Copertina
Autore Gigi Roggero
Titolo Intelligenze fuggitive
SottotitoloMovimenti contro l'università azienda
Edizionemanifestolibri, Roma, 2005, Esplorazioni , pag. 144, cop.fle., dim. 145x212x10 mm , Isbn 978-88-7285-388-7
LettoreRiccardo Terzi, 2005
Classe universita' , movimenti
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Indice

INTRODUZIONE                                               7

1. LO SCARDINAMENTO DELLA DIALETTICA PUBBLICO-PRIVATO     13

I due movimenti del mutamento                             13
Dentro lo shopping mall del sapere                        15
Università e mercato del lavoro:
    le due facce della flessibilità                       21
Le gabbie della struttura accademica                      24
La scelta tra resistere senza prospettive e
    trasformare le prospettive: verso l'autonomia?        30

2. L'AMBIVALENZA DELLA «PERIFERIA ACCADEMICA»:
   TRA PRECARIZZAZIONI E NUOVE FIGURE SOGGETTIVE          35

Vecchia e nuova precarietà                                35
Quando l'esercito di riserva diventa strato portante      41
Ambivalenza della flessibilità ed eccedenza della passione43
«Sono Stefano, precario»                                  50

3. L'ECCEDENZA DEI SAPERI E LA CRISI DELLA MISURABILITΐ   53

Lo spillover della formazione rispetto ai luoghi ad essa
    deputati                                              53
La base materiale di un paradigma in mutazione            56

4. LA MOBILITAZIONE                                       65

La composizione della mobilitazione                       65
Dalla femminilizzazione dell'università alla
    femminilizzazione della mobilitazione?                68
Le prospettive: dal diritto allo studio alla critica
    dei saperi                                            71
Dentro la crisi della rappresentanza                      76
Rete e forme organizzative                                80
Pratiche tecnologiche alternative                         84
Il processo di soggettivazione nello spazio comune
    del movimento                                         87

5. NUOVE PRATICHE DI AUTONOMIA                            95

Piangere per la fuga dei cervelli oppure organizzarla?    95
Un'altra università qui e ora                             97
Nuove pratiche di autonomia                              101

6. LO SPAZIO TRANSNAZIONALE E LA FRONTIERA EUROPEA COME
   CAMPI DI AZIONE                                       109


CONCLUSIONI (PRECARIE): VERSO LA COSTRUZIONE DEI LUOGHI
    COMUNI DELLA FORMAZIONE, DELLA RICERCA E DEI SAPERI  115

BIBLIOGRAFIA                                             127

APPENDICE                                                131

 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE



    «"Questi sono manager medi, giornalisti, docenti come Kay,
    architetti che lavorano per grossi studi. Sono i poveri
    soldati della maledetta fanteria, nell'esercito dei
    professionisti. [...] Le professioni basate sulla conoscenza
    sono l'ennesima industria estrattiva. Quando le vene si
    esauriscono, veniamo scaricati, come un sacco di software
    scaduto. Mi creda, capisco bene perché i minatori sono
    entrati in sciopero." "Caspita, sono colpito. Chelsea Marina
    fianco a fianco con la vecchia classe operaia..."»

                                 (J. Ballard, Millennium People)




Chelsea Marina è finalmente in subbuglio. Le mobilitazioni dei ricercatori precari in Italia e in Francia, parallelamente all'appello contro la guerra alle intelligenze sottoscritto da migliaia di intellettuali e lavoratori della conoscenza, sono i felici eventi che hanno accompagnato l'alba del 2004. Non è certo stato il '68, diranno arricciando il naso molti scettici. Θ vero; e poi, si sa, c'è sempre qualche valle più verde di quella che stiamo faticosamente abitando. D'altro canto, le voci che parlano in questo libro non nascondono carenze e difficoltà, tentennamenti e contraddizioni delle lotte contro il Disegno di legge Moratti, che prevede – per farla breve – l'abolizione della figura del ricercatore, rimpiazzata da contratti di quattro anni rinnovabili per altri quattro. Da qui è cominciata la mobilitazione in Italia. O meglio, questa è semplicemente stata l'occasione, perché la precarizzazione non se l'è certo inventata la ministra confindustriale: aziendalizzazione e mercificazione delle conoscenze hanno radici profonde, e sicuramente non solo italiane. A questo processo, del resto, non hanno mancato di dare il loro apporto i centro-sinistri Berlinguer e Zecchino, tanto per confermare che la battaglia bypassa gli schieramenti istituzionali. La linea di divisione è tra chi cerca a tutti i costi di privatizzare i saperi, e chi ne pratica la libera circolazione. Tra i sostenitori di un'istruzione asservita alle leggi del mercato e al potere dello Stato, e chi cerca di costruire nuovi spazi pubblici di condivisione, autonomi e radicalmente altri dallo Stato e dal mercato.

Per la verità, la riforma permanente e il processo di mutamento dell'università e del mondo della formazione, non è stato accompagnato in Italia da un vivace dibattito. La poca letteratura esistente, perlopiù critica nei confronti dell'università attuale, ha spesso finito per spianare il terreno alle riforme Berlinguer-Zecchino-Moratti, dando il benvenuto al Bologna process, nel nome di una maggior produttività, efficienza, aziendalizzazione e di un malinteso attacco ai privilegi dei docenti (molto meno a quelli baronali), costituendo così il background ideologico e alquanto populista del recente Ddl Moratti. Si pensi ad esempio ai «tre tradimenti» dell'università (nei confronti dello Stato, della ricerca e degli studenti) che campeggiano nel titolo di un volume di Raffaele Simone, secondo la sua stessa definizione un «docente pentito» (ma ancora in attività). La ricetta da lui consigliata è a base di selezione, competizione sfrenata tra gli atenei, quantificazione dei criteri dello studio, dell'insegnamento e della ricerca, criminalizzazione del «fuoricorsismo» (e persino sua medicalizzazione, attraverso strutture di psicologi per malati e colpevoli), contratti molto flessibili (all'insegna della «sana paura di perdere il posto»), robuste iniezioni di mercato, impresizzazione persino del singolo docente (Simone 2000).

Le recenti mobilitazioni del mondo dell'università aprono invece il campo a una differente narrazione. Crollata l'immagine del felice imprenditore di se stesso, si affaccia quella del precario, non solo vittima dell'incertezza di vita e di reddito, ma soprattutto soggetto di desideri e comportamenti irriducibili alle ragioni del mercato e dei riformatori, più o meno illuminati che siano. E nel far questo, si trova al fianco di una generalizzata presa di parola dell'intero mondo della formazione – si pensi all'esperienza dei comitati per la difesa della scuola pubblica, capaci di metttere insieme insegnanti e genitori degli alunni. Ma da subito converrà sgombrare il campo da un possibile pericoloso equivoco. Questo libro non sostiene affatto che i knowledge workers siano il nuovo soggetto centrale, il segmento avanzato che rimpiazza la classe operaia nella posizione di avanguardia. Non si tratta neppure della classica ricomposizione dei lavoratori in una figura unitaria e omogenea, bisognosa di essere rappresentata da un risoluto gruppo, partito o sindacato che si faccia interprete della volontà generale. Con ciò, si badi bene, non si intende contrapporre l'esaurimento della rappresentanza a forme immediatamente costituenti di autorganizzazione dei lavoratori cognitivi. Piuttosto, ci interessa focalizzare l'attenzione sulle pratiche, contraddittorie e difficoltose, di chi tenta di superare i logori meccanismi della rappresentanza senza rinunciare, all'occorrenza, ad attraversarli. Allora, la frase di Ballard posta in epigrafe va letta in maniera diversa, o almeno a noi è utile interpretarla come la potenziale messa in comune delle capacità di cooperazione e conflitto delle differenti figure del lavoro vivo contemporaneo, che sono al contempo gelose della propria irrinunciabile singolarità e disposte a interagire in reti collettive. Si tratta di un processo genealogicamente e intrinsecamente ambivalente, per anticipare subito un concetto chiave che ci guiderà nell'analisi delle trasformazioni del mondo (della formazione e non solo). Se, come qualcuno afferma, «il principale contenuto della riforma è stato dire che l'università è un posto come un altro» (Luca – Roma), allora bisogna chiedersi cosa questo significhi nella percezione e nelle forme di vita di chi nella «fabbrica dei saperi» vi lavora. La stizzita reazione elitaria di chi sente minacciati i propri – immaginari o reali – privilegi e lo status di abitante della torre d'avorio, si intreccia contraddittoriamente con l'affermazione di parzialità, irrappresentabilità e alterità propria di chi si percepisce come soggetto di una rete cooperativa ben più ampia delle anguste cittadelle della conoscenza.

In questo libro a parlare sono coloro che si sono riconosciuti nella definizione di ricercatori precari e si sono messi in rete non solo per lottare contro il Ddl Moratti, ma anche per ripensare dalle fondamenta il sistema universitario e iniziare a sperimentare pratiche alternative. Attraverso una trentina di interviste ai principali protagonisti della Rete dei ricercatori precari nei nodi in cui è maggiormente presente (Milano, Bologna, Firenze, Pisa, Roma, Napoli, Cosenza), il ragionamento si snoda tra i processi di riforma, la struttura universitaria, la precarizzazione, l'emersione di nuove figure soggettive, le forme di aggregazione e organizzazione praticate, i limiti e le ricchezze della mobilitazione, le sue prospettive. La scelta degli intervistati è stata dettata dall'esigenza di comporre un quadro plurale e differenziato, in grado di restituire la complessità e singolarità che contraddistingue la Rete, í cui protagonisti non sono esclusivamente quelli che vi sono entrati con un solido background politico, ma anche soggetti che hanno avuto in questo contesto la prima o una delle prime esperienze di mobilitazione. Le elaborazioni qui presentate, al pari delle interviste raccolte, non pretendono di rappresentare il punto di vista generale o maggioritario tra i precari dell'università, quanto invece di indagare nella parzialità di comportamenti, pratiche e attività di coloro che hanno preso criticamente parola. Il doppio mutamento di paradigma — segnato dalle grandi trasformazioni che hanno attraversato la società e la formazione nell'ultimo quarto di secolo, e dall'emergere dell'altra faccia della flessibilizzazione e della precarizzazione, quella del conflitto e del sapere vivo — ci impone l'urgenza di nuovi occhiali attraverso cui leggere il mondo. Ecco perché torna a farsi pressante il bisogno di inchiesta, o — come preferiamo chiamarla — di conricerca, per definire un processo volto non solo alla produzione di nuova conoscenza, ma soprattutto alla trasformazione dell'esistente. Nel tentativo di costruire uno spazio di condivisione di esperienze, confronto collettivo e sedimentazione di pratiche e prospettive, ci piace pensare alla conricerca come superamento dell'iperspecializzazione dominante e critica degli steccati disciplinari — e dunque di potere. La voce di chi analizza i materiali non finge di mettersi da parte, per affidarsi a dati che si pretendono oggettivi, ma al contrario emerge nella continua relazione con le voci dei soggetti che sono protagonisti della narrazione. Per questo abbiamo scelto di dare ampio spazio ai brani delle interviste, a costo di rendere non sempre scorrevole la lettura. Insomma, la conricerca è un frammento di cooperazione sociale in cui i saperi circolano liberamente, una pratica non brevettabile e costitutivamente contraria a ogni copyright. Allora, se questo testo desse un piccolo contributo nello stimolare percorsi di inchiesta e conricerca che si avvicinino al numero di occasioni in cui se ne è parlato negli ultimi anni, avrebbe forse raggiunto un grosso risultato.

Gli spunti critici sull'università e la formazione che la maggior parte dei ricercatori precari offrono, sfuggono tanto alle nostalgie di un (mitico) passato in cui l'università era depositaria dei valori e delle tradizioni dello Stato-nazione (Fondi 2003), quanto alle apologie del (contraddittorio) presente di chi (da destra a buona parte della sinistra) rimprovera all'università di non essere un'azienda competitiva, produttiva e market oriented. Se la proposta di riforma della Moratti intende favorire «la formazione spirituale e morale, lo sviluppo della conoscenza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale e alla civiltà europea», un'altra formazione non può che riconoscere nel superamento dei confini statuali e nello spazio transnazionale il proprio terreno di azione e proposta, a partire dal tentativo di incidere e cambiare segno al processo di costruzione europea.

Il punto di provvisorio e precario arrivo, si spera possa essere l'elaborazione di utili materiali di ricerca e analisi sulla riappropriazione/rielaborazione del concetto di autonomia (a cui il lessico delle riforme ha estirpato la radice soggettiva) e sulla costruzione di una sfera pubblica alternativa sia allo Stato sia al mercato, esplorando le potenzialità, i problemi e i nodi aperti di quel nuovo principio di realtà incarnato nel movimento globale (DeriveApprodi 2003). Con questa categoria si intende prendere definitivamente congedo dall'etichetta giornalistica di «no global» appiccicata al movimento subito dopo la sua irruzione nell'evento Seattle dell'autunno '99, per restituire ad esso la legittima consistenza di soggetto attivo di un'altra globalizzazione, radicalmente differente da quella capitalistica. Nello spazio trans-nazionale — che porta nel proprio Dna non solo la determinazione delle multinazionali e dell'unificazione dei mercati, ma anche il segno profondo delle lotte e della loro vocazione a superare i confini statali (Hardt e Negri 2001) — si incontrano e confrontano molteplici esperienze di agitazione politica e conflittualità sociale, si sperimentano pratiche e linguaggi non più riducibili alla consunta dialettica centro-periferia tipica della dimensione internazionale. E in questo spazio aperto di politicizzazione e soggettivazione che gli intervistati, esplicitamente o implicitamente, si riconoscono. Θ qui che possono incontrare le poliedriche pratiche di dissidenza digitale — per dirla con Gorz — di chi non accetta che la propria attività, le proprie forme di vita e cooperazione e la stessa produzione di soggettività vengano misurate e ridotte alla forma del valore e della merce, di chi ne rivendica la pubblicità in quanto beni comuni. Insomma, esistono concreti segnali di insorgenza di un sapere vivo consapevole della propria eccedenza rispetto alla possibilità di una sua appropriazione privata, differenziandosi così dalla conoscenza come è definita dallo stesso Gorz, ossia un insieme di operazioni e procedure informatizzabili, cioè riducibili a formalizzazione e oggettivazione (cfr. Gorz 2003).

Se poi queste pratiche e mobilitazioni porteranno agli «stati generali del sapere» (Vecchi 2004), oppure ritorneranno alla quotidianità dei luoghi in cui si produce la merce conoscenza; se troveranno i propri luoghi comuni di confronto e azione o resteranno frammenti isolati e poco comunicanti; se legheranno le proprie sorti esclusivamente alla battaglia contro il Ddl Moratti, o se sapranno sollevare questioni di fondo, irriducibili a semplici istanze corporative e alla gestione dall'alto di rettori e baroni, è difficile a dirsi. Una cosa è certa: si è attivato un processo di soggettivazione, che forse è troppo poco per poterlo definire la costruzione di un nuovo spazio pubblico, ma sicuramente abbastanza per parlare di una breccia di defezione nelle mura della fabbrica dei saperi. Nuove forme di vita e possibilità di cooperazione eccedono i confini della merce e le briglie del valore. Se poi – come pare intravedersi – inizia a diffondersi la consapevolezza che non c'è nessuna Chelsea Marina da difendere, perché l'università e la formazione che ci lasciamo alle spalle non meritano le nostre lacrime, allora la scommessa è davvero degna di essere giocata. Qui e ora. Perché il futuro lo lasciamo volentieri a coloro che nel suo nome ci chiedono di sacrificare il nostro presente fatto di vita e irrinunciabili passioni.

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1. LO SCARDINAMENTO DELLA DIALETTICA
PUBBLICO-PRIVATO



    «La conoscenza è soltanto conoscenza.
    Ma il controllo della conoscenza — questa è la politica»

                                      (B. Sterling, Caos Usa)




I DUE MOVIMENTI DEL MUTAMENTO

Gli attuali processi che attraversano il mondo della formazione configurano uno scardinamento della classica dialettica pubblico-privato, laddove il primo termine era identificato con lo statale, il secondo con le grandi imprese capitalistiche. Questa dicotomia viene meno nella misura in cui è attaccata da un doppio movimento. Dall'«alto», come vedremo, attraverso una licealizzazione dei primi tre anni, una dequalificazione e ulteriore gerarchizzazione delle università pubbliche, e un irrobustimento di pochi e selezionati centri di eccellenza. Dal «basso», attraverso i movimenti e i comportamenti soggettivi di chi, pur lottando per il diritto allo studio, ha al contempo sottoposto a dura critica la standardizzazione propria dell'università di massa. I mutamenti del mondo della formazione degli ultimi anni, infatti, non sono stati determinati esclusivamente dalle iniziative legislative dei governi nazionali e dagli accordi europei, dalle riforme Zecchino-Berlinguer-Moratti o dalla conferenza di Bologna. In essi vive il segno profondo delle lotte e delle istanze dei movimenti dei decenni trascorsi, la tensione degli studenti-massa verso il proprio ruolo di operai della catena di montaggio dei saperi.

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Pagina 71

LE PROSPETTIVE: DAL DIRITTO ALLO STUDIO ALLA CRITICA DEI SAPERI

Oggi, forse per la prima volta, la classica dicotomia che ha accompagnato il dibattito tra i collettivi politici universitari degli anni Novanta, divisi tra rivendicazione del diritto allo studio e la pratica della critica dei saperi, può finalmente cessare. L'accesso all'università è stato in buona misura conquistato dai movimenti dal '68 in avanti: non in modo completo, certo, ma – come abbiamo visto nel primo capitolo – non più su quel livello è precipuamente collocato l'imbuto selettivo. Nel sistema statunitense dell'istruzione superiore, ad esempio, la selezione storicamente avviene attraverso la diversificazione istituzionale piuttosto che le differenze di accesso: i tre livelli della laurea, Bachelor, Master e Ph.D., si riflettono nella strutturazione della formalizzata gerarchia di community (o junior) college, college quadriennale e università. Eccellenza competitiva, ricerca e libertà di accesso vengono dunque associati ai diversi percorsi e luoghi dell'istruzione superiore, che a loro volta si differenziano per essere privati o statali, con un forte grado di competitività a tutti i livelli. Test attitudinali accompagnano lo studente dall'ingresso nel college via via per i vari gradi del percorso formativo, con valore non solo di orientamento ma di indirizzo rispetto alle capacità e conseguentemente ai percorsi da seguire, determinando spesso quel ridimensionamento delle aspirazioni individuali definito cooling-out process. Pur con tutte le differenze esistenti – e che continueranno a mantenersi – rispetto all'università italiana, anche in questo caso assistiamo a un processo in cui la selezione sempre più passa attraverso la differenziazione qualitativa piuttosto che la restrizione degli accessi al sistema di istruzione superiore nel suo complesso. Già negli anni Settanta Pierre Bourdieu analizzava la trasformazione del sistema dell'istruzione secondaria nei termini di un passaggio da meccanismi selettivi netti e dai confini ben delimitati, a processi di inclusione che potremmo definire differenziali (cfr. Bourdieu 1983). In questo contesto va dunque inserito anche il passaggio dalle battaglie sul diritto allo studio a quelle sulla critica dei saperi, qui introdotto dalle parole di Stefano: «Portare più gente all'università può apparentemente sembrare una politica culturale democratica: di fatto, quello che si fa non è aumentare l'offerta di modo che un maggior numero di persone possano acquisire una preparazione valida e profonda, e quindi anche utilizzabile sul mercato del lavoro; quello che è accaduto è che si è portata più gente all'università perché tutti più o meno si laureassero, anche per il famoso meccanismo del finanziamento legato al numero dei promossi e dei laureati, si è abbassata la richiesta, si è lasciati a se stessi gli studenti, la laurea tende banalmente a diventare un pezzo di carta, e così gli studenti escono senza avere ricevuto quella preparazione e scolarizzazione a cui avevano diritto. Così, la selezione si trasferisce a livello successivo: chi può permetterselo frequenta un master, chi non può permetterselo resta con il suo titolo di studio di dubbio valore. Quindi, un'operazione che aveva una potenzialità democratica, o spacciata come tale, finisce per avere l'esito di un'ulteriore selezione di classe» (Stefano – Milano).

D'altro canto, la labilità dei confini tra studio e lavoro è sempre più chiaramente visibile. Si pensi a studenti e dottorandi, che da questo punto di vista sono (sia soggettivamente, sia per quello che materialmente fanno) figure ibride, che ci parlano di come tutti – con gradi e posizioni diverse – producano dentro la «fabbrica dei sapori». Ma quanto si è detto significa anche che il piano della sfida è più alto: è immediatamente posto all'altezza dei saperi a cui si rivendica l'accesso. I collettivi che costruiscono lotte contro l'aumento delle tasse o per i servizi non stanno certo perdendo il loro tempo; ma queste rivendicazioni, se esclusive e separate dalla messa in discussione dei modelli formativi esistenti, rischiano di condurre ad una semplice attività sindacale, foss'anche radicale o particolarmente dura. Non è un caso che i tentativi di opporsi ai processi in atto basati su un semplice «no alla riforma», non solo non hanno avuto successo, ma hanno incontrato una scarsa adesione degli studenti. Θ stato così in Italia e in Francia, paesi in cui appena qualche tempo dopo le mobilitazioni dei ricercatori precari hanno aperto nuove prospettive. Θ in questo mutato scenario che vanno colte le nuove possibilità di trasformazione.

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UN'ALTRA UNIVERSITΐ QUI E ORA

Nel terzo capitolo abbiamo ipotizzato un sempre più visibile scollamento tra la cooperazione sociale e l'organizzazione capitalistica. La produzione di saperi e conoscenza è un angolo prospettico privilegiato attraverso cui guardare a questo processo, come efficacemente argomentato da Claudio: «I progetti che sto facendo possono esistere solo nel momento in cui dietro c'è tutta la comunità scientifica [...] Questo prevede proprio una diversa relazione, sia tra le persone che fanno il progetto, sia una diversa relazione per quanto riguarda i risultati della ricerca [...] Noi lavoriamo continuamente insieme, alla fine esce un singolo testo ed è difficile ricordarsi chi l'abbia scritto, perché si può intervenire facendo segnalazioni e integrazioni, quindi il testo è frutto di un pensiero collettivo che aiuta la ricerca. questo serve anche nella didattica, perché significa [...] che tutti gli studenti si possono scaricare dalla rete i testi, possono lavorare direttamente in rete, non devono comprare i libri, possono così accedere a contenuti scientifici alti» (Claudio - Napoli). Tutto bene, quindi? Siamo a un passo dalla liberazione, dal disfarci di un capitalismo non più in grado di reggere le proprie insanabili contraddizioni? In alcuni passaggi, l'analisi di Gorz sembra andare proprio in questa direzione, per esempio quando afferma: «L'economia dell'abbondanza tende di per sé verso una economia della gratuità e verso forme di produzione, di cooperazione, di scambi e di consumo fondate sulla reciprocità e la messa in comune, nonché su nuove monete. Il "capitalismo cognitivo" è la crisi del capitalismo tout court» (Gorz 2003, p. 34). Ma sarebbe ingenuo pensare che il sistema capitalistico si basi su elementi di pura razionalità. Θ questo il rischioso abbaglio che si nasconde agli angoli di percorsi analitici estremamente fecondi. Analogamente, negli ultimi anni le migliori interpretazioni su ciò che è stato definito postfordismo hanno saputo cogliere importanti linee di discontinuità rispetto alle dinamiche produttive e ai dispositivi di controllo fordisti, ambivalentemente determinate tanto dalle lotte sociali, quanto dalla risposta capitalistica. L'attuale scenario è contrassegnato dalla diminuzione della richiesta di lavoro per la produzione di merci materialmente tangibili, a fronte di un aumento di attività che portano a un limite estremo di tensione la misurabilità del tempo di lavoro e il suo ingabbiamento nella logica salariale. Informazione, sapere e linguaggio, su cui si basa la cooperazione produttiva oggi, non sono risorse scarse, il che fa potenzialmente saltare ogni legge dell'economia classica. E tuttavia, non necessariamente questa sovrabbondanza produttiva assume le forme della liberazione. Come scriveva Marx nel Frammento sulle macchine, nel momento in cui il lavoro immediato e la sua quantità scompaiono come principio dominante della produzione, quando «lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso sono passate sotto il controllo del general intellect» (Marx 1970, p. 403), allora diventa question de vie et de mort per il capitale continuare a misurare il tempo di lavoro. Va mantenuta la vigenza della legge del valore, laddove essa ha cessato di essere valida. In primo luogo, se da una parte il comando sembra dunque perdere ogni funzione di razionalità interna all'organizzazione produttiva, tanto da diventare per alcuni elemento di puro e inessenziale controllo rispetto alla cooperazione sociale, dall'altra – per dirla brutalmente – la coercizione e i rapporti di forza non possono essere espunti nel nostro orizzonte analitico per fiducia nei meccanismi della ragione. In secondo luogo, la soggettività reale non agisce necessariamente forme di vita e di cooperazione alternative e di liberazione rispetto all'esistente: nei comportamenti della moltitudine, la singolarizzazione è l'altra faccia dell'individualismo, l'autovalorizzazione del carrierismo, l'autonomia dell'autosfruttamento. E i confini tra i due lati non sono tracciati da pure scelte di vita o atti di incontaminata volontà.

L'azione politica, per dirla con Virno, si pone dunque nei termini della rottura della statizzazione dell'intelletto generale, del suo congelamento nell'amministrazione. O, per dirla in altro modo, della divisione di ciò che è unito (intelletto pubblico e appropriazione capitalistica), e dell'unione di ciò che è diviso (intelletto pubblico e azione politica). L'intelletto generale, come criterio di azione politica, è quindi la risorsa comune alla moltitudine: l'uno diventa la premessa che permette ai molti di vivere in quanto molti, impedendone la sintesi in una nuova unità (Virno 1994). La dimensione problematica si configura proprio tra spazio di soggettivazione e costruzione di nuova sfera pubblica, tra potenzialità dell'eccedenza dei saperi e oltrepassamento della forma valore, tra crisi della rappresentanza e nuovi luoghi comuni non rappresentativi. Le recenti mobilitazioni si collocano pienamente dentro a questo spazio di crisi, senza aver ancora aggredito in positivo i nodi del problema. E così come la stessa crisi della rappresentanza non dipende esclusivamente dai processi di ristrutturazione capitalistica, ma anche dalle lotte operaie, proletarie, dei giovani e delle donne dei decenni passati e dai comportamenti sociali delle odierne figure del lavoro vivo, allo stesso modo non saranno certo le «oggettive» dinamiche sociali e produttive a fornire le risposte che si dispiegano sotto i nostri occhi.

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CONCLUSIONI (PRECARIE):
VERSO LA COSTRUZIONE DEI LUOGHI COMUNI
DELLA FORMAZIONE, DELLA RICERCA E DEI SAPERI



                            «Nessun luogo vale un assedio».
                             (Wu Ming 2, Guerra agli umani)



Θ dunque crollata la torre d'avorio, per liberare finalmente intelligenze che lì dentro sono state finora congelate? Se non si vuole scambiare l'allusione per illusione, conviene nutrire dei dubbi. Ha indubbiamente ragione Castells quando afferma: «Contrariamente all'ipotesi dell'isolamento sociale suggerita dall'immagine della torre d'avorio, le università sono fra i principali agenti di diffusione dell'innovazione sociale, perché generazione dopo generazione i giovani le attraversano, aggiornandosi e abituandosi a nuovi modi di pensare, gestire, agire e comunicare» (Castells 2002, p. 409). Eppure, invasa dal mercato come veicolo di diffusione dell'innovazione sociale che in essa si produce, dal basso l'università è ancora percepita come una cittadella avulsa dalla vita reale, fatta di lavoro, alienazione e sfruttamento, luogo irraggiungibile in cui si difendono interessi meramente corporativi. Su questo termine, un po' di preliminare chiarezza è necessaria. Θ certo ingeneroso accusare – come spesso si è fatto – di corporativismo le rivendicazioni dei ricercatori, in quanto ciò che viene definito in questo modo (la richiesta di più soldi e migliori condizioni di lavoro) è elemento che caratterizza le lotte sociali, è parte del loro linguaggio della parzialità. Tuttavia, questa critica evidenzia anche un problema di difficile comunicazione con l'esterno; o meglio, nel momento stesso in cui i confini tra interno ed esterno si sciolgono, permane il rischio di una chiusura nel peggiore dei casi su nicchie di (ripetiamo ancora: reali o immaginari) privilegi, nel migliore sul proprio (supposto) specifico, comunque la mancata apertura ai conflitti e alle istanze dei soggetti sociali. Al contempo, non va taciuta la difficoltà delle mobilitazioni di incidere realmente, o quanto meno di tentare di mettere in discussione le gerarchie accademiche e i quotidiani rapporti di "servaggio" imposti dalle baronie universitarie all'interno della struttura "feudale-fabbrichista" degli atenei, qui riassunti da Massimiliano nello specifico delle lotte al Ddl Moratti: «[A Firenze] ci sono i professori che sono direttamente coinvolti alla Crui e in commissioni di consulenza del Ministero, che hanno rapporti con la politica quotidiana, stiamo parlando cioè di un ateneo che ha la sua influenza dal punto di vista politico. Quindi ti dicono: "questo Ddl ora fa schifo, ma non vi preoccupate, non è che passa così; intanto non è vero che sparirà la terza fascia, poi si sistema il problema delle risorse, dopo di che vi aumentiamo l'assegno di ricerca". D'altra parte, gli stessi professori sono meno disposti a mobilitarsi proprio per questo, per non giocarsi la loro influenza attraverso questi canali, non sono quelli che vanno per strada a manifestare, vanno a parlare nei corridoi con la gente che conoscono» (Massimiliano – Firenze).

Un passaggio significativo è comunque avvenuto. Spogliatisi della (presunta) aura di portatori della cultura e del sapere accademico, i lavoratori dell'università hanno iniziato a definirsi precari. Una definizione solo in negativo, si dirà. Certo, ma anche un elemento di riconoscimento comune con il lavoro vivo contemporaneo. La scelta di non limitarsi agli elementi di pura vertenzialita e di tentare il superamento di battaglie settoriali è ciò che ha consentito la messa in comune di esperienze e soggetti diversi: «La domanda è stata: fare una serie di rivendicazioni più puntuali sui singoli percorsi, oppure tracciare gli elementi comuni, esistenziali, sociali, lavorativi? Secondo me l'affermazione a Napoli di questo soggetto politico nuovo, i precari della ricerca e non solo i ricercatori precari, ha potuto strutturarsi e avere un peso maggiore rispetto alle altre componenti del movimento contro la Moratti (docenti, ricercatori, amministrativi ecc.) proprio perché si è saputo tenere insieme, non può che essere un soggetto politico che sta assieme tra esigenze di natura sociale e politica più ampia ed esigenze più legate ai percorsi specifici lavorativi dell'università» (Dario – Napoli). Questo non vuol dire che i rischi di corporativismo siano felicemente espunti ab origine dall'esperienza della Rete, su questo il dibattito e le pratiche sono anzi aperte: «Nelle assemblee nazionali dei ricercatori precari, molto spesso questa apertura al precariato sociale veniva accusata di voler mischiare il precariato della ricerca con i movimenti sociali. Secondo me è invece proprio questa la ricchezza. Si pensi ai movimenti contro la riforma Moratti all'interno della scuola elementare, degli asili nido e delle scuole materne; io ho due bambini, sono stato nelle assemblee, nelle occupazioni simboliche, nelle decine di cortei che sono stati fatti. Lì c'è davvero una ricchezza inesauribile da parte di genitori e maestri. Loro, o meglio noi, siamo riusciti per un anno a tenere viva all'interno delle scuole la questione, con genitori che hanno il lavoro e i figli, ci si vedeva sistematicamente una volta alla settimana nelle palestre delle scuole, sono state fatte azioni di critical mass nei vari quartieri, proprio riprendendo anche le forme di protagonismo dei nuovi movimenti sociali, si è riusciti a bloccare il traffico in interi quartieri di Roma alla stessa ora. Se mi avessero detto qualche mese fa che avrei partecipato a riunioni coi genitori, non ci avrei creduto! Invece, ho trovato lì una ricchezza impensabile» (Giuseppe – Roma). Tuttavia, dei segnali concreti di generalizzazione ci sono: «[Partecipare alla manifestazione unitaria con la scuola] è stata una bellissima esperienza, lì si è riusciti finalmente a collocare il problema nella sua dimensione autentica che è quella della formazione pubblica, dall'asilo fino all'università, e si è riusciti a cominciare un discorso sulla precarietà in generale» (Sonia - Roma). Si pensi poi al "dobbiamo fare come gli autoferrotranvieri" vigorosamente affermato in alcune assemblee da attempati docenti e ricercatori poco avvezzi alle piazze. Il salto nella percezione soggettiva, nel modo di guardare a se stessi e al mondo, è notevole. Non solo, dunque, il riconoscimento in un processo imposto e subito, ma anche nelle potenzialità nuove che in esso vivono.

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