualcosa di simile a quella speculative fiction di cui Ballard è il campione occidentale. Non a caso ne La città definitiva Ballard (nato a Shanghai e che ha raccontato il suo periodo trascorso nel campo di prigionia giapponese in L'Impero del Sole) presenta un personaggio, emblema della società industriale, che ha immaginato una città nella quale gli spazi emergono e si sostituiscono ad altri a seconda della loro funzione «produttiva».

[...]

Nel recupero di queste leggende di cui fu grande amante anche Borges , la fantascienza cinese ha trovato una sua interprete e un'altra visione di futuro. Si tratta di Xia Jia, autrice di racconti nei quali torna l'elemento fantastico, perché, come sostiene lei stessa, «la fantascienza è quanto era per Gilles Deleuze: una letteratura in costante divenire, nata nella frontiera tra ciò che sappiamo e quanto immaginiamo». All'interno di questo confine - altro elemento spaziale si inserisce il Pcc che nel suo sforzo di soft power ha trovato nella sci-fi un ottimo veicolo di comunicazione del proprio «modello».

Di recente il Pcc ha pubblicato alcune linee guida su come trattare i temi fantascientifici, nel tentativo di creare un canone. Impresa complicata: gli scrittori di fantascienza dimostrano che la realtà delle cose si presenta sfuggente, frammentaria e indicano l'antidoto, la ricerca costante di novità nel tentativo di spezzare tempo e spazi, non solo letterari.

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Pagina 32

Più in generale, i giovani cinesi nati negli anni Novanta e Duemila sono cresciuti in un'era di rapido incremento economico e di aumento della forza politica internazionale della Cina. La vulgata cinese vuole che Mao abbia fatto rinascere la Cina, Deng l'abbia resa ricca e Xi potente. Ma specie dopo la crisi economica che ha colpito l'Occidente nel 2008, con la Cina diventata la seconda economia del mondo, anche dalle parti di Pechino la dottrina liberale che pure aveva conquistato parecchi intellettuali, più o meno velatamente «democratici», ha segnato il passo, riportando in auge sentimenti socialisti proiettati verso uguaglianza e diritti.

La crisi del pensiero liberale e delle democrazie occidentali ha finito per portare molti cinesi a riconsiderare in modo completo la comprensione della storia cinese e mondiale. Molti giovani cinesi oggi rifiutano il consenso neoliberista secondo cui non ci sono alternative alle strategie di sviluppo occidentali, preferendo esplorazioni teoriche anche all'interno delle proprie origini storiche. Alcuni avvenimenti, inoltre, come le morti sul lavoro e «di lavoro» (come ad esempio è capitato a due dipendenti di una piattaforma di e-commerce, morti per overworking nel gennaio 2020) o lo sfruttamento delle persone impiegate all'interno del comparto hi-tech, hanno finito per creare sentimenti anticapitalistici tra i più giovani che sui social trovano ormai molti riferimenti e materiali vietati nelle università. I giovani cinesi che potremmo definire «di sinistra» stanno rivendicando l'eredità ideologica del loro paese, di cui recuperano l'affiato contro lo sfruttamento dei lavoratori e dei contadini da parte della classe capitalista. Non è un caso quindi che argomenti come le vite dei rider, o le proteste della «generazione 996», siano diventati centrali sia nella produzione culturale sia nelle discussioni on line. Il capitalismo ha smesso di apparire l'unico sistema possibile. In Cina, almeno, pare non valga più la considerazione di Mark Fisher a questo proposito, secondo la quale «there is no alternative».

Naturalmente, però, c'è un problema: come fare a essere socialisti, in un paese governato da un Partito comunista, ma caratterizzato da miliardari e dalla grande differenza economica tra una minoranza e la stragrande maggioranza della popolazione, proprio come accade in Occidente?

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Pagina 41

Mercato



Il peculiare rapporto tra Stato e «mercanti» in Cina: il passato nel presente

Nel gennaio 2020 alcuni funzionari del Partito comunista cinese dichiararono che probabilmente era giunto il momento di tassare i big tecnologici cinesi, le cosiddette piattaforme, e di stabilire un criterio affinché i profitti derivanti dall'utilizzo dei dati fossero, in qualche modo, condivisi con chi fornisce quei dati alle aziende, ovvero i cittadini. Il peso economico delle aziende private nel settore tecnologico è enorme: il commercio digitale, oggi, rappresenta oltre un terzo dell'economia cinese. Tassare alcune aziende significherebbe in primo luogo un recupero ingente di denaro. Ma al di là degli aspetti economici ovvi (si tratterebbe di prendere una fetta di Pil e riportarla all'interno delle casse statali, anziché nelle tasche dei vari miliardari cinesi), questo atteggiamento del Pcc nei confronti delle grandi aziende private non stupisce. Da un punto di vista storico, infatti, saremmo di fronte a quello che uno dei più grandi sinologi di tutti i tempi, Joseph Needham , definì il «passato nel presente della Cina»: al di là della piega ultra-statalista presa dall'amministrazione Xi Jinping , nella storia cinese le tenaglie dello Stato (compreso l'apparato amministrativo di un «Grande Stato» di una qualunque dinastia) sono sempre arrivate a controllare anche i gangli economici più profondi della società, non fosse altro per la scarsa considerazione che nell'epoca imperiale hanno sempre avuto i mercanti, ultimi nella scala sociale cinese dopo í letterati, i contadini, gli artigiani e gli operai. Secondo Needham fu il nazionalista Chiang Kai-shek, a inizio del '900, a provare a invertire quest'ordine ponendo i mercanti al primo posto, nel tentativo di sviluppare logiche capitalistiche all'interno del paese, con il risultato di uscire sconfitto dallo scontro con i comunisti che invece, più in linea con la tradizione, miravano a confermare questo schema, salvo poi procedere all'annullamento di ogni divisione «di classe».

Non è più un mistero che di recente lo Stato cinese abbia tentato in ogni modo di accaparrarsi business, potere e dati estraendoli dai colossi privati, almeno da quando Jack Ma e la sua Alibaba (una delle principali aziende al mondo nel settore dell'e-commerce) sono finiti sotto il tiro di legislatori e magistratura cinese, a dimostrazione delle scarse fortune dei «mercanti» in Cina.

[...]

Nella storia cinese il confronto tra governo e «mercanti», in alcuni periodi, è stato centrale nello sviluppo sociale della Cina. Nel Medioevo cinese, la dinastia regnante dei Song decise di volgersi al mare. Proprio in quel periodo dinastico (960-1279) si è assistito alla nascita di due categorie sociali nuove per la Cina di allora: da un lato nacque la «gentry», ovvero quella classe di letterati e amministratori che finirà per segnare per sempre la storia cinese e non solo; dall'altro si creò una sorta di classe mercantile che cominciò a concepire í primi scambi commerciali senza un intervento diretto dello Stato (che pure continuò a controllare i meccanismi vitali dell'economia). I Song si rivolsero al mare perché all'interno la sovrapproduzione delle campagne aveva dato vita a veri e propri snodi commerciali, che avevano creato una piccola forza mercantile. La dinastia regnante prese la bussola, inventata in realtà tempo addietro per la geomanzia, e la utilizzò per la navigazione. Nella Cina di quell'epoca nacque il più grande sistema di navigazione interna e lo sforzo della produzione di navi portò il Grande Stato Song a diventare anche il paese con più diramazioni internazionali dell'epoca: due dinastie dopo, quella dei Ming poteva contare su 6500 navi, chiudendo un periodo di 400 anni durante i quali la Cina fu la massima potenza navale. L'epoca Ming, che finirà poi per chiudersi alla ricerca di una sorta di isolazionismo non senza alcune connotazioni che oggi potremmo definire quasi xenofobe, raccolse l'eredità di uno dei periodi migliori della storia cinese, ovvero l'epoca Song, portando molto in avanti lo sviluppo della nuova classe mercantile.

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L'imprenditore che piace al Partito comunista cinese

Ma allora, visto il passato e visto il presente, ovvero il tentativo da parte del Partito comunista di ostacolare le grandi aziende private come Alibaba, esiste un modello di imprenditore che piace e soddisfa Xi Jinping e la dottrina del Partito comunista cinese? La risposta è positiva e va ricercata nella vita di una persona che fuori dai confini cinesi è pressoché sconosciuta. Si tratta di Zhang Jian, imprenditore e filantropo vissuto tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. La sua vita ci permette di cogliere gli elementi essenziali affinché un imprenditore possa trovare la stima e il permesso di agire da parte del Partito comunista.

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Quindi, Jack Ma ha ricevuto il messaggio che Xi Jinping ha voluto lanciare a lui e non solo a lui? Sembrerebbe proprio di sì: dopo tre mesi di assenza dalla scena pubblica - con rumors di ogni tipo che davano perfino Jack Ma prigioniero in qualche squallida prigione cinese - il fondatore di Alibaba è riapparso nel gennaio 2021, grazie a un incontro virtuale, guarda caso, con un centinaio di insegnanti di scuole situate in zone rurali molto arretrate rispetto alle metropoli cinesi. Jack Ma sembra avere collegato molto bene tutti i puntini, perché nel suo intervento ha sottolineato la necessità di fare beneficienza e di contribuire ad aiutare chi è rimasto indietro. E dire che Jack Ma, in realtà, non aveva lesinato effusioni nei confronti del Pcc. Aveva pubblicamente ammesso di avere la tessera del Partito e, nonostante avesse invitato i suoi dipendenti «a esserne innamorati ma senza sposarlo», ha finito per collaborare in molti modi con il governo, tanto quello cittadino di Hangzhou, dove Alibaba ha la sede, quanto quello centrale, sviluppando tra l'altro un'applicazione per promuovere il pensiero politico di Xi Jínping. Non è bastato. Per ora però, se non altro, è ancora a piede libero al contrario di molti imprenditori che negli ultimi quindici anni sono finiti in carcere o giustiziati a seguito di condanne a morte. In Cina, infatti, «arricchirsi è glorioso», come diceva Deng Xiaoping, ma entro certi limiti, proprio come fece Zhang. Altrimenti, diventa inesorabilmente «pericoloso».

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Pagina 147

Lavoro



Prima erano i «lavoratori fluttuanti», poi le «formiche», la «996 generation», ovvero gli etichettatori dell'Intelligenza artificiale o ancora i rider, i nuovi colletti blu dell'algoritmo. Si tratta di alcuni soprannomi con i quali sono stati descritti nel corso del tempo i lavoratori cinesi. Ma non solo, perché sul web cinese gira tutta una serie di espressioni che finiscono per «marcare» le caratteristiche dei lavoratori o di tipologie di lavoro o ancora abitudini o consuetudini inerenti il mondo del lavoro nel paese. Ad esempio, «chiaro di luna» è un'espressione usata per indicare un gruppo di persone il cui denaro guadagnato ogni mese viene utilizzato e speso prima dell'inizio del mese successivo. «Fuga» da Pechino, Shanghai e Guangzhou indica una tendenza sorta tra i colletti bianchi a scappare dalle grandi metropoli a causa dei prezzi esorbitanti degli affitti e delle pressioni alle quali si è sottoposti («pressione» è un'altra parola che contraddistingue i discorsi inerenti il lavoro in Cina): per molto tempo, città di primo livello come Pechino, Shanghai e Guangzhou erano il sogno di moltissimi giovani studenti, in particolare i neolaureati che consideravano il lavoro e la vita in quelle città come prima scelta. Tuttavia, ben presto si sono accorti che la vita in queste città è oltremodo dispendiosa e vanno alla ricerca di luoghi come Chengdu, Chongqing, Xi'an, Shenzhen e Suzhou, diventate nel tempo una nuova meta di molti impiegati. C'è l'espressione «moyu», «prendere i pesci», che indica la volontà di lavorare con lentezza, per non rischiare il licenziamento ma senza impegnarsi troppo e rischiare di morire di overworking (come capita ancora oggi a lavoratori impiegati in aziende di e-commerce).

Poi ci sono gli «animali sociali»: il termine ha avuto origine in Giappone e ha un valore dispregiativo in quanto è usato per descrivere gli impiegati che lavorano in modo eccessivamente obbediente. Si tratta di persone «spremute dall'azienda» o trattate «come bestiame». Con «animali sociali» in Cina ci si riferisce più ai dipendenti che vivono sotto pressione, sottoposti costantemente al ricatto del licenziamento, la cui vita si esaurisce al termine della giornata di lavoro, senza la forza o la voglia di fare altro; l'unico desiderio, come ricorda un netizen cinese, è «andare a casa e sdraiarmi in silenzio e rilassarmi per controllare Weibo, guardare video. Non voglio parlare o muovermi, solo stare zitto».

[...]

Oggi, la «nuova era» di Xi Jinping richiede un paese meno dipendente dalle esportazioni e più dinamico sui servizi e il mercato interno. Si richiede cioè più qualità, meno quantità, più robotica, automazione, Intelligenza artificiale, più prodotti di alta qualità tecnologica esportata; aumento della produzione di semiconduttori e minore dipendenza dall'importazione di tecnologia dall'estero. La fine della fabbrica del mondo, l'inizio dell'epoca con la Cina leader nel mondo dell'alta tecnologia. E i lavoratori? In questa nuova narrazione della Cina mancano ancora una volta gli operai. Eppure ci sono, eccome. Intanto sono ancora milioni. In secondo luogo, ancora oggi, protestano per ottenere migliori diritti e condizioni di lavoro. Nel luglio 2018 a Shenzhen è andata in scena una protesta di lavoratori di una fabbrica, la Jasic, per la creazione di un sindacato indipendente. Accanto ai lavoratori sono scesi in campo anche gli studenti, ma la risposta del governo cinese è stata la repressione.

Quanto è accaduto a Shenzhen, dunque, potrebbe essere concepito come una delle ultime urla di protesta di un mondo del lavoro cinese in profonda trasformazione. E - seppure in miniatura - rappresenta un problema decisivo per il numero uno cinese Xi Jinping, perché i lavoratori e gli studenti accorsi in loro sostegno a Shenzhen si sono professati marxisti e maoisti; nella fase più calda della loro lotta, nell'agosto 2018, hanno scritto un appello direttamente a Xi Jinping specificando di non essere «una forza straniera». Sono i figli di questa Cina, sballottata tra sviluppo economico e una ricerca intellettuale che vaga tra valori antichi. D'altronde lo sta facendo anche Xi Jinping: nel bicentenario della nascita ha celebrato Karl Marx, dichiarando che «aveva ragione». I giovani operai e studenti cinesi si rifanno a Marx per un motivo molto semplice: dello sviluppo cinese loro non raccolgono o rischiano di non raccogliere neanche le briciole. La lotta di classe, per loro, è pane quotidiano, è quanto di più visibile esista al mondo, molto più della Nuova via della Seta e dei progressi cinesi sull'Intelligenza artificiale che, anzi, rischiano di porre nuovi e inquietanti dilemmi alla classe operaia del paese.

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Pagina 172

Ma oltre ai concetti, ci sono anche domande banali, nate da semplici osservazioni di eventi capitati durante la vita in Cina. Ad esempio, dove diavolo ci si deve sedere in una cena attorno a un tavolo rotondo? Noi siamo abituati a scegliere liberamente il nostro posto, o a sederci vicino a qualcuno con cui sentiamo di poter chiacchierare più amabilmente che con altri, o a chi ci sta più simpatico eccetera. In Cina non funziona così. È evidente appena capita l'occasione: si rimane in piedi a guardare i movimenti degli altri commensali; movimenti decisi, determinati, guidati da qualche motivo che a noi appare ignoto. Se siete fortunati e siete l'ospite di riguardo, avrete uno stuolo di mani che vi indicherà il vostro posto, senza possibilità di sfuggire all'imposizione. Se invece, come è capitato a me, a un tavolo rotondo sentite quasi sempre l'esigenza di sedervi nel posto dal quale potete guardare l'uscita del locale in cui siete, cominciano i problemi. Perché quello, per i cinesi, è il posto della persona che durante la cena ha il più alto «ranking» sociale, o almeno così gli è riconosciuto dal resto dei commensali. Ogni posizione ha un suo significato, un suo perché, e ogni posizione concorre a un ordine, a un'armonia. Altrimenti di sicuro la cena porterà sfortuna per i prossimi millenni.

Daniel A. Bell e Wang Pei pongono questo esempio, il posizionamento delle persone intorno a un tavolo per una cena, come inizio del loro libro Just Hierarchy nel quale indagano l'elemento «gerarchico» nelle società asiatiche e in particolare in Cina. Anche nell'«ordine» dei posti a tavola, i due autori riscontrano l'espressione di una «gerarchia» che però, secondo loro, è positiva in quanto emanazione di un concetto meritocratico. Ad esempio: se la persona più «potente» invitata alla cena è una donna, finirà lei nella posizione più importante. In questo senso l'ordine prescinde dal patriarcato e dallo strisciante maschilismo presente nella società cinese.

Un'altra fissazione dei cinesi, evidente in epoca contemporanea dall'avvento del Partito comunista al potere, e in grado di esprimere sempre un senso di ordine, di regolarità, è l'uso dei numeri: i quattro vecchiumi, i quattro comprensivi, i tre anti, la nona categoria, le tre rappresentanze, i tre mali, i cinque eccessi, cinque cure, tre bellezze e quattro passioni. Da un lato il Partito comunista aveva il compito di semplificare i suoi lunghi e complicati documenti programmatici per le masse che, poco dopo la Rivoluzione, erano ancora per lo più analfabete. Per questo le campagne di propaganda erano sempre lanciate con l'utilizzo costante di numeri. Ma in generale sotto questo utilizzo dei numeri si celava la necessità che le parole fossero chiare e non potessero dare adito a letture deviate, caotiche: «bisogna esprimersi - scriveva nel 1980 il Partito comunista - in modo accurato. Un'espressione scentrata anche di un solo millimetro condurrà a deviazioni di migliaia di chilometri». Cioè al caos.

Ma i numeri, in realtà, costituiscono un altro aspetto fondamentale nella concezione del mondo cinese. E cominciando a ragionare sui numeri, cercando informazioni su questo uso spasmodico di elenchi e liste (che personalmente mi faceva impazzire, preso come ero a fare costantemente liste di cose, eventi, persone, incomprensioni), non potevo che incrociare Marcel Granet , sociologo e sinologo vissuto tra il 1884 e il 1940, che ha fornito i punti cardinali del pensiero cinese, partendo dall'antichità. Sui numeri, ad esempio, Granet ricorda che «Perché l'Universo si presenti come un insieme ordinato, è necessario e sufficiente che un Calendario promulgato governi, in un Mondo rinnovato, un'Èra nuova. Il Mondo è ricreato non appena un Capo degno di esercitare una missione civilizzatrice ha meritato di vedersi affidare i Numeri del Calendario del Cielo. Al contrario, l'Universo si sconvolge quando una Virtù decadente fa perdere ai Numeri del Calendario l'ordine». E anche riguardo a una questione così apparentemente poco filosofica, come sedersi intorno a un tavolo per mangiare, c'è una motivazione antica ed è incredibile come in Cina questi due piani, quello arcaico e quello contemporaneo, trovino assonanze così chiare per quanto bizzarre: «Le idee congiunte di Ordine, di Totale, di Efficacia, dominano il pensiero dei cinesi», scrive Granet. E per i cinesi «La materia e lo spirito non appaiono affatto come due mondi che si oppongono. Non si dà all'Uomo un posto a parte attribuendogli un'anima che sia di essenza diversa dal corpo. Gli uomini non prevalgono per nobiltà sugli altri esseri che nella misura in cui, possedendo un rango nella società, sono degni di collaborare al mantenimento dell'ordine sociale, fondamento e modello dell'ordine universale. Dalla folla degli esseri viventi si distinguono solamente il Capo, il Saggio, l'Uomo educato. Queste idee si accordano con una rappresentazione del Mondo caratterizzata non dall'antropocentrismo, ma dal predominio della nozione di autorità sociale».

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Questo contrasto, o per meglio dire «movimento», tra ordine e caos si traduce nella vita reale anche nella Cina contemporanea. Pensiamo a quanto accaduto con la gestione della pandemia nel marzo del 2020, un evento malevolo che potrebbe essere letto come un segnale dal Cielo; un avviso che qualcosa sulla Terra non sta andando come dovrebbe, un primo sintomo di potenziale caos in arrivo. Si dice - semplificando non poco le evoluzioni che hanno avuto nel tempo alcune correnti di pensiero - che i cinesi abbiano un'anima taoista (quasi sempre sottovalutata in Occidente) e un abito confuciano. L'anima la mostrano spesso nella determinazione a non obbedire, alla legittima aspirazione alla ribellione, alla «revoca del mandato» (la storia cinese è piuttosto ricca di rivolte); il vestito è il riconoscimento di un sistema gerarchico (dalla famiglia allo Stato) in grado di governare non solo gli uomini, ma la natura stessa. Le due posizioni interagiscono, anziché negarsi, creando sempre qualcosa di nuovo. Il Pcc ha gestito al meglio la crisi del coronavirus perché uno Stato paternalista è in grado di fare breccia su una popolazione pronta a mobilitarsi in massa, a eseguire gli ordini se li ritiene giusti, corretti, volti a un'armonia, a una forma di stabilità economica e sociale, all'ordine. Tanto più in momenti di crisi quando quest'ultima è minacciata. Ricordiamo che la virtù si realizza solo nell'ordine.

Il Pcc è l'ago della bilancia sociale in Cina, unica istituzione ad ora in grado di mantenere la stabilità.

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Gli eventi noti con il nome di Rivoluzione culturale iniziarono il 16 maggio 1966 quando in una conferenza dell'Ufficio politico del Comitato centrale del Partito comunista cinese venne approvata una circolare in cui il leader del Partito, Mao Zedong, «ritenne che il potere usurpato dai capitalisti poteva essere recuperato solo portando avanti una grande rivoluzione culturale. La circolare segnò l'inizio di una campagna decennale che, come hanno sancito alcuni storici, gettò la Cina nel baratro del caos e dell'illegalità».

Lo storico e sinologo Rana Mitter a questo proposito, in un articolo dal titolo Il caos continua a perseguitare la Cina, ricordava che la Rivoluzione culturale ha lasciato la cultura politica cinese nella paura del luan e ha nutrito la sensazione che la mancanza di libertà sia meglio della mancanza di controllo. In quest'ultima espressione Mitter riesce a riassumere perfettamente perché oggi la Cina è quella che è, perché si accetta l'invasività della tecnologia, del controllo sociale e in alcuni casi perché la popolazione ha deciso di abiurare alla richiesta di maggiori diritti: la libertà è barattata con l'ordine, suprema richiesta da parte del popolo cinese che conosce la propria storia. Una volta un importante manager cinese, cresciuto negli Usa e dunque consapevole dei limiti del sistema cinese, mi disse: «Ma ti immagini le elezioni in Cina? Eleggeremmo un Hitler cinese e dichiareremmo guerra in 24 ore al Giappone». I cinesi conoscono le proprie pulsioni e sanno che qualcuno deve regolarle. La dialettica con il potere deve limitare le manovre contrarie all'ordine, ma nessuno deve contribuire al caos.

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