Copertina
Autore Giorgio Ruffolo
Titolo Testa e croce
SottotitoloUna breve storia della moneta
EdizioneEinaudi, Torino, 2011, Passaggi , pag. XII+178, cop.fle.sov., dim. 14x22x1,2 cm , Isbn 978-88-06-20891-2
LettoreGiorgia Pezzali, 2012
Classe economia finanziaria , storia sociale , storia economica , storia antica , storia: Europa
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


 IX  Introduzione. La moneta, una istituzione ideale

     Testa e croce

  3  I.    Quando la moneta non c'era

  6  II.   Dal baratto alla moneta
 11        La moneta anonima

 15  III.  Il miracolo greco

 22  IV.   La moneta romana

 40  V.    La moneta nel Medioevo
 45        Uno sguardo all'alto Medioevo
 50        Il miracolo italiano
 51        La vittoria sull'aristocrazia
 53        La vittoria dei mercanti italiani sui loro concorrenti
 55        Era quello italiano vero capitalismo?

 64  VI.   La moneta nell'età moderna
 65        La conquista dell'America
 66        La rivoluzione commerciale. Le fiere di cambio
 67        Le Città-Stato italiane
 69        Dal commercio alla finanza
 71        L'investimento politico
 73        Capitalismo e Stati nazionali
 76        I secoli lunghi del capitalismo
 76        Il secolo ispano-genovese
 83        Il ciclo genovese
 87        Il secolo lungo olandese

100  VIII. Il lungo secolo britannico

115  IX.   Il secolo americano: lungo o breve?
116        L'egemonia americana
118        Il distacco dall'oro
121        Le «mosse» della controffensiva
127        Gli anni dell'euforia
128        Gli anni dell'irresponsabilità
129        Come prima, piú di prima
131        Una prospettiva deprimente

132  X.    Moneta senza fine o fine della moneta?
132        Che cos'è, insomma, la moneta?
144        Non siamo mica scemi
147        Scomparsa della moneta?


149        In crociera con l'alta finanza americana
           di Giuseppe Cassini

167        Ringraziamenti e dediche
171        Indice dei nomi di persona


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina IX

Introduzione

La moneta, una istituzione ideale


Moneta: un nome fatidico, che nasce a Roma. È l'anno 390 prima di Cristo, e i Galli, penetrati nella città, muovono un assalto notturno alla rocca del Campidoglio, consacrata alla dea Giunone, che non soffre l'affronto e allarma i Romani agitando le oche, animali a lei sacri. L'assalto è respinto e i Romani riconoscenti dedicano un tempio alla dea «ammonitrice»: a Giunone Moneta.

Questa la nascita del nome.


Ma la nascita della cosa, della moneta, daterebbe a oltre un secolo prima, nella Lidia, parte occidentale dell'attuale Turchia. E secondo Erodoto si deve a Creso, sovrano ricchissimo.

Storicamente, dunque, la moneta è una invenzione recente. Per circa due milioni di anni, gli uomini ne avevano fatto a meno.


Lo scambio, invece, è antichissimo. Nasce, in pratica, con l'uomo, sotto forma di dono. Un dono, però, condizionato dall'obbligazione sociale e morale della reciprocità: di una restituzione, se pur rinviata. Insomma, un dono per modo di dire, inserito in un rituale complicato e meticoloso.


Non ci fu dunque, per moltissimo tempo, la moneta. E per lunghissimo tempo il suo ruolo fu svolto da beni materiali desiderati per la loro utilità (come gli spiedi, le asce, gli animali, gli schiavi) o per la bellezza e il piacere che offrivano (i metalli preziosi, le donne). Dunque, per il loro valore intrinseco.

Tra questi beni si stabilirono delle distinzioni e delle equivalenze: per esempio, tra le armi e i tori (le armi di Glauco valevano cento tori, quelle di Diomede sei) o tra le donne e i cammelli: in cammelli (dieci cento mille) erano misurate le doti delle spose.

Quegli scambi non erano semplici transazioni private ma eventi solenni, nei quali si manifestava l'onore e il prestigio del donatore. Si rivestivano quindi di un carattere sacrale che sarà successivamente trasmesso alla moneta sotto forma di inconscio.

Nella sua forma concreta la moneta assume però fin dall'inizio due qualità fondamentali: quella di merce, connessa con lo sviluppo degli scambi; quella di istituzione, connessa con la sovranità politica. Queste due qualità sono antagoniste. Esse determinano una tensione interna mai risolta tra la sua natura di derivato del mercato e quella di istituzione imposta al mercato dalla autorità politica.

È il Principe (un monarca o una repubblica) a coniare la moneta, dichiarandone il valore stabilito in base al suo contenuto metallico, d'oro o d'argento. È il mercato a convalidarlo o a confutarlo, nell'esito degli scambi. Il Principe propone, il Mercato dispone.


Il denaro, l'intermediario generico di cui la moneta è la rappresentazione estrinseca, ha una natura ideale. Non è materia, cui è legato solo come simbolo (l'oro, l'argento, ovviamente la carta delle banconote). Non è l'utilità intrinseca delle cose che esso rappresenta a dargli valore. Non è l'oro che dà valore al denaro, ma il contrario. Anzi, dal momento in cui le cose (animali, oggetti, metalli) sono scelte come moneta, vengono rese direttamente inutilizzabili, come i chicchi di riso che in Birmania, perché non fossero usati come cibo o come seme, erano spezzati.

Inoltre, all'opposto di ogni altro bene, la sua utilità consiste nel privarsene.

Il denaro lo si utilizza disfacendosene. Inversamente, quando una cosa scelta come moneta diventa tanto attraente per sé da essere desiderata per il suo valore intrinseco, viene subito demonetizzata, come accadde con i luigini d'oro francesi dei quali le signore turche amavano adornarsi (e i genovesi ne fecero incetta per guadagnarci sopra). Insomma, il valore intrinseco e la funzione monetaria vanno nelle direzioni opposte, dell'appropriazione e dell'alienazione.

Non deve sorprendere perciò l'abitudine invalsa di associare il denaro allo sterco, lo «sterco di Satana», come qualche cosa di cui liberarsi al piú presto: quella che gli psicanalisti hanno denunciato associando la stitichezza con l'avarizia e la dissenteria con la prodigalità.

Da questo punto di vista, il denaro è associabile al linguaggio. Anche quello si spende. Non a caso si dice «spendere una parola». E proprio come il linguaggio, non si tratta di un rapporto tra uomini e cose, ma di una relazione tra esseri umani che si svolge attraverso la circolazione. Circolano come denaro le relazioni umane come circolano le loro parole, e i metalli monetizzati - dice il Libro d'Ore - serbano nel silenzio la nostalgia «del seno oscuro del monte da cui sono stati tratti» e cui tenderebbero a tornare: che cos'altro è, se non l'espressione di questa tendenza regressiva, la «tesaurizzazione»?

Come la parola, il denaro si svincola dal «seno oscuro del monte» per proiettarsi nel futuro, letteralmente proíjcere, pro-gettare, e il suo valore viene dal futuro, dal modo in cui il «progetto» sarà accolto e genererà una forza creativa che si chiama fiducia, un credo che si tradurrà in una scommessa: in un credito.

In questo messaggio rivolto al futuro sta quella che Antonio Genovesi ha definito «la ricchezza del segno», la potenza e l'efficacia del denaro.


Come le divisioni del Papa, non è una forza materiale, ma una energia ideale. Dipenderà dall'uso che gli uomini (e le donne) ne faranno se quell'energia promuoverà un gigantesco progresso della condizione umana, o ristagnerà in una nuova servitú.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 6

Capitolo secondo

Dal baratto alla moneta


La tradizione ci parla della moneta come dell'invenzione di personaggi mitici (Teseo) o storici, come i re della Lidia: Gige, Aliatte, Creso (vedi p. 9).


Ma la moneta non emerge dalla mente di un uomo. È il risultato di un processo storico che durò millenni.

La caratteristica essenziale di questo processo era lo scambio diretto di beni, merci contro merci: il baratto. Esso si svolse tuttavia in forme diverse e complesse, man mano che gli scambi assumevano un'importanza crescente rispetto alla forma preponderante dell'autoconsumo. È grazie a questa complessità che civiltà commerciali avanzate, come quelle fenicie, sono cresciute senza bisogno di moneta raggiungendo un livello di sviluppo elevato. Ci sorprende che a Cartagine, una città che traeva dagli scambi una parte essenziale della sua attività economica, potessero fare a meno della moneta. Il fatto è che le civiltà non abbandonano facilmente i loro usi e costumi e li utilizzano talvolta fino ai limiti del loro potenziale.

Il baratto assunse per lunghi secoli forme differenziate e complesse, da quelle di una ridistribuzione autoritaria a quelle delle transazioni di mercato. E anche queste si svilupparono in forme differenti, dall'incontro nei centri urbani (la piazza) al commercio invisibile. Quest'ultimo era largamente utilizzato proprio dai Cartaginesi. Essi deponevano sulle coste di un paese abitato da genti scontrose le merci offerte allo scambio e si ritiravano sulle loro navi. Gli «scontrosi» le esaminavano e, se accettavano lo scambio, depositavano le loro controfferte. I Cartaginesi a loro volta le esaminavano. Se le ritiravano lo scambio era concluso. Altrimenti la partita continuava. Non si può dire che fosse rapida. Era però il modo per evitare guerre e saccheggi. C'è un'amicizia fredda che fa a meno della conoscenza. Gli scambi, evidentemente, si limitavano dapprima a poche merci essenziali (grano contro olio, ad esempio) ma, col tempo, si normalizzavano nel prezzo e si differenziavano nelle quantità. Era, insomma, un discorso silenzioso. Lo stesso metodo fu adottato dagli egiziani nei loro commerci con le popolazioni dell'interno.

Gli inconvenienti di queste pratiche si manifestavano soprattutto nelle forme della sovra o sottoproduzione, insomma, dello spreco. L'alternativa era di offrire la piú ampia possibile quantità di merci. Ma non era, ovviamente, praticabile.

La soluzione fu trovata nel senso opposto: di scegliere come corrispettivo dell'offerta una sola merce che avesse valore per tutte le altre: come il bestiame, largamente disponibile e necessario. Il bestiame, in latino pecus, da cui pecunia fu per molto tempo la «moneta naturale» o, come è stata definita, la premoneta.

L'unità premonetaria era il capo di bestiame, il caput. Di qui una parola carica di futuro: il capitale.

Con quella premoneta si poteva comprare di tutto: anche il silenzio. È significativo che nell'antica Grecia si dicesse della persona il cui silenzio era stato comprato che «gli era passato un bue sopra la lingua».

Come moneta, il bestiame presentava però dei gravi inconvenienti. Non si poteva dividere in spiccioli; e, soprattutto, trasportarlo era un bel problema.

Fu trovato allora, col tempo, un suo sostituto piú pratico ma meno pacifico: i metalli con cui si fabbricavano utensili e armi. Si potevano trasportare facilmente, si potevano dividere, non richiedevano manutenzione. Si potevano ridurre in forme facilmente utilizzabili: la piú adatta si rivelò l'anello, la piú facilmente trasportabile grazie al suo foro, anche la piú elegante. Gli ebrei ne fecero un largo uso: lo chiamavano kikkar.

Un'altra forma era quella dei pani di rame, praticata da Cretesi minoici e da Greci micenei.

Questa era una forma tecnicamente molto piú avanzata. Si trattava di grossi rettangoli di un peso variante tra i 10 e i 36 chilogrammi, e dello spessore di circa 6 centimetri sui quali si versava una colata di metallo fuso dividendola in pani.

Una terza forma era la moneta-utensile costituita da strumenti della vita quotidiana che mantengono, almeno in un primo periodo, la loro funzione pratica: asce, spiedi (obeloi), pentole (lebeti).

Con la moneta utensile si arriva, nel VII secolo, nella zona fitta di isole e di scambi dell'Egeo, davanti alle coste della Lidia, a usare in modo differenziato queste varie forme dello scambio. Per quelle di modesta entità si ricorreva o al semplice baratto o alla moneta utensile, mentre per i pagamenti piú consistenti, specie per i traffici internazionali, si ricorreva all'oro e all'argento in anelli o in lingotti, di determinato peso e composizione. Anziché pesarli a ogni scambio si cominciò a «segnarli» con un sigillo apposto da un'autorità: i sacerdoti dei santuari dapprima e poi i sovrani laici. I lingotti però erano pesanti e poco maneggevoli. Fu naturale ridurli a gocce di metallo. Il sigillo era garantito dall'autorità del santuario e del Principe. Per potervi apporre il sigillo le gocce erano schiacciate in dischetti di metallo (coniate). Era nata la moneta. Nella Lidia di Creso? Può essere: anzi, è probabile. Ogni leggenda conserva un grado di verità.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

Capitolo terzo

Il miracolo greco


La storia presenta tempi e luoghi nei quali si producono grandi trasformazioni. Si parla allora di miracolo. Abbiamo detto dell'avventura dei Sumeri. Merita questo titolo anche quella della Grecia nei secoli dal VII al V.

Si indaga sulle ragioni oggettive dei miracoli, le cosiddette «sfide»: nel caso della Grecia, per esempio, la povertà del suolo che non consentiva uno sviluppo dell'agricoltura sufficiente a sostenere una forte espansione demografica, provocando e promuovendo il commercio estero.

Non c'è dubbio che questa fosse la condizione oggettiva nella quale fiorí il miracolo ellenico. I Greci rinunciarono a produrre grano, importandolo, e si concentrarono sulla produzione di vino e olio, per la quale disponevano di terreni adatti; nonché sui prodotti artigianali (oreficeria, gioielleria, armi, ceramiche, profumi) nei quali eccellevano per abilità e per gusto. Insomma, svilupparono il commercio, soppiantando gradatamente i Fenici, e diventando i piú grandi mercanti del Mediterraneo. Avendo distrutto le loro foreste, importarono il legname da quelle dei territori prospicienti il Mar Nero e costruirono le navi sulle quali trasportavano dappertutto le loro merci.


Le condizioni oggettive spiegano certamente una parte del miracolo. Ma un'altra, forse la piú importante, è dovuta a condizioni soggettive insondabili: per i Greci, la superiorità dell'intelligenza e dell'immaginazione come poi, per i Romani, quella della disciplina e del coraggio.


Come ai Sumeri riconosciamo il merito di avere promosso la creazione della moneta nella sua forma anonima, ai Greci va attribuito quello di avere favorito la diffusione della moneta coniata e firmata: un passo decisivo nella storia dell'economia.

Come s'è detto, la creazione della moneta coniata è dovuta forse al penultimo dei re della Lidia, Aliatte, forse a Creso, l'ultimo e il piú famoso.


Il metallo di cui era composta era l'elettro, una specie di ambra, lega naturale d'oro e d'argento (se si sfrega emana scintille) estratto soprattutto dalle sabbie dei fiumi. Ebbe subito grande successo e fu imitato dalle città greche, prima quelle doriche, come Creta e Rodi, poi quelle ioniche, come Atene e Mileto.


Consisteva in un lingotto tondo sul quale si imprimeva un sigillo, emblema del soggetto emittente, anzi due: il primo sul dritto, rappresentativo del patrono divino (Atena, per esempio, nel caso di Atene); il secondo, sul rovescio, che raffigurava un simbolo (per esempio, sempre nel caso di Atene, la civetta).


Dobbiamo domandarci perché la moneta anonima sia stata abbandonata in cambio della moneta coniata e firmata.

Sono state date varie risposte.


Fu Aristotele a formulare la prima che sembra anche la piú ovvia: che lo sviluppo degli scambi avesse reso troppo complicata la verifica del peso e preferibile l'uso di una moneta garantita da qualche autorità, che ci si limitava a contare, senza pesare. L'obiezione a questa ipotesi, altrettanto ovvia, è che quell'ostacolo non doveva essere poi cosí grave se il sistema della moneta anonima, che chiunque poteva immettere sul mercato, aveva retto per tanti secoli.

Altra ipotesi: per i pagamenti a clienti numerosi, come i mercenari, era piú semplice contare anziché pesare le monete. Anche qui vale l'obiezione: anche gli Stati mesopotamici avevano i loro mercenari! Forse, la risposta migliore è che la nuova moneta, piú che semplificare le cose, le rendeva piú convenienti: dal punto di vista economico, con l'opportunità offerta dalla coniazione, all'autorità di incassare le rendite del cosiddetto signoraggio (il pagamento dei costi della coniazione, suscettibili di cospicue «creste»); e dal punto di vista politico, con il prestigio che al Principe derivava dall'impronta della sua effigie sulla sua moneta.


Quest'ultima, come sottolineò tra gli altri Maynard Keynes , sembrava la risposta piú ragionevole. Non tanto per le grandi monarchie, per le quali l'attività commerciale costituiva una frazione modesta del reddito complessivo e che non avevano problemi pressanti di competizione con altri grandi soggetti politici. Ma soprattutto per le Città-Stato, per le quali il commercio costituiva un'attività vitale e che avevano grande interesse a valorizzare la loro identità rispetto alle poleis concorrenti.


Qui è necessario rilevare la fondamentale diversità rappresentata dal mondo economico ellenico rispetto a quello dei grandi imperi continentali. Esso, ricordiamolo, fu preceduto dalla prima grande civiltà mediterranea, quella egea, minoico-micenea.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 100

Capitolo ottavo

Il lungo secolo britannico


Un giorno del 1851 a Londra. La Regina Vittoria sta per entrare nel grande palazzo che ospita l'Esposizione Universale al braccio del suo sposo. Ed ecco che uno sciame di colombe irrompe nella vasta sala. È allarme. La regale coppia rischia di essere colpita da eiezioni sovversive. Si decide prontamente di liberare due falchi. Non c'è strazio. La loro apparizione è sufficiente a disperdere lo sciame.

Era quello il tempo in cui l'impero britannico non trovava ostacoli al suo dominio. I rapporti di forza erano diventati cosí diseguali da scoraggiare ogni aperta resistenza. Come i falchi dell'Esposizione, era spesso sufficiente la comparsa di una cannoniera a ripristinare un ordine perturbato. Era inoltre, quello britannico, il primo dei grandi imperi moderni a prevalere non soltanto con la forza, ma anche per tacita acquiescenza dei sottostanti.

Il lungo secolo britannico dura dalla fine del XVII secolo agli anni Trenta del XX.

Per spiegare il suo successo bisogna risalire fino almeno al tempo dei Tudor e della grande Elisabetta. Bisogna cominciare dalla rivoluzione agricola: un lento processo di erosione dell'economia contadina e dei diritti comunitari sulla terra che sopravviene a causa della recinzione dei campi aperti (enclosures). Si formano grandi proprietà destinate al pascolo o a un'agricoltura commercializzata. Questo processo, che raggiunse forme estreme e violente nel XIX secolo, cominciò a manifestarsi già tra il Cinque e il Seicento, con la conseguente «liberazione» di forze di lavoro a buon mercato disponibili per iniziative industriali. Una scuola di storici «revisionisti», impegnati a contestare l'importanza e la discontinuità rivoluzionaria dell'esplosione industriale del XVIII-XIX secolo, ha sottolineato la portata di questa prima «rivoluzione industriale», favorita dal governo di Elisabetta tra il XVI e il XVII secolo.

Quale che fosse la portata di questa espansione industriale «elisabettiana», manifestatasi soprattutto nel settore tessile e in quello del ferro, è certo, comunque, che non fu tale da sfidare il primato olandese, che si basava sulla superiorità acquisita dall'Olanda nel controllo dei grandi flussi commerciali internazionali, esercitato attraverso la rete degli insediamenti costieri e sulla decisiva superiorità della flotta. Solo su quel terreno era possibile contestare il primato olandese.

L'Inghilterra, dopo aver tentato invano, come la Francia, la carta brutale della sottomissione militare dell'Olanda, si impegnò con maggiore fortuna nella sfida all'Olanda proprio sul terreno commerciale con una strategia mercantilista che sfruttava i suoi vantaggi naturali, prima di tutto quello della popolazione. Questa strategia si articolava lungo tre direttrici interconnesse. Prima: la trasformazione dei «punti» della rete commerciale da semplici basi militari, com'erano quelle olandesi, in vere e proprie colonie di popolamento, come quella americana, coinvolgendo una cospicua parte dei propri sudditi nell'impresa coloniale. Seconda: lo sviluppo economico di queste colonie attraverso la «schiavitú moderna»: la migrazione di servi negri verso piantagioni americane. Terza: il nazionalismo economico, il protezionismo del mercato interno utilizzato come base dello sviluppo industriale, chiudendo il cerchio tra commercializzazione e industrializzazione.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 110

A questo punto del nostro racconto dobbiamo domandarci se questa successione di cicli e di «secoli» che si svolge nella storia del capitalismo esprime un qualche riconoscibile senso.

Temo che la risposta sarà deludente. Da tempo abbiamo rinunciato alla storia marxista di domani: alle sue presuntuose certezze.

Il capitalismo è una forza che, a un certo punto della storia, ha afferrato per i capelli l'umanità trascinandola in un processo tumultuoso di crescita, verso dove, non si sa.

Possiamo scorgere in questo processo tre aspetti di una formidabile spinta che ha sbalzato una parte dell'umanità, dapprima limitata poi gradatamente piú estesa fino a raggiungere oggi la totalità, da una vicenda lenta e ripetitiva a un futuro sconvolgente e imprevedibile.

Anzitutto il mutamento dell'attività economica dominante: dall'agricoltura al commercio all'industria alla finanza.

Poi, il mutamento del rapporto politico tra Stato e capitalismo, con alterna prevalenza dell'uno o dell'altro. Poi ancora, il mutamento del conflitto sociale: tra borghesia e aristocrazia; tra borghesia e proletariato; tra democrazia e plutocrazia.

Questi mutamenti non seguono necessariamente una successione di stadi determinata e prevedibile, ma sono segnati da interruzioni e ritorni che suggeriscono l'immagine di una marcia colpita dall'ubriachezza.

C'è solo da sperare che l'umanità sia un giorno in grado di mettere le mani sulla barra di comando: e soprattutto di indirizzarla verso una direzione consapevole.

È un auspicio che si pone con particolare evidenza nella vicenda con la quale chiudiamo il nostro racconto: il secolo americano.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 115

Capitolo nono

Il secolo americano: lungo o breve?


Quella americana è veramente un'altra storia.

È la storia di una grande migrazione e colonizzazione comparabile con quella della Magna Grecia.

Non si tratta di un nuovo ciclo storico, ma di una nuova civiltà.


Due grandi correnti di pensiero, potremmo meglio dire due passioni, animano questa migrazione: quella della libertà individuale generatasi attraverso le persecuzioni politiche e religiose di una Europa autoritaria e intollerante. Quella di una vocazione missionaria che ravvisa nella nuova terra «un mondo in cui uno comincia da capo»: «quello degli uomini che hanno attraversato il mare» (Nevins e Commager, Storia degli Stati Uniti). Nella prima passione si genera un messaggio, quello della democrazia moderna. Nella seconda un destino affidato da Dio a un popolo, come quello di Israele.

Queste due passioni distinguono nettamente il secolo del primato americano nato all'inizio del Novecento e nel quale tuttora viviamo - dai cicli che lo hanno preceduto. Ma anche dall'altra contemporanea colonizzazione, quella dell'America Latina, dove la dominazione portoghese e spagnola ha impresso il marchio europeo dell'autorità e della diseguaglianza. Queste due passioni, dunque, attraversano tutta la storia dell'America settentrionale e si contrappongono in quella che potremmo definire la dialettica sinistra/destra se questo concetto tipicamente europeo non fosse estraneo alla storia americana.


L'egemonia americana.

Lo sviluppo americano del dopoguerra è folgorante. Tra il 1913 e il 1929 il prodotto nazionale è piú che raddoppiato, da 39 a 104 miliardi di dollari; e l'eccedenza della bilancia commerciale ha comportato il versamento agli Stati Uniti di metà delle riserve auree del mondo.

D'altra parte, la guerra ha segnato il suicidio degli Stati europei.

Particolarmente tragica appare la condizione dell'Inghilterra, una situazione amara per il paese che, nella solitudine, aveva salvato l'Europa e il mondo dalla servitú nazista. Per salvarsi, questa volta, doveva ricorrere a un massiccio aiuto economico americano. Ma gli americani sono inflessibili sulle garanzie che devono assistere il grande prestito della salvezza e che implicano una smobilitazione di ciò che resta dell'impero britannico. Morgenthau, il Segretario americano al Tesoro, si rivolge brutalmente agli Inglesi: «è ora che rovesciate le vostre tasche». Keynes, indignato, ribatte: «volete beccare i nostri occhi come quelli di un cadavere?»


Ma il comportamento dell'America nei riguardi di un'Europa allo stremo non fu quello di un becchino. Al contrario: gli Americani diedero la prova di un uso generoso e lungimirante della loro superiorità nei riguardi, indifferentemente, degli alleati e degli ex nemici (ben diversamente dall'Unione Sovietica, che depredava le loro magre risorse). Si resero conto che, nelle condizioni di impoverimento estremo in cui gli Europei si trovavano, non erano in condizione di contrarre prestiti. Capirono che in Europa si stava aprendo un vuoto di potere che l'Urss era pronta a colmare. Che non era dunque questione di prestiti, ma di «ricostituire prontamente la posta». Il «Piano Marshall» fu un atto di grande intelligenza politica che interpretava l'enorme superiorità americana come egemonia e non come dominio. Non era il momento di Shylock. Bisognava rimettere in piedi l'Europa, punto e basta. Avevano già dimostrato, prima che la guerra finisse, a Bretton Woods, di avere le idee chiare sul nuovo ordine dell'economia mondiale che intendevano costruire. Non era quello proposto da Keynes, un sistema di equilibrio degli scambi garantito dalla reciproca e paritaria responsabilità di debitori e creditori e governato da una moneta di conto neutrale. Era invece un sistema basato sulla posizione centrale degli Stati Uniti come prestatore di ultima istanza e sulla funzione del dollaro come moneta mondiale di riserva.

Questo sistema assegnava agli americani una netta posizione di superiorità, ma anche di responsabilità, che essi dimostrarono di saper gestire assumendone, col «Piano Marshall», i costi.

Dietro il duello ingaggiato a Bretton Woods tra l'americano White e l'inglese Keynes, vinto nettamente dal primo, c'erano due visioni del futuro politico mondiale nettamente diverse: per Keynes, quella di una condizione centrata sulla solidarietà delle due potenze anglosassoni; per White, quella di un ordine mondiale governato dalle due Superpotenze vincitrici - Stati Uniti e Unione sovietica - anche se negli accordi firmati a Bretton Woods non ve n'era ovviamente traccia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 132

Capitolo decimo

Moneta senza fine o fine della moneta?


Che cos'è, insomma, la moneta?

Siamo giunti al termine di questo libro non con una risposta ma con una domanda sull'esito di una crisi drammatica. Ma è proprio una riflessione su questa crisi che ci aiuterà a dare quella risposta.

È inutile cercarla in divagazioni sulla essenza della moneta: mondana o «numinosa», simbolo o segno, sogno o sterco?

Affrontare la questione «esistenziale» indagando il «mito del denaro» come fa Claudio Widmann, psicanalista junghiano (Il mito del denaro), può essere avvincente dal punto di vista sociologico e filosofico ma non ci porta lontano nella comprensione della funzione pratica che la moneta e la finanza svolgono nel nostro mondo.

Anziché dall'essenza dobbiamo partire dalla sua funzione per giungere a un giudizio sintetico sulle ragioni che impediscono oggi di svolgerla con la necessaria efficacia.

Un primo passo per giungere a risultati pratici è dunque proprio quello di demistificare la moneta dalle trasfigurazioni trascendentali per ricondurla alla sua funzione originaria di strumento dell'economia.

Conviene dunque prendere le mosse dalle funzioni ben note, definite dalla tradizione: la moneta è unità di conto, mezzo di scambio, riserva di valore.

Nella sua storia la moneta ha assunto queste funzioni separatamente o in combinazione. Può svolgere solo la prima di queste funzioni; o le due prime, o tutte e tre, come al giorno d'oggi.

Particolare importanza riveste la presenza o meno della terza di queste funzioni, quella di riserva di valore. Quando è presente la moneta non è soltanto un indice della ricchezza, ma è ricchezza essa stessa. È una merce che può essere accumulata.


Karl Polanyi sostiene che l'origine di questa funzione della moneta va individuata nell'avvento del capitalismo moderno. Innovazione essenziale del capitalismo è la mercificazione dei fattori naturali della produzione, la terra e il lavoro. Da elementi costitutivi della società essi sono ridotti a merci: «fittizie», perché non possono essere staccate dal loro contesto sociale per essere comprate e vendute. Polanyi afferma che la stessa mutazione è subita dalla moneta: da istituzione politica e strumento regolatore dell'economia a merce, disponibile all'accumulazione. Da strumento della produzione di ricchezza a ricchezza essa stessa.


La tesi di Polanyi è stata contestata da quanti hanno rilevato che la funzione della moneta come riserva di valore risale a tempi remoti: addirittura, secondo alcuni, precede le altre funzioni, di misura del valore e di mezzo di scambio; oppure che essa non costituisce un travisamento della natura della moneta, ma assolve una sua funzione fondamentale, di riduzione dell'incertezza. Quest'ultima è la posizione di Keynes, che la fonda sulle conclusioni della sua Teoria della probabilità, cardine scientifico del suo pensiero.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 144

Non siano mica scemi.

La prima direttrice è il nesso con il «comandamento» della crescita.

La via d'uscita dalla crisi è angosciosamente indicata dall'establishment nella ripresa della crescita di cui si spiano anche i minimi accenni. Ora, la crescita non può essere una condizione normale.

La crescita continua è un'ideologia recente. Nella teoria economica classica non ce n'è traccia. Il destino dell'economia nel pensiero degli economisti classici è uno stato stazionario. La crescita continua è diventata solo in tempi relativamente recenti l'assunto di un pensiero ideologico, non scientifico (vedi in proposito Carla Ravaioli , in particolare: Il quanto e il quale: la cultura del mutamento e Ambiente e pace: una sola rivoluzione).

L'abbandono di questo assunto assurdo non comporta però l'adozione di un modello di stato stazionario, difficilmente definibile in termini concreti, ma quello di una economia finalizzata non a una crescita astratta ma a concreti obiettivi di compatibilità ecologica, di benessere sociale, di sviluppo culturale: insomma, di un progetto sociale e di una programmazione economica: perfettamente compatibili con una moneta non accumulabile.

Una riflessione costruttiva su questi temi potrebbe trarre ispirazione dal modello steineriano di tripartizione tra mercato Stato ed economia associativa.


Secondo tema di riflessione: nel lungo periodo solo una distribuzione del reddito meno squilibrata sia all'interno dei paesi ricchi sia tra paesi ricchi e paesi poveri potrà permettere una crescita sana, sospinta da fattori reali, come i salari, e non da una abnorme espansione dei debiti.


Terzo tema di riflessione: la formazione di una plutocrazia mondiale che dalla possibilità di accumulare moneta nelle forme piú varie trae rendite e potere. Non una classe dirigente, ma una casta che somiglia molto piú alle aristocrazie decadenti che alle borghesie imprenditrici, sia per quanto riguarda la sua (dis)funzione sociale, sia le sue bizzarrie esibizionistiche. È una «nazione» che ha il suo governo. Abbiamo osservato altrove come nella sua ultima trasfigurazione il capitalismo somigli sempre piú alla sua caricatura marxiana: la réalité dépasse la fiction, come quella raccontata dal «New York Times»: un comitato d'affari, una «cupola» che si riunisce ogni settimana per dettare le regole del mercato finanziario americano.

Questa plutocrazia obbedisce a sua volta a una legge immanente alla sua natura che la travolge in una corrente di autodistruzione: potremmo definirla, à la Keynes, fuga della liquidità. Altri, in termini psicoanalitici, vi hanno ravvisato una «pulsione di morte» (Maris e Dostaler, Capitalismo e pulsione di morte ). Senza bisogno di addentrarci in una foresta analitica, la riflessione sul tema della plutocrazia dovrebbe avere per oggetto l'intollerabilità politica ed etica di questa casta, che ha nella cumulabilità della moneta la sua fonte; e che oggi sfida apertamente i governi con le sentenze delle agenzie di rating.


Quarto tema critico di riflessione e di analisi: lo sviluppo di un terzo sistema (sistema, non settore!) dell'economia accanto a quello dello Stato e del Mercato: un sistema cooperativo e democratico di economia associativa rivolto al perseguimento del benessere sociale e dello sviluppo culturale.

È soprattutto nell'ambito di questa riflessione che acquisterebbe nuovo respiro una economia del dono, o meglio, della reciprocità: che non avrebbe piú bisogno della moneta ma di un sistema di contabilità informatica trasparente e immediatamente accessibile a tutti. In tal modo si compirebbe quel processo di smaterializzazione che, partito dal corpo solido della moneta, trascenderebbe nel suo spirito.


Quinto tema di riflessione: la rinascita del mercato. Soltanto in un sistema in cui il potere delle «cupole» non interferisse nello scambio delle merci il mercato riacquisterebbe tutta la sua efficacia di regolatore degli scambi. Ciò che al mercato non si può chiedere è di dilagare nello spazio riservato alla libertà e alla responsabilità politica. Ciò che al mercato non si deve chiedere è di trasgredire il limite che dà senso all'economia, anziché trasformarla nella corsa dei cani dietro una lepre finta.

In un libro intelligente, anche se pervaso da un'ideologia mercatistica quasi mistica (Filosofia del denaro, Armando, 1985) Vittorio Mathieu denuncia il prelievo che un Mefistofele con le fattezze del Ministro del Tesoro, manovrando la planche à billets, effettua sulle risorse create dalla «libera e rischiosa attività» dei capitalisti grazie ai loro «sacrifici» e alla loro «dignità». Questa visione retoricamente virtuosa si rovescia nello specchio di Alice della finanza: dove la planche à billets è manovrata dai banchieri i quali scaricano «liberamente» ma assai poco «dignitosamente» i loro «rischi» sui «sacrifici» del contribuente. Viene voglia di usare le stesse parole con le quali Mathieu chiude il suo libro, non si capisce perché, in francese: nous ne sommes pas dupes, che possiamo tradurre in buon italiano: non siamo mica scemi.


Scomparsa della moneta?

Giunti alla conclusione di questo libro possiamo rivolgerci la domanda che abbiamo posto e rinviato all'inizio di questo capitolo. Che cos'è la moneta? Possiamo ora azzardare una risposta.

La moneta è una invenzione. Una invenzione che non viene dagli dèi o da un Dio, ma dalla genialità degli uomini e che è rivolta a utilizzare razionalmente la capacità che essi hanno, unica tra le specie esistenti, di trasformare il loro ambiente. È dunque uno strumento, non un fine. È una norma, non una merce.

| << |  <  |