Autore Michael Pollan
Titolo Come cambiare la tua mente
EdizioneAdelphi, Milano, 2019, La collana dei casi 130 , pag. 476, cop.fle., dim. 14x22x3,8 cm , Isbn 978-88-459-3397-4
OriginaleHow To Change Your Mind [2018]
TraduttoreIsabella C. Blum
LettoreElisabetta Cavalli, 2019
Classe psicologia , psichiatria , medicina , salute , chimica , storia sociale , viaggi , natura , scienze cognitive












 

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Indice


Prologo. Una nuova porta                                           13

1. Un rinascimento                                                 31

2. Storia naturale. Fatto di funghi                                93

3. Storia. La prima ondata                                        149

4. Diario di viaggio. Un viaggio clandestino                      235

5. Neuroscienze, Il cervello e le sostanze psichedeliche          305

6. Il trip come trattamento. Gli psichedelici nella psicoterapia  345

Epilogo. Elogio della diversità neurale                           409


Glossario                                                         427

Ringraziamenti                                                    435

Bibliografia                                                      439

Indice analitico                                                  451


 

 

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Pagina 13

PROLOGO
UNA NUOVA PORTA



A metà del ventesimo secolo irruppero in Occidente due molecole nuove e singolari, composti organici con una spiccata somiglianza reciproca. Col tempo, avrebbero cambiato il corso della storia culturale, politica e sociale, come pure le storie personali dei milioni di persone che le introdussero nel proprio cervello. Il caso volle che l'emergere di questa chimica dirompente coincidesse con un'altra esplosione di portata storica a livello mondiale, quella della bomba atomica. Ci fu chi paragonò i due eventi e volle vedere un significato nella loro sincronia cosmica. Nuove energie straordinarie erano state liberate nel mondo; le cose non sarebbero state più le stesse.

La prima di queste molecole fu un'invenzione scientifica accidentale. La dietilamide dell'acido lisergico, comunemente nota come LSD, fu sintetizzata da Albert Hofmann nel 1938, precedendo di poco la prima scissione d'un atomo di uranio da parte dei fisici. Hofmann - che lavorava per la casa farmaceutica svizzera Sandoz - stava cercando un farmaco che stimolasse la circolazione, non un composto psicoattivo: fu soltanto cinque anni dopo, quando ingerì per caso una minuscola quantità della nuova sostanza chimica, che capì d'aver creato qualcosa di potente, al tempo stesso terribile e meraviglioso.

La seconda molecola era in circolazione da migliaia di anni, benché nel mondo sviluppato nessuno ne fosse a conoscenza. Prodotta non da un chimico, ma da un piccolo fungo marrone poco appariscente, questa sostanza, in seguito divenuta nota come psilocibina, era stata usata per centinaia di anni come sacramento dalle popolazioni indigene del Messico e dell'America centrale. Dopo la conquista spagnola, l'uso del fungo - che gli Aztechi chiamavano teonanácatl,o vvero «carne degli dèi» - venne brutalmente represso dalla chiesa cattolica, e quindi spinto nella clandestinità. Nel 1955, dodici anni dopo la sintesi dell'LSD da parte di Albert Hofmann, R. Gordon Wasson, banchiere di Manhattan nonché micologo dilettante, assaggiò il fungo magico a Huautla de Jiménez, una città dello stato di Oaxaca nel Messico meridionale. Due anni dopo pubblicò sulla rivista «Life» una descrizione di quindici pagine dei «funghi che inducono strane visioni», segnando così il momento in cui la notizia di una nuova forma di coscienza giunse per la prima volta al grande pubblico (nel 1957 la conoscenza dell'LSD era per lo più confinata alla comunità dei ricercatori e di coloro che si occupavano di salute mentale a livello professionale). Per molti anni la gente non colse l'entità di quanto era accaduto, ma la storia in Occidente era cambiata.

È difficile sovrastimare l'impatto di queste due molecole. L'avvento dell'LSD può essere messo in relazione con la rivoluzione che ebbe luogo negli studi sul cervello a partire dagli anni Cinquanta, quando gli scienziati scoprirono il ruolo dei neurotrasmettitori cerebrali. Il fatto che quantità di LSD nell'ordine dei microgrammi potessero indurre sintomi simili a quelli della psicosi ispirò la ricerca della base neurochimica di disturbi mentali precedentemente ritenuti di origine psicologica. Allo stesso tempo gli psichedelici trovarono spazio nella psicoterapia, dove furono usati per trattare vari disturbi tra cui l'alcolismo, l'ansia e la depressione. Per gran parte degli anni Cinquanta e al principio del decennio successivo, furono in molti, nell' establishment psichiatrico, a considerare l'LSD e la psilocibina come farmaci miracolosi.

L'avvento di questi due composti è legato anche, negli anni Sessanta, all'ascesa della controcultura e, forse soprattutto, ai suoi toni e al suo stile particolari. Per la prima volta nella storia i giovani disponevano di un rito di passaggio tutto loro: il «trip da acido». Invece di incorporare il giovane nel mondo adulto, come i riti di passaggio hanno sempre fatto, questo li faceva sbarcare in un territorio della mente della cui esistenza pochi adulti avevano la benché minima idea. L'effetto sulla società fu come minimo dirompente.

Alla fine degli anni Sessanta, comunque, le onde sismiche scatenate a livello sociale e politico da queste molecole sembrarono dissiparsi. Il lato oscuro degli psichedelici - bad trips, crolli psicotici, flashbacks, suicidi - cominciò a essere oggetto di un'enorme pubblicità negativa e a partire dal 1965 l'entusiasmo intorno a queste nuove sostanze lasciò il passo al panico morale. Con la stessa velocità con cui li avevano accolti, la cultura e l' establishment scientifico adesso si rivoltarono bruscamente contro gli psichedelici. Alla fine del decennio queste sostanze - che in moltissimi luoghi erano state legali - furono messe al bando, e il loro uso venne spinto nella clandestinità. Sembrava che almeno una delle due bombe del ventesimo secolo fosse stata disinnescata.

Poi accadde qualcosa di inatteso e significativo. A partire dagli anni Novanta, lontano dagli sguardi della maggior parte di noi, un piccolo gruppo di scienziati, psicoterapeuti e cosiddetti psiconauti, nella convinzione che scienza e cultura avessero perso qualcosa di prezioso, decise di recuperarlo.

Oggi, dopo diversi decenni di repressione e abbandono, gli psichedelici sono nel pieno di un rinascimento. Una nuova generazione di scienziati, molti dei quali ispirati da esperienze personali con questi composti, sta verificando le loro potenzialità nella cura di problemi mentali come la depressione, l'ansia, i traumi e le dipendenze. Altri scienziati stanno usando gli psichedelici insieme ai nuovi strumenti di brain-imaging per esplorare i legami tra il cervello e la mente, nella speranza di svelare alcuni dei misteri della coscienza.

Un buon modo per comprendere un sistema complesso è quello di disturbarlo e poi di osservare che cosa succede. Disintegrando gli atomi, un acceleratore di particelle li costringe a svelare i loro segreti. Somministrando sostanze psichedeliche in dosi meticolosamente calibrate, i neuro-scienziati possono disturbare profondamente, in soggetti volontari, la normale coscienza in stato di veglia, inducendo la dissoluzione delle strutture del sé e dando luogo a quella che può essere descritta come un'esperienza mistica. Mentre ciò accade, gli strumenti di imaging possono rilevare le alterazioni che interessano le attività e gli schemi di connettività cerebrali. Questo lavoro sta già svelando informazioni sorprendenti sui «correlati neurali» del senso del sé e dell'esperienza spirituale. Il vecchio cliché degli anni Sessanta, e cioè che gli psichedelici offrissero una chiave alla comprensione - e all'«espansione» - della coscienza non sembra più tanto assurdo.

Come cambiare la tua mente è la storia di questo rinascimento. Oltre che una storia pubblica, è però anche una storia molto personale, benché non sia cominciato in quella chiave. Forse era inevitabile. Tutto quello che stavo imparando riguardo alla storia della ricerca sugli psichedelici narrata in terza persona mi faceva desiderare di esplorare questo nuovo paesaggio della mente anche in prima persona: capire come fossero in realtà le alterazioni della coscienza indotte da queste molecole; se avessero da insegnarmi qualcosa - e che cosa - sulla mia mente; e se potessero aggiungere qualcosa - e che cosa - alla mia vita.

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Pagina 23

[...] Quello che colpisce, in tutta questa linea di ricerca clinica, è la premessa secondo cui il fattore chiave che induce un cambiamento nella mente forse non è, di per se stesso, l'effetto farmacologico della sostanza, ma il tipo di esperienza mentale cui essa dà luogo, che comporta la temporanea dissoluzione dell'ego.


Poiché non ero affatto sicuro di aver mai avuto una sola esperienza «significativa sul piano spirituale», e meno che mai di averne avute abbastanza da poter stilare una graduatoria, l'articolo del 2006 risvegliò la mia curiosità ma anche il mio scetticismo. Molti volontari descrivevano di aver avuto accesso a una realtà alternativa, a un «al di là» dove non si applicano le consuete leggi della fisica e dove varie manifestazioni di una coscienza cosmica, o del divino, si presentano come inconfondibilmente reali.

Trovavo tutto questo un po' difficile da accettare (non poteva trattarsi semplicemente di un'allucinazione indotta dalla sostanza?), ma al tempo stesso anche intrigante; una parte di me desiderava che fosse vero, di qualsiasi cosa esattamente si trattasse - il che mi sorprese, giacché non ho mai pensato a me stesso come a una persona particolarmente spirituale, e ancor meno mistica. Immagino che ciò dipenda in parte dalla mia visione del mondo, in parte dell'aver trascurato la questione: non ho mai dedicato molto tempo a esplorare percorsi spirituali e non ho ricevuto un'educazione religiosa. Di base, la mia prospettiva è quella del materialismo filosofico, convinto come sono che la materia sia la sostanza fondamentale dell'universo e che le leggi fisiche cui essa obbedisce debbano poter spiegare qualsiasi cosa succeda. Parto dal presupposto che la natura sia tutto ciò che esiste, e sono attratto dalle spiegazioni scientifiche dei fenomeni. Detto questo, sono anche sensibile alle limitazioni della prospettiva materialista-scientifica, e credo che la natura (compresa la mente umana) conservi ancora misteri profondi nei cui confronti la scienza può a volte sembrare arrogante e mostrare un ingiustificato disprezzo.

Era possibile che una singola esperienza psichedelica - qualcosa che dipendeva soltanto dall'ingestione di una pillola o di un quadratino di carta assorbente - potesse intaccare di molto una tale prospettiva? Cambiare il modo in cui uno pensa alla morte? Modificare davvero, in maniera duratura, l'atteggiamento mentale?

Quell'idea mi irretì. Era un po' come se ti avessero mostrato - in una stanza familiare, la stanza della tua mente - una porta a cui, chissà come, non avevi mai fatto caso; e se delle persone in cui riponevi fiducia (scienziati!) t'avessero detto che dall'altra parte c'era ad aspettarti tutto un altro modo di pensare - di essere! Non dovevi far altro che girare la maniglia ed entrare. Chi non sarebbe curioso? Magari non avevo intenzione di cambiare la mia vita, ma l'idea di imparare qualcosa di nuovo su di essa, e di accendere una luce nuova su questo vecchio mondo, cominciò a occupare i miei pensieri. Forse, nella mia vita, mancava effettivamente qualcosa, qualcosa che non avevo mai nemmeno nominato.

Sapevo già qualcosa di quelle porte, perché in precedenza avevo scritto a proposito delle piante psicoattive. Nella Botanica del desiderio ho esplorato relativamente a fondo quello che, con sorpresa, avevo scoperto essere un desiderio umano universale di alterare la coscienza. Non esiste una sola cultura sulla Terra (be', una sì) che non faccia uso di qualche pianta per modificare i contenuti della mente, non importa se al fine di guarire, per abitudine o come pratica spirituale. Il fatto che un desiderio così singolare e apparentemente maladattativo dovesse esistere accanto agli altri - per esempio quelli di nutrimento, bellezza e sesso, che in termini evolutivi hanno tutti una logica molto più ovvia - chiedeva a gran voce una spiegazione. La più semplice è che tali sostanze aiutino ad alleviare il dolore e la noia. D'altra parte, gli intensi sentimenti, come pure i tabù e i rituali complicati, sviluppati intorno a molte di queste specie psicoattive indicano che deve esserci qualcosa di più.

Appresi che gli esseri umani fanno da lungo tempo ampio uso di piante e funghi capaci di alterare drasticamente la coscienza, servendosene sia come strumenti per guarire la mente e per facilitare i riti di passaggio, sia come mezzo per comunicare con domini soprannaturali o mondi degli spiriti. In moltissime culture questi usi erano antichi e venerandi, ma io ipotizzai un'altra applicazione: arricchire l'immaginazione collettiva - la cultura - con le idee e le prospettive nuove che alcune particolari persone, quale che sia il luogo in cui sono andate, portano indietro con sé.


Ora che avevo sviluppato un apprezzamento razionale per il potenziale valore di queste sostanze psicoattive, potreste pensare che fossi più ansioso di provarle. Non sono sicuro di che cosa stessi aspettando: il coraggio, forse; oppure l'occasione propizia che una vita indaffarata, vissuta principalmente sul versante giusto della legge, sembrava non offrire mai. Quando però cominciai a ponderare i possibili benefici di cui sentivo parlare, a fronte dei rischi, rimasi sorpreso nell'apprendere che le sostanze psichedesiche sono di gran lunga più temute che pericolose. Molti dei rischi tristemente noti o sono esagerati o sono leggenda. È praticamente impossibile morire per un'overdose di LSD o di psilocibina, per esempio, e nessuna delle due sostanze dà dipendenza. Dopo averle provate una volta, gli animali non cercano di procurarsi una seconda dose, e negli esseri umani l'uso ripetuto spoglia le sostanze del loro effetto. La possibilità che le esperienze terrificanti cui alcuni vanno incontro sotto l'effetto degli psichedelici gettino nella psicosi gli individui a rischio esiste, questo è vero, e perciò nessuno con un'anamnesi familiare o una predisposizione alla malattia mentale dovrebbe mai prenderli. Tuttavia, i ricoveri al pronto soccorso che vedono coinvolti gli psichedelici sono davvero rarissimi, e molti dei casi diagnosticati come crolli psicotici si rivelano poi meri attacchi di panico di breve durata.

È anche vero che sotto l'effetto degli psichedelici la gente è incline a fare cose stupide e pericolose: camminare in mezzo al traffico, gettarsi da luoghi alti e, in rare occasioni, uccidersi. Secondo un'ampia indagine in cui venne chiesto ai consumatori di queste sostanze di parlare delle proprie esperienze, i «bad trips» sono molto reali e possono essere una delle «esperienze più difficili di una vita intera»; è tuttavia importante distinguere quello che può accadere quando l'uso ha luogo in situazioni non controllate, senza prestare attenzione al set e al setting, da quello che avviene in condizioni cliniche, dopo uno screening attento e sotto osservazione. Da quando - negli anni Novanta - la ricerca autorizzata sulle sostanze psichedeliche è ripresa, sono stati trattati quasi mille volontari, senza che sia stato segnalato un solo evento avverso serio.

Fu a quel punto che l'idea di «scuotere la palla di vetro con la neve», come un neuroscienziato descrisse l'esperienza psichedelica, cominciò a sembrarmi più attraente che spaventosa, pur conservando anche il secondo aspetto.


Dopo aver trascorso oltre mezzo secolo più o meno costantemente in sua compagnia, il sé - questa voce sempre presente nella testa, questo «io» incessantemente impegnato a commentare, interpretare, etichettare, perorare - diventa forse un po' troppo familiare. Qui non sto parlando di qualcosa di profondo come la conoscenza di sé: no, soltanto di come, con il passare del tempo, tendiamo a ottimizzare e a standardizzare le nostre risposte a qualsiasi cosa la vita ci presenti. Ciascuno di noi sviluppa le sue scorciatoie per inquadrare ed elaborare le esperienze quotidiane e risolvere i problemi, e benché questo sia indubbiamente adattativo - ci aiuta a fare ciò che dobbiamo con il minimo sforzo -, alla fine il processo diventa meccanico. Ci intorpidisce. I muscoli dell'attenzione si atrofizzano.

Le abitudini sono indubbiamente strumenti utili, giacché ci risparmiano la necessità di ricorrere a complesse operazioni mentali ogni volta che affrontiamo un compito o una situazione nuovi. D'altra parte, ci sollevano anche dal bisogno di restare svegli nei confronti del mondo: dal bisogno di fare attenzione, essere percettivi, pensare, e poi agire in maniera deliberata (in altre parole, in modo libero e non compulsivo). Per ricordare quanto le abitudini mentali ci rendano ciechi nei confronti dell'esperienza, basta fare un viaggio in un paese che non conosciamo. All'improvviso ci svegliamo! E quasi tutti gli algoritmi della vita quotidiana si riattivano, come partendo da zero. Ecco perché le varie metafore del viaggio, applicate all'esperienza psichedelica, sono tanto azzeccate.

Per quanto utili, questi efficaci meccanismi della mente adulta ci impediscono di vedere il presente. Saltiamo costantemente avanti, verso la cosa successiva. Ci accostiamo all'esperienza in modo molto simile a un programma di intelligenza artificiale: il nostro cervello traduce continuamente i dati del presente nei termini del passato, protendendosi indietro nel tempo a cercare esperienze rilevanti, e quindi usandole per formulare l'ipotesi migliore su come prevedere il futuro e orientarsi in esso.

Uno degli aspetti che fanno di viaggi, arte, natura, lavoro e alcune sostanze altrettante esperienze raccomandate è il modo in cui, nella loro forma migliore, esse bloccano ogni percorso mentale in avanti o all'indietro, immergendoci nel flusso d'un presente letteralmente meraviglioso - là dove la meraviglia è esattamente il prodotto collaterale di quella prima visione non intralciata, di quell'osservazione virginale, alla quale il cervello adulto s'è ormai chiuso. (È terribilmente inefficiente!). Per la maggior parte del tempo, ahimè, mi trovo in un futuro prossimo, con il termostato psichico impostato su un lento sobbollire di anticipazione e, troppo spesso, di preoccupazione. L'aspetto positivo - ma anche quello negativo, in effetti - è che raramente mi sorprendo.

Mi sto sforzando di descrivere quella che credo sia la modalità di default della mia coscienza: funziona abbastanza bene, di sicuro fa il suo lavoro, ma... e se non fosse l'unico modo, o necessariamente il modo migliore, di sperimentare la vita? La premessa della ricerca sulle sostanze psichedeliche è che questo particolare gruppo di molecole sia in grado di darci accesso ad altre modalità di coscienza che potrebbero offrirci benefici specifici, siano essi terapeutici, spirituali o creativi. Di sicuro gli psichedelici non sono l'unica porta per accedere a queste altre forme di coscienza - e nelle pagine che seguono esplorerò alcune alternative non farmacologiche -, ma sembrano certamente una delle maniglie più facili da afferrare e girare.

Tutta l'idea di espandere il nostro repertorio di stati coscienti non è interamente nuova: l'induismo e il buddhismo ne sono permeati, ed esistono precedenti affascinanti anche nella scienza occidentale. William James , il pioniere della psicologia americana autore di Le varie forme dell'esperienza religiosa, si avventurò in questi territori più di un secolo fa e ne riemerse con la convinzione che la nostra comune coscienza in stato di veglia non sia «altro che un tipo speciale di coscienza, mentre tutto attorno ad essa, separate dal più trasparente degli schermi, vi sono forme potenziali di coscienza del tutto diverse».

Capii che qui James stava parlando della porta non aperta nella nostra mente. Per lui, il «tocco» che poteva spalancarla rivelando, dall'altra parte, questi territori, era l'ossido nitroso. (All'epoca i ricercatori avevano a disposizione anche la mescalina, il composto psichedelico estratto dal peyote, ma a quanto pare James ne aveva troppa paura per provarla).

«Nessuna visione dell'universo nella sua totalità può essere definitiva, quando lascia fuori queste altre forme di coscienza».

«In ogni caso», concludeva James, questi altri stati, la cui esistenza egli considerava reale come quella dell'inchiostro su questa pagina, «vietano una prematura chiusura dei conti che dobbiamo rendere alla realtà».

La prima volta che lessi quella frase, capii che James mi aveva centrato benissimo: da materialista convinto e adulto di una certa età qual ero, avevo praticamente chiuso i miei conti con la realtà. Forse, era stato prematuro.

Bene, qui c'era un invito a riaprirli.


Se la comune coscienza in stato di veglia non è che uno dei diversi modi possibili di costruirsi un mondo, allora forse esiste un valore nel coltivare più generosamente quella che sono arrivato a considerare come diversità neurale. Con quest'idea, Come cambiare la tua mente si accosta al tema da diverse prospettive, impiegando diverse modalità narrative: quella della storia sociale e della storia della scienza; quella della storia naturale, del memoir e del giornalismo scientifico; e quella di studi di casi riguardanti volontari e pazienti. Nel mezzo del viaggio offrirò anche una descrizione della mia ricerca di prima mano (o forse dovrei parlare di esplorazione) nella forma d'una sorta di diario di un viaggio mentale.

[...]

Un'ultima nota sulla terminologia. La classe di molecole a cui appartengono la psilocibina e l'LSD (ma anche la mescalina, la DMT e diverse altre) è stata nominata in vari modi da quando, sono ormai decenni, si imposero alla nostra attenzione. Al principio furono chiamate «allucinogeni». D'altra parte, fanno talmente tante altre cose (mentre le vere e proprie allucinazioni complete sono in realtà alquanto insolite) che ben presto gli scienziati si misero alla ricerca di termini più precisi ed esaurienti, una ricerca descritta nel terzo capitolo. Il termine «psichedelici», che qui userò più degli altri, ha tuttavia i suoi svantaggi. Accolto negli anni Sessanta, è gravato da una gran zavorra controculturale. Nella speranza di sfuggire a quelle associazioni, e di sottolineare le dimensioni spirituali di queste sostanze, alcuni ricercatori hanno proposto di chiamarle «enteogeni» - dal greco per «che genera il divino dentro». Questo mi sembra però troppo enfatico. Nonostante tutta la simbologia anni Sessanta, il termine «psichedelico», coniato nel 1956, è etimologicamente accurato. Derivato dal greco, significa semplicemente «che rende manifesta la mente»: proprio quello che queste straordinarie molecole hanno il potere di fare.

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Pagina 95

Nel corso dei giorni che ho trascorso gironzolando nei laboratori della Hopkins e delle ore passate a intervistare persone sui loro viaggi con la psilocibina, diventai sempre più curioso di esplorare quest'altro territorio - in altre parole, la storia naturale di questi funghi e dei loro strani poteri. Dove crescevano, e come? Perché hanno evoluto la capacità di produrre un composto chimico a tal punto simile alla serotonina (un neurotrasmettitore) da poter passare la barriera ematoencefalica e prendere temporaneamente il controllo del cervello mammaliano? Si tratta forse di una sostanza chimica di difesa sintetizzata per avvelenare i mangiatori di funghi? Sembrerebbe la spiegazione più diretta, tuttavia è indebolita dal fatto che il fungo produce gli allucinogeni quasi esclusivamente nel «corpo fruttifero», cioè nella parte che è più felice di farsi mangiare. Trae forse qualche beneficio dal poter alterare la mente degli animali che lo mangiano?'

C'erano poi anche gli interrogativi più filosofici posti dall'esistenza di un fungo che, negli esseri umani, era in grado non soltanto di alterare la coscienza ma anche di dar luogo a un'esperienza mistica profonda. Questo dato di fatto può essere letto in due modi completamente diversi. Secondo la prima interpretazione, la capacità della psilocibina di alterare la mente depone a favore di una visione della coscienza e della spiritualità risolutamente materialistica, giacché i cambiamenti osservati possono essere ricondotti in modo diretto alla presenza di una sostanza chimica, la psilocibina. Che cosa può esserci di più materiale di una sostanza chimica? Considerando l'azione degli psichedelici, si potrebbe ragionevolmente concludere che, negli ominidi, gli dèi non siano altro che costruzioni dell'immaginazione indotte chimicamente.

Eppure, e questo è sorprendente, la maggior parte di coloro che hanno avuto tali esperienze non vede affatto le cose in questo modo. Anche i più laici emergono dai loro viaggi convinti dell'esistenza di qualcosa che trascende un'interpretazione materialistica della realtà: una sorta di «aldilà». Non che costoro neghino una base naturalistica di tale rivelazione; semplicemente, la interpretano in modo diverso.

Se l'esperienza di trascendenza è mediata da molecole che scorrono tanto nel nostro cervello quanto nel mondo naturale di piante e funghi, allora forse la natura non è muta come ci ha raccontato la Scienza; e lo «Spirito», comunque lo si definisca, esiste là fuori - in altre parole, è immanente nella natura, proprio come hanno creduto innumerevoli culture premoderne. Quello che a me (spiritualmente povero) sembrava costituire una buona argomentazione a favore del disincanto del mondo, nella mente di chi ha avuto più esperienze psichedeliche diventa una prova irrefutabile del suo fondamentale incanto. Carne degli dèi, in effetti.

Qui c'era dunque un curioso paradosso. Lo stesso fenomeno che offriva una spiegazione materialistica della credenza spirituale e religiosa regalava un'esperienza talmente potente da convincere chi la viveva dell'esistenza di una realtà non materiale - convincimento che è la base stessa della credenza religiosa.

Speravo che facendo conoscenza con gli LBM psicoattivi alla base di questo paradosso (nel gergo dei micologi, LBM sta per «Little brown mushrooms», piccoli funghi marroni) fosse possibile chiarire la questione o forse, in un modo o nell'altro, farla svanire. Ero già un discreto cercatore di funghi, sicuro di saper identificare - con un livello di fiducia tale da mangiare quello che trovavo - alcune specie commestibili (cantarelli, morchelle, trombette dei morti e porcini). D'altra parte, tutti i miei maestri mi avevano detto che, per complessità e rischi, il mondo degli LBM era ben più scoraggiante: molte delle specie potenzialmente letali, se non la maggior parte, sono LBM. Forse però con una guida esperta avrei potuto aggiungere un paio di Psilocybe al mio repertorio di cercatore di funghi e, nel processo, cominciare a studiare il mistero della loro esistenza e dei loro inquietanti poteri.

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Pagina 99

Ricordo ancora la prima volta in cui sentii Stamets parlare di «micorisanamento»: il termine indica l'uso di funghi per bonificare aree inquinate e risolvere problemi di scorie industriali. In natura, uno dei ruoli dei funghi consiste nella scissione di molecole organiche complesse: senza di loro, la Terra sarebbe diventata da tempo un cumulo immenso e inabitabile di piante e animali morti ma non decomposti. Quando, nel 1989, la Exxon Valdez si incagliò a largo della costa dell'Alaska, sversando milioni di litri di greggio nello stretto di Prince William, Stamets riprese la vecchia idea di utilizzare i funghi per degradare le scorie delle industrie petrolchimiche. Mostrò la diapositiva di un ammasso di fanghiglia nera untuosa prima che venisse inoculato con le spore di Pleurotus, e poi una seconda immagine dello stesso ammasso ottenuta quattro settimane dopo, quando s'era ridotto d'un terzo ed era coperto da una fitta coltre di Pleurotus bianchi come la neve. Fu al tempo stesso una performance teatrale e un'impresa alchemica che non avrei dimenticato tanto presto.

D'altra parte, le ambizioni di Stamets per il regno fungino vanno ben oltre la conversione in suolo arabile della fanghiglia formata dal greggio. Nella sua visione, in effetti, non esiste un solo problema medico o ecologico che i funghi non possano aiutarci a risolvere.

Cancro? È stato dimostrato che un estratto prodotto da Stamets con Trametes versicolor - il cosiddetto fungo «coda di tacchino» - aiuta i pazienti oncologici stimolandone il sistema immunitario (Stamets afferma di averlo usato per aiutare sua madre, che aveva un cancro al seno di stadio IV).

Bioterrorismo? Dopo l'11 settembre il programma Bioshield del governo federale commissionò lo screening di centinaia di rari ceppi fungini, presenti nella collezione di Stamets, scoprendone diversi dotati di una forte attività contro il virus della SARS, del vaiolo, dell'herpes e dell'influenza aviaria e suina (se tutto questo sembrasse implausibile, basti ricordare che i funghi producono anche sostanze antibatteriche come la penicillina).

Collasso degli alveari (colony collapse disorder, CCD)? Dopo aver osservato le api visitare una catasta di legna per sbocconcellare un micelio, Stamets ha identificato diverse specie fungine in grado di aumentare la loro resistenza alle infezioni e al CCD.

Infestazioni da insetti? Qualche anno fa Stamets brevettò un «micopesticida»: il micelio mutante di una specie di Cordyceps che, una volta ingerito dalle formiche carpentiere [Camponotus sp.], colonizza il loro corpo e le uccide, non senza averle prima indotte chimicamente ad arrampicarsi in un luogo situato in alto; a questo punto, dalla testa della formica fuoriesce un fungo che libera le sue spore nel vento.

La seconda o la terza volta che osservai Stamets mostrare un video di Cordyceps mentre giocava quel suo tiro diabolico a una formica - prendere possesso del suo corpo, farle eseguire i suoi ordini e poi far esplodere dal suo cervello un corpo fruttifero disseminando così i propri geni - pensai che lui stesso aveva molte cose in comune con quel povero insetto. Certo, i funghi non lo hanno ucciso e probabilmente lui conosce i loro trucchi abbastanza bene da evitare quel destino. È anche vero, però, che la vita di quest'uomo - il suo cervello! - è stata completamente sequestrata dai funghi; si è dedicato alla loro causa, prestando loro la sua voce proprio come il Lorax del Dr. Seuss si fa portavoce degli alberi. Dissemina spore fungine in lungo e in largo, aiutandole - con un ordine postale, o con la semplice forza del suo entusiasmo - a espandere enormemente il loro areale e a diffondere il loro messaggio.

Credo che Paul Stamets non troverebbe nulla da obiettare su ciò che sto dicendo. Nel suo libro scrive che i miceli - reti biancastre estesissime, simili a tele di ragno, fatte di filamenti unicellulari denominati ife, grazie alle quali i funghi si muovono seguendo tortuose traiettorie attraverso il suolo - sono intelligenti e formano una «membrana senziente» e «la rete nervosa della natura». Il titolo del suo libro, Mycelium Runnin può essere letto in due modi. In effetti, il micelio corre sempre, è sempre in movimento - is always running - attraverso il terreno, dove svolge un ruolo critico nella formazione dei suoli, nel conservare piante e animali in buona salute, e nel tenere unita tutta la foresta. D'altra parte, secondo Stamets, i miceli stanno anche conducendo lo spettacolo - are running the show: quello della natura in generale e, come un software neurale, quello della mente di certe creature, lui compreso - come sarebbe il primo a confermarvi. «I funghi ci stanno recapitando un messaggio della natura» si compiace di dire. «È un richiamo che io sto ascoltando».

Nondimeno, è risultato che perfino alcune delle sue idee più fantasiose hanno un fondamento scientifico. Ormai da anni Stamets parla dell'estesissima rete di miceli presente nel suolo come dell'«internet naturale della Terra»: una rete di comunicazioni modulare, ridondante, ramificata in modo complesso, capace di autoriparazione, che collega molte specie su enormi distanze (l'organismo più grande esistente sulla Terra non è una balena o un albero, ma un fungo dell'Oregon, un' Armillaria estesa su un raggio di 3,9 chilometri). Stamets sostiene che queste reti miceliali siano in un certo senso «coscienti»: consapevoli del loro ambiente, e in grado di rispondere agli stimoli di conseguenza. Quando sentii per la prima volta queste idee, pensai che nella migliore delle ipotesi fossero metafore fantasiose; negli anni successivi, però, ricerche scientifiche sempre più numerose hanno indicato che sono molto più di semplici metafore. Esperimenti con i mixomiceti, o «funghi mucillaginosi», hanno dimostrato che questi organismi sono in grado di orientarsi all'interno di labirinti percependo la localizzazione del nutrimento e crescendo in quella direzione. In una foresta, i miceli fungini connettono gli alberi che la costituiscono, attraverso le radici, non soltanto fornendo loro nutrienti, ma servendo da mezzo per trasmettere informazioni sulle minacce ambientali e permettere agli alberi di inviare sostanze nutrienti selettivamente ad altri alberi. Una foresta è un'entità di gran lunga più complessa, sociale e intelligente di quanto pensassimo, e a organizzare la società arborea sono proprio i funghi.

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Nel 1953 Wasson fece il primo di dieci viaggi in Messico e in America centrale, diversi dei quali nel villaggio di Huautla de Jiménez, tra le remote montagne di Oaxaca, dove secondo uno dei suoi informatori - un missionario - c'erano guaritori che facevano uso di funghi. Al principio, i locali avevano tenuto la bocca cucita: alcuni dissero a Wasson di non aver mai sentito parlare dei funghi, oppure che non erano più usati, o ancora che la pratica sopravviveva soltanto in qualche altro villaggio remoto.

La loro reticenza non sorprende. L'uso sacramentale dei funghi psicoattivi era stato tenuto segreto agli occidentali per quattrocento anni, cioè da poco dopo la conquista spagnola, quando venne spinto nella clandestinità. Il miglior resoconto disponibile di quella pratica è del prete missionario spagnolo Bernardino de Sahagùn, che nel sedicesimo secolo descrisse l'uso dei funghi in una funzione religiosa azteca:

«Mangiavano i funghi prima dell'alba, con miele; e prima dell'alba bevevano anche cacao. Quando l'effetto dei funghi che mangiavano con il miele iniziava, cominciavano a ballare, alcuni cantavano, alcuni piangevano ... Alcuni non si curavano di cantare, ma sedevano nelle loro stanze, e rimanevano pensosi. Certi vedevano in una visione che stavano morendo, e piangevano; e altri vedevano in una visione che erano divorati da qualche belva selvaggia; taluni vedevano in una visione che stavano facendo prigionieri in guerra ... altri ancora vedevano in una visione che stavano commettendo adulterio e che per questo la loro testa sarebbe stata fracassata ... Poi, quando l'ubriacatura dei funghi era passata, si parlavano l'un l'altro delle visioni che avevano avuto».

Gli spagnoli cercarono di annientare i vari culti dei funghi, considerandoli, a ragione, una minaccia mortale per l'autorità della chiesa. Uno dei primi preti che Cortés portò in Messico per convertire gli Aztechi dichiarò che i funghi erano la carne «del demonio che essi veneravano, e ... con questo cibo amaro essi ricevevano il loro dio crudele in comunione». Gli indios venivano interrogati e torturati affinché confessassero quella pratica, e le pietre-fungo - molte delle quali erano sculture alte una trentina di centimetri, in basalto lavorato - furono distrutte. In quella che fu una prima battaglia nella guerra contro la droga - o, per essere più precisi, nella guerra contro certe piante e certi funghi - l'Inquisizione accusò decine di nativi americani di crimini che coinvolgevano il peyote e la psilocibina. Nel 1620 la chiesa cattolica romana dichiarò che l'uso delle piante per la divinazione era «un atto di superstizione condannato in quanto opposto alla purezza e all'integrità della nostra Santa Fede Cattolica».

Non è difficile capire perché la chiesa dovesse reagire con tanta violenza all'uso sacramentale dei funghi. All'orecchio degli spagnoli il significato della parola in lingua nahuatl per «fungo» - carne degli dèi - dovette suonare come una sfida diretta al sacramento cristiano, naturalmente inteso anch'esso come carne degli dèi, o piuttosto dell'unico Dio. Eppure, il sacramento con i funghi godeva di un vantaggio innegabile rispetto alla versione cristiana. Per credere che consumare il pane e il vino dell'eucaristia desse al fedele un accesso al divino - accesso che doveva comunque essere mediato da un prete e dalla liturgia - occorreva un atto di fede. Confrontiamo ora questo sacramento con quello degli Aztechi: un fungo psicoattivo che garantiva a chiunque lo mangiasse un accesso diretto e non mediato al divino - a visioni d'un altro mondo, d'un regno degli dèi. Chi aveva dunque il sacramento più potente? Come un indio mazateco disse a Wasson, i funghi «ti portano là dove dimora Dio».

La chiesa cattolica romana probabilmente fu la prima istituzione a riconoscere appieno la minaccia che una pianta psichedelica comportava per la sua autorità; di sicuro, però, non sarebbe stata l'ultima.

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Qui ci avventuriamo in un territorio altamente speculativo e leggermente scivoloso, guidati da Giorgio Samorini, un etnobotanico italiano. In un libro intitolato Animali che si drogano, Samorini ipotizza che in periodi di crisi o di rapido cambiamento ambientale il fatto che alcuni individui abbandonino le proprie consuete risposte condizionate, e azzardino qualche comportamento radicalmente nuovo e diverso, può essere utile alla sopravvivenza del gruppo. Proprio come nel caso delle mutazioni genetiche, la maggior parte di queste novità si dimostrerà deleteria e sarà eliminata dalla selezione naturale. Le leggi della probabilità suggeriscono d'altra parte che alcuni nuovi comportamenti potrebbero rivelarsi utili, aiutando l'individuo, il gruppo e forse la specie ad adattarsi ai rapidi cambiamenti in corso nell'ambiente.

Samorini lo chiama «fattore di deschematizzazione». Nell'evoluzione di una specie vi sono circostanze in cui i vecchi modelli non sono più utili, mentre le percezioni e i comportamenti potenzialmente innovativi e rivoluzionari, a volte ispirati dagli psichedelici, offrono forse migliori possibilità di adattamento. Possiamo visualizzarla come una fonte di variazione, neurochimicamente indotta, all'interno di una popolazione.

È difficile leggere la bella teoria di Samorini senza pensare alla nostra stessa specie e alle difficili circostanze in cui versiamo oggi. Homo sapiens potrebbe essere giunto a uno di quei periodi di crisi che richiedono una qualche deschematizzazione mentale e comportamentale. Non potrebbe essere proprio per questo che la natura ci ha inviato le molecole psichedeliche adesso?

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Tutte queste domande riguardano naturalmente i contenuti della coscienza, la quale almeno fino a questo punto ha eluso gli strumenti delle neuroscienze. Per coscienza io non intendo semplicemente l'«essere consci» - la fondamentale consapevolezza sensoriale degli esseri viventi riguardo ai mutamenti che hanno luogo nel loro ambiente, qualcosa che è facile misurare sperimentalmente. In questo senso stretto, anche le piante sono «coscienti», benché sia improbabile che possiedano una coscienza pienamente sviluppata. Quello che neuroscienziati, filosofi e psicologi intendono per «coscienza» è la nostra inconfondibile sensazione di essere, o di possedere, un sé con delle esperienze.

Sigmund Freud scrisse che «nulla è per noi più sicuro del senso di noi stessi, del nostro proprio Io». Nondimeno, giacché non esiste alcuna evidenza fisica esteriore dell'esistenza della coscienza così come la sperimentiamo noi, è difficile essere altrettanto certi del fatto che chiunque altro, e meno che mai altre creature, la possieda. La cosa di cui abbiamo maggior certezza è dunque fuori della portata della nostra scienza, che si presume sia il modo più sicuro di cui disponiamo per conoscere qualsiasi cosa.

Questo dilemma ha lasciato socchiusa una porta attraverso cui sono entrati scrittori e filosofi. Il classico esperimento di pensiero per determinare se un altro essere sia in possesso di una coscienza fu proposto dal filosofo Thomas Nagel in un famoso saggio del 1974, Che cosa si prova ad essere un pipistrello? Nagel sosteneva che se «a essere un pipistrello si prova qualcosa» - se nella sua esperienza esiste una qualche dimensione soggettiva -, allora esso possiede una coscienza. Proseguiva poi ipotizzando che questo «che cosa si prova» potesse non essere riducibile a termini materiali. Mai.

A prescindere dal fatto che Nagel abbia o meno ragione, si tratta del più importante dibattito in corso nel campo degli studi sulla coscienza. Il nucleo della questione è spesso indicato come «problema difficile» oppure «iato esplicativo». Come si fa a spiegare la mente - la qualità soggettiva dell'esperienza - in termini di carne, ovvero in termini delle strutture anatomiche o della chimica del cervello? La domanda presuppone, come fa la maggior parte (anche se non la totalità) degli scienziati, che la coscienza sia un prodotto del cervello e che alla fine sarà spiegata in quanto epifenomeno di oggetti materiali quali i neuroni, le strutture anatomiche, le sostanze chimiche e le reti di comunicazione cerebrali. Di certo questa sembrerebbe l'ipotesi più parsimoniosa. Tuttavia, è ben lungi dall'essere dimostrata e diversi neuroscienziati dubitano che mai lo sarà: dubitano che qualcosa di elusivo come l'esperienza soggettiva - che cosa si prova a essere te - cederà mai al riduzionismo scientifico. Questi scienziati e questi filosofi sono a volte denominati «misteriani», che non va inteso come un complimento. Alcuni scienziati hanno sollevato la possibilità che la coscienza possa pervadere l'universo, e propongono di pensare ad essa come facciamo per l'elettromagnetismo o la gravità, ovvero come a uno dei fondamentali componenti della realtà.

L'idea che le droghe psichedeliche possano fare un po' di luce sui problemi della coscienza ha una sua logica. Una sostanza psichedelica è abbastanza potente da disturbare profondamente il sistema che noi chiamiamo «coscienza in stato di veglia», così da spingere forse allo scoperto alcune delle sue fondamentali proprietà. Certo, anche gli anestetici disturbano la coscienza, tuttavia, poiché la mettono a silenzio, rendono accessibile una quantità di dati relativamente esigua. Al contrario, un soggetto sotto l'effetto degli psichedelici rimane sveglio e in grado di riferire in tempo reale quello che sta provando. Oggigiorno questi rapporti soggettivi possono essere correlati a varie misure dell'attività cerebrale, utilizzando diverse modalità di imaging - strumenti che negli anni Cinquanta e Sessanta, ai tempi della prima ondata di studi sulle sostanze psichedeliche, non erano disponibili.

Impiegando queste tecnologie in combinazione con l'LSD e la psilocibina, alcuni scienziati che lavorano in Europa e negli Stati Uniti stanno alzando il velo sulla coscienza, e ciò che cominciano a vedere promette di cambiare la nostra interpretazione dei legami tra mente e cervello.

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Qui, io credo, sta il grande valore dell'esplorazione di stati di coscienza non ordinari: nella luce che essi gettano su quelli ordinari, che non sembrano più tali, né così trasparenti. Comprendere, come concluse William James, che la normale coscienza in stato di veglia non è che una delle molte forme potenziali di coscienza - modi di percepire o interpretare la realtà -, separate da essa soltanto «dal più trasparente degli schermi», significa riconoscere che, nella migliore delle ipotesi, la nostra descrizione della realtà, interiore o esteriore che sia, è incompleta. È possibile che nel consueto stato di veglia la coscienza offra una mappa fedele del territorio della realtà: in molti casi funziona, ma è soltanto una mappa - e non è l'unica. Sul perché, poi, esistano queste altre modalità di coscienza, possiamo solo fare delle ipotesi. Il più delle volte, gli interessi della sopravvivenza sono tutelati al meglio dalla normale coscienza dello stato di veglia, che ha quindi un grande valore adattativo. Nell'esistenza di un individuo o di una comunità vi sono tuttavia alcuni momenti in cui le novità creative proposte dagli stati di coscienza alterati introducono esattamente il tipo di variazione che può orientare una vita, o una cultura, su una nuova strada.

Per me, il momento in cui riconobbi l'inconsistenza e la relatività della mia DMN arrivò quel pomeriggio in cima alla montagna, quando Fritz mi insegnò come entrare in uno stato di trance servendomi soltanto di un tipo di respirazione rapida e del suono di percussioni ritmiche. E questo dove diavolo era stato durante tutta la mia vita? Non è nulla che Freud o moltissimi psicologi ed economisti comportamentali non ci avessero già detto, ma adesso per me l'idea che la coscienza «normale» non sia che la punta di un iceberg psichico, in larga misura non mappato, è qualcosa di più di una teoria: ora la vastità nascosta della mente è una realtà percepita.

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[...] Uno dei doni degli psichedelici è quel loro rianimare il mondo, come se distribuissero la benedizione della coscienza più ampiamente e uniformemente sul paesaggio - spezzando, nel farlo, il monopolio umano sulla soggettività, qualcosa che noi moderni diamo per scontato. Ai nostri occhi noi siamo gli unici soggetti coscienti del mondo, mentre il resto del creato è costituito da oggetti; per i più egotisti tra noi, contano come oggetti perfino le altre persone. La coscienza psichedelica rovescia questa prospettiva offrendoci una lente più ampia e generosa attraverso cui osservare la qualità soggettiva - lo spirito! - di ogni cosa: animale, vegetale, perfino minerale, adesso tutte in qualche modo in grado di restituirci lo sguardo. Gli spiriti, a quanto pare, sono ovunque. Raggi di relazione appaiono tra noi e tutti gli Altri del mondo.

Perfino nel caso dei minerali la fisica moderna (dimenticate gli psichedelici!) ci dà ragione di domandarci se qualche forma di coscienza non possa forse entrare nella costruzione della realtà. La meccanica quantistica sostiene che la materia potrebbe non essere così incontaminata dalla mente come vorrebbero farci credere i materialisti. Per esempio, fintanto che non viene misurata - ovvero percepita da una mente - una particella subatomica può occupare simultaneamente più posizioni. Solo allora, e non un istante prima, essa scivola nella realtà come noi la conosciamo: acquista coordinate precise nello spazio e nel tempo. L'implicazione qui è che la materia potrebbe non esistere come tale in assenza di un soggetto percipiente. Inutile dire che - ai fini di un'interpretazione materialista della coscienza - questo solleva alcune questioni difficili: il terreno sotto i nostri piedi potrebbe essere molto meno solido di quello che pensiamo.

Benché sia in effetti una teoria molto psichedelica, di fatto questa non è la visione di qualche psiconauta, ma della fisica quantistica. Ne faccio menzione solo perché conferisce un po' dell'autorità della scienza a speculazioni che altrimenti sembrerebbero del tutto folli. Io tendo ancora a pensare che la coscienza debba essere confinata al cervello, d'altra parte ne sono meno sicuro adesso di quanto lo fossi prima di imbarcarmi in questo viaggio. Può darsi che anche la mia convinzione sia scivolata fuori, tra le sbarre di quella gabbia. I misteri resistono. Posso però dire questo con certezza: la mente è più vasta, e il mondo davvero molto più vivo, di quanto pensassi quando sono partito.

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