Autore Walter Quattrociocchi
CoautoreAntonella Vicini
Titolo Liberi di crederci
SottotitoloInformazione, internet e post-verità
EdizioneCodice, Torino, 2018, , pag. 144, cop.fle., dim. 13,5x20x1 cm , Isbn 978-88-7578-740-0
LettoreFlo Bertelli, 2018
Classe comunicazione , sociologia , media , psicologia , informatica: reti , scienze cognitive












 

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Indice


    Introduzione
  9 Umano: tra limiti e buona volontà


    Capitolo 1
 15 Una gabbia dorata, ma non troppo

    Capitolo 2
 39 La scimmia

    Capitolo 3
 61 Comunicare è difficile

    Capitolo 4
 87 Nella stanza degli specchi

    Capitolo 5
105 Il falso mito delle fake news


125 Conclusioni

131 Note


 

 

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Pagina 16

Era il 1991 quando il CERN annunciava ufficialmente la nascita della rete intorno al mondo con la possibilità di sedersi al proprio computer (all'epoca si faceva ancora così) e accedere alle infinite possibilità del world wide web. Infinite, in realtà, ancora non lo erano, complici i limiti tecnologici e anche le prime librerie virtuali che erano davvero poco fornite se paragonate ai contenuti che possiamo trovare oggi in rete.

Se a questo miracolo del progresso si aggiunge poi quello che sarebbe accaduto una decina di anni dopo con la diffusione delle compagnie aeree low cost, che rendono il viaggio un lusso alla portata di tutti, con l'abbassamento delle tariffe per i telefoni cellulari e l'introduzione dei piani di connessione flat e, poi, anche con la nascita degli smartphone che permettono di essere connessi 24 ore su 24, ecco che il villaggio globale sembrava stesse per prendere forma.

L'abbattimento delle barriere fisiche e la velocità di entrare in connessione ci hanno spinti a credere in un nuovo Rinascimento; la new economy e le sue magnifiche sorti e progressive si sono invece ridotte a una bolla di sapone e il villaggio globale ha fatto un po' la fine della Torre di Babele.

Il tutto si è risolto in un insieme di circoli separati in cui ci si incontra fra simili che parlano la stessa lingua ma che non escono dall'ecosistema che si sono creati. Infatti, da quando la rete ha offerto la possibilità di differenziare le proprie scelte, attingendo a fonti e a mondi inesauribili, abbiamo paradossalmente riscoperto una nuova dimensione umana della piazza, del clan, della comunità di appartenenza. Il gruppo ci rassicura e ci protegge.

La rete in sé è "neutrale", non è certo responsabile di aver provocato questa tendenza alla segregazione. Ha semplicemente favorito l'emergere o il riemergere di tutti i limiti umani che determinano la sua magnifica natura e assieme la sua più profonda e imperfetta bellezza: la ricerca dell'emancipazione dalla dipendenza dagli altri pur volendo la conferma negli altri. Affermare il per mezzo degli occhi di un interlocutore e restare intimamente soggiogati da questo gioco.

Entrare in un gruppo è oggi molto più facile di un tempo; pensiamo a quello che succede sui social, dove l'importante è esserci, attirare l'attenzione e nutrire il proprio pubblico.

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Pagina 49

Quando ci muoviamo in contesti articolati e complessi, tendiamo ad adottare euristiche, e anche la classificazione stessa dei bias cognitivi è allo stato di euristica.

Ci muoviamo infatti nel campo dell'osservazione e catalogazione della realtà, mancando ancora classificazioni chiare.

Il sito dell'Harvard University, che ospita una serie di lavori scientifici realizzati dall'ateneo, sintetizza il tema con un utile schema illustrato, dal titolo abbastanza esemplificativo: I 20 bias cognitivi che confondono le nostre decisioni.

Si va dal bias di ancoraggio al bias dell'angolo cieco, da quello di conservazione a quello di conferma fino alla percezione selettiva, all'effetto struzzo, all'effetto carrozzone (più comune come effetto gregge) e al più noto effetto placebo.

Insomma, venti diverse definizioni che spiegano come ci autoinganniamo quando giudichiamo situazioni o persone, o facciamo delle scelte, poiché rispondiamo ad automatismi mentali molto comuni che ci portano a prendere decisioni fondate su percezioni influenzate già in partenza. Vediamone alcuni nel dettaglio.


Bias di ancoraggio: diamo molta più importanza alle prime, limitate informazioni che troviamo e ne diamo meno a quelle che vengono dopo.

Bias di disponibilità: tendiamo a dare molta importanza e risalto alle sole informazioni che abbiamo a disposizione nella nostra mente, sovrastimando così la nostra conoscenza.

Bias del carro del vincitore: è più noto come "effetto bandwagon" o "effetto carrozzone"; siamo inclini a sviluppare una credenza in base al numero di persone intorno a noi che abbracciano la stessa convinzione.

Bias dell'autoesaltazione: condividiamo e valutiamo maggiormente i nostri successi rispetto ai nostri fallimenti.

Illusione della frequenza: la tendenza a interpretare e vedere ovunque conferme di quanto abbiamo recentemente appreso.

Illusione dello schema: una delle strategie più potenti che abbiamo sviluppato con millenni di evoluzione è la capacità di individuare dei "pattern", cioè degli schemi. Li usiamo come scorciatoie per arrivare a delle conclusioni.

Bias di conferma: questa "scorciatoia mentale errata" si verifica in particolar modo tra i sostenitori di partiti politici o altre ideologie (come i fanatici dei regimi alimentari). Involontariamente diamo maggiore rilevanza alle informazioni in grado di confermare la nostra tesi iniziale.

Effetto struzzo: fratello gemello del bias di conferma, descrive la tendenza a rifiutare dati che contrastano con le nostre convinzioni.

Bias della scelta solidale: è la tendenza a razionalizzare le scelte fatte, anche se tali scelte sono state impulsive o sono state fatte sulla base di gravi lacune informative, per giustificare il nostro essere razionali.

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Pagina 64

Byung-Chul Han è un filosofo sudcoreano, docente universitario in Germania e autore di un testo dai toni piuttosto catastrofici intitolato Nello sciame. Visioni del digitale. Nel suo testo, uscito nel 2015, partendo da una critica molto dura alla società contemporanea, accusata di essere sempre più atomizzata e segregata, Han identifica il concetto di massa con quello di sciame digitale, composto da individui isolati.

In questa visione apocalittica, il mondo di internet e dei social network viene considerato responsabile della disintegrazione dello spazio pubblico e della lenta erosione di una reale azione politica da parte degli utenti, a favore della creazione di un insieme di individui isolati incapaci di formare un noi. Ed è proprio il narcisismo a dominare questa comunicazione.

L'assenza di distanza porta a una commistione di pubblico e privato: la comunicazione digitale favorisce questa esibizione pornografica dell'intimità e della sfera privata. Anche i social network si rivelano spazi di esibizione del privato. Il medium digitale privatizza, in quanto tale, la comunicazione trasferendo la produzione delle informazioni dal pubblico al privato.


In un'intervista pubblicata in italiano, Byung-Chul Han ribadisce poi che «il mezzo digitale incarna autorappresentazione e autoesibizione. Il narcisismo di oggi è sintomo di un abissale e intrinseco vuoto dell'io, in crisi d'identità e sempre più irrequieto. Del resto, nella nostra epoca nulla ha durata e stabilità. E così, questo Io ansiogeno genera la dipendenza dall'approvazione altrui che si manifesta nei selfie, nel maltrattare l'interlocutore, nell'autoincensarsi. Qui non c'entra la vanità. Non abbiamo a che fare con un io stabile e narciso che ama se stesso, bensì con un narcisismo negativo».

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Pagina 72

Perché è inutile cercare di far cambiare idea agli utenti dei social?


Per chi studia simili fenomeni, questa sovraesposizione è una occasione di ricerca unica. La grande mole di dati a disposizione in questa era dei nuovi media rende possibile, infatti, l'analisi della società a un livello di risoluzione senza precedenti, andando ben al di là della pura speculazione. Lungo questa linea sono stati compiuti notevoli progressi per comprendere la diffusione e il consumo delle informazioni, il contagio sociale, la nascita delle narrazioni e i loro tremendi effetti sulla formazione delle opinioni. Tematiche che riguardano tutti e che sono diventate l'incubo dei cittadini sia del mondo analogico che digitale.

Come riuscire ad orientarsi nel mare magnum d'informazioni? Pensare che le categorie del "vero" e del "falso" possano indurre gli individui a rivedere le proprie posizioni acquisite attraverso la lettura di contenuti costruiti e consumati proprio per confermare i propri pregiudizi soggettivi, è semplicemente ingenuo. Così come contrapporre argomentazioni basate sui dati scientifici a chi è mosso da forti pregiudizi nei confronti della scienza non ha alcun valore; soprattutto quando si scende su un terreno di confronto con una forte componente emotivo-aggressiva.

Rischia, anzi, di essere deleterio immaginare di mettere in crisi il dialogo includendo nella partecipazione al dibattito persone autorevoli, illustri scienziati, uomini di cultura o di fede, perché questo non fa che favorire il consolidamento delle posizioni che ci si prefigge di contrastare.

Davanti a tutto ciò non esiste, né del resto può esistere, alcun algoritmo che sia in grado di aiutarci a fare chiarezza, per discriminare, cioè, le informazioni vere da quelle false. Al massimo, si potrebbe arrivare ad avere un algoritmo in grado di valutare un contenuto per una serie di caratteristiche ben individuate, ma non perché le informazioni in esso contenute siano vere. La verità non può essere letta da un sistema, e probabilmente nemmeno da un essere umano, data la natura complessa e spesso non accessibile della realtà.

Per questa ragione, anche il cosiddetto fact checking ha uno scarso impatto su chi ha diffuso e condiviso una notizia falsa: un individuo non cambierà di certo opinione se un esperto bolla la sua fonte di informazione come inattendibile. Al contrario, quello che osserviamo quando scomponiamo i flussi di informazione che si muovono nelle piattaforme social è che esistono narrazioni che si incrociano su un piano che presenta diverse imperfezioni. Saper leggere i dati è complicato, saperli interpretare pretendendo la verità assoluta è, invece, proprio un'utopia.


Iniziamo da alcune parole chiave: debunking, fact checking e polarizzazione.

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Pagina 81

Dall'epoca della diffusione della radio e dei totalitarismi, gli studi sulla comunicazione di massa nei media tradizionali hanno analizzato gli strumenti di formazione e di persuasione dell'opinione pubblica, andando a identificare l'esposizione e la percezione selettiva quali driver fondamentali. Mauro Wolf , in un testo classico sul tema della comunicazione di massa ricorda che «i componenti dell'audience tendono a esporsi all'informazione congeniale alle loro attitudini e a evitare i messaggi che sono invece difformi» e che «le campagne di persuasione sono ricevute soprattutto da individui che sono già d'accordo con le opinioni presentate o che comunque sono già sensibilizzati». Negli anni Sessanta, il sociologo Josep Klapper spiegava che «se la gente tende a esporsi soprattutto alle comunicazioni di massa secondo i propri atteggiamenti e i propri interessi, e a evitare altri contenuti, e se per di più tende a dimenticare questi altri contenuti appena se li trova davanti agli occhi e se, infine, tende a travisarli anche quando li ricorda, allora è chiaro che la comunicazione di massa molto probabilmente non cambierà il punto di vista. È di gran lunga molto probabile anzi che essa rafforzerà le opinioni preesistenti.»

In un libro recentissimo, The Enigma of Reason, gli psicologi cognitivi Hugo Mercier e Dan Sperber offrono una visione molto interessante sul tema, dicendo fondamentalmente che lottare contro il pregiudizio di conferma è inutile.

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Pagina 84

Siamo vittime di quelle che molto prima Francesco Bacone chiamava Idola, le false nozioni che una volta penetrate e assunte come veritiere fanno fatica ad abbandonare la nostra mente. "Una volta adottata un'opinione, l'intelletto umano riconduce tutto il resto a supportarla e a essere concorde con essa". Non è dunque una scoperta dei nostri tempi quello che il filosofo inglese già nel diciassettesimo secolo riteneva alla base delle false credenze e delle convinzioni che minano la conoscenza certa di un fenomeno.

Ma il dubbio in realtà era già venuto al padre del pensiero occidentale.


«Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell'antro; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo, per via della catena. [...]

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Pagina 125

Conclusioni




                        Chiese a Marco Kublai: «Tu che esplori intorno e vedi i
                        segni, saprai dirmi verso quale futuro ci spingono i
                        venti propizi».
                        «Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla
                        carta né fissare la data dell'approdo. Alle volte mi
                        basta uno scorcio che s'apre nel bel mezzo d'un
                        paesaggio incongruo un affiorare di luci nella nebbia,
                        il dialogo di due passanti che s'incontrano nel viavai,
                        per pensare che da lì metterò assieme pezzo a pezzo la
                        città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto,
                        d'istanti separati da intervalli, di segnali che uno
                        manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città
                        cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e
                        nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi
                        credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre
                        noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del
                        tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t'ho
                        detto.»
                                              Italo Calvino, Le città invisibili



La cultura della polarizzazione e l'emergenza della post-truth sono due dei fattori collegati ai timori per la crisi della democrazia così come l'abbiamo conosciuta nel corso degli ultimi due secoli.

Qual è il ruolo dei social media in questo contesto? Possono informare, mobilitare, coinvolgere e promuovere la democrazia stessa. Lo si è visto nei tentativi - in parte non realizzati - della Primavera Araba. Ma i social media possono anche rappresentare una grave minaccia se si fanno portatori di informazioni sbagliate, create ad arte o frutto dell'ignoranza, che hanno l'effetto di stravolgere la realtà. Il meccanismo non è caratteristico solo dei social network, ma con essi, però, si verificano simultaneamente alcune situazioni che producono un effetto difficilmente contenibile per dimensioni e velocità completamente nuovi. Anche se le dinamiche sono antiche, è il processo di diffusione ad essere inedito. E gli effetti visibili, anche.

Prima di tutto bisogna considerare la "disintermediazione" caratteristica della rete, che offre a chiunque diritto di parola e l'opportunità di porsi come emittenza al di là di meriti personali, curricula, conoscenze specifiche. È il trionfo dell'uomo comune che erode spazio all'emittenza tradizionale e all'élite costituita con non pochi problemi di credibilità e di rappresentatività sociale. Chi, fino ad alcuni anni fa, era depositario di informazione e conoscenza, ora è rimpiazzato.

Ci sono poi alcuni altri strumenti specifici della rete, come cookies e algoritmi, cbe hanno un ruolo essenziale nel modello di selezione delle notizie e di acquisizione delle informazioni. Secondo uno studio recente, circa il 63% degli utenti del web ottiene notizie attraverso i social media utilizzando fonti certamente più dinamiche e personalizzate, ma meno verificate e soprattutto verificabili (proprio per quel meccanismo di disintermediazione che è essenza stessa del web).

Questo favorisce - online più che altrove - l'esposizione selettiva a una determinata agenda di notizie che è il riflesso dei nostri interessi. Con "esposizione selettiva" si intende la tendenza individuale a decidere cosa vogliamo leggere, in modo che si crei una comfort zone in cui essere al sicuro. Uscire dai propri rassicuranti confini è il motore della crescita di ogni essere umano; incontrare ciò che c'è al di là, però, è anche uno dei timori più radicati. Da sempre.

Ogni volta che entriamo in contatto con una nuova informazione, perciò, il processo di selezione non è strettamente vincolato alla sua reale fondatezza: è come dire che le nostre certezze sono tenute insieme da una coerenza che spesso è guidata da una certa solidità (o anche instabilità) emotiva. Ci stiamo avvicinando, così, a un concetto che è probabilmente alla base di tutta la questione della post-truth e del problema della disinformazione sul web: ciascuno di noi raccoglie input e stimoli che deve selezionare e poi filtrare. Grazie a internet e ai vari meccanismi che favoriscono ricerche personalizzate su Google; grazie ai news feeds su Facebook; grazie ai suggerimenti di amicizia, all'adesione a gruppi o a pagine da seguire - sulla base dei nostri interessi e di quello che più frequentemente cerchiamo - e, ancora, grazie alle liste su Twitter, ognuno di noi può scegliere di vivere in un mondo virtuale cucito su misura, e condividerlo con utenti che fanno esattamente la stessa cosa.

Chi cerca il fascino della teoria del complotto, che mette in discussione tutto il senso comune, troverà ciò che cerca; e lo troverà anche chi si erge a paladino della verità assoluta della scienza. Sul web è possibile trovare la propria nicchia di riferimento che apparirà plausibile e sostenibile.

Si è visto, nel corso di queste pagine, come un ambiente fortemente disintermediato porti, in modo spontaneo, alla formazione di gruppi che cooperano per supportare vicendevolmente le proprie posizioni attraverso informazioni (o interpretazioni) non necessariamente vere, verosimili o verificate. Quello che conta davvero non è l'aderenza ai fatti, quanto la conformità con il credo condiviso e con la propria visione del mondo.

L'autoreferenzialità così regna sovrana, e gli "espertismi" imperversano e animano le giornate sui social networks.

I famosi quindici minuti di celebrità sono diventati sistema: ognuno promuove se stesso e la propria chiave interpretativa della realtà attraverso una ricerca costante di approvazione che arriva dalla pioggia di like o di pretesti per innescare discussioni feroci che perdono ogni senso, se non quello di rincarare le distanze tra noi e l'altro, per ridefinire un'identità spesso labile, volubile e nebulosa.

I tanti che oggi si riscoprono paladini della "Verità" fanno un'assunzione forse errata. Ovvero, pensare che esistano per ogni cosa verità assolute. In totale contrapposizione al metodo scientifico e quindi col processo conoscitivo.

Il pro-scienza che professa l'infallibilità del metodo scientifico come fosse un dogma con tanto di casta sacerdotale che esercita il rito è davvero cosi diverso dal complottista più incallito? Il principio fondativo della scienza è la scepsi. L'Enciclopedia Treccani la definisce così: «scèpsi: dal greco skèpsis ("ricerca", "dubbio"), indica l'esame critico circa il valore della conoscenza, compiuto mettendone in dubbio sistematicamente i principi e senza mai giungere a conclusioni definitive. Da esso deriva il termine scetticismo».

Lo strumento del dubbio dovrebbe essere alla base anche della ricerca sul tema delle fake news, per uscire da uno schema di dibattito pubblico che sta diventando sempre più rigido e manicheo.

Se ne parla molto facendo confusione, a volte se ne discute in modo strumentale.

Il dibattito sulle fake news sta diventando esso stesso una fake news.

L'atteggiamento di "urlare contro" è diventato modus operandi della comunicazione ad ogni livello, anche nella comunicazione scientifica.

Non c'è dialogo, ma monologhi e tentativi di sopraffazione dell'avversario; non importa con quale argomento, l'obiettivo è annichilire.

Quello che è un problema articolatissimo e affascinante, perché tocca il rapporto dell'essere umano con la complessità, è diventato un'etichetta semplificante usata anche in politica per delegittimare e polarizzare. L'espressione fake news, attualmente, non identifica nulla; lo abbiamo anche volutamente escluso dal titolo del libro.

Gli ultimi risultati della ricerca in materia, però, hanno confermano che maggiore è la polarizzazione, più è alto il consumo di informazioni strumentali (e questo è vero sul cambiamento climatico, sulle vaccinazioni, sulle politiche economiche).

Dove c'è complessità e incertezza, si cerca semplificazione e sicurezza. Tutto si riduce a un gran polverone rimuovendo il fatto che il gap è in realtà incolmabile.

Ora è chiaro che la segregazione si autoalimenta con la polarizzazione, che il business model dei social premia popolarità e polarizzazione, che la sfiducia polarizza. I bias fanno tutto il resto - il confirmation bias soprattutto.

E post-truth forse è solo l'emergere dell'essere umano nella sua più totale e profonda esigenza di emanciparsi dalla dipendenza dagli altri, degli intermediari. Adesso che tutta la conoscenza dell'umanità è a portata di click vogliamo esercitare il nostro diritto di scegliere liberamente. Forse un tentativo di emanciparsi anche da se stessi che, senza l'accettazione dei limiti dell'essere umano, porta inevitabilmente a creare nuovi miti e nuovi dei.

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