Autore Richard Sennett
Titolo Insieme
SottotitoloRituali, piaceri, politiche della collaborazione
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2014 [2012], UE Saggi , pag. 334, cop.fle., dim. 13x20x2 cm , Isbn 978-88-07-88358-3
OriginaleTogether. The Rituals, Pleasures and Politics of Cooperation [2012]
TraduttoreAdriana Bottini
LettoreFlo Bertelli, 2014
Classe sociologia , psicologia , storia sociale












 

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Indice


  9     Prefazione

 13     Introduzione. La mentalità collaborativa
        La de qualificazione, 17;
        La capacità di collaborare nella prima infanzia, 20;
        Lo scambio dialogico, 25;
        La collaborazione online, 36;
        Il libro, 42


        Parte prima. La collaborazione prende forma

 47 1.  "La questione sociale". Il dilemma del Musée social
        Le strade si dividono, 52;
        Le coalizioni, 58;
        Il servizio alla comunità, 63;
        Il laboratorio di arti e mestieri, 68

 79 2.  Un equilibrio fragile. Competitività e collaborazione
        nella natura e nella cultura
        L'Eden, 80;
        La collaborazione: naturale e instabile, 82;
        Il continuum degli scambi, 86;
        Il potere del rituale, 101

111 3.  Il grande turbamento.
        Come la Riforma trasformò la collaborazione
        Il rituale religioso, 114;
        Il laboratorio, 124;
        L'urbanità, 132;
        Urbanità professionale, 136


        Parte seconda. Come si è indebolita la collaborazione

149 4.  La disuguaglianza imposta e assorbita nell'infanzia
        La disugliaglianza imposta, 153;
        La disuguaglianza interiorizzata, 158

166 5.  Il triangolo sociale.
        Il risentimento nei rapporti sociali sul lavoro
        Il triangolo sociale nella vecchia economia, 168;
        L'azione corrosiva del tempo, 175;
        Il triangolo va in pezzi, 182

199 6.  Il sé non collaborativo. Psicologia del ritiro in se stessi
        Ansia e angoscia, 200;
        Il ritiro in se stessi, 202;
        La collaborazione light ovvero debole, 211;
        L'ossessione, 213


        Parte terza. Come rafforzare la collaborazione

219 7.  Il laboratorio artigiano. Fabbricare e riparare
        Il ritmo e il rituale, 220;
        I gesti informali, 225;
        Il lavoro con la resistenza, 230;
        Le riparazioni, 234

243 8.  La diplomazia quotidiana.
        Applicazioni pratiche della conversazione dialogica
        La collaborazione non direttiva, 244;
        La gestione dei conflitti, 250;
        Le procedure, 256;
        La maschera della sociabilità, 266

271 9.  La comunità. La pratica dell'impegno civile
        La voglia di comunità, 274;
        Il morale, 278;
        Verifiche dell'impegno, 283;
        La vocazione, 286;
        La comunità come vocazione, 288

300     Coda. La gatta di Montaigne

307     Note
328     Indice dei nomi


 

 

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Pagina 9

Prefazione


Alcuni anni fa mi venne l'idea di scrivere una trilogia sulle abilità tecniche che occorrono nell'esistenza di tutti i giorni. È tutta la vita che elaboro teorie, ma ora mi sono stancato di teorizzare e basta. E ho la sensazione che, mentre il mondo continua a riempirsi di oggetti materiali, noi non sappiamo come usare nel modo giusto oggetti e macchine. Volevo perciò riflettere più a fondo sulle cose di tutti i giorni, obiettivo non propriamente nuovo, visto che sono molti i filosofi che hanno esplorato le abilità dell'esperienza quotidiana, ma nuovo per me, a questo punto della mia vita.

Cominciai con uno studio sulla perizia tecnica, la tensione a produrre cose ben fatte. In L'uomo artigiano cercai di mostrare come testa e mano siano collegate, e inoltre quali sono le pratiche empiriche che consentono alle persone di migliorare in ciò che fanno, siano esse impegnate in attività intellettuali o manuali. Quella di fare le cose bene per la soddisfazione di farle bene, sostenevo in quel libro, è una qualità che quasi tutti gli esseri umani posseggono, ma che non gode nella nostra società del prestigio che merita. L'artigiano che è in noi attende ancora di essere liberato.

Mentre scrivevo quel libro, rimasi colpito dalla presenza ricorrente di una particolare dote sociale preziosa nello svolgimento di attività pratiche: la capacità di collaborare. La collaborazione rende più agevole il portare a compimento le cose e la condivisione può sopperire a eventuali carenze individuali. La tendenza alla collaborazione è inscritta nei nostri geni, ma non deve rimanere confinata ai comportamenti di routine; ha bisogno di essere sviluppata e approfondita. Lo vediamo soprattutto quando abbiamo a che fare con persone diverse da noi; allora collaborare diventa uno sforzo molto impegnativo.

In questo libro, l'attenzione è rivolta alla sensibilità nei confronti degli altri, per esempio alla capacità di ascolto nella conversazione, e all'applicazione pratica di tale sensibilità sul lavoro e nella collettività. Mentre è indubbio che nel saper ascoltare e nel saper lavorare insieme agli altri c'è un elemento etico, pensare la collaborazione soltanto come una questione etica ne limita la comprensione. Così come il bravo scienziato-artigiano può dedicare le proprie energie alla fabbricazione della miglior bomba atomica possibile, può succedere che un gruppo di persone collabori efficacemente nell'organizzare e nel mettere a segno una rapina. Inoltre, benché si possa collaborare perché le nostre risorse individuali non sono, da sole, sufficienti, in molte relazioni sociali non sappiamo esattamente di che cosa abbiamo bisogno, né che cosa è giusto che gli altri chiedano a noi.

Ho voluto perciò analizzare la collaborazione come un'arte, o un mestiere, che richiede alle persone l'abilità di comprendere e di rispondere emotivamente agli altri allo scopo di agire insieme. Ma si tratta di un processo arduo, irto di difficoltà e di ambiguità e spesso a rischio di produrre conseguenze distruttive.

Ora mi attende l'ultima tappa del mio progetto: un libro sulla costruzione delle città. Oggi le città non sono fatte nel migliore dei modi; la progettazione urbana è un mestiere a rischio di estinzione. Dal punto di vista materiale, troppo spesso abbiamo piani urbanistici omogeneizzati e rigidi nella forma; dal punto di vista sociale, la struttura del costruito accoglie solo una vaga impronta dell'esperienza personale e collettiva dei cittadini. Sono carenze che tutti purtroppo conosciamo. Cercherò di analizzarle attingendo alle ricerche presentate nei volumi precedenti: la mia speranza è che dalla comprensione del lavoro materiale e della collaborazione sociale possano scaturire idee nuove su come costruire meglio le nostre città.

Ho voluto chiamare questi tre libri "Progetto homo faber", ispirandomi all'antica idea dell'Uomo come artefice di se stesso: creatore della vita attraverso pratiche concrete. La mia ricerca è volta a mostrare come le persone conformino l'impegno personale, i rapporti sociali e l'ambiente fisico. Pongo l'accento sull'abilità tecnica e la competenza perché a mio avviso la società moderna tende a dequalificare le persone nella conduzione della vita quotidiana. Disponiamo di molte più macchine dei nostri antenati, ma abbiamo meno idee su come usarle bene; grazie ai moderni sistemi abbiamo vie di contatto più potenti, ma minore capacità di comunicare. La perizia tecnica non è la salvezza, è soltanto uno strumento, ma se essa manca, le grandi questioni del Senso e del Valore rimangono astrazioni.

Il Progetto homo faber ha certamente un nucleo centrale etico, che verte sull'interrogativo: fino a che punto possiamo diventare padroni del nostro destino? Nella nostra vita personale e sociale tutti ci scontriamo con limitazioni al desiderio e alla volontà o con la realtà di bisogni altrui inconciliabili con i nostri. Questa esperienza dovrebbe insegnarci l'umiltà promuovendo in tal modo una vita etica, nella quale dare riconoscimento e rispetto a ciò che ci trascende. Nessuno tuttavia potrebbe sopravvivere se fosse solo una creatura passiva priva di volontà; dobbiamo se non altro tentare di costruirci la vita che viviamo. Come filosofo, ciò che mi interessa in tutte queste mie ricerche è quella zona ambigua e frastagliata dell'esperienza dove l'abilità e la competenza incontrano la resistenza e la differenza irriducibile.

Benché i tre volumi siano pensati come un tutto organico, ciascuno è scritto come un'unità autonoma. Essi si rivolgono al lettore intelligente non addetto ai lavori, il quale giustamente si domanda: questo argomento ha senso, è importante, mi può interessare? Ho cercato dunque di eliminare dalle pagine di questi libri ogni accenno a diatribe accademiche, uno sport cruento che raramente appassiona il lettore comune, oppure le ho confinate nelle note.

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Pagina 30

L'ascolto attento produce due tipi di conversazione, quella dialettica e quella dialogica. Nella dialettica, come ci hanno insegnato a scuola, il gioco verbale di tesi e antitesi dovrebbe gradualmente costruire una sintesi; la dialettica ha origine dall'osservazione di Aristotele nella Politica secondo cui "pur usando le medesime parole, non possiamo dire che stiamo parlando delle medesime cose"; la meta è quella di arrivare alla fine a una definizione comune. E l'abilità del dialettico consiste nel saper cogliere il possibile punto di incontro.

A questo proposito, Theodore Zeldin, in un prezioso libretto sulla conversazione, scrive che il bravo ascoltatore sa individuare un terreno comune in ciò che l'interlocutore presuppone, più che in ciò che dice, dopodiché elabora quel presupposto esplicitandolo in parole. Cioè: mi soffermo sull'intenzione, sul contesto, lo rendo esplicito e parlo di questo. Un'abilità di tipo un po' diverso è quella che vediamo applicata nei Dialoghi di Platone, dove Socrate, ottimo ascoltatore, riformula "con altre parole" la frase pronunciata dal suo interlocutore; ma la riformulazione non corrisponde esattamente a ciò che questi ha detto, e nemmeno a ciò che intendeva dire. Qui l'eco in realtà è uno slittamento di senso. Ecco perché nei dialoghi platonici la dialettica non assomiglia a un duello verbale; l'antitesi della tesi non è: "Brutto cretino, hai torto marcio!"; entrano in gioco, piuttosto, fraintendimenti e contraddizioni, viene messo sul tavolo il dubbio, e allora bisogna ascoltarsi con raddoppiata attenzione.

Qualcosa di simile avviene in musica durante le prove d'orchestra, quando un musicista commenta: "Non ho capito: è questo che vuoi fare?" ed esegue il tuo passaggio. La sua riformulazione ti fa riflettere ulteriormente su quelle note, con il risultato che forse riadatterai la frase, senza però ricopiare la sua. Nelle normali conversazioni quotidiane, è questo il senso dell'espressione "lanciare la palla in mezzo al campo"; e l'esito di questo palleggio verbale può essere una sorpresa per tutti.

Il "principio dialogico" è stato introdotto dal critico letterario russo Michail Bachtin in riferimento a un tipo di comunicazione che non si risolve con il trovare un terreno comune. Anche se non riescono a raggiungere definizioni condivise, attraverso il processo di scambio le persone possono prendere coscienza delle proprie opinioni e ampliare la comprensione reciproca. La frase del mio collega, "Professore, la sua nota alta è stridula", inaugurò uno scambio dialogico nelle prove dell' Ottetto di Schubert. Bachtin applicò il concetto di scambio concatenato ma insieme divergente ad autori come Rabelais e Cervantes, i cui dialoghi sono l'esatto contrario dell'accordo convergente della dialettica. I personaggi di Rabelais partono per direzioni apparentemente non pertinenti, che vengono poi riprese da altri personaggi, in un dialogo a distanza sempre più fitto e incalzante. Certe grandi esecuzioni di musica da camera trasmettono la medesima sensazione. È come se i suonatori non fossero tutti sulla medesima pagina, l'esecuzione ha più spessore, più complessità, ma ugualmente ciascun suonatore è incalzato dall'altro — e questo vale nella musica da camera classica come nel jazz.

Beninteso, conversazione dialettica e conversazione dialogica differiscono ma non si escludono a vicenda. Come nella versione che dà Zeldin della conversazione dialettica, anche in quella dialogica la possibilità di sviluppo deriva dal prestare attenzione a ciò che l'interlocutore sottintende ma non dice esplicitamente; come nella riformulazione socratica "con altre parole", nella conversazione dialogica i fra-intendimenti possono alla fine fare chiarezza e portare a un intendersi reciproco. Al cuore di tutte le abilità di ascolto, tuttavia, sta l'attenzione ai dettagli concreti, alle specificità, in modo da portare un passo avanti la conversazione. I cattivi ascoltatori, quando rispondono, ricadono su osservazioni di carattere generale; non prestano attenzione ai piccoli giri di frase, alle espressioni facciali, alle piccole pause di silenzio che potrebbero aprire nuovi spazi di discussione. Nella conversazione verbale, come nelle prove d'orchestra, lo scambio si costruisce partendo dalle cose più terra terra.

[...]

Simpatia ed empatia comunicano entrambe riconoscimento dell'altro ed entrambe costruiscono un legame emotivo, ma l'una è un abbraccio, l'altra è un incontro. La simpatia supera le differenze attraverso un atto immaginativo di identificazione; l'empatia presta attenzione all'altro alle condizioni poste da lui. Si tende a considerare la simpatia un sentimento più forte dell'empatia, perché dicendo "Soffro con voi" pongo l'accento sul mio sentimento: viene attivato l'ego. Lempatia è una pratica più impegnativa, almeno nell'ascolto; l'ascoltatore deve uscire da se stesso.

Nella pratica della collaborazione sono necessarie entrambe le risposte, in circostanze e in momenti diversi. Se c'è un gruppo di minatori intrappolati nelle viscere della terra, la risposta "Soffro con voi" attiva il nostro desiderio di aiutarli a risalire in superficie; non importa se noi non ci siamo mai trovati nel pozzo di una miniera, passiamo oltre quella differenza. Ma ci sono situazioni in cui siamo di aiuto all'altro appunto quando non ci immaginiamo simili a lui, per esempio lasciando che chi ha subìto un grave lutto parli finché vuole, senza la presunzione di intrometterci nel suo dolore. L'empatia trova una particolare applicazione in politica; se la praticassero, deputati e sindacalisti potrebbero (lo so, siamo nel regno delle pure ipotesi) imparare dagli elettori anziché limitarsi a parlare in nome loro. Più realisticamente, l'ascolto empatico può aiutare operatori sociali, sacerdoti e insegnanti a svolgere un'opera di mediazione nelle comunità culturalmente o etnicamente eterogenee.

Dal punto di vista filosofico, la simpatia può essere considerata una delle ricompense emotive del gioco dialettico di tesi-antitesi-sintesi: "Ah, finalmente ci comprendiamo", e questa constatazione ci fa sentire bene. L'empatia si ricollega piuttosto allo scambio dialogico; la curiosità mantiene in essere lo scambio, ma non proviamo la stessa soddisfazione, non c'è l'esperienza della "closure", di essere arrivati a una conclusione. Ma anche l'empatia ha le sue ricompense emotive.


Formule dubitative

"Fuck you, 'fanculo": non è semplicemente uno sfogo di aggressività; è una mossa paralizzante. Tant'è vero che la risposta più probabile sarà: "Vaffanculo tu!". A questo punto gli antagonisti sono bloccati. I primi tempi in cui vivevo in Inghilterra pensavo che il "Question time" in Parlamento fosse un esempio di questo tipo di scambio bloccato, un duello verbale in cui il primo ministro e il capo dell'opposizione non cedono di un millimetro e sembrano sul punto di venire alle mani. Naturalmente non ci arrivano mai; oggi questi combattimenti apparentemente mortali sono fatti a beneficio della televisione. Ma nella vita vera l'aggressività verbale irriducibile oltrepassa sovente il confine.

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Pagina 42

Il libro


Questo libro è diviso in tre parti, che indagano come la collaborazione può essere plasmata, indebolita e rafforzata. Ciascuna parte analizza la collaborazione da più punti di vista, attingendo a ricerche antropologiche, storiche, sociologiche e politiche. Il libro procede attraverso una serie di esempi concreti, presentati in una forma che si presta alla discussione dialogica, e non per argomentazioni dialettiche contrapposte; mi interessa non tanto di vincere o di inchiodare il lettore in una particolare posizione, quanto di suscitare il suo coinvolgimento critico. Voglio praticare l'arte della collaborazione sulla pagina.

La prima parte si apre con l'analisi di come la collaborazione viene modellata nel campo della politica; la messa a fuoco è sulla solidarietà, visto che nel panorama politico attuale la contrapposizione aggressiva trova già uno spazio debordante: esistono politiche collaborative in grado di contestare questa preminenza? Il secondo capitolo affronta il tema degli intrecci esistenti tra competitività e collaborazione che cercherò di scandagliare dal punto di vista antropologico. Il terzo capitolo propone un particolare schema di riferimento per capire come la collaborazione ha preso forma nel corso della storia: vedremo come essa diventò un problema di rilievo agli albori dell'età moderna, quando la scienza cominciò a distaccarsi dalla religione e, in Europa, la religione stessa conobbe una scissione.

La seconda parte del libro, su come la collaborazione può essere indebolita, ha un taglio sociologico e si concentra sul presente, dialogando con il punto di vista di Amartya Sen e di Martha Nussbaum. Nel quarto capitolo vedremo come le disuguaglianze vissute dai bambini influiscono sulla loro esperienza collaborativa. Il quinto capitolo analizza l'erosione della collaborazione nel mondo del lavoro, con particolare attenzione al ruolo ridotto che hanno oggi nei luoghi di lavoro le relazioni di collaborazione, di autorità e di fiducia. Nel sesto capitolo viene presentata una nuova tipologia caratteriale che va emergendo nella società moderna, un sé non collaborativo, poco disposto a misurarsi con la complessità e la differenza. Esiste sempre il rischio che la critica sociale scada nel caricaturale; per evitarlo, ho cercato di tracciare un ritratto di queste tendenze perniciose il più possibile attento alle sfumature.

La terza parte tratta dei modi in cui si potrebbe rafforzare la pratica della collaborazione, mettendo a fuoco in particolare le abilità tecniche utili a tale scopo. Nella prefazione mi è venuto spontaneo evocare "l'arte" della collaborazione; ora approfondisco il concetto, cercando di mostrare, nel settimo capitolo, ciò che possiamo apprendere sulla vita sociale dall'arte di fabbricare e riparare gli oggetti. L'ottavo capitolo passa a illustrare un'applicazione di quella che chiamo "la diplomazia quotidiana", l'arte di lavorare con persone con cui ci troviamo in disaccordo, che ci stanno magari antipatiche o che non riusciamo a capire; le tecniche utili a questo scopo ripropongono le pratiche dell'esecuzione musicale. Nel nono e ultimo capitolo analizzeremo l'impegno personale; la sensibilità verso gli altri e la collaborazione richiedono ovviamente qualche tipo di impegno personale, ma l'impegno si manifesta in molte forme: quale scegliere?

Ho cercato dunque di considerare la collaborazione in modo il più possibile completo, da più angolature diverse. Il mondo in cui mi muovo come sociologo pullula di tuttologi di professione, tromboni che si compiacciono di spiegare a tutti come comportarsi. Alla fine del libro non ho saggi consigli da dispensare. Ho voluto invece ricollegare il nostro viaggio al più dialogico di tutti gli scrittori, il grande saggista Michel de Montaigne.

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Pagina 76

In questo capitolo ho cercato di far emergere il contrasto tra la collaborazione politica in senso proprio e quelle che potremmo chiamare le politiche di collaborazione.

La collaborazione politica è una necessità del gioco del potere, quando una delle parti coinvolte è troppo debole per dominare o per sopravvivere da sola. Deve essere messa a punto con finezza sul piano umano, attraverso rituali di rispetto reciproco; gli interessi comuni non basterebbero a farla sussistere. Ma la collaborazione politica tra i vertici rischia seriamente di provocare problemi con la base, la massa; agli occhi di quelli che stanno sotto, i compromessi richiesti dalla collaborazione ai vertici appaiono spesso dei tradimenti; la negoziazione rischia di cancellare l'identità del singolo gruppo politico; man mano che le organizzazioni diventano più grandi, la burocrazia erige barriere sempre più numerose tra il vertice e la base; i rituali che creano legami tra i leader nelle segrete stanze non sono leggibili in modo trasparente da coloro che ne stanno fuori. Tutti questi fattori possono suscitare ressentiment nelle persone, il senso di essere state tradite e la convinzione che alle élite interessi di più collaborare tra loro che con la gente comune.

Anche nelle organizzazioni non-politiche, le dinamiche di collaborazione possono scontrarsi con le medesime tensioni tra vertice e base, ma se il loro fine è il contatto sociale diretto il rischio è minore. Devono invece affrontare il problema di come far nascere relazioni faccia a faccia. La settlement house fece proprio il tema della sociabilità, nel senso individuato da Simmel , cioè quello della convivenza in una società complessa ricca di differenze; Hull House e i centri analoghi cercarono di trasformare la consapevolezza dell'altro, puramente interiore e spesso passiva, in coinvolgimento attivo. A questo scopo, la loro strategia, al pari di quella di attivisti sociali come Alinsky, pose l'accento sul contatto informale, un principio applicato agli animatori stessi con la regola aurea di Charlotte Towle: consigliare, non dirigere. In questo modo, però, gli incontri rischiano di rimanere episodici e privi di una forma capace di durare nel tempo.

Con il "laboratorio artigiano" si cercò di contrastare tale instabilità dell'esperienza dando una forma più strutturata all'attività collaborativa. Il Tuskegee Institute e l'Hampton Institute usarono un contesto comunitario per costruire abilità che potessero poi essere applicate in altri luoghi e situazioni. In questo fecero riferimento alle linee guida formulate da Robert Owen per la cooperativa di Rochdale. Nella pratica, quei princìpi potevano dare luogo a un paradosso: reciprocità tra compagni all'interno del laboratorio e tuttavia sottomissione alle direttive di un capo nell'organizzazione della vita. Ciononostante, la reciprocità in quelle istituzioni era autentica, capace di trasformare la competenza tecnica in un'esperienza di sociabilità.

La persona la cui biografia può essere considerata emblematica di questi contrasti è forse Karl Kautsky (1854-1938). Cresciuto a Vienna, in Germania maturò il passaggio dalla vocazione per il giornalismo a quella per la politica; dopo avere fondato in gioventù il mensile "Die Neue Zeit", in età più matura sostenne la dottrina dell'inevitabilità della rivoluzione, e più avanti ancora, quando nel novembre del 1918 in Germania la rivoluzione arrivò, assunse un incarico presso il ministero degli Esteri del governo rivoluzionario. Nei lunghi anni di militanza politica, si era reso conto che quando il suo movimento avesse perduto la sua sponda politica organizzata, in Germania il processo di riforma sociale si sarebbe arrestato. Ma alle soglie della vecchiaia conobbe la disillusione: durante un viaggio in Georgia e in Unione Sovietica nel 1920, Kautsky poté mettere a confronto la socialdemocrazia georgiana e la dittatura del proletariato quale era di fatto realizzata in Russia e denunciò la deriva autoritaria di quest'ultima. Lenin lo attaccò violentemente come "traditore" privo di "volontà rivoluzionaria".

Mia madre aveva conosciuto Kautsky nel 1934, a Vienna, dove si era ritirato e cercava ancora di coniugare il sociale con il socialismo, un tentativo registrato nel suo libro La rivoluzione sociale. Dopo l' Anschluss del 1938, come Freud abbandonò l'Austria, per morire di lì a poco. Nel racconto di mia madre, il suo appartamento a Vienna, protetto da guardie perché Stalin era deciso a farlo assassinare, assomigliava a una biblioteca in cui nessuno si fosse curato di disporre i volumi sugli scaffali, come se quell'uomo di grande erudizione non sapesse più dove mettere i suoi libri e come dare un ordine coerente a quello che era diventato il suo personale museo dedicato alla "questione sociale". Gli interessava tuttavia scoprire che cosa fa scattare la collaborazione. I laboratori di arti e mestieri esaltati da Robert Owen sembravano la isposta giusta, ma Kautsky non credeva che la sua utopia potesse essere praticabile nella vita quotidiana.

Il disordine della biblioteca di Kautsky simboleggia bene uno dei problemi lasciatici in eredità dal Musée social di Parigi, la confusione circa il modo di praticare la collaborazione. Analogamente, ne è un lascito il desiderio del vecchio Kautsky di andare a fondo della collaborazione attiva, nella consapevolezza che la semplice tolleranza non è sufficiente. Questa è una sfida che non riguarda soltanto la sinistra; qualunque individuo o gruppo che voglia costruire il cambiamento dal basso si trova ad affrontarla; e la sfida è maggiore quando si tratta di lavorare con persone che non sono la nostra copia esatta.

La nostra analisi, tuttavia, è segnata da un'assenza. Manca la competitività. Nelle coalizioni politiche, nei gruppi della società civile, tra persone che svolgono un compito insieme, si ha l'impressione che la competitività spesso si metta di traverso, ostacolando la collaborazione. In realtà, come vedremo nel prossimo capitolo, collaborazione e competitività sono intimamente connesse.

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Pagina 79

2. Un equilibrio fragile

Competitività e collaborazione nella natura e nella cultura


Chiunque abbia praticato uno sport a squadre, concluso con successo un affare o allevato una famiglia numerosa sa che collaborazione e competitività spesso si intrecciano. Il tono di fondo della competitività è di aggressività e di rabbia, sentimenti fortemente radicati negli esseri umani. Le esperienze che abbiamo analizzato nelle pagine precedenti, la "prova d'orchestra", la conversazione, la coalizione, il servizio alla comunità e il laboratorio di arti e mestieri possono contrastare efficacemente questa pulsione distruttiva, perché anche la benevolenza è una pulsione inscritta nei nostri geni. Essendo animali sociali, dobbiamo trovare attraverso l'esperienza il giusto equilibrio tra le due.

Nel presente capitolo analizzeremo alcune delle soluzioni che vengono prospettate. Una guida ci è offerta dalle religioni monoteistiche: la cacciata dal giardino dell'Eden ha provocato lo scatenamento di forze naturali in conflitto e per ripristinare l'equilibrio occorre un rinnovato patto di obbedienza alla potenza superiore. La scienza ci ha dato una diversa versione; in particolare l'etologia, una branca relativamente nuova che unisce lo studio della genetica a quello del comportamento, guarda a come sono gestiti tra i gruppi animali i bisogni reciproci e la reciproca aggressività. È troppo facile considerare la religione e la scienza due forze implacabilmente contrapposte: esiste una sfera del comportamento in cui i loro interessi si incontrano, ed è quella del rituale. Nel primo capitolo abbiamo accennato brevemente al potere dei rituali salva faccia nel mediare tra competitività e collaborazione; ma il rituale ha una portata più ampia e più profonda, sia come mediatore biologico sia nella pratica della fede.

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Pagina 149

4. La disuguaglianza imposta e assorbita nell'infanzia


In questa seconda parte faremo il punto sullo stato della collaborazione nella società odierna. Che ne ha fatto la nostra società dell'eredità della prima età moderna? Come vengono sviluppate dalle nostre istituzioni la disposizione naturale alla collaborazione e le potenzialità concrete che le persone posseggono? All'Esposizione universale di Parigi del 1900, il giudizio degli espositori del Musée social sul capitalismo era netto: la convinzione che il sistema economico capitalista umiliasse e demoralizzasse i lavoratori era praticamente un articolo di fede. Quando alla metà degli anni novanta dell'Ottocento era scoppiata un'epidemia di suicidi tra i lavoratori americani, nessuno sulla stampa radicale si era sorpreso. Qualsiasi promessa di collaborazione evocata dall'intellettualità nel passato, anzi qualsiasi presagio di essa presente nella nostra stessa evoluzione biologica, la belva capitalista li aveva stroncati nella vita quotidiana del cittadino adulto.

Oggi il capitalismo è per alcuni versi un animale differente, per altri versi il medesimo di un secolo fa. Differente, perché il settore dei servizi occupa un posto maggiore nell'economia. Un tempo la produzione industriale costituiva l'asse portante delle economie avanzate; oggi la manifattura si è spostata lontano, offshore, e al suo posto sono subentrati i servizi, tecnologici e alla persona. Un secolo fa, tre paesi fornivano quasi tutto il capitale di investimento: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Germania; oggi, il capitale è globalizzato, arriva da tutte le parti del mondo. Un secolo fa, il consumo di massa, alimentato dalla pubblicità, era ai suoi primi passi; i consumatori preferivano comprare beni che potevano toccare e soppesare fisicamente. Oggi, con internet, è l'immagine degli oggetti a dominare il consumo.

Alcuni antichi mali si sono aggravati. In particolare, la disuguaglianza si è estesa, con un divario tra la classe dei ricchi e le classi medie che si va sempre più allargando. Negli Stati Uniti, negli ultimi cinquant'anni la quota di ricchezza del quintile mediano della popolazione è cresciuta del 18 per cento in valore reale, mentre quella del 5 per cento superiore ha avuto una crescita del 293 per cento; oggi le probabilità che un giovane delle classi medie possa contare in futuro su un reddito pari a quello dei suoi genitori sono da 2 a 5 su cento; per un giovane appartenente a quel 5 per cento superiore le probabilità superano il 90 per cento. Queste cifre sono indicative di uno scambio a somma zero che vira verso l'estremo dello scambio "asso piglia tutto"; il capitalista sta diventando un predatore apicale.

Per quanto l'economia sia cambiata nel corso dell'ultimo secolo, secondo molti analisti la questione sociale rimane identica a come era allora: nel sistema capitalistico, la coesione sociale è intrinsecamente debole e la nuova estensione della disuguaglianza non fa che confermare, si direbbe, la gravità di un male antico. Ma anche chi, come me, è testardamente di sinistra, dovrebbe guardare con preoccupazione a questo reiterato giudizio, perché esso è ormai diventato troppo generalizzato, troppo automatico. C'è il rischio di saltare alla conclusione che basti liberarsi di un vizio economico per produrre esiti sociali positivi.

In alternativa, il tema della promozione della coesione e della collaborazione è presente nelle analisi sul "capitale sociale", una tendenza comunemente associata al lavoro di Robert Putnam. La sua non è in primo luogo un'analisi economica; in realtà, Putnam e il suo gruppo rilevano gli atteggiamenti, come la fiducia nei leader o la paura degli stranieri, e mappano comportamenti come la partecipazione alle attività delle chiese o dei sindacati. A suo giudizio, la società americana ed europea presenta minore coesione sociale, minore fiducia nelle istituzioni e minore fiducia nei leader di quanta ne dimostrasse anche solo trent'anni fa. Come abbiamo accennato nell'Introduzione, Putnam evoca un "effetto tartaruga", l'immagine di persone che di fronte a chi è diverso da loro si ritirano nel proprio guscio; con un'altra famosa immagine, Putnam descrive individui che "giocano a bowling da soli" (anziché in compagnia dopo il lavoro, come usava qualche decennio addietro). E ricollega questa immagine alla collaborazione dicendo che la società civile oggi è caratterizzata da una partecipazione passiva; la gente aderisce magari a molti gruppi e associazioni, ma sono pochi coloro che vi prendono parte attiva. La stessa passività è rilevata da Putnam nei sindacati, nelle associazioni benefiche, nelle parrocchie (anche se, negli Stati Uniti, la frequenza in chiesa costituisce la grande eccezione nel generale declino della partecipazione che Putnam disegna). Il sociologo Jeffrey Goldfarb si spinge un passo oltre, dicendo che assistiamo oggi all'emergere di una "società del cinismo" i cui cittadini sono molto restii a collaborare.

Non sono mancate le critiche al fosco quadro delineato da Putnam. Alcuni fanno notare che ciò che è cambiato sono le modalità della partecipazione, per esempio con internet. Altri stigmatizzano l'espressione "capitale sociale", perché fa pensare che le relazioni sociali possano essere conteggiate come il denaro in banca, quasi fossero una somma che le persone posseggono o perdono in quantità precise.

Poiché a volte il mettersi nei panni di un altro può servire a vedere meglio se stessi, proviamo a guardare come culture del tutto estranee alla nostra valutano il capitale sociale e la collaborazione. La Cina ci offre la postazione ideale, perché è un paese diventato oggi aggressivamente capitalista e che tuttavia possiede un forte sistema di coesione sociale, che i cinesi chiamano guanxi. L'analista sistemico Yuan Luo lo definisce "un'intricata e pervasiva rete relazionale che i cinesi coltivano con grande energia, sottigliezza e fantasia". Tale rete fa sì che in una città straniera l'immigrato cinese si senta libero di rivolgersi a un cugino in terzo grado per avere un prestito; in patria, nei rapporti d'affari, sono le esperienze e i ricordi in comune tra amici e conoscenti il fondamento della fiducia, più che i contratti scritti e le norme giuridiche; in famiglia, questo sistema si riverbera nella consuetudine, comune a molte società non occidentali, da parte dei giovani che vanno fuori a lavorare di spedire a casa quasi tutta la paga, di solito magra, oltretutto. "Dovere" sembra essere un termine più adatto per caratterizzare queste relazioni che non "capitale sociale".

Dovere, o anche "onore". L'onore è un ingrediente fondamentale delle relazioni sociali della guanxi. Douglas Guthrie, che ha studiato il sistema, spiega che esso ha affinità con l'etica degli affari che un tempo era riassunta nella frase: "La mia parola è il mio vincolo". Puoi sempre contare sugli altri che fanno parte della rete, specie quando le cose si mettono male; l'onore li vincola a darti sostegno, invece di approfittare della tua debolezza. Guanxi comporta un sentimento che va al di là della simpatia; ci si critica a vicenda, ci si rimprovera, si può non essere molto teneri reciprocamente, ma ci si sente in obbligo di prestare aiuto.

Guanxi costituisce un esempio di come un legame sociale può conformare la vita economica. In sostanza, si tratta di un legame informale, che stabilisce una rete di sostegno al di là della rigidità di norme e regolamenti. Quel legame è quanto mai necessario nella situazione in rapida trasformazione e spesso caotica della Cina odierna, dato che le sue regole ufficiali sono disfunzionali; la rete informale consente alle persone di aggirare tali regole per sopravvivere e prosperare. Abbiamo già visto il valore della coesione informale negli scambi dialogici, tanto nella conversazione quanto nell'attivismo sociale di Saul Alinsky. Proviamo a domandarci quale sia la portata di questi scambi nella nostra società: posseggono il medesimo valore pratico che hanno per i cinesi? Ci sono due ragioni che rendono desiderabile che anche da noi si pensi la collaborazione come la pensano in Cina.

La prima: anche se informale, la rete guanxi vuole essere duratura nel tempo. In un momento futuro, colui che oggi riceve aiuto lo restituirà, in quale forma forse ora nessuno degli interessati lo può immaginare, ma ciascuno dei due sa che avverrà. La relazione guanxi è fatta per durare da una generazione all'altra. Per i criteri di un contratto tra occidentali, un'aspettativa così vaga è assolutamente irrealistica; ma per lo studente, il funzionario statale, l'uomo d'affari cinese l'aspettativa è fondata, perché gli altri della rete puniranno o emargineranno chi non restituirà l'aiuto ricevuto. Si tratta di mantenersi responsabili nel futuro per le azioni compiute nel presente.

In secondo luogo, le persone che fanno parte della rete guanxi non si vergognano di essere in una posizione di dipendenza. Chiunque nella rete può trovarsi ad avere bisogno dell'aiuto di chiunque, indipendentemente dalla posizione gerarchica. La famiglia cinese, come in altre società tradizionali, è un luogo di dipendenza senza sensi di vergogna. Come abbiamo visto nel terzo capitolo, secondo Elias nella cultura occidentale la vergogna è stata profondamente associata all'autocontrollo; la perdita del dominio sul corpo o sulle parole è diventata fonte di vergogna. La vita familiare moderna e, più ancora, la pratica del mondo degli affari hanno ampliato l'idea di autocontrollo: la dipendenza dagli altri è considerata un segno di debolezza; nell'educazione dei figli come nel lavoro, le nostre istituzioni cercano di promuovere l'autonomia e l'autosufficienza; l'individuo autonomo ci appare libero. Ma osservata dalla prospettiva di culture diverse dalla nostra, la persona che si fa un vanto di non chiedere aiuto a nessuno appare un essere umano profondamente menomato, la cui vita è dominata dalla paura di essere assorbito nella collettività.

Se ne avesse avuto notizia, credo che Robert Owen avrebbe trovato congeniale lo spirito della guanxi; e anche, credo, gli animatori delle settlement houses e gli attivisti sociali di un secolo fa. Il filo comune è l'accento posto sulle qualità di una relazione sociale, sulla forza del dovere e dell'onore. Eppure la Cina è ferocemente capitalista. Ai nostri occhi, questo dato appare difficile da conciliare con le sue pratiche culturali. Secondo alcuni, il sistema guanxi sta cominciando a sfaldarsi nella misura in cui la Cina va sempre più assomigliando all'Occidente nelle pratiche educative, del lavoro e del consumo. I tre capitoli di questa seconda parte si propongono di esplorare questo medesimo effetto nella nostra società.

Nel presente capitolo esamineremo il tema della dipendenza e della disuguaglianza. La messa a fuoco è sulla vita dei bambini e dei ragazzi, per analizzare come avviene che essi stiano diventando più dipendenti dagli oggetti che consumano che non gli uni dagli altri. Nel quinto capitolo affronteremo invece il tema dell'onore nel mondo del lavoro adulto. Uno dei punti di forza delle ricerche di Putnam sta nel mettere in relazione gli atteggiamenti nei confronti dell'autorità e della fiducia con il comportamento collaborativo. Attingendo al lavoro etnografico sul campo, mostrerò come tale nesso si declini nell'esperienza dell'onore nei luoghi di lavoro. Nel sesto capitolo analizzeremo una nuova tipologia caratteriale che sta emergendo nella società odierna, quella del "sé non-collaborativo". Useremo il sistema della guanxi come paradigma positivo rispetto al quale valutare questo nuovo tipo di personalità, che oppone resistenza all'idea stessa del dovere nei confronti degli altri.

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Riassumendo, i processi del fabbricare e del riparare quali si osservano nel laboratorio artigiano hanno un nesso con la vita sociale al suo esterno. La parola chiave è "incorporazione" dell'esperienza. Nel gergo sociologico si usa parlare metaforicamente di "sapere sociale incorporato"; benché le metafore e le similitudini siano sempre utili per comprendere meglio i concetti, la metafora dell'"incorporazione" diventa più efficace, a mio parere, se le si dà maggiore concretezza. Forse ci insisto tanto perché, sul piano filosofico, non credo alla separazione tra mente e corpo; alla stessa stregua, non riesco a credere che l'esperienza sociale sia distaccata dalle sensazioni fisiche. Ho voluto esplorare come la sequenza ritmica dello sviluppo delle abilità corporee praticata nel laboratorio riviva nei rituali del mondo esterno. I gesti informali del lavoro mettono in relazione le persone e creano tra di esse un legame emotivo; il potere dei piccoli gesti è avvertito anche nei legami comunitari. La pratica dell'uso della forza minima nel lavoro dell'artigiano trova un'eco all'esterno negli scambi verbali differenzianti. Anche se vogliamo considerare puramente metaforici questi collegamenti, spero che essi abbiano risvegliato la consapevolezza che le relazioni sociali sono al fondo esperienze viscerali.

Il lavoro di riparazione suggerisce altri collegamenti tra il fisico e il sociale. Il restauro, sia esso applicato a un vaso o a un rituale, è un recupero in cui è ripristinato lo stato originale, disfacendo i danni dell'usura e della storia, in cui il restauratore si pone al servizio del passato. Il risanamento è più focalizzato sul presente e più strategico. Qui l'intervento di riparazione può migliorare l'oggetto originale sostituendo alcune parti vecchie; alla stessa stregua, il risanamento sociale può migliorare finalità precedenti introducendo nuovi programmi e nuove politiche. La riconfigurazione è più sperimentale nella prospettiva e più informale nel procedimento; a volte, quando si lavoricchia intorno a un vecchio apparecchio da aggiustare, si arriva a trasformarne, oltre al funzionamento, anche l'uso; anche la riparazione di relazioni sociali logorate può dare adito a soluzioni aperte, specialmente quando è svolta in maniera informale. Delle tre strategie, la riconfigurazione è quella più interessante dal punto di vista sociale, e, come vedremo nel prossimo capitolo, la più efficace per dare nuova linfa alla collaborazione.

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La maschera della sociabilità


Come abbiamo visto nel primo capitolo, secondo Simmel il contegno distaccato e impassibile dell'abitante della grande metropoli nasconde la sua reazione emotiva al bombardamento di stimoli della vita metropolitana. Per La Rochefoucauld, la maschera era una metafora dell'apparire diversi da quello che si è in realtà: "Ciascuno finge un atteggiamento e un aspetto esteriori che lo facciano apparire come egli vuole che la gente lo consideri". Maschere che nascondono e proteggono ne troviamo in ogni piega della vita sociale; il disoccupato in cerca di lavoro deve indossarne una nei colloqui di selezione; lo stesso dovette fare Theodore Kheel nelle trattative sindacali, e così pure i diplomatici tedeschi a Versailles nel negoziare le condizioni di pace dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale; i commercianti coreani di New York indossarono la maschera del silenzio. La maschera dissimulatrice non ha sempre e necessariamente uno scopo soltanto autoprotettivo: la cortesia e il tatto, per esempio, servono a mascherare sentimenti che potrebbero ferire l'altro.

Proprio per l'ubiquità di questa maschera, riesce difficile immaginarne una di altro genere, che potremmo chiamare la maschera della sociabilità, capace di stimolare emotivamente le persone e di rendere più intensa la loro esperienza. Se tuttavia consideriamo la maschera in quanto oggetto materiale, il passaggio concettuale diventa più agevole. La maschera è uno degli attrezzi teatrali più antichi, in grado di collegare il palcoscenico con la vita quotidiana.

Prendiamo il domino, l'ampio mantello con cappuccio e mascherina, familiare a tutti nelle immagini dei balli di Carnevale. Divenne di moda in Europa nel Quattrocento, traendo origine dagli spettacoli della commedia dell'arte eseguiti nelle pubbliche piazze a partire dal 1200. Nella sua declinazione mondana ha assunto una funzione di seduzione sessuale. Ai balli, le dame indossavano mezze maschere di seta colorata, modellate per coprire il volto dagli zigomi all'arco delle sopracciglia, con due fessure per gli occhi; la mascherina segnalava che la donna (o l'uomo) che la indossava era disponibile al piacere erotico; quando per le strade si festeggiava il Carnevale, prima della Quaresima, il domino consentiva alle donne la libertà di andare in giro da sole per la città e di flirtare con gli sconosciuti. La sottile striscia di tessuto della mascherina sanciva la finzione della libertà e dell'anonimato ("Non mi conosci!"), anche quando l'identità di colei che la indossava era in realtà palese. La maschera sospendeva la vigenza del decoro corporeo, l'artificio rendeva anonimo il piacere.

Le maschere indossate dal Trecento al Seicento dai medici ebrei a Venezia segnalavano invece un'esperienza fisica meno frivola. Quei curiosi oggetti di cartapesta dipinta coprivano tutta la parte superiore della faccia, da sopra le labbra alla fronte, e conferivano un aspetto a metà tra l'uomo e l'uccello, con il naso a forma di grosso becco e fessure molto larghe, che lasciavano trasparire occhi e sopracciglia. Poiché molti cristiani rifuggivano dal contatto fisico con gli ebrei (e a Venezia la maggior parte dei medici erano ebrei), quella maschera serviva a stornare la paura. Quando il medico si metteva la sua maschera da uccello, il paziente poteva lasciarsi toccare e tastare tranquillamente, nella finzione che non fosse un ebreo a farlo, bensì una strana creatura ibrida.

Ci sono maschere che forniscono un'eccitazione unilaterale, spesso di natura crudele e ignobile. Come è avvenuto nella prigione di Abu Ghraib durante la recente guerra in Iraq, la maschera imposta al corpo dell'altro può eccitare il torturatore; le fotografie di Abu Ghraib ci mostrano vittime incappucciate ma per il resto nude, disorientate o in preda a sofferenze, attorniate da giovani americani, belli puliti e in salute, che sorridono o ridono. La figura con il cappuccio ha in realtà un'origine più antica e più nobile, deriva dal costume del mago; se ne hanno esempi nell'iconografia francese già nell'Undicesimo secolo. Il cappuccio sarebbe servito, secondo una bizzarra tradizione, a nascondere il mago allo sguardo di Dio, mentre lo lasciava esposto all'influsso di forze cosmiche oscure. Come ha dimostrato lo storico Carlo Ginzburg , durante le messe nere i celebranti, coprendosi con il cappuccio, segnalavano il distacco dalla sfera dei sentimenti umani.

Il domino, la maschera-uccello e il cappuccio segnalano la capacità di stimolazione emotiva che la maschera possiede; ma esiste un altro tipo di maschera, la cui portata sociale è più generale e che, curiosamente, reca una fisionomia neutra. Se usata con perizia, essa sortisce un particolare effetto di stimolazione emotiva.

Nel 1944, dopo la liberazione della Francia, un giovanissimo attore, Jacques Lecoq, fece un incontro che gli cambiò la vita. A Grenoble, dove si trovava per uno spettacolo, conobbe Jean Dasté, un grande attore e animatore teatrale, che voleva liberare la recitazione dal suo stile pomposo e magniloquente, convinto che la vera forza espressiva scaturisce dalla semplicità. A questo scopo, Dasté aveva ideato delle maschere di cartapesta dalla fisionomia inespressiva, da far indossare sulla scena agli attori, maschi o femmine, giovani o vecchi. Lecoq rimase colpito dal risultato: "Se l'attore porta sul viso una maschera neutra," osservò, "l'attenzione è rivolta all'intero corpo, la 'faccia' diventa il corpo". Privato della mimica facciale, l'attore è obbligato a comunicare attraverso i gesti corporei e le inflessioni della voce.

Ispirandosi a Dasté, Lecoq si fece modellare dallo scultore Amleto Sartori delle maschere in cuoio (di cuoio erano le maschere originali della commedia dell'arte), con i fori degli occhi allargati, la bocca una linea orizzontale e il mento un segno astratto; il tutto dipinto di bianco. In seguito Lecoq fondò una scuola per insegnare agli attori a comunicare, sotto la maschera neutra, senza ricorrere alle espressioni del viso. Il "metodo Lecoq" richiede una rigorosa disciplina, giacché è come se all'attore fosse stato asportato un organo emotivo; nella sua forma estrema, il mimo, viene eliminata anche la parola, è asportato anche l'organo della fonazione. La comunicazione della paura, del piacere e del dolore è affidata alle mani, un'arte difficile da padroneggiare; per liberare le potenzialità del corpo, infatti, non basta indossare la maschera. Laddove il domino indossato dalle dame al ballo comunicava un unico messaggio: "Sono disponibile", l'attore con la maschera neutra deve esprimere una varietà di sentimenti.

Quella della neutralità è, ovviamente, un'esperienza che può assumere molte forme. Gli spazi fisici neutri delle metropoli moderne - gli scatoloni in vetro e acciaio circondati da chiazze di verde onnipresenti dovunque - sono spazi morti e generano spesso relazioni sociali altrettanto inerti. Al contrario, Lecoq voleva che la maschera neutra spingesse l'attore a comportarsi in maniera più espressiva e diretta, a liberarsi dall'artificio; e scoprì che "quando si toglie la maschera, se l'ha portata bene, l'attore ha il volto rilassato".

Merita soffermarsi su questo punto. Dal suo viaggio americano, Alexis de Tocqueville costruì la figura dell'individuo che si sente rassicurato da una società neutra e omologata, che aspira a evitare l'angoscia della differenza e che perciò si ritira in se stesso. L'attore di Lecoq ribalta questi termini: la maschera neutra rilassa il suo corpo ma lo scopo è quello di renderlo più espressivo per il pubblico. L'operatore dell'agenzia di collocamento e il disoccupato al colloquio di selezione, il negoziante coreano e il diplomatico si comportano in un certo senso come gli attori di Lecoq: neutralizzando taluni aspetti del proprio comportamento, ne lasciano emergere in primo piano altri. Insomma, nelle normali interazioni sociali la maschera neutra può conferire una presenza scenica più efficace.

O almeno, questa è una possibilità che andrebbe esplorata. Per esprimersi con efficacia sulla scena, gli attori professionisti, seguaci o meno della scuola di Lecoq, devono in ogni caso reprimere le proprie ansie. E per eliminare dal corpo un eccesso di tensione o di energia dispersiva, l'attore si concentrerà su gesti specifici, finalizzati e soprattutto minimi. La focalizzazione sul particolare allenta la tensione, che è poi il risultato a cui mira la maschera. Laurence Olivier era un maestro del piccolo gesto focalizzato, raramente compiva ampi gesti con le braccia o le mani; lo stesso lavoro sui dettagli è uno dei segreti della straordinaria presenza scenica di grandi ballerine come Sylvie Guillem e Suzanne Farrell, capaci di trasmettere al pubblico la loro presenza totale attraverso minimi particolari, come la repentina torsione del piede o la flessione di una mano.

Con questa osservazione aggiungiamo un elemento alla nostra analogia fra il teatro e la vita quotidiana. Anche la collaborazione diventa un'esperienza più espressiva quando è focalizzata su piccoli gesti; molti dei gesti minimi che creano un legame tra le persone sono, come abbiamo visto nel laboratorio di liuteria, corporei e non-verbali. E una dimensione del rituale è costituita dallo stabilire una coreografia di atti fisici e verbali in modo tale che possano essere ripetuti, eseguiti un'infinità di volte. Il lavoro focalizzato dell'attore sulla scena ci aiuta a capire la ragione per cui in tali esperienze sociali è possibile comportarsi in maniera espressiva: riducendo la tensione fisica, il rilassamento può diventare stimolante anziché ottundente.

Le maschere teatrali neutre ideate da Dasté e da Lecoq erano state pensate come maschere impersonali, nel senso che potevano essere indossate indifferentemente da un uomo o da una donna, da un attore grasso e basso o da uno magro e allampanato: l'aspetto fisico non inchiodava più l'attore a una determinata parte. E quando si assiste a uno spettacolo ispirato al metodo di Lecoq, è incredibile come il pubblico sia preso molto di più da ciò che l'attore fa, invece che dal suo aspetto; gli spettatori condividono con l'attore impersonale l'attenzione alla natura dell'atto. Si ha cioè un rivolgersi verso l'esterno, fuori da sé, che è esattamente la mossa necessaria nelle forme più complesse di collaborazione, con persone che non conosciamo o che magari non ci piacciono. Il teatro a cui pensa Lecoq è uno spazio di collaborazione, una qualità che ben si applica alla società.

Riassumendo, le maschere della sociabilità, oltre a fornire una copertura protettiva, possono dare spazio a una comunicazione più espressiva. Non dobbiamo commettere l'errore di credere che la diplomazia quotidiana, la quale nelle sue svariate forme fa uso della maschera neutra, sia semplicemente vuota manipolazione del prossimo. Al contrario, proprio se non siamo intenti a rivelare o a definire noi stessi, abbiamo la possibilità di riempire di contenuti espressivi uno spazio sociale condiviso. Lecoq mira a cancellare il divo nell'attore, a introdurre, come lui stesso rivendica, la democrazia nel teatro. Il suo metodo si colloca al polo opposto rispetto alla drammatizzazione di sé incarnata da Luigi XIV, e in questo senso la sua rivendicazione non è esagerata, benché la sua idea di democrazia non corrisponda a quella di Tocqueville. La maschera neutra e impersonale serve ad aprire l'attore verso l'esterno e a creare così uno spazio comune con il pubblico; anche nella collaborazione complessa c'è bisogno di apertura verso l'esterno, di predispone uno spazio comune; la diplomazia quotidiana è l'arte di costruire tale distanza sociale espressiva. Come vedremo nel prossimo capitolo, da questo precetto astratto derivano concrete conseguenze politiche.

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La vocazione


Sacrificio di sé, durata nel tempo, libera scelta, fragilità: queste dimensioni fanno dell'impegno un'esperienza inscindibile dall'idea che abbiamo di noi stessi. Si potrebbero riformulare le esperienze che ho descritto, dicendo che un forte impegno comporta un dovere nei propri confronti. E poi, per alleggerire il peso oppressivo della parola "dovere", potremmo pensare l'impegno come una "road map", una mappa con segnate le tappe da raggiungere via via nella vita.

Max Weber provò a spiegare questo tipo di impegno duraturo con una parola, Beruf, generalmente tradotta con "vocazione", un termine saturo di connotazioni religiose ed evocativo, soprattutto nei paesi anglosassoni, degli anni tormentati della Riforma.

Per il cristiano medievale, la vocazione religiosa era la scelta del monaco di ritirarsi dal mondo; per sé, le persone comuni, che continuavano a vivere nella società, non parlavano di scelta: la fede era un comportamento naturalizzato, scontato, come la danza per le api, anche se culturalmente anziché geneticamente programmato. La teologia luterana modificò quel modo di pensare. Rifacendosi alle esperienze dei primi cristiani, in particolare al rovello interiore di sant'Agostino, Lutero descrisse la fede come un'attiva decisione intima, un "impegno nei confronti di Cristo" da rinnovarsi di continuo nel corso della vita del credente. Il dramma del protestante sta nella sua consapevolezza di ciò che dovrebbe essere la sua vita nel mondo. Mentre il giudaismo, l'islam e il cattolicesimo forniscono al credente un progetto di vita esterno alla sua soggettività, il protestantesimo di Lutero pone sulla soggettività tutto l'accento.

La vocazione può diventare una cosa semplice, se viene concettualizzata come una personale programmazione strategica; i guru della gestione aziendale, come John Kotter, nei loro incontri motivazionali, consigliano di inventarsi delle "strategie esistenziali finalizzate": qui, tutto il rovello interiore e i dubbi del protestante sulla propria vocazione sono stati sterilizzati e cancellati. In realtà, la ricerca del nostro scopo nella vita, se condotta in profondità, serve a fare autocritica; un operatore di Borsa che aveva lasciato Wall Street per fare l'insegnante mi disse: "Si vede che ero destinato a fare un'altra cosa". Forse questa osservazione vale anche per quegli abitanti di Cabrini Green che avevano migliorato la propria condizione sociale: erano destinate a fare qualcos'altro nella vita che non rimanere inchiodati nella povertà. Ma è poi vero che ciascuno di noi ha un nucleo profondo che attende di essere realizzato attraverso le nostre azioni? E da che cosa è costituito quel nucleo, dalle nostre intime convinzioni soltanto? Nel caso dei miei amici d'infanzia sembrerebbe di sì: a sorreggerli nella vita e a realizzare il loro nucleo più intimo sono state le loro convinzioni religiose, anche quando esse non si traducevano direttamente in guide per il comportamento quotidiano.

La riflessione di Weber riguardava vocazioni collegate al potere, il potere in senso politico. Nel suo saggio La politica come vocazione troviamo descritta l'"etica della convinzione", la quale, quando il comando diventa uno scopo di vita personale (come nella vocazione politica), può risolvere i dilemmi della soggettività proposti dall'etica protestante. L'idea non è del tutto nuova; Schopenhauer e Nietzsche erano convinti che l'esercizio del potere guarisse la malattia del sé. Ma Weber si concentra più direttamente sugli uomini politici dotati di forti convincimenti, l'esatto contrario del politico machiavellico, uomini che credono in ciò che predicano. Weber diffidava del politico che aderisce ai propri princìpi perché egli tenderà a imporre agli altri l'adesione alle convinzioni che hanno salvato lui stesso dai dubbi interiori. Nel primo capitolo abbiamo visto nelle dichiarazioni di solidarietà esposte nel Musée social un esempio di ciò che Weber temeva: per Weber, l'idea di solidarietà maschera il processo di purificazione della volontà, di rafforzamento delle sue certezze allo scopo di tenere lontano il dubbio. L'"etica della convinzione" ha bisogno di escludere e di punire la differenza: una volta ammesso il dissenso, la convinzione stessa si sgretolerebbe.

Quali alternative ci possono essere all'etica della convinzione? Al Musée social di Parigi un'alternativa era presentata nella documentazione sulle settlement houses, sulle associazioni di mutuo soccorso e sui laboratori artigiani; gli organizzatori di quei gruppi, mentre nutrivano indiscutibilmente forti convinzioni e agivano con impegno, avevano un'idea differente della vocazione. La loro vocazione era la comunità stessa, una vocazione in cui la collaborazione diventava sempre più un fine in sé, capace di realizzare il nucleo interiore di quanti nella comunità vivevano e lavoravano. Tuttavia, nei miei vicini di Cabrini Green, che pure avevano vissuto un precoce e profondo coinvolgimento nella comunità locale, una volta diventati adulti non si sviluppò quel senso della comunità come vocazione; e neppure seguirono il percorso, delineato da Weber, del potere per confermare se stessi. E non fu l'elaborazione del lutto per il passato a indirizzarli verso la vocazione a "restituire" ciò che avevano ricevuto.

Che cosa comporta, allora, la vocazione alla comunità? Messe da parte le connotazioni romantiche della vocazione come adempimento del proprio destino, il tema diventa allora in che modo una persona possa elaborare il senso di una progettualità interiore attraverso la collaborazione comunitaria. Il nostro studio si conclude con tre versioni della comunità come vocazione messe in pratica dagli eredi degli attivisti sociali presenti a Parigi, ciascuna a suo modo molto convincente, ciascuna piena di ambiguità, ciascuna ancora, a tutt'oggi, una questione aperta.

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La comunità semplice


In casa nostra, uno dei libri più consultati era una raccolta degli scritti di A.D. Gordon, un visionario russo vissuto tra il 1856 e il 1922. Gordon aveva una visione, diciamo così, terapeutica della comunità: l'impegno verso gli altri può risolvere i problemi psicologici personali. Ma non era uno psicologo e tantomeno un seguace di Max Weber; Gordon fu colui che fornì una cornice ideologica al kibbutz, una comunità fondata sulla comune identità, in cui la collaborazione diventa un fine in sé.

In un certo senso, il kibbutz è la versione ebraica degli istituti ottocenteschi per la formazione professionale degli ex schiavi, in quanto, secondo la visione di Gordon, nel kibbutz i membri avrebbero potuto ripristinare il rispetto di sé e quindi provare un senso di fratellanza reciproca. Il nemico da combattere erano le involute complicazioni sociali della diplomazia quotidiana. In Europa, per riuscire a sopravvivere, gli ebrei erano stati costretti a praticare quell'arte; nel kibbutz, avrebbero potuto liberarsi della maschera che avevano dovuto indossare per adattarsi a una società ostile.

Il kibbutz mise radici in Palestina alla fine dell'Ottocento; nello stato di Israele, durante gli anni sessanta del Novecento, andò perdendo il suo profilo originale. In origine, era una cooperativa agricola, fondata sul lavoro manuale duro e spesso non specializzato; per questo aspetto differiva dunque dagli istituti per gli ex schiavi americani. E aveva un impianto dichiaratamente socialista: i bambini erano allevati collettivamente, la ricchezza privata era ridotta al minimo, i proventi del lavoro andavano alla comunità nel suo insieme.

Quando nel 1904 emigrò in Palestina dalla Russia, Gordon era bene attrezzato per i rigori di quella vita comunitaria totalizzante. Suo padre amministrava una foresta per conto della potente famiglia Günzberg, a cui era imparentato; anche Aaron David (questi i nomi dietro le iniziali che Gordon usava nei suoi libri) lavorava per i Günzberg, in un'altra tenuta, ed era esperto nei lavori della terra; il fatto che la maggior parte degli ebrei del suo tempo ne fosse invece digiuna ricorre spesso nelle riflessioni di questo contadino ideologo.

In gran parte dell'Europa orientale, agli ebrei era legalmente interdetta la proprietà della terra e la natura era per loro un paese straniero. Inoltre, nell'opinione di Gordon, gli ebrei, piccoli bottegai e commercianti o prosperi avvocati e medici, avevano perduto il contatto con la fisicità perché non lavoravano con le mani. In realtà, i dati su cui si basava Gordon non erano esatti; nel 1914 in tutta l'Europa orientale erano numerosi gli ebrei che lavoravano nell'industria. A ogni modo, la sua avversione per il lavoro non fisico e non legato alla terra era paragonabile a quella di Thoreau dopo il ritiro a Walden: le persone che non sapevano muoversi con sicurezza nella natura non potevano dirsi veramente sicure di sé, erano alienate da se stesse. È un giudizio duro, che sfida l'evidenza di duemila anni di persecuzioni, e di capacità di sopravvivenza, del popolo ebraico, ma forse scusabile, considerata la fascinazione esercitata su di lui, come su molti altri, dalla personalità di Lev Tolstoj.

È difficile, a un secolo di distanza, comprendere la presa che il comunitarismo di Tolstoj ebbe sulla fantasia dei russi di idee liberali durante la cosiddetta Età d'argento, il ventennio che precedette la Rivoluzione. I seguaci di Tolstoj erano convinti che la Russia fosse decaduta ben al di là di quanto si potesse attribuire al dominio oppressivo dello zar Nicola II; si era sfilacciato il tessuto connettivo stesso del popolo russo, con effetti disastrosi sul carattere dei singoli. Il rimedio additato da Tolstoj era di tipo vocazionale: per ricostruire le proprie radici, gli individui privilegiati dovevano lavorare la terra al fianco dei contadini; questa argomentazione trova corpo nel personaggio di Levin di Anna Karenina (1873-1877), un aristocratico che scopre la ricchezza nel ritorno alla terra. (Uno dei miei ricordi infantili più vividi è quello di una vecchia signora elegante e senza un soldo, sopravvissuta alla Rivoluzione, che mi leggeva le pagine del romanzo di Tolstoj sulle virtù della vecchia classe contadina.) Gordon conosceva a memoria molte di quelle pagine, che per lui, in quanto ebreo, avevano una pregnanza particolare. Gli ebrei avrebbero dovuto diventare persone nuove lontano dall'Europa, irrobustirsi nel fisico e nel morale attraverso il lavoro manuale: il medico cacciato dalla sua città poteva ritrovare la dignità nel kibbutz, costruendosi la casa con le sue mani, coltivando la vigna, preparando il pasto comunitario. Tolstoj declinato nel kibbutz significava entrare in contatto con il proprio corpo che lavora.

La collaborazione intesa come vocazione alla semplicità ha una lunga genealogia; alcuni francescani (non direttamente san Francesco) vi si votarono, nella convinzione che i monaci dovessero dedicarsi con letizia ai compiti più umili e gravosi, giacché lavando i pavimenti o falciando l'erba avrebbero recuperato l'agape, la fratellanza dei primi cristiani. In anni più vicini a noi, molti crimini sono stati compiuti in nome del lavoro faticoso inteso come rigenerazione della personalità, dal nazismo alla Rivoluzione culturale di Mao, ma, nella sua esaltazione del ritorno alla vita semplice, Gordon sembra avere come compagno di viaggio più che altro Jean-Jacques Rousseau.

A questo riguardo, Herbert Rose, un acuto commentatore del pensiero di Gordon, pone un'importante distinzione: "Gordon non ha mai affermato che l'uomo è buono per natura [...]. La natura per lui non rappresenta l'innocenza, bensì la sorgente della vitalità". La lingua ebraica esprime il contrasto tra apatia e vitalità con due parole. Tsimtsum rimanda a un'idea di egocentrismo e di scissione interiore, la cui combinazione determina una contrazione, un calo di vitalità. Mentre il rimedio è espresso nel termine histpashtut, il desiderio naturale di espandersi verso gli altri, che ricostituisce l'unità della persona. Questo concetto potrebbe sembrare affine all'ideale della caritas sostenuto da Dorothy Day, ma tra i due esiste un'importante differenza. L'esperienza di histpashtut si riferisce a un'azione compiuta qui e ora: nell'ideologia di Gordon non vi è alcun rimando alla trascendenza. Così come sono assenti la sospettosità, il cinismo e la rassegnazione, tratti che secondo Gordon avevano sfigurato la cultura ebraica nella diaspora. Ciascun gesto di collaborazione ha un immediato effetto risanatore sulla personalità, laddove nella teologia cristiana della Day esso può solo essere un passo verso la guarigione, la quale avviene, se avviene, soltanto nell'altra vita.

Leggere Gordon oggi è difficile, a causa della direzione presa dal sionismo molto tempo dopo la sua morte. Al pari di Martin Buber, Gordon era convinto che ebrei e palestinesi potessero e dovessero condividere alla pari la stessa terra e che gli ebrei non avrebbero mai dimenticato la lezione appresa nei lunghi millenni della diaspora: il diverso da noi va trattato con giustizia.

In parte la difficoltà riguarda la sua profonda convinzione che la collaborazione nella semplicità può redimere il cuore. Ma il suo pensiero è importante per noi per l'accento posto sulla collaborazione comunitaria come mezzo per rafforzare l'identità. Molti attivisti che operano nelle comunità oppresse seguono questa visione, che è l'erede a livello locale delle versioni nazionali o internazionali dell'afflato solidaristico che animava la sinistra politica nel 1900. Nel diventare "locale", tuttavia, la natura dell'identità condivisa si modifica, perché finisce per dipendere dal riferimento diretto all'esperienza di un prossimo che conosciamo bene. Anziché su richiami ad astrazioni come "il popolo ebraico" o "l'anima afroamericana", l'identità condivisa si costruisce sulla storia che io e te abbiamo in comune.

L'idea che la comunità debba basarsi sulla semplicità non è appannaggio dell'ideologo del kibbutz; molti attivisti del servizio alla comunità la seguono senza rifletterci troppo su. Ma anch'essa conduce al medesimo problema che abbiamo evidenziato nel caso del Movimento dei lavoratori cattolici: la comunicazione con coloro che hanno idee differenti diventa elusiva. Il pregio di entrambi i tipi di comunità risiede nel dare valore a una collaborazione aperta, radicata nel territorio, costruita liberamente dal basso. Gordon stesso rimproverava ai bolscevichi di avere fuso insieme socialismo e nazionalismo; a suo modo di vedere, non si poteva costringere la collaborazione in un Piano quinquennale. Rimaneva irrisolto, tuttavia, il problema sociale del come vivere localmente in una società complessa.


I piaceri della comunità

Colui che negli Stati Uniti più si spese per trovare una soluzione a questo problema fu Norman Thomas (1884-1968), leader per gran parte del Novecento del Partito socialista d'America. Norman Thomas voleva integrare la democrazia sociale dell'Europa con la predilezione americana per l'azione nel territorio. E lo strumento usato da Thomas per questo connubio fu l'informalità, sia nel suo personale comportamento sia nella sua idea di comunità: l'esperienza comunitaria della collaborazione doveva diventare un piacere che dura nel tempo.

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Il Ventesimo secolo ha pervertito la collaborazione in nome della solidarietà. Non solo perché i regimi che la proclamavano a parole erano dispotici, ma perché il desiderio stesso di solidarietà incoraggia il dominio e la manipolazione da parte dei vertici. Fu questa l'amara lezione che Karl Kautsky, come molti, troppi, dopo di lui, apprese nel passare dalla sinistra politica alla sinistra sociale. Il potere perverso della solidarietà, nella forma che contrappone "noi" a "loro", pervade ancora la società civile delle democrazie liberali, come si vede nell'atteggiamento degli europei verso gli immigrati di altre etnie, vissuti come una minaccia alla solidarietà sociale, o nella richiesta americana di un ritorno ai "valori della famiglia"; e si fa sentire molto presto tra i ragazzi, condizionando il loro modo di fare amicizia e di concepire gli estranei.

La solidarietà è stata la risposta tradizionale della sinistra ai mali del capitalismo; la collaborazione in quanto tale non ha mai avuto un posto di rilievo tra le strategie di resistenza al sistema. Questa scelta, benché realistica per un verso, ha devitalizzato la sinistra. Le nuove forme di capitalismo puntano sul lavoro a breve termine e sulla frammentazione delle istituzioni, e l'effetto sui lavoratori è quello di privarli della possibilità di stabilire relazioni di sostegno reciproco. Nei paesi occidentali, la distanza tra le élite e le masse va aumentando e la disuguaglianza è più pronunciata proprio nei paesi che sposano l'ideologia neoliberista, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti; sempre meno, in queste società, ci si riconosce in un destino comune e condiviso. Il neocapitalismo consente il divorzio tra potere e autorità, e le élite vivono in un empireo globale, svincolate dalla responsabilità nei confronti dei comuni mortali, specialmente in tempi di crisi economica.

Non sorprende che in questa situazione le persone comuni, mentre sono ricacciate in una condizione di isolamento, anelino a una qualche forma di solidarietà, un bisogno che la solidarietà distruttiva, quella del "noi contro di loro", sembra fatta apposta per soddisfare.

Così come non sorprende che da questo incrocio tra potere politico e potere economico sia nata una precisa tipologia caratteriale, che aspira soprattutto ad alleviare l'angoscia personale. L'individualismo di cui parla Tocqueville apparirebbe a La Boétie, se vivesse oggi, una nuova forma di servitù volontaria: l'individuo che, in balia dell'angoscia personale, cerca un senso di sicurezza in ciò che gli è familiare. Ma a mio avviso la parola "individualismo" segnala, oltre che una pulsione personale, anche un'assenza sociale, l'assenza di riti condivisi. In tutte le culture umane, il ruolo del rituale è quello di alleviare e risolvere l'angoscia attraverso un movimento di estroflessione in atti simbolici condivisi. La società moderna ha indebolito tali legami ritualizzati; i rituali secolari, in specie i rituali di collaborazione, si sono dimostrati troppo aleatori per fornire quel tipo di sostegno.

Nell'Ottocento, Jacob Burckhardt definì l'epoca moderna una "età di brutali semplificatori". Oggi, l'effetto incrociato del bisogno di una solidarietà rassicurante e dell'insicurezza economica tende a produrre una vita sociale brutalmente semplificata, dominata da due sole polarità: "noi contro di loro" e "ciascuno da solo". Ciononostante, io insisto sulla clausola: non è ancora così. I brutali semplificatori della modernità possono forse inibire e distorcere la nostra capacità di vivere e lavorare insieme, ma non cancellano, non possono cancellare, tale capacità. In quanto animali sociali, siamo in grado di collaborare più profondamente di quanto non immagini l'ordine sociale esistente. Perché l'emblematica ed enigmatica gatta di Montaigne abita dentro di noi.

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