Copertina
Autore Giovanni Rebora
Titolo La civiltà della forchetta
SottotitoloStorie di cibi e di cucina
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2002 [1998], Economica 200 , pag. 214, dim. 140x210x20 mm , Isbn 978-88-420-6150-2
LettoreAngela Razzini, 2002
Classe alimentazione , storia sociale
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice

Premessa                                    VII

Il grano e il pane                            3

La zuppa col pane, la polenta, la minestra
   e la pasta                                13

Le paste ripiene                             31

L'acqua e il sale                            35

Il formaggio                                 37

La carne                                     47

Il cortile                                   59

Il pesce                                     63

Salumi e insaccati                           77

Ortaggi e frutta                             95

Il grasso era buono                         107

Le spezie                                   115

L'Atlantico, le Indie Orientali e quelle
    «Occidentali»                           121

Dalla penisola iberica alle lontane Americhe:
    la via dello zucchero                   125

Dall'Europa all'America                     143

Mangiare alla stessa mensa                  157

Mangiare e bere                             169

Pranzare con giudizio                       179

Bibliografia                                187

Appendice  A tavola con Colombo             193

    Anguilla a rocchi, p. 196 - Condimento di
    pesce alla ligure (chiamato anche salsa
    cannellina), p. 197 - De li fegatelli, p.
    197 - Teglia di pernice, p. 198 - Pernice
    in «adubo», p. 199 - Ricetta del coniglio,
    p. 200 - Ricetta della lampreda, p. 201 -
    Carciofi con carne, p. 201 - Verdura di
    asparagi, p. 202 - Carne di agnello con
    tartufi, p. 202 - Panada di carne o di
    pesce, p. 203 - Salsa buona per pesce di
    media grossezza destinato al forno, p. 204
    - Salmone in casseruola, p. 204 -
    Marzapane, p. 205

L'autore                                    207
 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina VII

Premessa



L'età moderna comincia alla fine del Quattrocento. Si dice sempre così, in omaggio a una convenzione universitaria.

Per quanto queste convenzioni possano essere arbitrarie, la caduta di Costantinopoli in mano a Maometto II segna la fine di un mondo sopravvissuto fino al 29 maggio 1453. Il 1492, con la scoperta dell'America (12 ottobre), avvenuta pochi mesi dopo la conquista di Granada (aprile 1492) e l'espulsione dalla penisola iberica dell'ultimo re islamico rappresenta anch'essa una data memorabile e l'inizio di una nuova era, anche (seppure con molti ritardi) per la storia dell'alimentazione sia in Europa sia in America, in Africa ed in Asia.

Intanto in Gran Bretagna la fine della guerra dei Cent'anni combattuta su suolo francese e la fine della guerra delle Due Rose fanno si che il Regno d'Inghilterra provi ad organizzarsi, finalmente libero dagli antichi legami con la terraferma.

In Francia finisce con Carlo il Temerario l'indipendenza della Borgogna, alleata degli inglesi contro gli Armagnacchi di Giovanna d'Arco, ma il conte di Fiandra porterà con sé, insieme con il Toson d'oro, anche lo splendore un po' arcaico dell'autunno del Medioevo: un poco di quella cultura rimarrà in Piemonte, nel Marchesato di Saluzzo. In Fiandra nascerà l'erede ai troni di Castiglia, di Aragona, di Navarra: Carlo I d'Asburgo, poi Carlo V imperatore. Così un poco della cultura di Fiandra andrà in Spagna e viceversa: il flamenco rimarrà in Andalusia, le bodegas nelle Fiandre.

Se Venezia finirà per spendere troppe energie e troppo denaro per difendere i suoi possedimenti coloniali in Grecia, Genova ritirerà i suoi investimenti in Oriente piano piano, senza impegnarsi in guerre dispendiose ed i genovesi andranno ad occupare in Andalusia e nell'ex Regno di Granada il posto degli arabi e degli ebrei, cacciati da una politica sconsiderata. A Siviglia i genovesi erano già saldamente insediati alla metà del XIII secolo, e così nel Regno di Granada. Alla fine del XV secolo, su 500 mercanti di Siviglia 350 erano genovesi, ed erano i più ricchi.


In Italia si era andato sviluppando nel Quattrocento quel fenomeno dagli splendidi risvolti culturali che chiamiamo Rinascimento.

Salvo il Regno di Napoli, il Trentino, il Piemonte torinese ed il Marchesato di Saluzzo (e forse qualche piccola enclave come il Marchesato di Finale), nel resto dell'Italia governavano signori e prìncipi italiani, oppure oligarchie italiane come a Venezia, a Genova ed a Lucca, oppure il papa, che distribuiva feudi ai suoi nipoti. Fatto sta che tutti questi signori, spesso capitani mercenari di estrazione nobiliare, ma anche banchieri e mercanti (oltre ai nipoti suddetti), godevano di grandi ricchezze ed avevano, grazie ai prestiti alle corone, o grazie a matrimoni con nobili italiani e stranieri, acquisto titoli nobiliari e feudi.

Essi non appartenevano all'antica nobiltà di ceppo germanico e scelsero di rinunciare alle forme «gotiche» per comunicare per mezzo di altre forme ispirate ad una ben più antica nobiltà, quella di Roma.

Questo fenomeno, che ha fatto scrivere migliaia di pagine, fu ciò che chiamiamo Rinascimento e con questo fenomeno cominciò anche un «modo di alimentazione» diverso da quello medievale. Al Rinascimento è legato l'altro fenomeno, un poco più antico, che fu l'Umanesimo.

Bartolomeo Platina, un umanista, aveva scritto in latino le ricette di Maestro Martino (un cuoco scrittore) ed altre, tratte da libri in volgare. Il volume non aveva nessuna utilità pratica, ma conferiva dignità letteraria all'argomento. Non fu il primo libro di questo genere tradotto dal volgare in latino, ma quella di Platina fu un'operazione umanistica che ci propone un compendio dell'ultima cucina medievale, quella che persisterà, in parte, nella pratica alimentare popolare finché non arriveranno i prodotti americani.


Queste brevissime note introduttive ad una storia breve dell'alimentazione dovrebbero riguardare la struttura (cioè la gente) ed i fenomeni di lunga durata, purtuttavia l'economia e l'antropologia dell'alimentazione risentono anche direttamente dei grandi avvenimenti politici, dei mutamenti dell'assetto territoriale dei regni, delle grandi scoperte, degli esiti delle guerre, delle fortune e delle sconfitte degli Stati ed anche degli accordi mercantili che una vera e propria classe sociale, quella dei mercanti internazionali, riusciva a stipulare nonostante le frequenti guerre e le differenze religiose che, soprattutto in età moderna, dividevano l'Europa.

I mercanti infatti non scambiavano solo merci e denaro, ma anche, idee e soprattutto mode, usi e costumi, compresi i modi di cucinare; essi abitavano per anni lontano dal loro paese, portavano con sé servi e cuochi, ma quando tornavano a casa anche i servi ed i cuochi avevano appreso molte cose e qualcuno di essi si fermava nella città ospite ad esercitare la sua arte.


So bene che quando si parla genericamente del passato si pensa ad un lungo periodo di fame endemica, ma occorre tener presente che un affamato non può lavorare, soprattutto se deve salire sui ponteggi di una costruzione rinascimentale oppure vogare su una galea o navigare a vela.

Qui tratterò soprattutto delle risorse disponibili e delle possibili scelte del consumatore, avvertendo che i ricchi sceglievano ed i poveri dovevano accontentarsi loro malgrado. La pura della fame si aggirava per l'Europa e spesso diventava realtà; ritengo però che le risorse, rispetto alla popolazione, non fossero così scarse come si è creduto e che la gente, in fondo, avesse a disposizione sufficienti prodotti alimentari; l'infelicità di chi non disponeva di denaro sufficiente non dipendeva, forse, dalla mancanza del necessario, ma dall'impossibilità di attingere al superfluo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 63

Il pesce



La cultura mediterranea ha fatto del mare il luogo del pericolo, del viaggio rischioso (è il caso di ricordare Ulisse?), della via di comunicazione veloce e poco costosa, ma perigliosa. I documenti assicurativi ed i noli marittimi medievali nonché le locuzioni dialettali del più recente passato ci ricordano che quando il marinaio attracca ad un molo è giunto «a salvamento».

Ulisse varca le colonne d'Ercole e perisce, il mare non ama i curiosi (si dice). Solo nei paesi dell'Atlantico e del Mare del Nord il mare è considerato come una risorsa. Mai nel Mediterraneo e tanto meno nelle isole. Nel mondo medievale il potere e la ricchezza sono legati alla proprietà terriera e alle greggi (pecunia).

Homo sine pecunia imago mortis. Il pescatore è fuori dal territorio, rischia la vita per procurarsi il cibo, non possiede greggi e la sua preda non è sicura come il prodotto dell'agricoltura o quello dell'allevamento. Se il mare è tempestoso non si esce e, quindi, non si produce. La tempesta può durare giorni ed il mare può essere inagibile per settimane; questo vuol dire assenza di prede, può voler dire fame.

Nessuno voleva fare il pescatore. Ce lo ricorda F. Carletti: «[...] essendo che gli spagnoli terrebbono il fare questa cosa vilissima [...]» (v. più avanti il capitolo Dall'Europa all'America).

Al Bakri, un geografo arabo del XII secolo, racconta che in Tunisia la terra apparteneva agli arabi e che i cristiani, emarginati, facevano i pescatori, l'ultimo dei mestieri, tanto infimo che Gesù affidò la sua Chiesa a Pietro, un pescatore, l'ultimo nella scala sociale.


I nobili, i guerrieri, i forti, mangiano quantità industriali di carne, i signori feudali sono carnivori, i ricchi possiedono terre e greggi o mandrie, il macellaio è un artigiano che diventa ricco. La carne è proibita nei giorni di digiuno, il pesce no. Quindi il pesce non nutre come la carne. Lo so che non è vero (almeno in parte), ma se si permette di mangiare pesce in quaresima, al venerdì e nei giorni di vigilia, vuol dire che «è come digiuno». Si tenga anche conto del fatto che i pesci «popolari», quelli catturati in grandi quantità (sgombri, acciughe, sardine, ecc.), non sono graditi ai ricchi, che preferiscono i grandi «pesci di scaglia», i pesci bianchi (sparidi, branzini, ecc.); questi pesci sono casuali, frutto di cattura, anche se relativamente frequente, secondo la stagione; non sono programmabili, ma ricercati, e quindi costosi.

Il nobile ed il ricco fanno a gara per assicurarsi un gran pesce al venerdì e al sabato, sono in grado di pagare somme da cinque a dieci e perfino venti volte il prezzo della carne migliore. Il pescatore vende questi pesci e talvolta li regala al nobile in cambio di favori; mangia solo quelli meno vistosi, e solo nel caso di mancata vendita o di prodotto invendibde perché rotto nel momento di trarlo dalle maglie della rete.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 95

Ortaggi e frutta



L'uso mediterraneo dei prodotti dell'orto è stato assimilato (in modo arbitrario e profondamente sbagliato) alla cucina «povera», al cibo dei «villani», cioè dei coltivatori. Si fa frettolosamente riferimento a Giulio Cesare Croce e al suo Bertoldo (citato invece a proposito da Massimo Montanari nel suo Convivio), oppure alla novellistica medievale, alla satira del villano (Merlini) e a tante altre cose per attribuire un modo alimentare a base di prodotti dell'orto ai contadini ed ai villani, cioè ai poveri. Questo modo di intendere la qualità della vita è cittadino e soprattutto cortigiano. I comportamenti del contadino, il suo linguaggio ed i suoi «modi villani» sono contrapposti a quelli «urbani». Quando conviene. La satira del villano oppure l'esaltazione della sua vita si presenta nella letteratura secondo il momento politico: dalle Bucoliche, composte quando conveniva che il «pio» agricola se ne stesse in campagna, alla satira del villano di Matazone da Calignano e di tante altre, scritte quando pareva opportuno che la gente andasse ad ingrossare le file dei lavoratori cittadini, fino all'Arcadia, che esalta perfino la pastorizia, per non parlare delle penose contraddizioni degli intellettuali di questo secolo. Non è detto che il contadino, e tanto meno l'ortolano, debba essere povero ad ogni costo, né che le sue risorse alimentari siano peggiori di quelle urbane, offerte all'artigiano che le compra al mercato, o al letterato che le mangia a casa del suo protettore. Certo è che i prodotti dell'orto e del cortile sono a disposizione dell'ortolano che li coltiva per il mercato o del contadino che ha diritto all'orto (esente da prelievi da parte del signore) ed all'allevamento di alcuni animali, escluso, spesso, il maiale. Ciò significa che per un ortolano la verdura può essere un consumo quotidiano e può sostituire altri cibi, al prezzo del proprio lavoro, del proprio tempo, ma senza dispendio di moneta. Siccome la verdura è prodotta dagli agricoltori, che devono, per definizione, essere poveri (non sono milites oratores: sono laboratores) e siccome contadini e ortolani possono mangiare la verdura che non hanno venduto (come i pesci per i pescatori), allora vuol dire che quel cibo è «povero».

| << |  <  |