Copertina
Autore Saverio Santamaita
Titolo Storia della scuola
SottotitoloDalla scuola al sistema formativo
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2010, Campus , pag. 236, cop.fle., dim. 14,4x21x1,3 cm , Isbn 978-88-6159-359-6
PrefazioneRaffaele Laporta
LettoreFlo Bertelli, 2011
Classe scuola , universita' , storia sociale , storia contemporanea d'Italia
PrimaPagina


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Indice


VII Prefazione di Raffaele Laporta

  1 Introduzione

    1.  Alle origini della scuola italiana (1815-1859)

  9 1.1 Il quadro storico e sociale
 11 1.2 Scuola e società nel Regno di Sardegna
 14 1.3 La legge Casati
 16 1.4 La scuola della legge Casati
 19 1.5 L'università
 22 1.6 L'istruzione secondaria classica
 24 1.7 L'istruzione tecnica
 26 1.8 L'istruzione normale
 32 1.9 L'istruzione elementare
 36 1.10 L'infanzia e la scuola che non c'è

    2.  La scuola italiana tra XIX e XX secolo (1861-1911)

 41 2.1 Diciassette milioni di analfabeti
 43 2.2 La scuola della Destra storica
 49 2.3 La scuola della Sinistra
 54 2.4 Pedagogia e pedagogie
 57 2.5 Cambiamenti e problemi tra XIX e XX secolo
 73 2.6 Maestri e professori

    3.  La riforma Gentile e gli anni della dittatura (1923-1945)

 83 3.1 Il quadro storico e sociale
 86 3.2 Prima della riforma Gentile
 93 3.3 La riforma Gentile
101 3.4 Commenti e sviluppi
104 3.5 Dai "ritocchi" alla Carta della scuola

    4.  Dalla Costituente agli anni sessanta (1946-1968)

111 4.1 Il quadro storico e sociale
112 4.2 La scuola della Costituente
118 4.3 Gli anni cinquanta
127 4.4 Tornano gli insegnanti
132 4.5 Scuola e politica negli anni cinquanta
136 4.6 La grande trasformazione
140 4.7 La scuola media unica
148 4.8 La scuola materna
150 4.9 Scuola e società negli anni sessanta

    5.  Verso la scuola di massa (1970-1990)

154 5.1 Premessa
154 5.2 Ecco s'avanza uno strano studente
157 5.3 La questione degli insegnanti
161 5.4 Ingessata, eterodiretta, separata
166 5.5 Gli anni settanta
171 5.6 Nasce il sistema scolastico
173 5.7 Gli anni ottanta

    6.  L'autonomia e le sue riforme (1990-2007)

183 6.1 Gli anni novanta
184 6.2 L'Italia, l'Europa, il mondo
189 6.3 Il sistema scolastico
199 6.4 La questione degli insegnanti
208 6.5 Il sistema universitario

    7.  Lavori in corso (2008-2010)

213 7.1 La scuola che cambia
220 7.2 L'università che cambia
223 7.3 La ricreazione è finita

229 Indice dei nomi


 

 

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Pagina VII

Prefazione

di Raffaele Laporta


Una storia della scuola, come quella di ogni istituzione (della giustizia, del Parlamento, dell'università e via dicendo), ha caratteri propri, che risalgono alla funzione specifica dell'istituzione medesima. Nel nostro caso, la funzione della scuola nella società.


Quando e perché nasce la scuola

Una società è "semplice" o, come si dice abitualmente, "primitiva", perché le funzioni che servono a tenerla unita e operante sono poche e non sono tradotte in istituzioni, ma consistono in comportamenti e azioni regolati soltanto dal costume. Chiunque segua abitualmente il cinema, magari attraverso la televisione, sa che nei film ambientati in società primitive la funzione di governo è svolta da un capo o da un consiglio di anziani, eletti dagli adulti maschi della tribù, e che quest'ultimi talvolta sono anche convocati in assemblee per decidere di questioni molto gravi, come la pace o la guerra. Gli anziani ricoprono inoltre il ruolo di giudici nelle controversie di ogni specie fra i membri del gruppo tribale, anche se, in casi di grave offesa, il giudizio è affidato al duello fra le parti in causa. E non esiste in queste società alcuna istituzione a tutela della salute (come, per esempio, infermerie o ospedali), ma la cura delle malattie è affidata a maghi o stregoni; e infine in tali società non esistono scuole, perché i bambini si educano automaticamente assimilando gli usi e i costumi degli adulti, semplicemente partecipando alla vita familiare e del gruppo tribale.

D'altra parte i film western ci hanno abituati ad ambienti un po' meno primitivi, come per esempio i villaggi dei pionieri fondati dall'uomo bianco in terre ancora selvagge, in cui si vedono già i riflessi della società "complessa", moderna, perché oltre a un certo numero di oggetti e strumenti dovuti al progresso tecnico, vi compaiono già, in forma elementare, le istituzioni su cui essa si fonda: lo sceriffo al posto della polizia, il medico, la diligenza, con la quale, talvolta, giunge nel villaggio l'eroina del film che per guadagnarsi da vivere non trova di meglio che aprire una scuola, dove insegna a leggere e a scrivere magari usando la Bibbia come libro di testo.

Le società divengono complesse via via che arricchiscono la propria cultura, moltiplicano le occupazioni produttive, passano dalla pastorizia all'agricoltura, dall'artigianato all'industria, dagli scambi fra i vicini ai commerci, e via dicendo, e hanno quindi bisogno di organizzare in modo più stabile ed efficiente le funzioni fondamentali su cui si regge la vita associata: un governo che operi secondo leggi studiate da specialisti, discusse e decise da assemblee elettive, applicate da funzionari; attività produttive variegate svolte con strumenti e macchine efficienti, sostenute da un sistema finanziario, attivate da tecnici e specialisti, mezzi e sistemi di comunicazione permanenti e adeguati, servizi organizzati per la tutela della salute e così via. Tutto ciò richiede lo sviluppo di conoscenze scientifiche e tecniche sempre più numerose, difficili da padroneggiare, che, a loro volta, danno luogo a necessarie specializzazioni.

In società di questo tipo, che sono quelle in cui viviamo, è indispensabile possedere un gran numero di conoscenze generali e una certa quantità di altre conoscenze e abilità particolari, necessarie per svolgere un'attività specifica. Nessun bambino riuscirebbe da solo a crescere e a farsi strada in una società complessa senza guide capaci di fornirgli la cultura necessaria. Le scuole diventano perciò sempre più numerose, durano sempre più a lungo, si differenziano sempre di più nei loro obiettivi finali, e richiedono insegnanti sempre più specializzati.

Ma chi frequenta queste scuole? Originariamente esse avevano carattere privato ed erano destinate alle classi dirigenti, cioè ai pochi che volevano e potevano primeggiare nella società controllandone le istituzioni. Queste classi variavano secondo i tempi e le forme in cui il potere veniva esercitato, ma tale potere includeva sempre il possesso delle conoscenze disponibili. Il resto della popolazione si limitava ad apprendere quel tanto che bastava per vivere in famiglia e nel vicinato, per svolgere lavori da imparare con la pratica. Il successivo sviluppo delle scuole (all'incirca dal XVII secolo in poi) fu il risultato di due fenomeni concomitanti: da un lato l'aumento di nuove occupazioni che richiedevano lavoratori sempre più numerosi e preparati a svolgerle; dall'altro le lotte sociali che assicuravano alle classi popolari una cultura sempre più diffusa e più ricca a difesa dei loro diritti civili e politici. Così la scuola è diventata un po' alla volta obbligatoria per tutti, e per un tempo sempre più lungo: fino ai sedici anni e anche più, a seconda dei paesi.


Scuola e storia politica e sociale

Conoscere la storia della scuola nel nostro paese significa perciò ricostruire, di riflesso, la storia della società italiana, almeno dal momento in cui essa incomincia ad acquistare la coscienza di essere una nazione; vuol dire seguire lo sviluppo e la diffusione di tale coscienza dalle classi dirigenti a tutto il popolo; scoprire come le classi dirigenti si siano regolate per aprire le scuole alle classi popolari; e come quest'ultime, attraverso la scuola (ma anche per altre vie, e soprattutto attraverso le lotte sociali), abbiano acquistato sia la coscienza dei propri diritti civili e politici, sia la cultura necessaria ad affermarsi economicamente e socialmente nell'ambito della società nazionale.

Nella storia della scuola italiana si riflettono quindi tanto le vicende politiche del Risorgimento (con le sue guerre e con la partecipazione progressiva agli avvenimenti di altre nazioni europee), quanto le lotte sociali che hanno trasformato progressivamente lo Stato originario (costituito in regno e profondamente diviso fra una élite agraria e industriale e una plebe di contadini, braccianti e operai esclusa dalla vita politica) in una repubblica in cui i diritti e i doveri sono divenuti uguali per tutti e il lavoro è concepito (almeno in teoria) come il fondamento della convivenza comune.

La storia della scuola, naturalmente, non riflette soltanto la storia politica e sociale di un popolo, ma tiene conto anche del progresso scientifico e tecnologico, della vita morale, letteraria, artistica, religiosa, dei principi del diritto, del cambiare dei costumi, del persistere e del mutare dei valori che orientano i rapporti fra le persone e i popoli. Deve render conto di come valori quali la pace, la tolleranza, la libertà e l'uguaglianza di tutte le persone senza distinzioni di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche si sono venuti diffondendo nel mondo e ispirano (per quanto sovente ignorati o traditi) i rapporti internazionali e le istituzioni del nostro e di altri paesi.


Scuola e storia della sua organizzazione

Finora si è guardato a tutto quel che la scuola ha storicamente assunto a materia del suo insegnamento, come istituzione che ha il compito di preparare i suoi allievi a entrare nella società con le conoscenze, le capacità e i criteri di azione necessari a viverci. Ma per assolvere questa funzione essa deve avere una struttura interna articolata in modo da rispondere alle esigenze sociali e culturali della popolazione infantile e giovanile cui si rivolge; inoltre deve avere una diffusione sufficiente a raggiungere ogni parte del paese, dalle grandi città ai villaggi isolati, e quindi un'organizzazione adeguata.

La storia del sistema scolastico italiano sotto questi due aspetti si collega a quelli già ricordati. Perciò la sua storia organizzativa è abbastanza complicata. Il sistema scolastico originario fu quello che il Piemonte, unificando il paese, organizzò per esso sul modello del Regno di Sardegna, ed era in gran parte diverso da quello attuale. Per esempio, non esisteva la scuola materna, lasciata all'iniziativa privata, mentre la scuola elementare era destinata soltanto alle classi popolari, e fu gradualmente prolungata a tre, a sei e finalmente a otto anni, ma non dava accesso ad altri studi; il ginnasio-liceo di otto anni, cioè la scuola media e secondaria destinata alle classi dirigenti, incominciava a undici anni, con un esame di ammissione, e accoglieva ragazzi istruiti in famiglia e anche alunni della quinta classe della scuola elementare che attraverso l'esame avessero dimostrato di poter affrontare studi ulteriori. Il ginnasio-liceo dava accesso all'università. Per gli impieghi tecnici e per la preparazione degli insegnanti elementari esistevano scuole secondarie apposite, più brevi, da cui non si poteva accedere agli studi universitari.

Soltanto nell'ultimo mezzo secolo il nostro sistema scolastico, attraverso una lunga serie di trasformazioni, è diventato unitario, e addirittura unico dai sei ai dodici anni; e si è articolato in modo da soddisfare tutte le esigenze moderne di istruzione, in tutti i suoi attuali ordini e gradi (gli "ordini" sono diversi tipi di scuola; i "gradi" sono quelli elementare, medio, secondario) consentendo a tutti di giungere all'università.

Anche il processo di distribuzione delle scuole nel paese fu lunghissimo e faticoso, soprattutto nel Meridione.

Inizialmente lo Stato aveva stabilito di assegnare almeno le scuole elementari alle amministrazioni comunali, in modo che ognuna potesse avere la propria; ma per una serie di ragioni politiche, economiche e culturali il progetto fallì: molti comuni infatti non avevano i mezzi per sostenere le spese necessarie a una scuola, o addirittura non ne capivano l'utilità. Lo Stato dovette progressivamente farsi carico di tutte, e via via che la popolazione cresceva provvide anche a istituire le scuole secondarie nei centri che raggiungevano una certa popolazione.

Tale sviluppo organizzativo dovette tener conto dell'aumento della popolazione scolastica che cresceva in virtù dell'incremento demografico e per l'ampliarsi del territorio nazionale con l'annessione di nuove regioni dal 1870 al 1918. A esso corrispondeva la necessità di sviluppare gli uffici che dovevano occuparsi dell'organizzazione materiale della scuola, del suo funzionamento, dell'assunzione e del pagamento degli insegnanti, dei dirigenti e dell'altro personale. Ma uffici significa burocrazia, e cioè una gerarchia di funzionari che ha alla base le segreterie delle scuole, e poi uffici provinciali e regionali, dipendenti tutti da un ministero: il Ministero della pubblica istruzione. Una burocrazia efficiente rende la scuola efficiente, ma sovente, quando si parla di burocrazia, ci si riferisce ai tempi lunghi che impiega una decisione di un ufficio centrale, passando per altri uffici, per giungere alla singola scuola; e anche ai tempi che occorrono alla richiesta di una scuola per giungere al ministero, esser considerata e quindi accolta o respinta. L'azione del nostro sistema scolastico è stata sempre rallentata dalla sua burocrazia; ma di questo aspetto è difficile fare la storia, come è difficile fare la storia dell'edilizia scolastica (anch'essa parte della realtà organizzativa della scuola) che è sempre in ritardo sulle necessità per ragioni finanziarie e per lungaggini burocratiche.

D'altra parte l'aspetto organizzativo consente di rendersi conto di come la scuola pubblica costituisca l'organizzazione più imponente del paese. Nessun'altra istituzione infatti deve provvedere ogni giorno ai bisogni di milioni di persone (gli alunni) mediante l'attività di centinaia di migliaia di insegnanti, oltre agli impiegati negli uffici. Perciò il sistema scolastico è uno dei maggiori problemi di uno Stato, un problema politico.

Quando si è accennato al Ministero della pubblica istruzione implicitamente si è toccato l'aspetto politico della scuola. Tutto quel che si è detto finora di essa non avrebbe senso se non ci fosse una volontà politica a metterlo in atto. Occorre che lo Stato manifesti questa volontà attraverso il suo potere legislativo, il Parlamento, che fa le leggi con cui la scuola viene istituita, organizzata, fornita del personale (insegnanti, funzionari degli uffici scolastici) e soprattutto finanziata, perché ogni suo aspetto costa, e costa molto.

L'applicazione delle leggi spetta al governo, ossia al Consiglio dei ministri, e per quanto riguarda la scuola spetta in particolare al ministro della pubblica istruzione, che è responsabile dell'attività dell'intero sistema scolastico.

È il Ministero che assume gli insegnanti mediante procedure stabilite dalla legge, li distribuisce nelle scuole, li controlla, li paga; è il Ministero che stabilisce i programmi scolastici, ossia le finalità e i contenuti dell'insegnamento di tutte le scuole, la durata di ogni insegnamento, gli orari di ogni scuola, i modi di controllare l'efficacia del lavoro degli insegnanti. Ed è sempre il Ministero che in base a questi controlli (gli esami) rilascia i titoli di studio, ossia i diplomi che garantiscono la preparazione degli studenti. Ma questa, in sostanza, è la storia di come la classe politica ha considerato e trattato la scuola, con quali criteri e per quali fini l'ha sviluppata, a cui si è già accennato parlando della funzione politica e sociale della scuola stessa e della sua organizzazione.


Scuola e storia della didattica e dell'educazione

Tutto quel che si è detto fin qui riguarda la scuola intesa come istituzione: dagli edifici in cui è alloggiata, alla sua organizzazione in sezioni e in classi, ai suoi orari, alle varie scadenze (apertura, chiusura, scrutini, esami), all'assunzione degli insegnanti, ai suoi uffici amministrativi, al suo finanziamento ecc. Ma la scuola consiste soprattutto nei suoi alunni, per i quali è istituita, nei contenuti culturali che vengono loro trasmessi e negli insegnanti che devono mettere gli alunni in grado di impadronirsene. E questa è tutta storia interna alla scuola.

Quanto agli alunni, si è già detto che essi non sono stati accolti dalla scuola tutti insieme e tutti allo stesso modo. Quelli provenienti dalle famiglie delle classi dirigenti hanno subito avuto a disposizione la scuola di cui avevano bisogno per continuare a essere, a loro volta, classe dirigente. Gli alunni provenienti dalle classi popolari hanno avuto inizialmente soltanto la scuola elementare, e in seguito scuole meno lunghe e meno costose che aprivano la via soltanto al lavoro dei campi, ai mestieri artigianali, al lavoro nelle fabbriche; per la piccola borghesia si sono sviluppate le scuole tecniche. C'è voluto molto tempo perché diritti e possibilità nella scuola fossero uguali per tutti, anche se oggi esistono le prove che tali diritti vengono riconosciuti solo formalmente: molti ragazzi infatti non vanno a scuola (è il fenomeno dell'evasione scolastica), molti altri l'abbandonano prima della fine (è il fenomeno della dispersione scolastica). Una scuola riesce a essere davvero tale solo quando è capace di eliminare o almeno ridurre drasticamente questi fenomeni. E in ciò consiste il suo aspetto più importante, cioè l'aspetto didattico.

La cultura fornita dalla scuola risponde a progetti educativi formulati dallo Stato attraverso i programmi scolastici, che propongono i fini dell'educazione e i contenuti culturali necessari a realizzarli e qualche volta forniscono anche indicazioni di metodo (oppure lasciano in materia libertà totale all'insegnante). I programmi di solito servono di base e di orientamento agli editori di testi scolastici (manuali, opere di completamento ecc.) e ai produttori di altri materiali didattici. Sempre più frequenti sono anche le riviste specializzate che forniscono a loro volta orientamenti e materiali di vario tipo, ricavati sia dalle indicazioni dei programmi sia dalla letteratura pedagogica e didattica.

Con questa letteratura (collane di volumi di pedagogia, didattica, scienze dell'educazione) si entra nel campo della formazione degli insegnanti e del loro aggiornamento professionale. Questo è uno degli aspetti fondamentali della storia della scuola, poiché nell'ambito del sistema scolastico gli insegnanti svolgono una funzione essenziale sebbene la loro storia sia quella di una classe di professionisti generalmente maltrattata sia dal punto di vista della formazione culturale e professionale, sia da quello dei riconoscimenti morali e materiali: soprattutto dal punto di vista economico gli insegnanti sono sempre stati agli ultimi posti fra le professioni di interesse pubblico.

Questo dispregio di un lavoro così importante è la conseguenza di una falsa concezione dell'educazione, per la quale si crede che chiunque sia in grado di educare: tanto che, come si è accennato, per molto tempo le famiglie benestanti si sono sostituite alla scuola nella prima educazione dei figli, con il consenso della legge che, nel nostro paese, autorizzava la cosiddetta "scuola paterna" in sostituzione di quella pubblica. E ciò è avvenuto non senza buone ragioni, poiché per secoli gli insegnanti sono diventati tali — soprattutto nella scuola elementare — solo dando prova di una certa cultura, ritenuta sufficiente a impartire i rudimenti delle conoscenze ("leggere, scrivere e far di conto"); e se nelle scuole secondarie si richiedeva loro di conoscere bene le materie che avrebbero dovuto insegnare, non ci si preoccupava però di come le avrebbero insegnate: ossia non si immaginava che l'insegnamento richiedesse una preparazione specialistica.

Solo molto lentamente e faticosamente gli sviluppi della pedagogia, della didattica, della psicologia e sociologia dell'educazione e di altre ricerche scientifiche concernenti la progettazione e la valutazione del rendimento degli alunni hanno fatto capire la profonda differenza tra l'educazione familiare (la quale serve a porre le basi della personalità, ma richiede semplicemente l'assimilazione da parte dei bambini dei comportamenti dei familiari, e in primo luogo dei genitori) e l'educazione scolastica, nella quale in un tempo necessariamente limitato ogni insegnante deve trattare con un numero variabile, ma sempre alto di alunni, riuscendo a ottenere da ognuno di essi un rendimento culturale soddisfacente. La "crisi della scuola" di cui da sempre si parla è in gran parte la conseguenza dello scarso interesse della società alla formazione di insegnanti davvero competenti, ossia padroni di una didattica efficace.

Ne segue che l'insegnamento costituisce a volte un'occupazione di ripiego (per chi ha fallito in altre professioni, secondo l'adagio assai diffuso: "Chi sa lavora, e chi non sa insegna"), o aggiunta ad altre. Per esempio, le donne tradizionalmente l'hanno spesso scelta perché lascia il tempo libero necessario ad accudire la famiglia. La storia della scuola è perciò anche quella di una progressiva rivalutazione della professione dell'insegnante (tanto sul terreno culturale e tecnico quanto su quello economico) in vista della quale gli insegnanti si sono organizzati in associazioni professionali e sindacali attraverso cui far valere i propri diritti: una professione sempre più difficile a svolgersi, via via che gli studi delle scienze dell'educazione vanno rivelando quanto sia arduo ottenere dagli alunni di ogni età e condizione sociale un effettivo apprendimento (e non quell'"imparaticcio" che fa parlare, come si è visto, di "crisi della scuola").

La storia dell'educazione fa dunque da sfondo alla storia della scuola. Come si diceva all'inizio, la scuola è un'istituzione che nasce nelle società più complesse, che non possono più contare sul fatto che i bambini e gli adolescenti assimilino casualmente, per il semplice fatto di viverci in mezzo, la cultura necessaria per essere elementi validi della società futura (basta guardarsi intorno, tra le persone con cui si viene a contatto, per poter giudicare della maggior o minore efficienza e utilità di ognuna alla vita sociale). Perciò la storia dell'educazione è assai più lunga e più ampia della storia della scuola. Noi non possiamo risalire ai suoi inizi, ma certo almeno ai primi tentativi documentati di tener conto dell'esistenza di una questione educativa. Poi la sua storia si confonde con quella della cultura, soprattutto di quella filosofica, fino a che la questione educativa non darà luogo alle prime ricerche scientifiche.

Tuttavia la scuola dipende per la sua storia anche da quella del progresso culturale del paese, e quindi, soprattutto nei tempi moderni, dell'università. L'università, in primo luogo, con i risultati che ottiene dalla propria attività di ricerca influenza i contenuti dei programmi scolastici; inoltre essa ha sempre avuto il compito di formare gli insegnanti della scuola secondaria, e da qualche anno anche quello di formare i maestri.

Si è arrivati a questo risultato via via che nell'università si sono andate affermando le scienze dell'educazione che, insieme con la pedagogia, hanno avuto il merito di rendere evidente la necessità della formazione professionale degli insegnanti, approfondendo lo studio dei modi e dei metodi di insegnare. Oggi l'università, almeno in molti suoi settori, ha stabilito un saldo rapporto con il sistema scolastico: anche perché soltanto migliorando l'efficienza e l'efficacia del sistema essa può sperare di veder giungere nelle sue aule giovani preparati a continuare gli studi.

Perché dunque la storia della scuola? Che senso ha studiare la storia della scuola?

Quanto si è detto finora può servire a dare una risposta. Chi entra nella scuola oggi ne ha un'idea che risale a quella che se ne fece frequentandola da studente. Ma la prospettiva degli studenti investe soltanto alcuni dei suoi aspetti, e soprattutto non tiene conto delle origini dell'istituzione in cui si entra e si lavora ogni giorno. Dagli studenti è frequente sentir dire che la scuola serve a poco o a nulla; ed è comprensibile che ciò accada quando essa non si fa percepire come una realtà necessaria. La maggior parte degli adulti oggi conserva della scuola l'immagine che ne aveva da studente, buona o cattiva a seconda dell'esperienza vissuta, ma non immagina che molte delle difficoltà e delle delusioni incontrate siano dipese dalla poca professionalità degli insegnanti: perché l'idea che l'insegnante sia un professionista e un tecnico purtroppo non appartiene ancora alla nostra cultura.

Anche molti fra gli insegnanti più anziani partecipano di questa ignoranza, perché la loro formazione non ha avuto nulla di professionistico. È verissimo anche che ognuno di noi conosce insegnanti che sono meri mestieranti e svolgono da dilettanti e senza passione la propria professione: non per nulla spesso la scuola è, come si è detto, un'occupazione di seconda scelta. Tuttavia, se si vuole entrare nella scuola con l'intento di lavorare seriamente, oggi non è più possibile professare una simile idea; ed è proprio il tipo del mestierante dilettante che una seria formazione professionale intende eliminare impegnando gli aspiranti insegnanti in una formazione che dovrebbe servire a selezionarli adeguatamente.

La storia della scuola dovrebbe chiarire anche, fra l'altro, proprio l'evoluzione della figura dell'insegnante. Ma non solo. In quanto problema politico non si può comprendere la scuola senza sapere da dove viene come istituzione e quali vicende politiche ha attraversato.

Pur prescindendo dal fatto che attraverso la storia della scuola anche il progresso sociale e civile delle nazioni appare più chiaro, essa può aiutarci a capire alcune "questioni" che hanno profondamente caratterizzato la vita politica e sociale del nostro paese. Per esempio, esiste anche oggi in Italia una "questione scolastica" nella quale si fronteggiano lo Stato e la Chiesa cattolica. Perché accade questo? Qual è l'interesse della Chiesa per la scuola? Quale è stata nel tempo la sua azione in essa? Perché quell'interesse si scontra con quello dello Stato? Perché in Italia accanto alla scuola pubblica esistono scuole private in gran parte religiose?

Avere un'idea di come la scuola pubblica sia nata e sia andata crescendo, significa comprendere i problemi che essa ha dovuto - o cercato di – risolvere, problemi che ancora oggi, con modalità più o meno differenti, si ripresentano. Per esempio: da qualche tempo si parla spesso di autonomia scolastica, e la si interpreta, tra l'altro, anche nel senso che la scuola può essere lasciata dallo Stato alle regioni, e da queste agli enti locali (comuni e provincie); e che le scuole in definitiva possono addirittura amministrarsi e programmare da sole il proprio lavoro. Se si conosce la storia della scuola italiana ci si potrà chiedere se sia davvero il caso che questo accada, visto che le scuole elementari quando erano comunali funzionavano, in molte parti del paese, poco o nulla; e ci si può anche chiedere: se è vero che la scuola dovrebbe educare i futuri cittadini italiani a un minimo di valori ideali comuni, e la nostra scuola ha svolto più o meno bene proprio questo compito, sarà possibile alle regioni sostituirsi allo Stato nell'organizzare un tale insegnamento? E poi, quale pratica, quali tradizioni hanno le regioni in campo scolastico? L'organizzazione della scuola è tutt'altro che un compito facile, e da essa dipende per certi aspetti importanti tutta la sua attività.

Stando così le cose, è ovvio che la storia della scuola non dovrebbe interessare soltanto gli insegnanti. Essi devono viverci dentro e devono quindi sapere quel che occorre a chiunque che, assumendo un lavoro, non può esser sicuro di farlo bene se non conosce la ragione di certi modi di concepirlo, di organizzarlo, di valutarlo. E devono anche sapere quanto è cambiata la scuola da quella che un tempo li vide studenti. Ma la storia della scuola dovrebbe essere ben conosciuta anche da ogni cittadino che, in ultima analisi, è chiamato a decidere direttamente, o attraverso i suoi rappresentanti, le sorti della scuola in un mondo in continua trasformazione. Le questioni che abbiamo appena accennate come esempi potranno essere risolte in un modo o nell'altro. Il modo peggiore di risolverle però sarebbe quello di deciderle senza conoscerne né la storia né la sostanza, come non di rado è accaduto nella storia civile del nostro paese.

Pescara, luglio 1998

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Introduzione alla prima edizione


Vi è uno stretto rapporto fra la storia generale della società italiana e la storia particolare della sua scuola, delle teorie educative e degli interventi legislativi che ne hanno accompagnato la nascita e lo sviluppo dall'Unità a oggi. La prima, cioè la storia d'Italia in quasi un secolo e mezzo di vita unitaria, sembra racchiudere in sé la seconda, nel senso che al suo interno, accanto agli aspetti sociali, politici ed economici, insieme a quelli civili e culturali, trovano posto anche i processi di scolarizzazione, con i loro risvolti non solo pedagogici e educativi, ma anche legislativi e amministrativi. Pertanto, quando si scrive la storia del paese, si scrive, o si dovrebbe scrivere, anche la storia della sua scuola, che in questo caso diventa la parte di un tutto più ampio e complessivo, così come in un grande quadro vivono una quantità di dettagli e di particolari, alcuni posti in evidenza, altri lasciati sullo sfondo.

Tuttavia è possibile, e talora necessario, seguire un cammino in qualche modo inverso, che metta in primo piano la storia educativa e scolastica della società italiana e la legga nel più vasto contesto della vita nazionale. Non si tratta, è bene chiarirlo, di accostare la lente d'ingrandimento al quadro che stiamo esaminando, per evidenziarne un particolare; si tratta piuttosto di cambiare l'angolo di osservazione, quasi di entrare dentro il quadro e da li, in una rinnovata prospettiva, guardare al resto della tela. In questo modo, non solo si portano in primo piano le vicende connesse al mondo della scuola e dell'educazione, ma si getta una luce diversa sulla stessa storia generale della società italiana. In sostanza, non si scrive un'altra storia, né si indugia su una storia particolare (non solo, almeno), ma si arricchisce di nuovi particolari, e magari di qualche piccola scoperta, la storia che già si credeva di conoscere.

È quello che si cercherà di fare nelle pagine che seguono, proponendo al lettore un'analisi disposta su piani diversi, soffermando l'attenzione su alcuni aspetti specifici (la gestione statale della pubblica istruzione, l'analfabetismo e l'obbligo scolastico, il rapporto tra Stato e Chiesa sul terreno educativo, la formazione e la condizione degli insegnanti) che hanno svolto un ruolo di particolare rilievo nella storia della scuola e della società italiana, in qualche caso giungendo a dispiegare i loro effetti fino ai giorni nostri. Alcuni di tali problemi, infatti, sono ancor oggi all'attenzione del mondo scolastico, delle forze politiche e dell'opinione pubblica: pur essendo mutati i termini nei quali si ponevano in passato, e pur nel cambiamento profondissimo del contesto sociale e culturale all'interno del quale si collocano, può essere interessante riscoprirne le radici storiche, insieme con le ragioni di una così lunga permanenza.

Secondo una visione ormai consolidata, e generalmente accolta nella manualistica dedicata alla nostra storia contemporanea, all'indomani dell'Unità il giovane regno si trovò ad affrontare alcune grandi questioni la cui soluzione, e talora la mancata soluzione, peserà in modo decisivo sul successivo sviluppo della società italiana. Tradizionalmente si indicano a questo proposito: a) la questione sociale, connessa alla diffusione dei processi di industrializzazione e alla nascita di un vasto proletariato urbano. Masse sempre più ingenti di lavoratori vivevano in condizioni di miseria, privi di diritti civili (il voto, per esempio) e di strumenti di rappresentanza politica. L'ascesa di questo strato sociale e la sua capacità di organizzarsi in leghe, cooperative, partiti e sindacati, daranno vita a un'aspra lotta di classe che conoscerà scontri drammatici, conquiste faticose e penosi arretramenti, almeno fino a quando non si giungerà al riconoscimento dei più elementari diritti dei lavoratori; b) la questione meridionale, espressione con la quale si indicava, e tuttora si indica, il profondo divario tra il Nord e il Sud del paese. Divario economico, in primo luogo, ma anche sociale e culturale, connesso a una secolare diversificazione della storia del Mezzogiorno rispetto al resto dell'Italia, almeno dai tempi dei comuni e delle signorie; c) la questione romana, la cui complessità andava ben oltre la conquista di "Roma capitale", ma investiva il problema del rapporto tra Stato e Chiesa, complicato allora dalla permanenza del potere temporale della Chiesa di Roma, e la funzione dei cattolici nella vita nazionale.

Non è riduttivo ricondurre a queste tre questioni le vicende più significative che hanno caratterizzato i primi decenni di storia dello Stato unitario, a patto di considerarle nella molteplicità delle rispettive implicazioni, che per ciascuna di esse sono di natura sociale ed economica, oltre che ideale e culturale. In alcuni casi, inoltre, occorre prendere atto che ancora ai nostri giorni permangono aspetti non risolti di quelle antiche questioni, sia pure in termini molto lontani da quelli originari; il problema del Mezzogiorno è forse il caso più evidente, ma sarebbe possibile dimostrare che gli attuali travagli del cosiddetto "Stato sociale" affondano le loro radici storiche nella questione sociale, mentre ancor oggi si discute sulla presenza e sul ruolo dei cattolici nella società italiana, sul loro rapporto con la gerarchia cattolica, agitando tematiche già presenti in forma aurorale nella questione romana.

Tuttavia sarebbe utile annoverare, accanto alle tradizionali questioni storiche, anche una questione scolastica, connessa con le altre, così come del resto quelle sono tra loro connesse, e al tempo stesso dotata di una propria peculiare specificità. Cosa si intende per questione scolastica? Si potrebbe partire dalla realtà dell'analfabetismo, una piaga radicata in un passato millenario, diffusa al punto da dare al Regno d'Italia quasi un triste primato tra le grandi potenze europee, gravida di conseguenze che andranno ben al di là dell'incapacità di leggere e scrivere. Infatti per molti decenni questa vera e propria invalidità civile impedirà all'analfabeta di esercitare il diritto di voto, lo condannerà ai lavori più umili e lo collocherà ai margini della società. L'analfabetismo si mantenne su percentuali altissime per molti decenni dopo l'Unità, con aspetti particolarmente allarmanti al Sud e tra le donne. Era pertanto un effetto della più complessiva questione meridionale e al tempo stesso, tuttavia, agiva anche come causa, una fra le tante ma certo di non poco rilievo, dell'arretratezza del Mezzogiorno. Per questo verso, dunque, la questione scolastica incrocia la questione meridionale e, per ragioni in parte analoghe, anche quella sociale. Infatti non è una scoperta dei nostri tempi la correlazione esistente tra alti livelli di istruzione e condizioni lavorative più appaganti, più matura partecipazione alla vita politica e più diffusa consapevolezza civile. Lo sapevano bene i gruppi dirigenti liberali, quelli che, compiuta l'unificazione, hanno guidato i primi passi dello Stato unitario; lo sapevano così bene che per molti decenni hanno fatto di tutto per limitare, anziché diffondere, l'istruzione e la scolarizzazione, timorosi che il risveglio delle coscienze avrebbe finito con l'intaccare i loro privilegi. Vi era tuttavia anche un altro modo di guardare al rapporto fra istruzione e questione sociale, come è ricordato dalla notissima testimonianza di Pasquale Villari:

Che volete che faccia dell'alfabeto colui al quale manca l'aria e la luce, che vive nell'umido, nel fetore, che deve tenere la moglie e le figlie nella pubblica strada tutto il giorno? Se gli date l'istruzione, se gli spezzate il pane della scienza, come oggi si dice, risponderà come ho inteso io: "lasciatemi la mia ignoranza, poiché mi lasciate la mia miseria".

Villari, e pochi altri con lui, con queste parole intendeva denunciare l'eccessivo ottimismo, ancora di marca illuministica, che affidava alla scuola un compito sproporzionato rispetto alle sue forze: era illusorio, e un po' paternalistico, pensare che sarebbe bastata una limitata quantità di istruzione elementare per alleviare le tremende condizioni di vita di settori larghissimi della società italiana. L'educazione era necessaria, purché accompagnata da un più generale impegno economico e sociale per battere, insieme con l'ignoranza, anche la miseria.

La scolarizzazione difficile: ecco la prima lezione da trarre se si volesse riassumere in un'unica espressione la realtà della questione scolastica osservata dal punto di vista della lotta contro l'analfabetismo. Si smentirebbe così uno dei luoghi comuni più acriticamente accettati: che la diffusione del sapere abbia accompagnato, sempre e con naturalezza, lo sviluppo di una società come quella italiana, avviata sulla strada della modernizzazione. È vero piuttosto che la scolarizzazione è stata un processo faticoso, una conquista a lungo contrastata, i cui esiti hanno pesato e pesano tuttora sulla nostra identità nazionale.

Questione scolastica, tuttavia, non è solo analfabetismo; alla scuola e all'istruzione le classi dirigenti postunitarie affidarono tra gli altri il compito di unificare il comune sentire degli italiani, di creare cioè quella coscienza nazionale che nelle sue punte più avanzate aveva sì sospinto il processo di unificazione, ma che era poco diffusa negli strati più profondi della società. «Il più grande problema che l'Italia dovette affrontare nel suo costituirsi a Stato moderno fu quello di creare una unità nazionale operante nella coscienza dei cittadini. E questo compito la classe dirigente affidò alla scuola.» Questa circostanza porta a trarre una seconda lezione, in termini di sproporzione tra i fini e i mezzi: la nostra scuola si caratterizza, fin dalle origini, per lo scostamento permanente fra la vastità dei fini che a parole le vengono indicati e l'assoluta insufficienza dei mezzi che di fatto le vengono assicurati. Che si trattasse, come nel passato, del difficile compito di fare gli italiani, o che si tratti, come oggi si ripete, di formare l'uomo e il cittadino, resta il dato costante di un impegno di risorse inadeguato a così alte finalità. Certo, il giovane Stato unitario doveva confrontarsi con compiti immani in tutti i campi della vita civile; tuttavia la scarsa attenzione dedicata alla pubblica istruzione, in particolare a quella elementare e a quella tecnica, è testimoniata anche dall'esiguità dei bilanci. Ricostruire i caratteri e i tempi di questo processo, identificarne i protagonisti e gli interlocutori, insieme con gli esclusi che deliberatamente furono tenuti ai margini, significa leggere la nostra storia recente con un metodo non dissimile da quello adottato per le altre grandi questioni.

Quando si guarda alla vicenda scolastica postunitaria come a una grande battaglia ideale e culturale per la formazione di una nuova coscienza nazionale, ci si imbatte inevitabilmente in una questione romana, cattolica sarebbe più corretto dire, all'interno della questione scolastica o, se sipreferisce, nel problema del ruolo dei cattolici (gerarchia, clero, fedeli, istituzioni educative) nei confronti dell'istruzione e del nascente sistema scolastico a gestione pubblica. La tendenza a una graduale statalizzazione dell'istruzione, accompagnata in molti casi dalla sua progressiva laicizzazione, si manifesta nella storia europea ben prima dell'unità d'Italia e ben oltre i suoi confini, suscitando da parte della Chiesa fieri atteggiamenti di reazione. Reazione che in Italia assumeva aspetti particolarmente aspri, in quanto la Chiesa si sentiva al centro di un'offensiva che la investiva su più piani: si pensi allo spossessamento dei suoi domini territoriali e alla proclamata decadenza del potere temporale; alle mire sabaude, apertamente dichiarate e condivise da un vasto arco di forze politiche e sociali, per la conquista di Roma, sacra alla cristianità, e la sua proclamazione a capitale del regno; si pensi ancora alla propaganda e all'opera di proselitismo cui si dedicarono schiere di liberali, mazziniani, radicali, socialisti, anarchici, spesso atei e anticlericali; a tutto ciò si voleva aggiungere la spoliazione della Chiesa della sua secolare funzione educativa, a favore di uno Stato sentito come usurpatore anche sul terreno delicatissimo della formazione delle coscienze. Per la Curia romana, l'educazione laica affidata allo Stato, l'obbligo scolastico, l'istruzione per tutti (che in realtà ben pochi sollecitavano nell'Italia postunitaria) rappresentavano altrettanti errori dottrinali, minacce gravissime alla santità dei costumi, pericoli mortali per il corretto mantenimento dell'ordine costituito. Il Sillabo si incaricherà di condannare in blocco tutto il nuovo che ribolliva nel calderone della modernità, e la politica scolastica sarà il terreno sul quale si svolgeranno le battaglie più aspre tra Stato e Chiesa per affermare i rispettivi punti di vista. Terreno di scontro, dunque, la scuola, ma talora anche di incontro: non sono mancati infatti, nel corso dei decenni, compromessi, scambi e cedimenti, via via che la presenza dei cattolici nella vita politica nazionale cresceva e che le compagini governative avevano bisogno del loro appoggio nel Parlamento e nel paese, insieme con quello delle potentissime forze che essi in qualche modo rappresentavano.

Il punto di confluenza tra questione romana e questione scolastica è di quelli che con maggiore chiarezza mostrano una contraddizione di fondo della storia educativa e scolastica dall'Unità a oggi: quanto più la battaglia ideale e culturale attingeva le vette rarefatte del confronto sull'uomo, sulla sua formazione, sul suo destino terreno e, per i credenti, ultraterreno, tanto più il processo decisionale sui temi dell'istruzione oscillava tra paralisi decisionali, accordi di basso livello, furbizie e forzature. Se ne potrebbe trarre una terza lezione, da definire come mercimonio dei trenta denari: la scuola è stata a lungo, e per più versi resta ancora, il terreno sul quale principi ideali di grande portata, reclamizzati come merce pregiata, sono stati svenduti a prezzi di saldo in cambio di piccoli vantaggi: politici, soprattutto, ma anche di volta in volta economici, sindacali, categoriali. Molti di coloro che ne hanno tratto vantaggio non esitano a condannare il deplorevole stato della pubblica istruzione, al cui scadimento hanno contribuito, al punto che oggi il laico difende il principio della scuola di Stato ma poco si riconosce in questo sistema formativo, mentre il cattolico tende ad affermare un progetto educativo cristianamente ispirato, e dunque poco si identifica con la pubblica istruzione così com'è. Osservazioni analoghe si possono fare per l'intellettuale, l'uomo politico e di governo, l'imprenditore, il sindacalista, lo studioso, tutti intenti a proclamare con forza la centralità dell'educazione per lo sviluppo del paese, e tutti convinti assertori della crisi e dello sfascio della scuola e dell'educazione made in Italy. Scuola e educazione che, per parte loro, si avviano al Terzo millennio gravate da residui ottocenteschi e proiettate verso mete futuribili ma, quel che più conta, spesso ignare delle radici dalle quali sono sorte e immemori della propria storia.

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5. Verso la scuola di massa (1970-1990)


5.1 Premessa

Dopo gli anni sessanta il connotato selettivo ed elitario del sistema formativo italiano si viene lentamente sgretolando e in suo luogo emerge una dimensione di massa, i cui elementi di fondo possono essere così sintetizzati: a) l'ingresso nella scuola di una popolazione studentesca sempre più numerosa ed eterogenea per estrazione sociale e culturale; b) l'acutizzarsi della questione degli insegnanti, all'interno della quale si ponevano in termini nuovi sia i temi tradizionali (formazione, reclutamento, retribuzione, stato giuridico) sia quelli emergenti (contenuti e finalità della professione docente, percezione del proprio ruolo, status sociale della categoria); c) la progressiva interazione tra scuola ed extrascuola.


5.2 Ecco s'avanza uno strano studente

In una situazione di crescente benessere, le famiglie vedevano nella scuola un canale di promozione sociale per i propri figli, la possibilità che acquisissero, attraverso un titolo di studio (non il semplice "pezzo di carta"), una qualificazione professionale spendibile sul mercato del lavoro. Spingevano in questa direzione la diffusione dell'istruzione di base, appena ridefinita con la scuola media unica, e la maggiore facilità di accesso agli studi secondari. L'istruzione cessava di essere privilegio per pochi e la nascente scuola di massa, se era aperta a tutti solo sul piano formale, ne accoglieva pur sempre molti. Con questo carico di aspirazioni e di aspettative, la popolazione studentesca si modificava sia sul piano della quantità sia su quello della qualità.

Per quanto riguarda la quantità, l'Italia giungeva con grande ritardo a livelli di scolarizzazione paragonabili a quelli degli altri paesi europei. Nel decennio 1964-1974 gli alunni elementari raggiungono quasi i 5 milioni, con una crescita del 12,4 per cento; gli studenti della scuola media assommano a 2,5 milioni, con un aumento del 50,2 per cento; quelli della scuola secondaria arrivavano a 1,7 milioni con un incremento del 96,8 per cento. Le percentuali crescono al crescere del grado scolastico e, soprattutto, sono inversamente proporzionali alle grandezze di partenza. I dati sono imponenti e tuttavia restano lontani dagli standard delle altre società avanzate: nel 1975 il 62,3 per cento di tutti gli occupati non aveva nessun titolo di studio o arrivava al massimo alla licenza elementare, il 22,8 per cento aveva la licenza media, i diplomati erano solo 1'11,1 per cento e i laureati il 3,8. Parlare di scuola di massa non significa che tutti vi accedessero, ma solo che aumentava in modo considerevole, e per la prima volta, il numero di quanti potevano farlo.

Sul piano della qualità mutava la composizione sociale della popolazione studentesca (e, seppure in misura minore, dei docenti), con l'ingresso sempre più massiccio nelle aule scolastiche di ragazzi provenienti da gruppi e ceti sociali fino ad allora esclusi dall'istruzione. Il fenomeno si avvertì meno nella scuola elementare, che già da tempo accoglieva al suo interno bambine e bambini appartenenti alle più diverse fasce sociali e zone geografiche del paese, mentre fu più acuto nella scuola media e, di lì a qualche anno, nel grado successivo. In particolare, la nuova scuola media, unica e obbligatoria, sostenne l'urto di schiere crescenti di studenti che dilagavano nelle sue aule muovendo dalla condizione di una storica marginalità, cui per la prima volta si aprivano le porte dell'istruzione. Avanzava uno strano studente proveniente dai ceti più deboli (contadini, operai, piccoli artigiani e commercianti, minuta borghesia in ascesa, le vaste sacche di immigrati meridionali), residente in zone svantaggiate (montagna, campagna o nelle recenti periferie urbane), appartenente a fasce d'età più "anziane" (dai quattordici anni in su) per via delle numerose bocciature collezionate in carriere scolastiche accidentate. Lo strano studente portava con sé culture, mentalità, persino linguaggi, che trovarono impreparati docenti, dirigenti e amministrazione; né si trattava solo di un dato sociologico: quella che alcuni consideravano una profanazione del tempio della cultura, e che altri salutavano come un'espansione della base sociale della scuola, imponeva una vera e propria riconversione dei processi di insegnamento e apprendimento, con cambiamenti rilevanti nelle teorie pedagogiche e nelle impostazioni didattiche. Da questo punto di vista, una delle denunce più appassionate resta la nota Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani e dei suoi ragazzi della scuola di Barbiana, una testimonianza destinata a incidere a fondo sul dibattito di quegli anni e di quelli successivi. Sulla base di dati ISTAT vi si documentava come su cento iscritti alla prima elementare nel 1954-1955, solo sessantasette uscissero dalla quinta classe nel 1958-1959, solo quarantanove si iscrivessero alla prima media o dell'avviamento, per uscirne in trenta al termine del triennio: la fascia dell'obbligo pertanto perdeva in otto anni il 70 per cento dei suoi effettivi. Cinque anni dopo la situazione era leggermente migliorata, ma mostrava ancora andamenti sconfortanti. La Lettera denunciava e documentava due fenomeni che erano in realtà sotto gli occhi di tutti: a) la scuola dell'obbligo operava una forte selezione fatta di bocciature, ripetenze, abbandoni; b) la selezione aveva carattere sociale, geografico e anagrafico: colpiva in misura maggiore lo strano studente, il Gianni del linguaggio di don Milani, mentre i Pierini, i ragazzi cioè provenienti da famiglie benestanti e urbanizzate, venivano promossi regolarmente. Queste circostanze concorsero per molti anni a una strana torsione della scolarizzazione di massa, che era tale più in entrata, per le possibilità di accesso al sistema formativo, che in uscita, per le persistenti forme di selezione che restavano di fatto ancorate alla condizione sociale delle famiglie.

L'analisi di don Milani, e altre dello stesso tenore, andavano oltre la "professoressa" cui la Lettera era indirizzata: in realtà un buon numero di insegnanti, la stessa amministrazione scolastica e i settori più conservatori del mondo politico, della cultura e dell'opinione pubblica, erano concordi nel difendere l'istruzione come privilegio per pochi, in nome di una vecchia concezione selettiva, di un atteggiamento elitario incompatibile con le ragioni stesse che avevano portato all'unificazione della scuola media. Né si trattava solo di bocciature, se si pensa al vero e proprio boicottaggio riservato al doposcuola, nato per compensare il deficit scolastico dei tanti Gianni sparsi per la penisola. Ne era consapevole don Milani quando, elencando «le riforme che proponiamo» scriveva: «I Non bocciare. II A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno. III Agli svogliati basta dargli uno scopo».

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5.5 Gli anni settanta

Abbandoniamo la scuola per un momento, e rivolgiamo la nostra attenzione ad alcuni cambiamenti sul terreno culturale e politico per ricordare, semplificando, che gli anni sessanta scoprirono la programmazione e gli anni settanta la partecipazione. La prima, con il sostegno più convinto delle componenti socialista e repubblicana dei governi di centro-sinistra, richiamava la necessità che lo sviluppo del paese, dopo una ricostruzione (1945-1958) impetuosa ma anche disordinata, fosse programmato da un'azione convergente degli apparati politici, dei tecnici e degli intellettuali, degli imprenditori e dei lavoratori, sotto la direzione unificante del Parlamento e del governo. Si invocava una comune assunzione di responsabilità per programmare, appunto, la produzione e la distribuzione della ricchezza nei diversi settori (industria, servizi, agricoltura), per colmare gli squilibri territoriali e sociali (Nord-Sud, città-campagna), per gestire l'uso del territorio (piani regolatori, programmazione compren- soriale), per ammodernare la scuola, l'università, la ricerca. Il tema della partecipazione o, come pure fu definita, della gestione sociale, intendeva coinvolgere associazioni, categorie e cittadini nei processi di sviluppo, anche al fine di contrastare sia l'opposizione a ogni disegno programmatorio, sia il rischio che la stessa programmazione imboccasse una deriva tecnocratica. Programmazione e partecipazione, in altri termini, sembravano due idee forza capaci di accrescere il tasso di libertà e di democrazia del paese, nel momento stesso in cui ne accompagnavano lo sviluppo economico e sociale.

Torniamo alla scuola e agli effetti prodotti al suo interno dai temi qui accennati. Nel corso degli anni settanta il nuovo "sistema scolastico di massa" si veniva configurando come un edificio più vasto e articolato rispetto alla scuola d'élite; una costruzione diversa non solo nell'architettura ma anche, quel che più conta, nelle finalità. Abbiamo osservato come tale trasformazione avvenisse all'insegna della spontaneità e in assenza di un'azione di governo dei pubblici poteri ovvero, per dirla nel linguaggio dell'epoca, al di fuori di una visione programmatica e senza la partecipazione dei diretti interessati. A sostegno di tale affermazione, si vedano sia i provvedimenti che allora furono adottati, sia le riforme tentate e che non riuscirono mai a vedere la luce. Tra i primi vanno annoverati i decreti delegati del 1974 che avrebbero dovuto rispondere alla necessità, sottolineata da più parti, di smantellare il centralismo scolastico, di articolare il sistema formativo su base territoriale, di aprirlo a una maggiore partecipazione delle componenti scolastiche e delle realtà extrascolastiche, mediante una diversa dislocazione di poteri e competenze; quasi un'anticipazione del tema dell'autonomia. Inoltre la "questione degli insegnanti" aveva prodotto fra gli altri effetti anche la richiesta di un generale riassetto dello stato giuridico del personale docente, direttivo e ispettivo, liberandolo da alcune incrostazioni ormai anacronistiche.

La legge n. 477 del 1973 autorizzava il governo a emanare quelli che da allora sono noti come "decreti delegati" e che videro la luce nel maggio del 1974: n. 416 sugli organi collegiali; n. 417 sullo stato giuridico del personale ispettivo, direttivo e docente; n. 418 sul lavoro straordinario; n. 419 sulla sperimentazione e la ricerca educativa; n. 420 sullo stato giuridico del personale non docente.

La normativa indicava gli ambiti territoriali per la gestione sociale di alcuni servizi educativi (l'orientamento, soprattutto) e di una serie di organi collegiali (provinciali, distrettuali, di istituto, di circolo, di classe) aperti alla partecipazione di insegnanti, famiglie, studenti e, in qualche caso, forze sociali; smantellava la rete dei centri didattici nazionali, dando un nuovo assetto a quelli che meritavano di sopravvivere (il Centro europeo dell'educazione di Frascati, la Biblioteca di documentazione pedagogica di Firenze); creava gli IRRSAE (Istituti regionali per la ricerca, la sperimentazione e l'aggiornamento educativi); riformava il Consiglio nazionale della pubblica istruzione. Franco Maria Malfatti, il ministro che varò i "decreti Malfatti", come furono maliziosamente ribattezzati, parlò di «rivoluzione silenziosa» per indicare la portata innovativa dei provvedimenti, ma anche per sottolineare polemicamente come la "maggioranza silenziosa" del paese si fosse presa una sorta di rivincita sulla rumorosa contestazione studentesca degli anni precedenti. In realtà le spinte verso la restaurazione avevano finito con il prevalere: gli organi collegiali erano un pallido sembiante di quelli proposti da numerosi studiosi e associazioni professionali di insegnanti non sospette di vagheggiamenti rivoluzionari; la partecipazione e la gestione sociale vennero irretite in una selva di organi, consigli e giunte dotati tutti di poteri generici, competenti solo ad "avanzare proposte", preposti ad amministrare fondi esigui. Il ruolo dell'amministrazione scolastica, centrale e periferica, uscì intatto dai nuovi provvedimenti, a dimostrazione del fatto che il sistema della pubblica istruzione non era stato realmente articolato sul territorio, lo spettro della partecipazione era stato esorcizzato e la gestione sociale ridotta a semplice palestra per tornei verbali. Gli organi collegiali ebbero un successo tanto grande quanto effimero: non appena le famiglie, gli insegnanti, gli studenti si accorsero della loro sostanziale inutilità, li disertarono in massa.

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5.6 Nasce il sistema scolastico

Quella disegnata dal conte Gabrio Casati e modificata nei decenni successivi, fino all'età giolittiana, era scuola intesa come istituzione nella quale i processi di insegnamento e apprendimento coinvolgevano insegnanti e studenti provenienti da ambienti culturali molto omogenei: la distanza che separava il maestro elementare dal professore di liceo era all'incirca la stessa che divideva gli alunni del primo dagli studenti del secondo. Quella voluta da Giovanni Gentile, "ritoccata" dal fascismo ed ereditata dalla repubblica continuava a essere una scuola con caratteristiche non molto dissimili: pur con nuovi percorsi formativi, le quantità di insegnanti e studenti erano ancora piuttosto esigue, e l'estrazione culturale degli uni e degli altri manteneva caratteri di relativa omogeneità. Del resto, dalla legge Casati in poi la finalità educativa della scuola era rimasta pressoché invariata: trasmettere il nostro patrimonio culturale dalle generazioni adulte a quelle più giovani, attraverso una modalità basata sul binomio formazione-selezione, nel quale il secondo termine era il necessario completamento del primo: la scuola selezionava palesemente e alla luce del sole, in ingresso, in itinere e in uscita, riproducendo le divisioni esistenti all'interno del tessuto sociale, con qualche giudiziosa eccezione per i pochi che riuscissero a essere cooptati all'interno dei ceti sociali più elevati. Tra fine Ottocento e primo Novecento la cultura pedagogica e la politica scolastica guardavano con diffidenza e sovente con ostilità al principio democratico dell'educazione (assicurare a tutti i cittadini un'adeguata formazione culturale di base) e al principio di utilità sociale dell'istruzione (raccordarla alle esigenze di crescita civile ed economica della società). Il secolare fallimento delle iniziative relative all'obbligo scolastico, i tentativi reiterati di creare sbarramenti e scuole "di scarico", testimoniano la volontà, sociale e culturale prima ancora che pedagogica o normativa, di perseguire una scolarità di contenimento più che di espansione.

La crescita della scolarizzazione, in atto già dagli anni cinquanta, assume ritmi più elevati nei decenni successivi — per effetto del grande sviluppo economico e dei connessi mutamenti sociali — e comporta la crisi progressiva del modello elitario da cui pure scaturiva. Tra i tanti elementi che l'hanno favorita, almeno due vanno sottolineati: a) i principi sanciti dalla Costituzione, ed in particolare il diritto per «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi» (art. 34) di raggiungere i gradi più alti dell'istruzione; b) la nascita della scuola media unica, come adempimento del dettato costituzionale e quindi come riconoscimento che il merito non è un privilegio sociale. Nelle pagine precedenti si è sottolineato come l'incipiente scolarità di massa abbia prodotto effetti non solo quantitativi, ma anche e soprattutto qualitativi, tanto che a partire da tali mutamenti l'espressione "sistema scolastico" sembra preferibile al termine "scuola". Quest'ultima rappresentava, e non solo per via di metafora, un edificio compatto e chiuso, modificato solo marginalmente dai cambiamenti intervenuti nel corso del tempo. Parlare di sistema connota invece una costruzione più complessa, articolata e differenziata al suo interno e più aperta all'esterno; un insieme di elementi architettonici a forte interdipendenza, tale che anche i ritocchi all'apparenza marginali finiscono per produrre effetti non previsti né secondari. I protagonisti di fondo restano, oltre a un apparato amministrativo abbastanza impermeabile ai cambiamenti, le tradizionali componenti (insegnanti, studenti e famiglie), divenute più numerose, socialmente composite e culturalmente diversificate come mai prima nella storia del paese. Oggi è difficile continuare a definire "scuola" un universo che comprende circa 1,3 milioni di dipendenti, 8,8 milioni di iscritti dalla scuola dell'infanzia alla secondaria, e le loro famiglie di ogni condizione e ceto sociale. Quanto ai rapporti con l'esterno, l'influenza esercitata sul sistema scolastico dalle agenzie educative extrascolastiche, dall'industria culturale e dello spettacolo, dalle comunicazioni di massa e, non da ultimo, dall'intero sistema produttivo, ha iniziato a farsi sentire già dagli anni sessanta ed è cresciuta enormemente nei decenni successivi. Parlare di sistema scolastico pertanto significa sottolineare la diversa articolazione e finalizzazione dei processi di scolarizzazione, disposti ormai più nella prospettiva dell' espansione che in quella del contenimento. Infine va sottolineato come questo passaggio, che ha in sé qualcosa di epocale per il nostro paese, non sia stato adeguatamente accompagnato da una funzione di guida dei pubblici poteri, rimasti deboli o assenti.

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5.7 Gli anni ottanta

La vita scolastica degli anni ottanta è segnata dall'abbandono dei grandi progetti di riforma, in favore di provvedimenti più limitati, disposti in una prospettiva di cambiamento processuale. Vi era del realismo in questo atteggiamento, e anche della rassegnazione: i tentativi di rinnovare in profondità la scuola secondaria e l'università avevano fatto registrare tanti fallimenti, che si imponeva un cambio di strategia. Nonostante ciò, o forse a causa di ciò, non mancarono provvedimenti importanti, soprattutto per la scuola dell'infanzia, per quella elementare e per l'università; qualcosa interessò la scuola secondaria, anche se la sua complessiva riforma appariva ormai un mito.

Nel 1990 furono rinnovati gli Orientamenti per la scuola dell'infanzia che erano fermi al 1969. Il nuovo documento rappresentava un buon punto di convergenza, in termini pedagogici e didattici, fra le diverse anime della commissione preposta alla sua stesura. Vi si ribadiva il carattere specifico della scuola dell'infanzia, ma al tempo stesso si sottolineava la prospettiva della continuità con l'istruzione elementare, in un percorso formativo articolato e unitario per tutta l'istruzione base.

La scuola elementare conobbe modifiche profonde nei programmi e negli ordinamenti. Nel 1981 era stata insediata la commissione ministeriale incaricata di riscriverne i programmi, fermi addirittura al 1955. La commissione Fassino, formata da psicologi e pedagogisti, da dirigenti e ispettori scolastici, da studiosi di diverso orientamento, produsse nel 1982 una prima relazione, detta «di medio termine», che aprì una vasta discussione dentro e fuori il mondo della scuola. La commissione, ampliata e affidata al coordinamento di Mauro Laeng, concluse i propri lavori l'anno successivo con la redazione definitiva del testo programmatico, integrato da un'impegnativa «lettera di accompagnamento». Finalmente nel 1985 il ministro Franca Falcucci, dopo aver apportato pesanti modifiche al documento, emanò i nuovi programmi della scuola elementare.

I programmi del 1985 raccoglievano quanto di meglio era stato elaborato negli ultimi decenni nel campo delle discipline psicopedagogiche e della ricerca didattica, realizzando un buon equilibrio tra istanze cognitive, tese all'acquisizione di una «alfabetizzazione culturale», cioè di una prima conoscenza critica della realtà da parte del «bambino della ragione», e le istanze relazionali, attente alla dimensione personale e affettiva del suo sviluppo. Il documento, inoltre, introduceva nuove materie (una lingua straniera e gli «studi sociali»), allargava lo spazio dedicato alle «educazioni» (motoria, all'immagine, al suono e alla musica), potenziava il ruolo della programmazione educativa e didattica nella costruzione del curricolo, prefigurava un ampliamento del tempo scuola e insisteva sull'importanza della continuità tra scuola dell'infanzia, elementare e media. I nuovi programmi richiedevano un modo diverso di pensare l'istruzione elementare e la stessa commissione, del resto, nella sua relazione «di medio termine» aveva sottolineato la necessità di superare la figura del maestro unico, di garantire una formazione universitaria per le insegnanti della scuola materna ed elementare e di dotare quest'ultima di nuovi ordinamenti. Questi giunsero cinque anni dopo i programmi del 1985, e cambiarono in profondità, per la prima volta in termini così incisivi, un assetto scolastico risalente alla riforma Gentile e per molti aspetti addirittura alla legge Casati: si pensi, per richiamare il dato di maggiore impatto, alla scomparsa della "maestra unica", sostituita da una pluralità di insegnanti, titolari di diversi ambiti disciplinari, che operavano su moduli di più classi. L'avvio della riforma è stato abbastanza difficoltoso e, come era già accaauto con la scuola media unica, molte maestre hanno scelto la strada del pensionamento anticipato piuttosto che stravolgere la propria professionalità fondata sulla titolarità esclusiva di una classe.

Per la scuola secondaria si apriva la stagione delle sperimentazioni. Abbiamo visto come nel 1969 l'esame di maturità fosse stato modificato in via sperimentale, lasciandolo così per quasi trent'anni. Governi e parlamenti hanno concepito la sperimentazione nel sistema scolastico come il vestito della festa del provvisorio, che resta tale per tempi indefiniti, senza che nessuno sperimenti nulla: principi, finalità, verifiche ecc. Il decreto delegato n. 419 del 1974 consentiva alle scuole di sperimentare, appunto, nuovi ordinamenti e programmi (minisperimentazioni) o nuovi corsi e indirizzi (maxisperimentazioni). Così, in assenza della riforma della secondaria, gli istituti magistrali hanno dato vita ai licei quinquennali linguistici, pedagogici, sociali, per attirare studenti interessati a iscriversi all'università; i tecnici e i professionali hanno attivato numerosi indirizzi orientati alle esigenze del mercato del lavoro, mentre i licei classici e gli scientifici si sono limitati ad aggiungere qualche disciplina, per poche ore. La si è definita «via amministrativa alla riforma» in quanto l'amministrazione scolastica vi ha svolto, ancora una volta, un ruolo importante; le maxisperimentazioni degli istituti magistrali, per esempio, sono nate nelle scuole private (e solo successivamente si sono estese a quelle pubbliche) in risposta alle esigenze dei gestori di quelle stesse scuole. Spesso le sperimentazioni erano prive di una visione d'insieme, assolte da una seria riflessione sull'utilità sociale di tanto fervore, talora all'insegna della discrezionalità e dell'improvvisazione. Agli inizi degli anni novanta la commissione Brocca elaborò, su mandato del ministero, nuovi piani di studio e indirizzi per l'istruzione secondaria: un documento per più versi pregevole che divenne di fatto il riferimento per i programmi di tutte le discipline insegnate nella secondaria.

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Dal rinnovato interesse per i problemi del sistema scolastico, nascevano analisi marcatamente critiche; in estrema sintesi, le osservazioni più ricorrenti riguardavano:

a) le risorse dedicate all'istruzione, troppo esigue secondo chi lamentava lo stato deplorevole di molti edifici scolastici, delle attrezzature, dei laboratori ecc. e i bassi stipendi dei docenti; mal utilizzate, invece, secondo chi additava gli sprechi e soprattutto il numero eccessivo di insegnanti;

b) gli aspetti quantitativi dell'istruzione: in un quadro generale di innalzamento dei livelli di scolarità, secondaria in particolare, molti studi rilevavano dati preoccupanti di evasione dall'obbligo, di dispersione, di abbandoni, specie nel Mezzogiorno e in alcune grandi aree urbane;

c) la qualità dell'istruzione, come emergeva dalle richiamate comparazioni internazionali. Anche in questo caso vi era chi metteva sotto accusa gli aspetti ordinamentali del sistema scolastico (mancata riforma della secondaria, programmi arretrati ecc.) e chi parlava senza mezzi termini di insegnanti impreparati, assunti senza alcun vaglio concorsuale o intossicati da troppo "pedagogismo";

d) l' eccessiva distanza del sistema formativo (specie degli istituti tecnici, dei professionali, per non parlare della formazione professionale regionale) dalle esigenze del mondo produttivo. Altri osservatori, al contrario, deploravano l'eccessiva professionalizzazione dello stesso sistema e a ogni annuncio di "riforma" levavano alte grida contro la profanazione del liceo classico, ritenuta la scuola di eccellenza: con meno del 10 per cento degli studenti;

e) tre motivi conduttori sono stati ripetuti con crescente insistenza: l'esaltazione della società della conoscenza e l'importanza strategica della formazione del capitale umano; la necessità di riportare serietà e merito nell'educazione delle giovani generazioni; la necessità di sottoporre a valutazione il rendimento degli studenti, il lavoro degli insegnanti e la qualità delle scuole, anche in ragione dell'autonomia loro riconosciuta, come vedremo, da una serie di norme a geometria variabile. Si tratta di temi di grande rilievo (la società della conoscenza, il capitale umano) ri-scoperti da noi con un entusiasmo stucchevole e molto provinciale, o di indicazioni (la serietà, il merito, la valutazione) in sé del tutto ovvie, agitate spesso per motivi di polemica politica: rispettabilissima in quanto tale ma di scarsa utilità, se non dannosa, per la soluzione dei problemi che pure denuncia;

f) la questione degli insegnanti affiora già dai punti precedenti e comunque è stata una delle "scoperte" più eclatanti nel periodo in esame; per la sua importanza ne parleremo a parte.


In conclusione, il sistema scolastico non è sfuggito al più generale clima neoliberista che ha investito la società italiana; i due schieramenti politici che negli ultimi vent'anni si sono fronteggiati anche a colpi di "riforme" scolastiche, hanno mostrato sia continuità che differenze, al netto di taluni aspetti contrappositivi.

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Vengono approvate tra il 1999 e il 2000 alcune importanti leggi, per iniziativa del ministro Berlinguer: l'elevamento dell'obbligo di istruzione da otto a dieci anni, il riordino dei cicli dell'istruzione, la parità scolastica. Le prime due leggi furono rapidamente abrogate dal ministro Letizia Moratti, subentrata a Berlinguer, sottoponendo insegnanti, studenti e famiglie a una doccia scozzese di cambiamenti: era la prima volta, nella storia del paese, per provvedimenti di quella portata. Non fu abrogata la legge di parità, in forza della quale nasce il sistema nazionale di istruzione, costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali che accettino, fra l'altro, di impartire un insegnamento in linea con i principi della Costituzione, accogliere anche studenti disabili, utilizzare docenti abilitati e rispettare i contratti di lavoro. Lo Stato inoltre eroga alle regioni i finanziamenti necessari per assicurare il diritto allo studio nelle scuole paritarie: è il buono-scuola per le famiglie che scelgono le scuole private. Alcuni videro nel provvedimento un cedimento dello Stato alle richieste della Chiesa; che in effetti furono accolte con larghezza. Per altro verso, la legge non è riuscita a estirpare la mala pianta dei diplomifici che, anche quando ottengono il riconoscimento della parità, aggirano la legge con una protervia che si spiega solo con la disattenzione, se non con la vera e propria complicità, degli organi preposti ai controlli.

La "legge 30" o "riforma Berlinguer" stabiliva l'obbligo scolastico dal sesto al quindicesimo anno di età; introduceva l'obbligo formativo fino al diciottesimo anno, che poteva essere assolto anche nei centri di formazione professionale delle regioni. Era un punto cruciale, causa non ultima dell'impossibilità, fino a quel momento, di varare una seria riforma della scuola secondaria. Esisteva, infatti, un poderoso schieramento disposto a bloccare qualsiasi legge che non prevedesse un ruolo, il più esteso possibile, per la formazione professionale regionale. Questo settore, che pure vantava realtà consolidate, versava in gravi condizioni a causa delle gestioni clientelari di molte regioni, con episodi di spreco e malcostume dei quali si sono occupati sia la stampa sia alcune procure della repubblica. La sua sopravvivenza garantiva non solo molti posti di lavoro, ma anche e soprattutto una cospicua rete di centri di potere diffusi sul territorio. La legge 30 prevedeva tre anni di scuola dell'infanzia, sette anni di scuola di base (cioè di scuola elementare più scuola media; quest'ultima, di fatto, perdeva un anno) da concludere con un esame a forte valenza orientativa. Seguivano cinque anni di scuola secondaria articolata in quattro aree (classico-umanistica, scientifica, tecnica e tecnologica, artistica e musicale) divise in indirizzi. Il quinquennio secondario era composto da un biennio — al termine del quale si acquisiva certificazione delle competenze acquisite e dell'assolvimento dell'obbligo scolastico — e da un triennio "spendibile" anche nella formazione professionale regionale. Veniva infine introdotto un sistema di crediti per facilitare passaggi trasversali fra aree, indirizzi, formazione professionale e sistema dell'istruzione. La legge riprendeva e aggiornava l'elaborazione dei decenni precedenti e intendeva avviare una più vasta riforma del sistema scolastico ma, come detto, ha avuto vita breve.

La "legge 53" o "riforma Moratti" disegna un «sistema educativo di istruzione e formazione» da attuare mediante un faticoso rinvio a numerosi decreti applicativi. Prevede: l'istituzione del Servizio nazionale di valutazione del sistema scolastico; lo sviluppo dell'alfabetizzazione in una lingua comunitaria e nell'informatica, secondo lo slogan governativo delle "tre i"; il diritto all'istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o fino al diciottesimo anno di età. Il «sistema educativo di istruzione e formazione» si articola nel triennio della scuola dell'infanzia e in un primo ciclo comprendente la scuola primaria quinquennale (sarebbe la scuola elementare) e la scuola secondaria di primo grado (la scuola media) di tre anni. Il secondo ciclo è articolato in due percorsi: a) otto licei quinquennali (artistico, classico, economico, linguistico, musicale e coreutico, scientifico, tecnologico, delle scienze umane), divisi in due bienni più un anno con forte carattere disciplinare; b) il sistema dell'istruzione e della formazione professionale regionale, al quale il ministro cercherà di ricondurre anche gli istituti tecnici e professionali di competenza statale. Sono previsti, in analogia con la legge 30, passaggi trasversali in base ai crediti certificati e, per i quindicenni, la possibilità di realizzare i corsi del secondo ciclo in alternanza scuola-lavoro, organizzata dalle scuole in collaborazione con le imprese. Vi è infine una parte dedicata alla formazione degli insegnanti, che vedremo in seguito.

Le differenze rispetto alla legge Berlinguer vi sono, ma non sembrano tali da giustificare un atto traumatico come la sua abrogazione. La "riforma Moratti", presentata come la più importante dai tempi della riforma Gentile (ma lo si dice ogni volta), vede una scuola secondaria duale, divisa tra un canale liceale e uno professionale; i due percorsi, insieme con la nuova definizione del diritto all'istruzione e alla formazione, non sono che l'aggiornamento dell'antica separazione, cara alla cultura di destra, tra la scuola del sapere e la scuola del fare.

La legge 53 è tuttora in vigore e ha dunque dispiegato i suoi effetti: il ministro Fioroni, successore della Moratti ed espressione di una diversa maggioranza parlamentare, non l'ha abrogata. Tra le novità più importanti, riconducibili all'uno o all'altro ministro, vanno ricordate:


a) la nascita del Servizio nazionale di valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (2004), al fine di valutare le conoscenze degli studenti e la qualità delle scuole;

b) la nascita dell' Agenzia nazionale per lo sviluppo dell'autonomia scolastica (2007), allo scopo di rilanciare l'autonomia stessa, trascurata dalla Moratti;

c) le Indicazioni per il curricolo della scuola dell'infanzia e del primo ciclo d'istruzione, emanate nel 2007, per l'ennesima volta in via sperimentale.

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7. Lavori in corso (2008-2010)


7.1 La scuola che cambia

Gli ultimi mesi del 2008 fanno registrare un rinnovato fervore di interventi sul sistema scolastico e su quello universitario. Tutto inizia in giugno con un provvedimento di natura finanziaria, il decreto-legge del ministro dell'economia e delle finanze che reca Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria. Al Capo II, "Contenimento della spesa per il pubblico impiego", troviamo l'art. 64, il cuore del discorso che ci riguarda; detta "Disposizioni in materia di organizzazione scolastica" dalle quali «devono derivare per il bilancio dello Stato economie lorde di spesa» per un totale di 7,8 miliardi di euro in tre anni. Osserviamo che nella storia d'Italia è il più grande taglio alla pubblica istruzione, che pure non ha mai navigato nell'oro; osserviamo che giunge dopo anni di esaltazione della centralità della formazione, di litanie sulla società della conoscenza, di giaculatorie sull'importanza del capitale umano; osserviamo che l'art. 64 è la fonte da cui discendono tutti i provvedimenti successivi. Infatti per realizzare le economie di spesa, il ministro della pubblica istruzione, «di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze», predispone «un piano programmatico di interventi», la cui «puntuale attuazione» è affidata al concerto tra gli stessi ministri, il che introduce nell'ordinamento l'inedita fattispecie di un ministero in condominio.

Si prosegue con un altro decreto-legge (disposizioni urgenti in materia di istruzione e università) e con la redazione del Piano ora richiamato. Quest'ultimo premette, in poche righe, che il nostro sistema scolastico è afflitto da: un'eccessiva spesa per allievo, un rapporto insegnanti/studenti «decisamente più alto rispetto alla media europea», ritardi significativi nei livelli di conoscenza, un diffuso disinteresse degli alunni verso la scuola, demotivazione e stanchezza del personale docente, privo di incentivi e riconoscimenti del merito, in un preoccupante clima di incertezza e di sfiducia; da qui, prosegue il Piano,

un bilancio deludente che pone una seria ipoteca sul futuro dei nostri giovani, chiamati a confrontarsi tra loro in un contesto internazionale globalizzato, dove la conoscenza è fattore prioritario di crescita personale e collettiva e l'investimento più produttivo è quello in capitale umano. È noto, infatti, che nella società in cui viviamo la "qualità" delle risorse umane costituisce un bene primario e strategico di straordinaria importanza per interpretare correttamente e governare l'innovazione e il cambiamento, per sostenere e orientare le vicende economiche, per essere competitivi, per dare solidità e stabilità alle istituzioni democratiche, per assicurare coesione sociale e promuovere la piena fruizione dei diritti di cittadinanza, per raggiungere livelli di benessere accettabili e duraturi. Ma "qualità" delle risorse umane significa "qualità" dell'istruzione, centrata sulla scuola quale sede privilegiata di formazione integrale della persona, di crescita umana, civile, e culturale delle giovani generazioni e fondamentale fattore di sviluppo della società nel suo complesso.

Parole sante, che tuttavia mal si conciliano con il poderoso taglio all' investimento più produttivo. Dal "combinato disposto" dei due decreti e del Piano discendono una serie di provvedimenti – e di indicazioni destinate a tradursi in ulteriori provvedimenti – che ricordiamo in rapida sintesi.

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