Copertina
Autore Michael Pollan
Titolo La botanica del desiderio
SottotitoloIl mondo visto dalle piante
Edizioneil Saggiatore, Milano, 2005, Nuovi saggi scienza , pag. 256, cop.fle., dim. 140x215x23 mm , Isbn 978-88-428-1097-1
OriginaleThe Botany of Desire [2001]
TraduttoreGiuditta Ghio
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe botanica , natura , evoluzione , ecologia , storia sociale , sensi , paesi: Olanda
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Indice


Introduzione. L'ape umana                     9

1. Desiderio: dolcezza / Pianta: melo        21

2. Desiderio: bellezza / Pianta: tulipano    71

3. Desiderio: ebbrezza / Pianta: marijuana  114

4. Desiderio: controllo / Pianta: patata    173

Epilogo                                     225


Fonti                                       231

Indice analitico                            241

Ringraziamenti                              254

 

 

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Pagina 9

Introduzione. L'ape umana



I primi semi di questo libro sono stati piantati nel mio giardino, mentre stavo seminando davvero. Interrare semi è un'attività piacevole, poco ripetitiva e di non eccessivo impegno, che lascia una quantità di spazio ad altri pensieri. In quel particolare pomeriggio di maggio, piantavo qualche fila di semi nei pressi di un melo in fiore che vibrava tutto di api. E mi sono ritrovato a pensare: Qual è la differenza esistenziale tra il ruolo dell'essere umano e quello dell'ape in questo o in qualsiasi altro giardino?

Se vi sembra un paragone ridicolo, provate a considerare che cosa stavo facendo in giardino quel pomeriggio: spargevo i geni di una specie e non di un'altra, in questo caso patate nane e non, per esempio, porri. Gli appassionati di giardinaggio come me sono propensi a considerare scelte simili una loro prerogativa assoluta: nello spazio del mio giardino, mi dico, solo io stabilisco quali specie cresceranno rigogliose e quali spariranno. In altre parole, il responsabile sono io, e oltre a me ci sono altri esseri umani ancora più responsabili: la lunga catena di coltivatori, botanici, ibridatori e, ai giorni nostri, ingegneri genetici che hanno "selezionato", "ottimizzato" o "riprodotto" la particolare patata che ho deciso di piantare. Anche la grammatica definisce i termini di questa relazione con assoluta chiarezza: Io scelgo le piante, io elimino le erbacce, io raccolgo i frutti. Dividiamo il mondo in soggetti e oggetti e, in giardino, come accade spesso quando si parla di natura, i soggetti siamo noi esseri umani.

Ma quel pomeriggio mi ritrovai a pensare: E se la grammatica si sbagliasse? Se in realtà si trattasse solo di vanità e autocompiacimento? Probabilmente anche un ape, all'interno del giardino, guarda a se stessa come a un soggetto e al fiore che saccheggia per una goccia di nettare come a un oggetto. Ma sappiamo che la sua è solo un'illusione. La realtà è che il fiore ha abilmente manipolato l'ape affinché trasporti il polline di fiore in fiore.

La relazione ancestrale tra fiori e api è un classico esempio di "coevoluzione". In un contratto coevolutivo come quello sottoscritto dall'ape e dal melo, le due parti agiscono per i propri interessi personali, ma finiscono per scambiarsi favori: cibo per l'ape, trasporto del patrimonio genetico per il melo. Ciò avviene in modo del tutto inconsapevole: la distinzione tradizionale tra soggetto e oggetto non ha perciò significato.

Tra me e la patata che sto piantando le cose non sono molto diverse: siamo entrambi partner di un rapporto coevolutivo, e lo siamo stati a partire dalla nascita dell'agricoltura, oltre diecimila anni fa. Come l'aspetto e il profumo del fiore di melo sono stati selezionati da infinite generazioni di api, così le dimensioni e il sapore della patata sono stati selezionati da innumerevoli generazioni di individui: dagli inca agli irlandesi, a persone come me, che ordinano patatine fritte da McDonald's. Api ed esseri umani hanno i propri criteri di selezione: simmetria e dolcezza nel caso delle api, dimensione e valore nutritivo nel caso degli umani che mangiano patate. Il fatto che uno dei due sia divenuto parzialmente cosciente dei propri desideri non fa differenza per il fiore o la patata che partecipano all'accordo. A livello genetico, alle piante interessa solo quello che importa a ogni altro essere vivente: riprodursi. Procedendo per tentativi ed errori, queste specie di piante hanno scoperto che il modo migliore per riuscirci e indurre gli animali — api o esseri umani, non ha molta importanza — a diffondere i propri geni. Come? Facendo appello ai loro desideri, più o meno consapevoli. I fiori e le patate che riescono a farlo in modo più efficace sono quelli che arriveranno a fruttificare e a riprodursi di più.

Così quel giorno mi è sorto spontaneo domandarmi: Sono stato io a scegliere di piantare questa patata, o è lei che ha scelto me? In realtà, entrambe le possibilità sono vere. Ricordo il momento preciso in cui quel tubero mi ha sedotto, ostentando il proprio fascino bitorzoluto tra le pagine di un catalogo di sementi. Credo che la definizione fatale sia stata: "polpa gialla e burrosa". Si è trattato di un evento banale, solo in parte consapevole; non pensavo che il nostro incontro via catalogo avesse una qualche conseguenza evolutiva. Eppure l'evoluzione consiste in un'infinità di eventi banali e inconsapevoli, e, per l'evoluzione della patata, la mia lettura di un particolare catalogo di sementi in una determinata sera di gennaio conta quanto gli altri.

Quel pomeriggio di maggio, all'improvviso il giardino mi è apparso sotto una nuova luce: le molteplici delizie che offriva allo sguardo, all'olfatto e al palato non erano più così innocenti o passive. Tutte le piante che avevo sempre considerato oggetti del mio desiderio erano anche soggetti che agivano su di me, spingendomi a compiere per loro ciò che non avrebbero avuto modo di realizzare da sole.

Ed ecco l'intuizione: Che cosa succederebbe se osservassimo il mondo al di fuori del giardino in questo modo, considerando il nostro posto nella natura dalla stessa prospettiva capovolta?

È esattamente ciò che si propone di fare questo libro, raccontando la storia di quattro piante a noi familiari — il melo, il tulipano, la cannabis e la patata — e dei desideri umani che legano il loro destino al nostro. Da un punto di vista più ampio, l'argomento del libro è la complessa relazione reciproca tra esseri umani e mondo naturale, che affronterò con la massima serietà da una prospettiva poco convenzionale: il punto di vista delle piante.


Questo libro racconta la storia di quattro piante definite specie "domestiche", un termine poco obiettivo — riecco la grammatica — che ci trasmette l'impressione illusoria di essere noi a comandare. Noi pensiamo in modo automatico all'addomesticamento come a un atto che abbiamo compiuto su altre specie, eppure è altrettanto sensato pensarci come a un'azione che determinate piante o animali hanno attuato su di noi, un'ingegnosa strategia evolutiva per promuovere i propri interessi. Le specie che hanno trascorso gli ultimi diecimila anni a escogitare il modo migliore per nutrirci, guarirci, vestirci, inebriarci o deliziarci in qualche altro modo rappresentano alcuni tra i maggiori successi nella storia della natura.

L'assurdo è che, di solito, non consideriamo creature straordinarie specie come la mucca e la patata, il tulipano e il cane. Le specie domestiche non ispirano rispetto quanto le loro cugine selvatiche. L'evoluzione può anche premiare l'interdipendenza, ma i nostri io pensanti si ostinano ad apprezzare l'autonomia. Il lupo ci colpisce e ci emoziona ben più del cane.

Eppure al giorno d'oggi negli Stati Uniti ci sono cinquanta milioni di cani e solo diecimila lupi. Ma allora che cosa sa il cane più del suo antenato selvatico su come diffondersi in questo mondo? Il fattore essenziale che il cane conosce e che ha messo a punto in diecimila anni di evoluzione al nostro fianco siamo noi: i nostri desideri e bisogni, le nostre emozioni e i nostri valori, tutte cose che ha impresso nei propri geni in quanto parte di una sofisticata strategia di sopravvivenza. Se fosse possibile leggere il genoma del cane come un libro, apprenderemmo molto su chi siamo e su come funzioniamo. Solitamente diamo più importanza agli animali che alle piante, ma ciò varrebbe anche per i libri dei geni del melo, del tulipano, della cannabis e della patata. Nelle loro pagine, negli ingegnosi bagagli di informazioni elaborate per trasformarci in api potremmo leggere interi volumi su di noi.

Dopo diecimila anni di coevoluzione, i loro geni costituiscono un ricco archivio di informazioni naturali e culturali. Per esempio, il DNA del tulipano, e mi riferisco al fiore color avorio dai sottili petali a sciabola coltivato in Turchia quattro secoli fa, contiene istruzioni precise sul modo migliore per catturare lo sguardo di un ottomano invece che di un ape e ci puo dire qualcosa sull'idea di bellezza di quell'epoca. Allo stesso modo, ogni patata Russet Burbank racchiude un trattato sulla catena alimentare della nostra industria, e sulla nostra preferenza per le patatine fritte lunghe e perfettamente dorate. Ciò accade perché abbiamo trascorso le ultime migliaia di anni a ricreare queste specie attraverso la selezione artificiale, a trasformare una piccola radice tossica in una grossa patata ricca di nutrimento, e un fiore selvatico poco attraente in uno spettacolare tulipano. Molto meno evidente, almeno ai nostri occhi, è che allo stesso tempo queste piante si sono prese la briga di trasformare noi.


Ho intitolato questo libro La botanica del desiderio perché si occupa tanto dei desideri che legano gli esseri umani a queste piante quanto delle piante in sé. Il presupposto è che i desideri umani facciano parte della storia naturale alla stessa stregua della passione del colibrì per il rosso o della preferenza delle formiche per la melata degli afidi. Li considero l'equivalente umano del nettare. Così se da una parte il libro esplora la storia sociale di queste piante, intrecciandola al nostro percorso, dall'altra offre una storia naturale dei quattro desideri umani che esse hanno risvegliato per commuoverci e gratificarci.

Non mi interessa solo come la patata abbia inciso sul corso della storia europea o la cannabis abbia contribuito a innescare la rivoluzione romantica in Occidente, ma anche il modo in cui le opinioni di uomini e donne abbiano trasformato l'aspetto, il gusto e gli effetti sulla mente di queste piante. Attraverso il processo di coevoluzione, le idee degli esseri umani si manifestano nei fatti naturali: il contorno dei petali di un tulipano, per esempio, o il profumo caratteristico di una mela Jonagold.

I quattro desideri che prenderò in esame sono la dolcezza, ampiamente delineata nella storia della mela; la bellezza, in quella del tulipano; l'ebbrezza, protagonista di quella della cannabis; e il controllo, che si intreccia con quella della patata (in particolare, nella storia di una patata geneticamente modificata che ho coltivato nel mio giardino per sapere fino a che punto si può spingere l'antica arte dell'addomesticamento). Queste quattro piante hanno qualcosa di importante da insegnarci in merito ai suddetti desideri, vale a dire in merito a ciò che ci fa funzionare. Per esempio, non penso che sia possibile comprendere la forza gravitazionale della bellezza senza aver capito il fiore, perché è stato il fiore a introdurre nel mondo l'idea di bellezza, quando, molto tempo fa, la sua attrattività si è rivelata una strategia evolutiva. Per la stessa ragione, quello dell'ebbrezza è un desiderio umano che non avremmo mai potuto coltivare, se non fosse stato per un gruppetto di piante che sono riuscite a produrre sostanze chimiche con l'esatta chiave molecolare necessaria a innescare nel nostro cervello il meccanismo che governa il piacere, la memoria e forse perfino la trascendenza.

L'addomesticamento coinvolge una realtà ben più complessa di un grosso tubero e di una pecora mansueta; il risultato dell'antico incontro tra piante ed esseri umani è molto più misterioso e affascinante di quanto immaginiamo. Esiste una storia naturale dell'immaginazione, della bellezza, della religione e forse anche della filosofia degli uomini. Uno degli obiettivi del libro è proprio quello di far luce sul ruolo che le piante comuni hanno giocato in tale storia.


Le piante sono talmente diverse dagli esseri umani che per noi è molto difficile apprezzarne appieno la raffinatezza e la complessità. Eppure si sono evolute ben prima di noi, hanno inventato nuove strategie di sopravvivenza e hanno perfezionato la loro struttura tanto a lungo che affermare che noi siamo i più "progrediti" dipende in realtà da che cosa s'intende con questo termine e da quale "progresso" si considera. Noi attribuiamo valore a capacità quali la consapevolezza, la fabbricazione di utensili e il linguaggio, ma solo perché sono il risultato del nostro viaggio evolutivo sino a oggi. Le piante hanno coperto una distanza ancora maggiore, soltanto che hanno viaggiato in un'altra direzione.

Le piante sono gli alchimisti della natura, esperti nel trasformare acqua, terra e luce in una gamma di sostanze preziose che, in gran parte, gli esseri umani non riescono neppure a immaginare, figuriamoci a fabbricare. Mentre noi stavamo acquisendo una coscienza e imparavamo a camminare in posizione eretta, attraverso lo stesso processo di selezione naturale le piante inventavano la fotosintesi (la straordinaria capacità di convertire la luce solare in cibo) e perfezionavano la chimica organica. Come ben sappiamo, numerose scoperte delle piante nel campo della fisica e della chimica ci sono state molto utili. Dalle piante derivano composti chimici che nutrono, curano, avvelenano e deliziano i sensi, altri che sono eccitanti, sedativi o tossici, e pochi che hanno lo straordinario potere di alterare la coscienza, e anche di generare sogni nella mente di individui svegli.

Ma perché le piante dovrebbero darsi tanto da fare? Perché dovrebbero prendersi la briga di escogitare le formule di molecole tanto complesse e poi spendere l'energia necessaria a produrle? Una buona ragione è la difesa. Gran parte delle sostanze chimiche prodotte dalle piante sono progettate, attraverso la selezione naturale, per indurre le altre creature a lasciarle in pace: veleni mortali, sapori disgustosi, tossine che confondono la mente dei predatori. Ma molte altre sostanze prodotte dalle piante hanno esattamente l'effetto opposto: attirano gli altri esseri viventi risvegliandone e gratificandone í desideri.

L'immobilità è la caratteristica fondamentale del mondo vegetale che spiega perché le piante producano sostanze chimiche sia per respingere che per attrarre altre specie. L'unica cosa che le piante non possono fare è muoversi, o, per essere precisi, spostarsi. Non possono fuggire dai predatori, né cambiare ubicazione o estendere il proprio raggio d'azione senza aiuto.

Così, un centinaio di milioni di anni fa, le piante escogitarono il modo – in realtà migliaia di modi differenti – di convincere gli animali a trasportare loro e i loro geni. Si trattò dello spartiacque evolutivo associato all'avvento delle angiosperme, una nuova e straordinaria classe di piante, che produsse fiori vistosi e grossi semi che venivano disseminati da altre specie. Svilupparono uncini che si attaccano alla pelliccia degli animali come il Velcro, fiori che attirano le api per permettere l'impollinazione e ghiande che scoiattoli cortesi trasportano da un bosco all'altro, seppelliscono e, di tanto in tanto, si scordano di mangiare.

Anche l'evoluzione si evolve. Circa diecimila anni fa, il mondo assistette a una seconda diversificazione delle piante che – in modo piuttosto egocentrico – abbiamo chiamato "invenzione dell'agricoltura". Un gruppo di angiosperme affinò la propria strategia di trasporto, per usufruire di un animale particolare che si era evoluto non solo in modo tale da muoversi in libertà sulla terra, ma anche da elaborare e scambiare idee complesse. Queste piante attuarono una strategia davvero geniale, facendo in modo che gli esseri umani agissero e pensassero per loro. Così sono arrivate graminacee commestibili (come il frumento o il mais) che hanno spinto l'uomo ad abbattere intere foreste per far loro spazio; fiori la cui bellezza ha sedotto intere culture; piante tanto irresistibili, utili e saporite da convincerci a seminarle, trasportarle, glorificarle e perfino a scrivere libri su di loro. Come questo.

Sto dunque dicendo che sono state le piante a costringermi? Solo nei termini in cui un fiore "costringe" un'ape a fargli visita. L'evoluzione non dipende dalla volontà o dall'intenzione di ottenere un risultato; è, quasi per definizione, un processo inconsapevole e involontario. Richiede solo esseri viventi costretti, come ogni pianta o animale, a sfruttare al massimo ogni occasione. Talvolta un carattere adattivo è così intelligente da sembrare intenzionale: la formica che "coltiva" funghi commestibili nel proprio giardino, per esempio, o la nepente che "convince" la mosca a considerarla un pezzo di carne marcia. Ma tali caratteri sono intelligenti solo a posteriori. Un progetto, in natura, non è altro che una concatenazione di casualità, scelte dalla selezione naturale finché il risultato è così bello o efficace da sembrare un prodigio intenzionale.

Allo stesso modo, siamo inclini a sopravvalutare il nostro ruolo nella natura. Molte delle attività che gli uomini sono convinti di intraprendere per i propri fini – inventare l'agricoltura, dichiarare illegali determinate piante, scrivere libri di lode su altre – dal punto di vista della natura sono pure contingenze. I nostri desideri sono solo acqua per il mulino dell'evoluzione, né più né meno di un cambiamento climatico: una minaccia per alcune specie, un'opportunità per altre. La grammatica può anche insegnarci a dividere il mondo tra soggetti attivi e oggetti passivi, ma in una relazione coevolutiva ogni soggetto è anche oggetto, e ogni oggetto soggetto. Ecco perché ha senso pensare all'invenzione dell'agricoltura come a un processo in cui le graminacee usarono gli esseri umani per conquistare le foreste.


Quando Charles Darwin scrisse L'origine delle specie, per diffondere meglio la sua eccentrica idea della selezione naturale fece ricorso a un espediente curioso. Invece di esporre subito un resoconto della sua nuova teoria, introdusse un argomento marginale che la gente (e gli inglesi amanti del giardinaggio in particolare) avrebbe assimilato con più facilità. Dedicò il primo capitolo dell' Origine delle specie a un caso specifico di selezione naturale: la "selezione artificiale", ovvero il processo con cui furono introdotte nel mondo le specie domestiche. Non usò il termine "artificiale" nel senso di "falso", ma di "artefatto", di qualcosa che rispecchia la volontà umana. Non c'è nulla di falso in un ibrido di rosa, in una pera butirra, in un cocker spaniel o in un piccione da esposizione.

Queste sono alcune delle specie domestiche di cui scrisse Darwin nel suo primo capitolo, dimostrando come ogni specie offra un'ampia possibilità di variazioni da cui gli esseri umani selezionano i caratteri che si tramanderanno alle generazioni future. Spiegò anche che, nell'ambito specifico dell'addomesticamento, i desideri umani (più o meno consci) giocano lo stesso ruolo che la natura cieca esercita altrove determinando che cosa sia "idoneo" e quindi facendo sorgere nel tempo nuove forme di vita. Le regole evolutive sono le stesse ("modificazione per discendenza"), ma Darwin comprese che per i lettori sarebbe stato più semplice seguire la storia della rosa tea che cresceva nel loro giardino, piuttosto che quella della tartaruga delle Galàpagos.

Negli anni successivi alla pubblicazione dell' Origine delle specie, il fragile confine concettuale tra selezione naturale e artificiale si è offuscato. Se un tempo il genere umano esercitava la propria volontà nell'ambito relativamente circoscritto della selezione artificiale (metaforicamente possiamo pensare a tale spazio come a un giardino) e la natura dominava in ogni altro campo, oggi la forza della nostra presenza è percepibile ovunque. Nell'ultimo secolo è divenuto molto difficile stabilire dove finisce il giardino e dove inizia la natura incontaminata. Stiamo modellando l'evoluzione in modi che Darwin non avrebbe mai potuto prevedere; perfino le condizioni atmosferiche sono diventate artificiali in un certo senso, e i cicloni e la temperatura rispecchiano le nostre azioni. Per numerose specie, oggi "essere adatti" significa essere capaci di sopravvivere in un mondo in cui l'umanità è divenuta la maggiore forza evolutiva. La selezione artificiale è oggi un capitolo molto più importante della storia della natura perché si è insinuata nello spazio regolato un tempo solo dalla selezione naturale.

Tale spazio, che spesso definiamo "selvaggio", non è mai stato del tutto esente dalla nostra influenza, come ci piace pensare; gli indiani mohawk e delaware avevano lasciato il segno negli spazi incontaminati dell'Ohio ben prima che John Chapman (noto anche come Johnny Semedimela) apparisse e iniziasse a piantare alberi di mele. Ma in tempi di riscaldamento del globo, buchi nell'ozono e tecnologie che ci permettono di modificare la vita a livello genetico (uno degli ultimi baluardi della natura), è divenuto difficile mantenere vivo perfino il sogno di uno spazio incontaminato. Intenzionalmente o per negligenza, ogni aspetto della natura sta per essere addomesticato, e finirà per ritrovarsi sotto il tetto, non privo di falle, della civiltà. Perfino la sopravvivenza della natura incontaminata dipende dalla civiltà.

Le storie di successo della natura d'ora in poi saranno molto più simili a quella del melo che a quella del panda o del leopardo delle nevi. Se queste due specie hanno un futuro, sarà per volontà degli uomini; paradossalmente, la loro sopravvivenza dipende da una sorta di selezione artificiale. È questo il mondo in cui, insieme a tutte le altre creature della terra, dobbiamo affrontare un futuro incerto.

Questo libro vi si colloca a pieno titolo: possiamo considerarlo come un insieme di messaggi provenienti dal giardino in perenne espansione della selezione artificiale di Darwin. I protagonisti sono quattro esempi di successo di quel mondo: cani, gatti e cavalli del mondo vegetale, specie domestiche familiari a tutti, così profondamente radicate nella nostra vita quotidiana che raramente le pensiamo come "specie" o parti della "natura". Ma perché? Penso che ciò sia dovuto, almeno parzialmente, dall'imprecisione del termine. "Domestico" implica che queste specie alberghino sotto il tetto della civiltà, il che è abbastanza vero; ma la metafora della casa ci spinge a pensare che, così facendo, esse, come noi, si siano "allontanate" dalla natura, come se la natura fosse qualcosa che si trova solo "al di fuori".

Si tratta di un'altra illusione: la natura non si trova solo "fuori", è anche "dentro", nella mela e nella patata, in giardino e in cucina, perfino nel cervello di un essere umano che contempla la bellezza di un tulipano o inala il fumo di un'infiorescenza di cannabis che brucia. La mia scommessa è che, quando riusciremo a percepire la natura in questo tipo di luoghi con la stessa immediatezza con cui la vediamo negli spazi selvaggi, allora avremo percorso un lungo tratto del cammino verso la comprensione del nostro posto nel mondo in tutte le sue complessità e ambiguità.

Ho scelto la mela, il tulipano, la cannabis e la patata per varie ragioni. La prima è che rappresentano quattro importanti tipologie di piante domestiche (un frutto, un fiore, una droga e un alimento base). La seconda è che, avendole coltivate io stesso, in momenti diversi, mi sono abbastanza familiari. Ma il vero motivo per cui le ho scelte è più semplice: hanno belle storie da raccontare.

Ogni capitolo che seguirà prende forma da un viaggio che inizia, fa tappa o finisce nel mio giardino, ma lungo il percorso s'inoltra lontano, nello spazio e nel tempo: nella Amsterdam del XVI secolo, dove, per un breve, perverso periodo, il tulipano divenne più prezioso dell'oro; nel centro ricerche di una multinazionale di St Louis, dove gli ingegneri genetici stanno reinventando la patata; e di nuovo ad Amsterdam, dove un altro fiore, meno attraente, è divenuto di nuovo più prezioso dell'oro. Mi sono inoltre recato tra i produttori di patate dell'Idaho; ho seguito la mia passione per le piante inebrianti rivisitandone la storia e attingendo alla neurologia contemporanea; e ho pagaiato in canoa lungo un fiume dell'Ohio centrale in cerca del vero Johnny Semedimela. Nella speranza di rappresentare il nostro rapporto con queste quattro specie in tutta la sua complessità, le ho osservate, a turno, da diversi punti di vista: storia sociale e naturale, scienza, giornalismo, biografia, mitologia, filosofia e memoria autobiografica.

Le loro vicende parlano dell'uomo e della natura. Ce ne siamo raccontati di simili in continuazione, per trovare un senso a quello che chiamiamo il nostro "rapporto con la natura". (Prendo in prestito un'espressione curiosa e rivelatrice: di quale altra specie si può dire che abbia un "rapporto" con la natura?) Per lungo tempo l'uomo ha guardato alla natura da un abisso di paura, mistero o vergogna. Anche quando il tono della narrazione cambiava, come è avvenuto nel corso del tempo, l'abisso rimaneva. C'è il vecchio racconto eroico, in cui l'uomo combatte contro la natura; la versione romantica, in cui l'uomo si eleva spiritualmente insieme a essa (solitamente con il contributo di un penoso malinteso); e, più di recente, la parabola ambientalista, in cui la natura ripaga le trasgressioni umane con la moneta della catastrofi. Tre trame differenti, che però condividono un presupposto che sappiamo essere ingannevole ma che non riusciamo a scrollarci di dosso: il fatto di essere esterni alla natura, separati da essa.

Questo libro racconta una storia diversa sull'uomo e sulla natura, una storia che mira a reinserirci nell'immensa rete di reciprocità che è la vita sulla terra. Spero che, quando lo richiuderete, il mondo esterno (e quello interiore) vi sembreranno un po' diversi, che quando vedrete un melo lungo la strada o osserverete un tulipano su un tavolo, non vi appariranno più così alieni ed estranei. Considerare queste piante come partner volonterosi in una relazione intima e reciproca significa anche guardare noi stessi in modo differente; in quanto oggetto dei progetti e dei desideri di altre specie, siamo le ultime api del giardino di Darwin: ingenue, a volte imprudenti e decisamente incoscienti. Pensate a questo libro come allo specchio di quelle api.

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2
Desiderio: bellezza
Pianta: tulipano (Tulipa)



Il tulipano fu il mio primo fiore, o perlomeno il primo che piantai, anche se poi rimasi a lungo insensibile alla sua bellezza intensa e affascinante. All'epoca avevo circa dieci anni, e fino ai quaranta non guardai più un tulipano. La ragione del lungo intervallo – di tanti anni di disinteresse – dipende dal tipo di tulipani che piantavo da bambino. Dovevano essere Triumph: le sfere alte e dai colori vivaci che si vedono (e che spesso non si notano neppure) spiccare insieme nel paesaggio primaverile come altrettante gocce di colore su un bastoncino. Analogamente ad altri fiori canonici – la rosa e la peonia, per esempio – il tulipano fu reinventato secolo dopo secolo, così da riflettere il nostro ideale mutevole di bellezza, e nel Novecento ciò significò soprattutto la nascita e il trionfo di tanti leccalecca prodotti in massa.

Ogni autunno i miei genitori acquistavano qualche confezione di bulbi, ciascuna delle quali ne conteneva un assortimento tra i venticinque e i cinquanta, e mi pagavano pochi penny a bulbo per interrarli tra i ciuffi sempreverdi di pachysandra. Presumo che desiderassero ottenere qualcosa di molto silvestre e naturalistico, per cui affidavano la disposizione dei tulipani a un bambino di dieci anni, il cui approccio casuale e disorganizzato avrebbe procurato l'effetto voluto. Premevo e ruotavo il piantabulbi nella terra fitta di radici finché non mi compariva una vescica sul palmo della mano e intanto tenevo un conteggio preciso, traducendo il mucchietto crescente di etichette di bulbi in monetine e dolciumi.

L'investimento di forze fatto in ottobre suscitava in me invariabilmente l'interesse per i primi colori primaverili, o forse dovrei dire per i primi colori significativi, dato che i narcisi fiorivano prima. Ma il giallo, oltre a essere comune in primavera, per un bambino è a malapena classificabile come colore; rosso, viola o rosa, quelli sono colori, e i tulipani li incarnavano tutti. Si era agli inizi del programma spaziale, e gli steli vigorosi dei tulipani mi sembravano razzi pronti per il lancio sotto a grosse cariche esplosive variopinte.

Quei tulipani erano proprio fiori per bambini. Erano i più facili da disegnare, e la gamma completa dei loro colori coincideva immancabilmente con quella dei pastelli a cera Crayola. Semplici e accessibili, nel 1965 un bambino non avrebbe potuto apprezzare e coltivare niente di meglio di quei tulipani comuni. Ma era altrettanto facile dimenticarsene, e quando cominciai a dettare legge nel mio giardino (una striscia di terreno a ridosso della nostra casa di campagna) la feci finita con i tulipani. Ormai mi consideravo un giovane agricoltore e non avevo tempo per cose frivole come i fiori.


Tre secoli e mezzo prima, il tulipano, che in Occidente era ancora una novità, scatenò una breve follia collettiva che fece tremare un'intera nazione e per poco non ne causò la rovina economica. Mai, prima d'allora, un fiore – un fiore! – fu protagonista sul palcoscenico della storia come avvenne in Olanda tra il 1634 e il 1637. Tutto ciò che resta di quell'episodio, un delirio speculativo che risucchiò nel suo gorgo persone di ogni livello sociale, sono un neologismo – "tulipomania" – che da allora non è più stato rispolverato e un enigma storico. Perché proprio lì: in una nazione solida, parsimoniosa e calvinista? Perche in quel momento, in un'epoca di prosperità generale? E perché proprio quel fiore? Algido, inodore e indifferente, il tulipano è uno dei fiori meno dionisiaci, capace di suscitare ammirazione più che di accendere una passione.

Ma qualcosa mi dice che i Triumph che piantavo tra la pachysandra dei miei genitori erano diversi dai Semper Augustus. Il Semper Augustus era un tulipano dai petali simili a pennacchi screziati di rosso e bianco, il cui bulbo, al culmine di quella follia, veniva ceduto per diecimila fiorini, all'epoca il valore di una delle più belle case sul canale di Amsterdam. Il Semper Augustus si è estinto, ma l'ho ammirato nei dipinti (gli olandesi commissionavano ritratti dei preziosi tulipani che non potevano permettersi di comprare) e ho constatato che vicino a un Semper Augustus un tulipano moderno sembra un giocattolo.

Sono due gli aspetti che vorrei affrontare in queste pagine: il mio disinteresse infantile per i fiori e la breve e irragionevole passione degli olandesi. Il punto di vista del bambino ha dalla sua il peso della razionalità: è impossibile giustificare tanta inutile bellezza sulla base del rapporto costi-benefici. Ma con la bellezza non funziona sempre così? Per quanto gli olandesi fossero folli, la verità è che il resto di noi (cioè la maggior parte del genere umano per la maggior parte della sua storia) si è comportato in modo altrettanto irrazionale degli olandesi del XVII secolo, impazzendo per i fiori. Si tratta dunque di un tropismo tra noi e i fiori? Come hanno fatto gli organi sessuali delle piante a incrociarsi con i concetti umani di valore, status ed eros? E la nostra attrazione ancestrale per i fiori che cosa potrebbe insegnarci sui più profondi misteri della bellezza, che un poeta definì "grazia del tutto gratuita"? Si tratta di questo? Oppure la bellezza ha un fine? La storia del tulipano, fiore tra i più amati ma anche, curiosamente, tra i più difficili da apprezzare, parrebbe un ottimo terreno per trovare una risposta a queste domande. Ma a causa della natura del suo oggetto, tale ricerca non si sviluppa in modo lineare. Assume piuttosto la forma del tragitto di un'ape, un'ape vera, che fa numerose fermate lungo il proprio percorso.

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Nel mio giardino è piena estate, siamo a metà luglio, ed esso è così popolato di fiori, affollato e movimentato che sembra più una strada cittadina che un tranquillo angolo di campagna. Al primo sguardo la scena presenta solo una scoraggiante confusione di informazioni sensoriali, un'esplosione di colori e profumi che ha per colonna sonora il ronzio degli insetti e il fruscio delle foglie, ma dopo un po' si distinguono i vari fiori. Sono i protagonisti del giardino, e ognuno di essi vive il suo breve momento di gloria sul palcoscenico dell'estate, e fa del suo meglio per catturare il nostro sguardo. Ho detto "nostro" sguardo? Be', non solo: tra il pubblico ci sono api, farfalle, falene, vespe, uccelli, e tutti gli altri potenziali impollinatori.

Ormai le rose antiche hanno quasi terminato la fioritura, lasciandosi indietro cespugli esausti e ricoperti di tristi brandelli di tessuti, ma le rugosa e le tea stanno ancora emanando colori per attrarre l'attenzione. Aggrovigliati ai petali e apparentemente inebriati, gli scarabei giapponesi banchettano e s'accoppiano assorti, anche tre o quattro per volta; è una scena degna dell'antica Roma, che lascia i fiori disfatti. Lungo il sentiero gli emerocallidi si chinano in attesa, simili a cani; minuscole vespe accettano l'invito e si infilano nella loro gola in cerca di nettare; poi riemergono barcollanti come ubriachi che escono da un bar. Prima di raggiungere l'aria aperta, urtano le capocchie delicate degli stami, impolverandosi di polline che lasceranno cadere sui pistilli di un altro fiore.

Nella parte anteriore dell'aiuola di piante perenni, la bocconia forma una foresta grigia, bassa e soffice di fiori appuntiti che sembrano essere stati immersi in una tinozza di api: le estremità dei fiori non si scorgono più, ci sono più ali che petali, e vibrano per l'impegno e la concentrazione. Dietro, più in alto, la betonica forma nubi di minuscoli fiorellini bianchi, un intrico di lanugine irresistibile per le api, che sembrano nuotare nell'aria e tra i fiori. I piselli odorosi si allungano seducenti sugli steli esili, ma un'ape non può accedere ai fiori senza forzarne le ambite labbra: un vezzo nella disposizione delle foglie che dà l'impressione (erronea) che sia il desiderio dell'ape a essere gratificato, non quello della pianta.

Le api! Si lasciano adescare nelle posizioni più ridicole: fiutano con l'avidità di un maiale nel fitto ciuffo viola di un cardo; si contorcono goffamente nella capigliatura bionda di stami e degna di una Medusa di un'unica peonia: fanno pensare all'equipaggio di Ulisse in balia di Circe. Sembrano perse nello slancio dell'estasi sessuale, ma non è che una mia proiezione. È solo una coincidenza (o no?) che l'abbraccio appassionato tra fiore e ape abbia evocato il sesso migliaia di anni prima che si capisse che l'impollinazione aveva davvero a che farci. Un botanico definì le api "peni volanti". Ma a parte rare eccezioni come l'orchidea prostituta, per gli insetti non si tratta di sesso: se, per estensione, sono peni, lo sono involontariamente. Certo, le api sembrano ebbre, e potrebbero esserlo, ma con ogni probabilità lo si deve ai nettari zuccherini, o alle sostanze inebrianti che i fiori producono per distrarle. O forse chissà, sono solo intente nel loro lavoro.

Ho osservato questa scena dal punto di vista delle api, ma quello dei fiori rivelerebbe che il desiderio umano incombe in un giardino. In effetti esso è gremito di specie che si sono evolute proprio per catturare il mio sguardo spesso a danno della propria impollinazione. Mi riferisco a tutte le specie che hanno sacrificato il profumo a favore di fiori più grandi, duplici, dai colori inverosimili, ideali di bellezza che con ogni probabilità non sono apprezzati nel regno degli impollinatori, luogo in cui l'occhio non è sempre sovrano.

Ormai il grande amore della vita di molti fiori è il genere umano. Gli emerocallidi chini come fossero in attesa? Sono rivolti verso di noi, che assicuriamo il loro successo più di qualsiasi insetto. La peonia dal sensuale pube di stami? La responsabilità è dei cinesi: per migliaia di anni i loro poeti, scorgendo nel giardino manifestazioni dello yin e dello yang, paragonavano la peonia in fiore all'organo sessuale femminile (e l'ape o la farfalla all'uomo); con la selezione artificiale, le peonie cinesi si sono evolute per soddisfare questo concetto. Perfino il profumo di alcune peonie cinesi è femminile, una fragranza floreale con una punta di sudore salino, più simile al profumo sulla pelle umana che non a quello in bottiglia. Può essere che sia tuttora attraente per le api, ma ormai sono i neuroni del nostro cervello che questi fiori vogliono accendere.

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Ci sono fiori e fiori: fiori attorno ai quali si sono sviluppate intere culture, fiori con una storia degna di un impero, fiori la cui forma, il cui colore e il cui profumo, i cui stessi geni, nel tempo, sono giunti a rispecchiare idee e desideri degli esseri umani come grandi libri. Chiedere a una pianta di assumere i colori mutevoli dei sogni umani è una grossa pretesa, e ciò spiegherebbe perché solo poche si sono dimostrate sufficientemente flessibili e capaci di esaudire tale richiesta. Naturalmente la rosa è una di queste; un'altra è la peonia, soprattutto in Oriente. Di sicuro l'orchidea ha i requisiti necessari. E poi c'è il tulipano. È probabile che ne esistano ancora un paio (il giglio, forse?), ma quelli appena citati sono stati per molto tempo i nostri fiori canonici, gli Shakespeare, i Milton e i Tolstoj del mondo vegetale, generosi e versatili, gli eletti, sopravvissuti alle vicissitudini delle mode per diventare sovrani e importanti.

Ma che cosa li distingue dalle incantevoli margherite e dai garofani, per non dire delle legioni di bellissimi fiori selvatici? Forse è soprattutto la loro capacità di cambiare. Alcuni fiori sono semplicemente ciò che sono, unici o, se non del tutto fissi nella loro identità, capaci di inanellare poche semplici modificazioni: la tinta, per esempio, o il numero di petali. Pur provando a sollecitarli, selezionarli, incrociarli, manipolarli, al massimo si può ottenere solo questo da una margherita gialla o da un fiore di loto. Le mode prediligono un fiore per un determinato periodo e poi lo dimenticano – penso al garofano e alla violacciocca all'epoca di Shakespeare, o al giacinto in età vittoriana – a meno che non si lasci rimodellare in una nuova foggia dopo che la prima ha fatto il suo tempo.

Invece la rosa, l'orchidea e il tulipano sono capaci di compiere prodigi, di reinventarsi più volte per adattarsi a ogni mutamento estetico o politico. La rosa, incantevole e aperta in età elisabettiana, al tempo della regina Vittoria si abbottonò con garbo e si trasformò in un'educanda. Quando gli olandesi decretarono che il modello di bellezza floreale era un ricciolo marmorizzato dai colori vivacemente contrastanti, i petali dei tulipani divennero "piumati" o "fiammati". Ma quando gli inglesi, nel XIX secolo, si appassionarono alle aiuole, i tulipani si lasciarono trasformare in una tavolozza da cui attingere pennellate vivaci e corpose di puro colore, adatte a un'alta concentrazione. Sono fiori che tollerano le nostre idee più strane. Naturalmente, il loro desiderio di prendere parte al gioco mutevole della cultura umana si è dimostrato un'ottima strategia per il successo, dato che oggi rose e tulipani sono molto più diffusi di quanto lo fossero prima che gli uomini se ne interessassero. Per un fiore, la via del dominio mondiale passa attraverso l'effimero ideale umano di bellezza.


Non è così evidente che il tulipano appartenga a questa augusta congrega di fiori, forse perché nella sua incarnazione moderna è un fiore semplice e la ricca storia di ciò che è stato è andata in gran parte perduta. Se confrontato alla rosa o alla peonia, le cui forme storiche sopravvivono accanto alle versioni moderne (sia perché sono piante longeve, sia perché possono essere riprodotte all'infinito), l'unico modo per avere idea di cosa abbia reso bello un tulipano agli occhi di un turco, di un olandese o di un francese sono i dipinti e le illustrazioni botaniche di quei popoli. Infatti un tulipano che non viene più apprezzato si estingue in fretta, perché i bulbi non rifioriscono necessariamente ogni anno. Di solito una linea tende a estinguersi a meno che non venga ripiantata con regolarità, perché la catena della continuità genetica può spezzarsi in una sola generazione. Perfino quando si continua a piantare un determinato tulipano il vigore di quella varietà (che si propaga togliendo e interrando i bulbetti laterali geneticamente identici che si formano alla base del bulbo) alla fine si perde, fino a che non resta che abbandonarlo. Oggi gli ibridatori sono alla disperata ricerca di un nuovo tulipano nero, perché sanno che l'attuale esemplare standard, il Queen of Night probabilmente si esaurirà. In altre parole, i tulipani sono mortali.

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Il tulipano moderno è divenuto un prodotto onnipresente e a buon mercato al punto che per noi è difficile comprendere il fascino che lo circondava un tempo. Certo tale fascino era dovuto alle sue origini orientali: Anna Pavord parla dell' "inebriante aura degli infedeli" che lo ammantava. Inoltre i primi tulipani erano preziosi, poiché l'offerta di nuovi esemplari aumentava con molta lentezza, un capriccio della biologia che non permetteva di soddisfare appieno la domanda. In Francia, nel 1608, un mugnaio barattò il proprio mulino per un bulbo di Mère Brune. Nello stesso periodo, una sposina accettò felicemente in dote un unico tulipano e tale varietà divenne nota come Mariage de ma fille.

Ma in Francia e in Inghilterra la tulipomania non raggiunse mai i vertici che ebbe in Olanda. Com'è possibile spiegare il folle abbraccio tra il popolo olandese e questo fiore particolare? Per ovvie ragioni, gli olandesi non si limitarono mai ad accettare la condizione naturale della propria terra. Privo di attrattive, il paesaggio dei Paesi Bassi è incredibilmente piatto, monotono e paludoso. Un inglese lo definì "un pantano universale" e "il fondo del mondo". La bellezza presente in Olanda è in gran parte frutto degli sforzi umani: dighe e canali costruiti per drenare la terra, mulini a vento eretti a spezzare l'azione del vento che soffia senza tregua. Nel suo celebre saggio sulla tulipomania, The Bitter Smell of Tulips, il poeta Zbigniew Herbert ipotizzò che "la monotonia del paesaggio olandese alimentasse il sogno di una flora inconsueta, colorata e variegata".

Grazie ai mercanti e ai botanici che ritornavano in patria con una rassegna di nuove piante esotiche, l'Olanda del Seicento indulse in sogni un tempo inconcepibili. La botanica divenne un passatempo nazionale, seguito con la stessa sollecitudine e avidità che noi oggi riserviamo agli sport. Era una nazione, e un'epoca, in cui un trattato sulle piante poteva diventare un best-seller e un botanico come Clusius una celebrità.

Poiché in Olanda la terra era scarsa e molto costosa, i giardini olandesi erano in scala ridotta, misurati in metri quadri invece che in acri e spesso ingranditi da specchi. Gli olandesi consideravano i propri giardini preziosi scrigni, dove perfino un fiore solo – specie se diritto e dai colori straordinari come un tulipano – poteva avere un forte valore assertivo.

Dichiarare qualcosa, il proprio gusto sofisticato o la propria ricchezza, è sempre stata una delle ragioni per cui gli esseri umani creano giardini.

Nel XVII secolo gli olandesi erano il popolo più ricco d'Europa e, come dimostra lo storico Simon Schama in La cultura olandese dell'epoca d'oro, la fede calvinista non impediva loro di indulgere nel piacere dell'ostentazione. L'esotismo e il costo dei tulipani li rendevano certamente adatti allo scopo, ma è pure vero che, tra i fiori, il tulipano è uno tra i più inutili. Fino al Rinascimento, gran parte dei fiori coltivati, oltre che belli, erano utili: fornivano sostanze medicinali, profumi, perfino cibo. In Occidente i fiori furono spesso oggetto di attacchi da parte di vari gruppi di puritani, e a salvarli fu sempre il loro impiego pratico. Fu l'utilità, non la bellezza, ad assicurare alla rosa, al giglio, alla peonia e a molti altri fiori un posto nei giardini di monaci, shaker e coloni americani che altrimenti non avrebbero voluto avere nulla a che spartire con essi.

Quando i tulipani incominciarono ad arrivare in Europa, si tentò di destinarli a una qualche finalità pratica. I tedeschi ne bollirono e zuccherarono i bulbi e, senza troppa credibilità, sostennero che erano una prelibatezza; gli inglesi provarono a servirli con olio e aceto. I farmacisti proposero il tulipano come rimedio per la flatulenza. Ma nessuno di questi utilizzi fece presa. "Il tulipano rimase se stesso" scrisse Herbert, "poesia della Natura alla quale è estraneo il gretto utilitarismo." Il tulipano era semplicemente una cosa bella, né più né meno.

Se l'inutile bellezza del tulipano era congeniale al gusto per l'ostentazione degli olandesi, essa fu anche in sintonia con la cultura umanistica, che stava lottando per emancipare l'arte dalla religione. A differenza della rosa e del giglio, il tulipano non era ancora stato enumerato tra i simboli cristiani (ma la tulipomania cambiò le cose): dipingere un vaso di tulipani significava attingere alle meraviglie della natura, piuttosto che ispirarsi al serbatoio dell'iconografia tradizionale.

Credo anche che la sua bellezza particolare ben si sposasse con il carattere degli olandesi. Generalmente privo di profumo, il tulipano fra tutti è il fiore più algido e imperturbabile. In effetti gli olandesi ne consideravano la mancanza di profumo una virtù, prova della sua castità e moderazione. I petali convessi a nascondere gli organi sessuali, è un fiore introverso e, presentando un unico calice per stelo e un solo stelo per pianta, si direbbe anche piuttosto riservato. "Ci permette di ammirarlo" scrisse Herbert, "ma non risveglia emozioni violente, desiderio, gelosia o eccitazione erotica."

Nessuna di queste qualità lasciava presagire la frenesia che sarebbe sopraggiunta. Ma quando accadde, la compostezza esteriore degli olandesi e del tulipano si dimostrò qualcos'altro.


Un elemento fondamentale della bellezza del tulipano che inebriò olandesi, turchi, francesi e inglesi è ormai perduto. Per loro il tulipano era un fiore magico perché era soggetto a straordinarie eruzioni spontanee di colore Fra un centinaio di tulipani, uno poteva distinguersi dagli altri, perché, aprendosi, rivelava in contrasto con lo sfondo bianco o giallo dei petali, intricate fiammate che sembravano dipinte da un pennello finissimo impugnato da una mano ferma ed esperta. Quando ciò accadeva, si aveva un tulipano screziato, e se le screziature erano particolarmente spettacolari (se le fiammate raggiungevano nitide le labbra del petalo, se il loro colore era brillante e puro e la loro forma simmetrica) il proprietario di quel bulbo aveva vinto la lotteria. Perché la discendenza del bulbo ne avrebbe ereditato forma e tinte e avrebbe raggiunto un prezzo stratosferico. Il fatto che i tulipani variegati, per qualche ignota ragione, producessero bulbetti laterali più piccoli e più scarsi dei tulipani comuni portò il loro prezzo alle stelle. Il Semper Augustus fu il più famoso di tutti.

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Osservando il Queen of Night sulla mia scrivania, riconosco la forma classica del tulipano semplice: sei petali disposti su due file (tre petali interni a coppa dentro agli altri tre) che creano uno spazio oblungo attorno agli organi sessuali del fiore, evidenziandoli e al contempo nascondendoli alla vista; ogni petalo è insieme bandiera e cortina. I petali non sono identici: quelli interni presentano una delicata fenditura all'apice, mentre quelli esterni, più robusti, formano un ovale ininterrotto, dal margine ben delineato e regolare come il filo di una lama. Sembrano morbidi e setosi, invece al tocco sono inaspettatamente resistenti, come quelli delle orchidee, e non più setosi di questa pagina. Tutti e sei, insieme, formano un austero calice dal taglio impeccabile; senza invitarmi a toccarlo o annusarlo, il fiore mi domanda di ammirarlo a una certa distanza. Il fatto che il Queen of Night non emetta un profumo percettibile è indicativo: si tratta di un'esperienza concepita esclusivamente per il piacere visivo.

Il lungo stelo ricurvo del mio Queen of Night è bello quasi quanto il fiore che sostiene. È aggraziato, ma in modo mascolino. Non è la grazia del collo di una donna, quanto piuttosto quella di una scultura in pietra o dei cavi d'acciaio di un ponte sospeso. La curva è proporzionata, risoluta, necessaria alla logica strutturale del fiore, anche se nel corso del tempo si modifica. Un matematico con un debole per la botanica sarebbe senza dubbio in grado di rappresentare il mio stelo di tulipano con un'equazione differenziale.

Man mano che la temperatura diurna aumenta, la curva dello stelo cede e i petali si ritraggono per svelare lo spazio interno e gli organi del fiore. Come tutto quello che riguarda i tulipani, anche questi ultimi sono logici ed espliciti. Sei stami, uno per ogni petalo, disposti attorno a un robusto piedestallo; ognuno di essi, come un fremente amante, offre un bouquet di polvere gialla. A incoronare l'impalcatura centrale, che i botanici chiamano "stilo", è lo stigma, un insieme di labbra leggermente arricciate (di solito tre) pronte a ricevere i grani di polline e a condurli verso l'ovaio. A volte, come ora, su un labbro dello stigma compare una gocciolina luccicante di liquido (nettare? rugiada?), forse in segno di recettività.

Ogni aspetto della sessualità del tulipano è ben strutturato e comprensibile; non v'è nulla del mistero della rosa Bourbon o della peonia doppia. Questi sono fiori in cui ci si immagina l'ape costretta ad aprirsi un varco nell'oscurità, barcollando alla cieca, ebbra, aggrovigliata in una selva di petali. Ed è esattamente quello che succede. Ma per il tulipano non è così.

Qui si trova la chiave della personalità del tulipano, se non della natura della bellezza floreale in senso più ampio. Se confrontata con gli altri fiori canonici, la bellezza del tulipano è classica, piuttosto che romantica. O, per ricorrere all'efficace dicotomia stabilita dai greci, il tulipano è un raro esempio di bellezza apollinea in un pantheon botanico dominato da Dioniso.

La rosa e la peonia sono senza dubbio fiori dionisiaci, profondamente sensuali, che ci seducono soprattutto attraverso il tatto e l'olfatto, più che con la vista. L'inspiegabile moltiplicazione dei loro petali (si dice che un fiore di peonia cinese ne abbia più di trecento) impedisce una visione chiara e una percezione nitida; la profusione di sovrapposizioni e increspature genera un'incoerenza splendida e inebriante. Chinarsi e inspirare il profumo di una rosa o di una peonia significa abbandonare per un momento il nostro sé razionale e lasciarsi trasportare come solo una fragranza persistente può fare. È questo che intendiamo per estasi: essere portati fuori da noi stessi. Questi fiori offrono un sogno di abbandono, più che una forma.

Invece, il tulipano è tutto chiarezza e ordine apollineo. È un fiore lineare, in sintonia con l'emisfero sinistro del cervello, per nulla misterioso, esplicito e logico nelle sue regole formali e nella disposizione (sei petali a cui corrispondono sei stami), e comunica tale razionalità nel solo modo possibile: attraverso la vista. Lo stelo, pulito e severo, sorregge un fiore solitario affinché possiamo ammirarlo, ponendo la sua forma lucente al di sopra della terra, incerta e mutevole. I fiori di tulipano si elevano sulla confusione della natura; anche quando sfioriscono, lo fanno con grazia. Invece di spappolarsi, come la rosa, o di ridursi come un Kleenex usato, come accade ai petali della peonia, i sei petali del tulipano cadono a terra, spesso contemporaneamente, ancora intatti.

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Un tempo i fiori non esistevano: duecento milioni di anni fa, per essere precisi. C'erano piante, naturalmente, felci e muschi, conifere e cicadacee, ma esse non formavano fiori e frutti nel vero senso della parola. Alcune si riproducevano per via asessuata, clonandosi in vari modi. La riproduzione sessuale era un fenomeno discreto, che di solito si accompagnava al rilascio di polline nel vento o nell'acqua; per puro caso un po' di polline riusciva a raggiungere altri membri della specie e il risultato era un minuscolo seme primitivo. Questo mondo prefloreale era più lento, più semplice e più tranquillo del nostro. L'evoluzione procedeva con maggiore lentezza perché c'era meno differenziazione sessuale e quando la riproduzione avveniva per via sessuale riguardava piante vicine o con uno stretto vincolo di parentela. Questo approccio conservatore alla riproduzione era adatto a un mondo più semplice dal punto di vista biologico, in quanto generava novità o variazioni relativamente piccole. Nel complesso la vita era più statica e nasceva dall'accoppiamento tra "consanguinei".

Prima dei fiori, il mondo era più tranquillo: senza frutti né grossi semi, non poteva sostentare molte creature a sangue caldo. Dominavano i rettili, che quando faceva freddo si limitavano a strisciare con lentezza. Di notte accadeva ben poco. Anche l'aspetto del pianeta era più monotono: più verde, privo dei colori e delle forme (per non parlare dei profumi) che sarebbero sopraggiunti con fiori e frutti. La bellezza non esisteva ancora. O meglio, l'aspetto di ogni cosa non aveva nulla a che vedere con il desiderio.

I fiori rivoluzionarono tutto. Le angiosperme, definizione botanica delle piante che producono fiori e semi rivestiti, apparvero durante il Cretaceo e si diffusero con un velocità sbalorditiva. Charles Darwin definì questo fenomeno improvviso e del tutto inafferrabile "un mistero insopportabile". Ora, invece di affidarsi al vento e all'acqua per propagare i propri geni, una pianta poteva ricorrere all'aiuto di un animale, stipulando un eccellente contratto coevolutivo: nutrimento in cambio di trasporto. Con l'arrivo dei fiori, sulla terra comparvero livelli del tutto nuovi di complessità: più informazione, più comunicazione, più sperimentazione.

L'evoluzione delle piante si sviluppò secondo una nuova forza motrice: l'attrazione tra specie differenti. La selezione naturale favoriva i fiori che riuscivano a catturare l'attenzione degli impollinatori e i frutti più appetitosi per gli animali. I desideri delle altre creature ebbero un ruolo primario nell'evoluzione delle piante, perché quelle che riuscivano a gratificare tali desideri avevano una discendenza maggiore. La bellezza si rivelava una strategia di sopravvivenza.

Le nuove regole accelerarono la velocità dei mutamenti evolutivi. Grandezza, lucentezza, dolcezza e fragranza: con il nuovo regime, tutte queste qualità furono subito premiate. Ma lo fu anche la specializzazione. Poiché era dispendioso affidare il polline a un insetto che poteva recapitarlo all'indirizzo sbagliato (ai fiori di specie non affini), divenne vantaggioso avere un aspetto e un profumo íl più caratteristici possibile, l'espediente migliore per ottenere tutta l'attenzione di un unico impollinatore specializzato. Così il desiderio degli animali venne analizzato e suddiviso, le piante si specializzarono di conseguenza, e si verificò una straordinaria esplosione di diversità, in gran parte sotto il segno della coevoluzione e della bellezza.

Insieme ai fiori arrivarono frutti e semi, e anch'essi riplasmarono la vita sulla terra. Con la produzione di zuccheri e proteine per attirare gli animali che avrebbero diffuso i loro semi, le angiosperme moltiplicarono la provvista mondiale di energia alimentare, rendendo possibile la nascita di grossi mammiferi a sangue caldo. Senza i fiori, con ogni probabilità dominerebbero ancora i rettili, che a lungo se la cavavano benissimo in un mondo ricco di foglie ma privo di frutti. Senza i fiori, noi non esisteremmo.


Dunque i fiori ci hanno fatto nascere, noi che siamo i loro più grandi estimatori. Nel corso del tempo, il desiderio umano è entrato nella storia naturale del fiore, e il fiore ha continuato a fare ciò che ha sempre fatto: divenire sempre più bello agli occhi dell'animale uomo, racchiudendo nel suo essere più profondo anche i nostri tropi e le nostre idee più improbabili. Sono sbocciate rose che assomigliano a ninfe turbate, petali di tulipano a forma di stiletto, peonie dal profumo di donna. A turno abbiamo fatto la nostra parte, moltiplicando i fiori in modo insensato, trasportandone i semi per tutto il pianeta, scrivendo libri per diffonderne la fama e assicurarne la felicita. Per il fiore è stata la solita vecchia storia, un altro grandioso contratto evolutivo con un animale interessato e piuttosto ingenuo: un buon affare nel complesso, ma nulla a che vedere con il tacito accordo stipulato con le api.

E noi? Come ce la siamo cavata? Benissimo, rispetto ai fiori. Certo, ci sono il piacere dei sensi, il nutrimento dato da frutti e semi e un ampio repertorio di nuove metafore. Ma abbiamo rivolto la nostra mente oltre la corolla di un fiore, e abbiamo trovato di più: il crogiolo della bellezza, se non dell'arte, e forse perfino uno spiraglio fugace sul significato della vita. Che cosa vediamo quando guardiamo un fiore? Il fulcro autentico del doppio aspetto della natura, le energie conflittuali della creazione e della distruzione, l'innalzamento verso forme complesse e l'impulso travolgente che le allontana. I greci chiamavano Apollo e Dioniso questi due aspetti della natura, e in essa non esiste nulla in cui la loro lotta sia evidente e struggente come nella bellezza di un fiore e nel suo rapido trapasso. Ecco la conquista dell'ordine sul caos e il suo gioioso abbandono. Ecco la perfezione dell'arte e il fluire cieco della natura. Ed ecco, in certa misura, la trascendenza e le necessità. Che sia proprio lì, in un fiore, il significato della vita?

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