Copertina
Autore Richard Sennett
Titolo L'uomo artigiano
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2008, Campi del sapere , pag. 318, cop.fle., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-07-10439-8
OriginaleThe Craftsman
EdizioneYale U.P., New Haven, 2008
TraduttoreAdriana Bottini
LettoreGiorgia Pezzali, 2010
Classe sociologia , storia sociale , storia della tecnica , lavoro
PrimaPagina


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Indice


  9  Ringraziamenti

 11  Prologo: l'uomo creatore di se stesso

 11     Il vaso di Pandora. Hannah Arendt e Robert Oppenheimer;
 18     Il progetto. L'uomo artigiano; guerrieri e sacerdoti; lo straniero;
 23     Una nota sulla storia. La brevità del tempo


     Parte prima GLI ARTIGIANI

 27  1. Le tribolazioni dell'artigiano

 29     L'Efesto moderno. Gli antichi tessitori e i programmatori di Linux;
 35     L'indebolimento della motivazione. Lavoratori demoralizzati
        dal dirigismo e lavoratori demoralizzati dalla competitività;
 44     Le abilità spezzettate. Il divorzio tra la mano e la testa;
 51     Criteri in conflitto. La maniera corretta o l'efficacia pratica?

 59  2. Il laboratorio

 61     Il palazzo delle corporazioni. L'orafo medievale;
 70     Maestri in solitudine. L'artigiano diventa artista;
 78     I segreti nella tomba. Nella bottega di Stradivari

 85  3. Le macchine

 88     L'utensile-specchio. Replicanti e robot;
 91     L'artigiano illuminista. L'Enciclopedia di Diderot;
107     L'artigiano romantico. John Ruskin contro il mondo moderno

119  4. La coscienza materiale

120     La metamorfosi. Il racconto del vasaio;
129     La presenza. Il racconto del fabbricante di mattoni;
134     Antropomorfismo. La Virtù scoperta nel Materiale;
143     Sommario della Parte prima


     Parte seconda IL MESTIERE

147  5. La mano

147     La mano intelligente. Come la mano è diventata umana:
        afferrare e toccare;
151     La prensione: afferrare una cosa;
153     Le virtù della mano. Sulla punta delle dita: la verità;
158     I due pollici. Dalla coordinazione, la collaborazione;
161     Mano-polso-avambraccio. La lezione della forza minima;
167     La mano e l'occhio. Il ritmo della concentrazione

174  6. Le istruzioni espressive

174     Il principio dell'istruzione efficace. Rappresentare, non recensire;
176     La ricetta scritta;
177     La denotazione inerte: disavventure di un pollo;
179     L'illustrazione empatica: la Poularde à la d'Albufera di Julia Child;
181     La narrazione scenica: la Poule à la Berrichonne di Elizabeth David;
183     Le istruzioni per mezzo della metafora:
        la ricetta del Poulet à la d'Albufera di Madame Benshaw

187  7. Attrezzi che eccitano la mente

188     Attrezzi difficili. Telescopi, microscopi e bisturi;
192     Le riparazioni. Aggiustare ed esplorare;
197     Attrezzi sublimi. I fili miracolosi di Luigi Galvani;
201     L'eccitazione della mente. Come avvengono i salti intuitivi

205  8. Resistenza e ambiguità

206     Come l'uomo artigiano può lavorare con la resistenza;
206     La linea di minor resistenza: scatole e tubi;
212     Rendere difficili le cose: lavorare sulla pelle;
216     I luoghi della resistenza: pareti e membrane;
220     L'ambiguità;
220     Anticipare l'ambiguità: i margini;
224     L'improvvisazione: i gradini;
226     Sommario della Parte seconda


     Parte terza LA PERIZIA DELL'ARTIGIANO

231  9. L'ossessione della qualità

235     La competenza. L'esperto socievole e quello antisociale;
241     L'ossessione come Giano bifronte. La storia di due case;
251     La vocazione. Una narrazione che sostiene

255 10. Il talento

256     Lavoro e gioco. Il filo ininterrotto della perizia nel fare;
260     Le capacità. Localizzazione, porre domande, apertura;
266     L'intelligenza operativa: il paradigma dello Stanford-Binet

272  Per concludere: il laboratorio filosofico

272     Il pragmatismo. L'esperienza come mestiere;
277     La cultura. Pandora ed Efesto;
279     L'etica. L'orgoglio per il proprio lavoro

283  Note
305  Indice dei nomi


 

 

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Prologo: l'uomo creatore di se stesso


Il vaso di Pandora

Hannah Arendt e Robert Oppenheimer

Un giorno del 1962, poco dopo la crisi dei missili a Cuba, quando il mondo si era trovato sull'orlo della guerra atomica, mi imbattei a New York nella mia maestra, Hannah Arendt. La vicenda l'aveva scossa, come aveva scosso tutti, ma le aveva anche confermato la sua più profonda convinzione. Qualche anno prima, in Vita activa, aveva sostenuto che l'ingegnere, per esempio, o qualunque produttore di cose, non è padrone in casa sua: è la vita politica, in quanto sta al di sopra del lavoro fisico, che deve fornire l'orientamento. Hannah Arendt era giunta a questa convinzione già nel 1945, quando con il progetto Manhattan era stata creata la prima bomba atomica. Ora, durante la crisi dei missili, anche gli americani che erano troppo giovani per avere vissuto la seconda guerra mondiale sperimentavano in modo diretto un sentimento di paura. Faceva un gran freddo, in quella strada di New York, ma lei sembrava non accorgersene; le premeva che ne traessi la lezione giusta: le persone che fabbricano cose di solito non capiscono quello che fanno.

Nella cultura occidentale, la paura esplicitata da Hannah Arendt nei confronti dell'invenzione di oggetti che possono portare il mondo all'autodistruzione risale al mito greco di Pandora. Dea dell'invenzione, Pandora fu inviata sulla terra da Zeus come castigo per la trasgressione di Prometeo. Esiodo, in Opere e giorni, definisce Pandora l'amaro dono, a cui avevano contribuito tutti gli dèi, "sciagura agli uomini laboriosi". Quando Pandora sollevò il coperchio del suo scrigno (o, in altre versioni, del suo vaso), disperse fra gli uomini "sciagure luttuose". I popoli di tradizione greca, nell'elaborarne la cultura, arrivarono via via a convincersi che Pandora simboleggiasse un elemento della loro stessa natura; una cultura fondata sugli artefatti umani rischia di continuo l'autodistruzione.

A produrre questo rischio è qualcosa di apparentemente innocente presente negli esseri umani: uomini e donne sono sedotti dalla pura meraviglia, dall'eccitazione, dalla curiosità, e allora si raccontano che l'apertura del vaso è un gesto in sé neutro. A proposito della prima arma di distruzione di massa, Hannah Arendt avrebbe potuto citare l'osservazione annotata nel suo diario da Robert Oppenheimer, il direttore del progetto di Los Alamos, quasi a rassicurare se stesso: "Quando vedi qualcosa che tecnicamente è allettante, ti butti e lo fai; sulle conseguenze ci rifletti solo dopo che hai risolto vittoriosamente il problema tecnico. Con la bomba atomica è stato così".

Il poeta John Milton raccontò in modo analogo la storia di Adamo ed Eva, come allegoria dei pericoli della curiosità, con Eva nella parte di Oppenheimer. Nella scena primaria del cristianesimo descritta da Milton, la sete di conoscenza, più che il desiderio sessuale, induce gli esseri umani a nuocere a se stessi. L'immagine di Pandora mantiene la sua potenza nei testi del teologo contemporaneo Reinhold Niebuhr, quando osserva che è della natura umana credere che qualsiasi cosa appaia possibile vada perciò stesso sperimentata.

La generazione di Hannah Arendt poteva esprimere in numeri la paura dell'autodistruzione, in numeri così enormi da dare le vertigini. Nei primi cinquant'anni del ventesimo secolo, almeno settanta milioni di persone sono morte in guerre, in campi di concentramento e in gulag. Secondo la filosofa tedesca, quei numeri rappresentano il risultato congiunto di cecità scientifica e potere burocratico: di burocrati che badavano soltanto a eseguire il loro compito, simboleggiati per lei da Adolf Eichmann, l'efficiente organizzatore di campi di sterminio, per il quale coniò l'espressione "la banalità del male".

Oggi, in epoca di pace, la civiltà materiale snocciola numeri altrettanto vertiginosi di distruzione autoinflitta: ammonta a un milione, per esempio, il numero di anni impiegati dalla natura per costruire la quantità di carburante fossile oggi consumata in un solo anno. La crisi ecologica è pandorica, opera dell'uomo; e la tecnologia potrebbe essere un alleato infido nel governare tale processo. Il matematico Martin Rees descrive la possibilità quantomeno teorica della microelettronica di creare un mondo robotico che diventa indipendente dall'intervento umano: per esempio, Rees immagina dei microrobot autoreplicanti, i quali, progettati per ripulire lo smog, potrebbero invece divorare la biosfera. Un esempio più vicino a noi è quello dell'ingegneria genetica di piante e animali.

La paura dei doni di Pandora crea un clima razionale di terrore - ma il terrore può essere paralizzante, un male a sua volta. La tecnologia può apparirci essa stessa il nemico, anziché semplicemente un rischio. Siamo tentati, troppo sbrigativamente, di rimettere il tappo al vaso di mali ambientali portato da Pandora, come fece per esempio Martin Heidegger, il maestro di Hannah Arendt, in una delle conferenze di Brema del 1949, verso la fine della sua carriera. In quella infamante occasione, Heidegger "liquidò l'unicità dell'Olocausto iscrivendolo nella storia dei misfatti umani, paragonando la 'fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas' alla agricoltura meccanizzata". Nelle parole dello storico Peter Kempt, "secondo Heidegger, entrambi i fenomeni andavano considerati incarnazione della medesima smania tecnologica, la quale, se non controllata, avrebbe condotto a una catastrofe ecologica planetaria".

Se il paragone è blasfemo, Heidegger interpella tuttavia un desiderio presente in molti di noi, il desiderio di ritornare a un modo di vivere più antico o di immaginare un futuro nel quale abitare la natura in maniera più semplice. In un altro contesto, Heidegger da vecchio ebbe a scrivere, contro le pretese del mondo moderno dominato dalle macchine, che "il carattere fondamentale dell'abitare è il risparmiare e il preservare". Un'immagine famosa di questi scritti tardivi è quella di "una casa contadina nella Foresta Nera", nella quale il filosofo si ritira, limitando il suo intervento nel mondo alla soddisfazione di bisogni semplici. Un desiderio che forse potrebbe sorgere in chiunque, di fronte ai numeri esorbitanti della distruttività moderna.

Nel mito, le sciagure contenute nel vaso di Pandora non erano colpa dell'uomo: gli dèi erano adirati. Nella nostra epoca secolarizzata, la paura di Pandora è più disorientante: negli inventori delle armi nucleari si assommarono curiosità e colpa; è difficile spiegare le conseguenze non volute della curiosità. L'avere costruito la bomba riempì di sensi di colpa Oppenheimer, e così pure I.I. Raby, Leo Szilard e molti altri scienziati che avevano lavorato a Los Alamos. Nel suo diario, Oppenheimer cita le parole del dio indiano Krishna: "Sono diventato Morte, il distruttore dei mondi". Degli esperti che temono la propria perizia: che cosa possiamo fare, di fronte a questo terribile paradosso?

Nelle Reith Lectures tenute per la BBC nel 1953, una serie di trasmissioni miranti a spiegare il posto della scienza nella società moderna (poi pubblicate con il titolo: Science and the Common Understanding), Oppenheimer affermò che il trattare la tecnologia come un nemico non farà che rendere ancora più inerme l'umanità. Tuttavia, angosciato all'idea della bomba atomica e della sua filiazione termonucleare, in quell'arena pubblica egli non seppe offrire agli ascoltatori alcuna proposta concreta su come far fronte alla situazione. Nonostante la sua ambiguità, Oppenheimer era un uomo ben inserito nel mondo. A un'età relativamente giovanile, durante la seconda guerra mondiale, ricevette l'incarico di dirigere il progetto per lo sviluppo della bomba atomica e alla mente geniale unì la capacità di gestire un gruppo numeroso di scienziati; i suoi talenti erano sia scientifici sia manageriali. Ma nemmeno ai suoi colleghi seppe fornire un'immagine soddisfacente dell'uso da farsi del loro lavoro. Ecco le parole con le quali congedò il gruppo di Los Alamos il 2 novembre del 1945: "È bello consegnare all'umanità tutta il massimo potere possibile di controllare il mondo e di gestirlo in base alle proprie luci e ai propri valori". L'opera del creatore diventa un problema del pubblico. Come ha osservato David Cassidy, uno dei biografi di Oppenheimer, le Reith Lectures si dimostrarono così "una grandissima delusione sia per l'oratore sia per i suoi ascoltatori".

Se gli esperti non sono in grado di dare un senso al proprio lavoro, che dire del pubblico? Hannah Arendt, benché, io credo, sapesse poco di fisica, raccolse la sfida di Oppenheimer: che sia il pubblico dunque a gestirlo! Nutriva una fede saldissima nella capacità del pubblico di comprendere le condizioni materiali in cui si trova e nella capacità dell'agire politico di rinsaldare la volontà dell'umanità di essere padrona nella casa delle cose, degli utensili e delle macchine. Quanto alle armi racchiuse nel vaso di Pandora, Hannah Arendt era convinta, me lo disse lei stessa, che ci sarebbe dovuto essere un dibattito pubblico sulla bomba atomica nel periodo stesso della sua fabbricazione; a torto o a ragione, riteneva che si sarebbe potuta preservare la segretezza del processo tecnico anche nel corso di tale dibattito. Le ragioni della sua fede nelle capacità del pubblico affiorano chiare nel suo libro più grande.

Vita activa. La condizione umana, pubblicato nel 1958, afferma il valore del dialogo aperto e sincero tra esseri umani. Scrive Hannah Arendt: "discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto uomini. Questo apparire, in quanto è distinto dalla mera esistenza corporea, si fonda sull'iniziativa, un'iniziativa da cui nessun essere umano può astenersi senza perdere la sua umanità". E aggiunge: "una vita senza discorso e senza azione [...] è letteralmente morta per il mondo". È in tale sfera pubblica, attraverso il dibattito, che le persone dovrebbero decidere quali tecnologie promuovere e quali proibire. Benché questa esaltazione del discorso possa sembrare utopica, Hannah Arendt fu a suo modo una filosofa eminentemente realistica. Sapeva che la pubblica discussione dei limiti umani non può mai essere la politica della felicità.

Né credeva in verità religiose o naturali che potessero dare permanenza e continuità alla vita. Anzi, come John Locke e Thomas Jefferson, Hannah Arendt era convinta che una comunità politica è cosa diversa da un edificio storico o da un sito da dichiararsi "patrimonio dell'umanità": le leggi dovrebbero essere transitorie. Questa tradizione liberale immagina che le regole generate da un processo deliberativo sono poste in dubbio dal modificarsi delle condizioni e nella misura in cui la gente vi riflette ulteriormente; nascono allora nuove regole, sempre provvisorie. Il contributo portato da Hannah Arendt a questa tradizione si fonda in parte sull'intuizione che il processo politico sia l'esatto equivalente della condizione umana del mettere al mondo i figli per poi lasciarli andare. Per descrivere il processo della nascita, della formazione e della separazione nella vita politica, usa infatti il termine natalità. Il dato fondamentale della vita è che nulla dura, eppure nella vita politica abbiamo bisogno di qualcosa che ci orienti, che ci sollevi al di sopra delle confusioni del momento. Le pagine di Vita activa esplorano appunto come il linguaggio possa guidarci, per così dire, nel nuotare contro la corrente vorticosa del tempo.


Quando ero suo allievo quasi mezzo secolo or sono, trovai molto stimolante la filosofia di Hannah Arendt, eppure già allora mi sembrò non del tutto idonea per fare i conti con le cose materiali e con le pratiche concrete contenute nel vaso di Pandora. Il bravo maestro impartisce spiegazioni soddisfacenti; il grande maestro (quale era Hannah Arendt) turba, trasmette inquietudine, invita a obiezioni. La sua difficoltà a trattare con Pandora mi parve, oscuramente allora, più chiaramente oggi, discendere dalla distinzione che pone tra homo faber e animal laborans. (Come è ovvio, con "uomo" in questo caso non si intende il genere maschile. Nel corso del libro, se si renderà necessario connotare il linguaggio secondo il genere, cercherò di rendere esplicito quando con "uomo" e "uomini" mi riferisco genericamente agli esseri umani e quando mi riferisco a individui maschi.) Homo faber e animal laborans sono due figure dell'essere umano al lavoro; sono immagini austere della condizione umana, giacché il filosofo esclude forzatamente dalle proprie considerazioni il piacere, il gioco e la cultura.

L' animal laborans, come il termine fa capire, è l'essere umano simile a una bestia da soma, la persona che fatica, condannata alla routine. Hannah Arendt arricchisce tuttavia questa immagine presentandoci tale persona immersa in un compito che chiude fuori il mondo, una condizione bene esemplificata da Oppenheimer quando pensa alla bomba atomica come a un problema "allettante" o da Eichmann, ossessionato dall'idea di rendere efficienti le camere a gas. Nell'atto di far sì che una cosa funzioni, niente altro conta; per l' animal laborans il mondo è un fine in sé.

Al contrario, l' homo faber è per Hannah Arendt la figura dell'uomo e della donna che fanno un altro genere di lavoro, l'attività di costituire una vita in comune. La locuzione latina "homo faber" significa semplicemente l'uomo in quanto artefice, creatore. Essa ricorre nel Rinascimento negli scritti di filosofia e sulle arti; due generazioni prima di Hannah Arendt, Henri Bergson l'aveva applicata alla psicologia; lei la applicò alla vita politica, in un senso molto particolare. L' homo faber è il giudice del lavoro e delle pratiche materiali; non un collega dell' animal laborans, ma il suo superiore. Dunque, secondo Hannah Arendt, noi esseri umani viviamo in due dimensioni. Nell'una, fabbrichiamo cose; in questa condizione siamo amorali, immersi nel compito da eseguire. Ma alberghiamo in noi anche un'altra modalità di vita, più elevata, nella quale cessiamo di produrre e cominciamo a discutere e a giudicare, tutti insieme. Laddove l' animal laborans si fissa sulla domanda: "Come?", l' homo faber chiede: "Perché?".

Questa distinzione a me sembra fallace, perché sminuisce la persona pratica in quanto lavoratrice. L'animale umano che è un animal laborans è capace di pensiero; i discorsi in cui il produttore si impegna saranno forse, nella sua testa, con i materiali anziché con altre persone; e le persone che lavorano insieme sicuramente discorrono tra loro del lavoro che stanno facendo. Per Hannah Arendt, la mente entra in funzione una volta cessato il lavoro. Secondo un altro modo di vedere, più equilibrato, nel processo del fare sono contenuti pensiero e sentimento.

Questa potrà forse sembrare un'osservazione assiomatica, ma possiede una sua incisività, in quanto affronta direttamente il problema del vaso di Pandora. Il demandare al pubblico di "risolvere il problema" dopo che il lavoro è stato compiuto significa mettere la gente di fronte a fatti di solito irreversibili. Il coinvolgimento deve iniziare prima, richiede una comprensione più completa e più precisa del processo mediante il quale le persone producono le cose, un coinvolgimento più "materialistico" di quello che si può trovare tra pensatori pur del calibro di Hannah Arendt. Per far fronte a Pandora occorre un materialismo culturale più vigoroso.

Il termine "materialismo" metterà probabilmente il lettore sulla difensiva; esso è stato degradato, sporcato, dal marxismo nella storia politica recente e nella vita di ogni giorno dall'immaginario e dal desiderio insaziabile del consumismo. Il pensiero "materialistico" risulta inoltre oscuro perché noi tutti usiamo oggetti, come i computer o le automobili, che non ci fabbrichiamo noi e che non comprendiamo. Quanto al termine "cultura", Raymond Williams ne ha contate parecchie centinaia di accezioni moderne diverse. Questo vasto giardino selvatico si divide grosso modo in due grandi appezzamenti. Nell'uno, la cultura riguarda le sole arti; nell'altro, indica le credenze religiose, politiche e sociali che legano un popolo. Troppo spesso, lo studio della cosiddetta "cultura materiale" (almeno nelle scienze sociali) trascura le stoffe, le schede madri o i pesci arrostiti in quanto oggetti degni in sé di attenzione e tratta la loro creazione come il riflesso di norme sociali, interessi economici o convinzioni religiose: l'oggetto in sé passa in secondo piano.

Dunque occorre ricominciare dal principio. Per esempio, ponendoci la semplice domanda (benché le risposte siano tutt'altro che semplici): che cosa ci rivela su noi stessi il processo di produrre cose materiali? Per imparare dalle cose occorre prestare attenzione alle qualità di una stoffa o al modo giusto di cuocere un pesce; una stoffa tessuta bene e un pesce ben cucinato ci mettono in grado di immaginare categorie di "bontà" più ampie. Ben disposto verso i sensi, il materialista culturale vuole individuare i punti in cui si trova il piacere e come esso è strutturato. Curioso nei confronti delle cose in quanto tali, vuole capire come esse possano generare valori religiosi, sociali o politici. L' animal laborans può diventare la guida dell' homo faber.

Ora che sono vecchio, sono ritornato con la mente a quella strada dell'Upper West Side di Manhattan. Voglio dimostrare quello che da giovane non sono stato capace di dimostrare a Hannah Arendt: che le persone possono apprendere informazioni su di sé attraverso le cose che fabbricano; che la cultura materiale è importante. Invecchiando, la mia maestra cominciò a nutrire maggiore fiducia nella possibilità che le facoltà di giudizio dell' homo faber potessero salvare l'umanità da se stessa. Nell'inverno della mia vita, sono diventato più fiducioso nell'animale umano in quanto lavoratore. I mali contenuti nel vaso di Pandora possono davvero essere resi meno spaventosi; è possibile realizzare una vita materiale più umana, se solo si comprende meglio il processo del fare.

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Il progetto

L'uomo artigiano; guerrieri e sacerdoti; lo straniero

Questo è il primo di tre libri sulla cultura materiale, che riguardano tutti i pericoli contenuti nel vaso di Pandora, ma che possono essere letti come opere autonome. Il presente libro verte sulla maestria tecnica, l'abilità di fabbricare bene le cose. Il secondo riguarda la costruzione di rituali atti a gestire l'aggressività e l'eccesso di fervore; il terzo indaga le abilità richieste nel creare e nell'abitare ambienti sostenibili. Tutti e tre i volumi affrontano il tema della tecnica, ma la tecnica considerata non come procedimento svincolato dal pensiero, bensì come questione culturale; ciascuno riguarda una tecnica legata al condurre un particolare modo di vivere. Nel suo insieme questo progetto ha in sé un paradosso mio personale, che ho cercato di sfruttare in senso positivo. Sono un autore dalla mentalità filosofica che si interroga su temi come la carpenteria, l'addestramento militare e i pannelli solari.

Il termine "maestria", con il suo rimando ai maestri artigiani, evocherà forse un modo di vivere tramontato con l'avvento della società industriale; ma questo è fuorviante. La maestria designa un impulso umano fondamentale sempre vivo, il desiderio di svolgere bene un lavoro per se stesso. E copre una fascia ben più ampia di quella del lavoro manuale specializzato; giova al programmatore informatico, al medico e all'artista; anche la nostra attività di genitori migliora, se è praticata come un "mestiere" specializzato, e così pure la nostra partecipazione di cittadini. In tutte queste sfere, la maestria si concentra su parametri oggettivi, sulla cosa in sé. Spesso, tuttavia, le condizioni sociali ed economiche ostacolano la disciplina e l'impegno del bravo "artigiano"; la scuola a volte non riesce a fornire gli strumenti necessari e i luoghi di lavoro non valorizzano come dovrebbero l'aspirazione alla qualità. E anche se a livello individuale il senso di orgoglio per il proprio lavoro può costituire di per sé una ricompensa, neppure questo è senza problemi. Spesso al bravo artigiano vengono proposti criteri oggettivi di eccellenza che sono in conflitto tra loro; il desiderio di svolgere bene un compito per il piacere che questo comporta può essere ostacolato dalla pressione della competitività, dalla frustrazione, dall'ossessività.

Questo libro esplora da un particolare punto di vista le dimensioni dell'abilità tecnica, dell'impegno e del giudizio. Si concentra sull'intimo nesso tra la mano e la testa. Ogni bravo artigiano conduce un dialogo tra le pratiche concrete e il pensiero; questo dialogo si concretizza nell'acquisizione di abitudini di sostegno, le quali creano un movimento ritmico tra soluzione e individuazione dei problemi. La relazione tra mano e testa si mostra in ambiti apparentemente lontani come il tirare su un muro, il cucinare, il progettare una struttura ricreativa o il suonare il violoncello - ma tutte queste pratiche possono fallire o non giungere a maturazione. Non c'è niente di automatico nel diventare tecnicamente abili, così come non c'è niente di brutalmente meccanico nella tecnica in sé.

La civiltà occidentale ha sempre avuto una innata difficoltà nel ricollegare mano e testa, nel riconoscere e nell'incoraggiare l'impulso alla maestria tecnica. Di tale difficoltà parleremo nella prima parte del libro. Inizieremo con la storia dei laboratori: le corporazioni degli orafi medievali, gli atelier dei liutai, come Antonio Stradivari, i laboratori moderni. Luoghi in cui maestri e apprendisti lavorano insieme ma non alla pari. Il conflitto dell'artigiano con le macchine è illustrato nell'invenzione dei robot del diciottesimo secolo, nelle pagine della Encyclopédie di Diderot, la Bibbia dell'Illuminismo, e nella crescente paura delle macchine industriali nel diciannovesimo secolo. La conoscenza e la sensibilità artigiana per i materiali si palesa nella lunga storia della fabbricazione dei mattoni, dall'antica Mesopotamia ai giorni nostri, dove si vede come lavoratori anonimi possano lasciare tracce di sé nelle cose inanimate.

Nella seconda parte, il libro esplora più da vicino lo sviluppo delle abilità tecniche. Due sono le tesi, controverse, che svolgerò: la prima, tutte le abilità, anche le più astratte, nascono come pratiche corporee; la seconda, l'intelligenza tecnica si sviluppa attraverso le facoltà dell'immaginazione. La prima tesi pone l'accento sulla conoscenza acquistata nella mano attraverso il tatto e il movimento. La seconda argomentazione inizia analizzando il linguaggio che cerca di dirigere e di guidare l'abilità corporea. Tale linguaggio è più efficace quando mostra in modo immaginativo come si fa una certa cosa. L'uso di strumenti imperfetti o parziali stimola l'immaginazione a elaborare la capacità di riparare e di improvvisare. Le due tesi convergono nella riflessione su come la resistenza e l'ambiguità possono risultare esperienze istruttive; per lavorare bene, l'artigiano deve imparare da quelle esperienze, anziché combatterle. Un altro gruppo di casi illustra come le abilità tecniche si fondino sulla pratica fisica: l'abitudine manuale di premere i tasti del pianoforte o di usare il coltello; le ricette scritte usate come guida dal cuoco neofita; l'uso di strumenti scientifici imperfetti come i primi telescopi o di strumenti ambigui come il bisturi dell'anatomista; le macchine e i piani che riescono a sfruttare la resistenza dell'acqua o le ambiguità del terreno. Lo sviluppo delle abilità tecniche in tutti questi ambiti è difficile, ma non è qualcosa di misterioso. È possibile comprendere i processi immaginativi che ci mettono in grado di migliorare la nostra capacità di fare le cose.

Nella terza parte, affronteremo i problemi più generali della motivazione e del talento. La mia tesi, qui, è che la motivazione conta più del talento, e per una ragione precisa. L'aspirazione alla qualità propria dell'artigiano costituisce un pericolo a livello motivazionale: l'ossessione di ottenere risultati assolutamente perfetti può deformare il lavoro stesso. Sosterrò che si tende a fallire, come artigiani, più per l'incapacità di organizzare l'ossessività che per mancanza di abilità. L'Illuminismo aveva fede nel fatto che ciascun essere umano è dotato della capacità di fare bene almeno una cosa, che esiste in quasi tutti noi un artigiano intelligente; secondo me, quella fiducia vale ancora.

Da un punto di vista morale, la maestria è certamente una virtù ambigua. Robert Oppenheimer era un artigiano impegnato, che spinse al limite massimo le proprie abilità tecniche per costruire la bomba migliore possibile. Eppure l'etica dell'artigiano possiede in sé anche gli antidoti a questo rischio, per esempio il principio che prescrive l'impiego della minor forza possibile in ciascun atto fisico. Il bravo artigiano, inoltre, usa le sue soluzioni per scoprire nuovi territori; nella sua mente, la soluzione di un problema e l'individuazione di nuovi problemi sono intimamente legate. Per questo motivo, di fronte a qualunque progetto la curiosità può domandare non soltanto: "Come?", ma anche: "Perché?". L'artigiano, dunque, si colloca bensì all'ombra di Pandora, ma è anche in grado di sottrarvisi.

A conclusione del libro, prenderemo in considerazione come il modo di lavorare dell'artigiano possa offrire alle persone un ancoraggio nella realtà materiale. La storia ha stabilito una serie di linee di faglia che dividono la pratica dalla teoria, la tecnica dalla espressività, l'artigiano dall'artista, il produttore dal fruitore; la società moderna è afflitta da questa eredità storica. Ma la storia delle arti e mestieri e la vita degli artigiani del passato additano modi di usare gli attrezzi, di organizzare i movimenti corporei, di pensare i materiali che costituiscono ancora oggi valide proposte alternative su come condurre la vita con maestria.

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Criteri in conflitto

La maniera corretta o l'efficacia pratica?

Che cosa intendiamo per lavoro di buona qualità? Una risposta fa riferimento a come una cosa dovrebbe essere fatta, l'altra riguarda il fare in modo che una cosa comunque funzioni. È questa la differenza tra correttezza e funzionalità. In linea ideale, le due cose non dovrebbero essere in conflitto; ma nel mondo reale il conflitto c'è. Spesso ci ispiriamo a un parametro di correttezza che viene raramente o forse mai raggiunto. In alternativa, potremmo ispirarci al criterio di ciò che è possibile fare, sufficiente quanto basta, ma anche questo può essere un modo per generare frustrazione. L'aspirazione a un lavoro ben fatto non si lascia soddisfare semplicemente facendo il lavoro in modo passabile.

Per esempio, seguendo un criterio assoluto di qualità, lo scrittore curerà ossessivamente ogni virgola, finché il ritmo della frase è quello giusto, e il falegname limerà un giunto a tenone e mortasa finché i due pezzi si tengono perfettamente senza bisogno di viti. Seguendo il criterio della funzionalità, invece, lo scrittore consegnerà il lavoro in tempo, e pazienza se le virgole non sono tutte al posto giusto, perché lo scopo dello scrivere è di farsi leggere. E il falegname che bada alla funzionalità reprimerà l'impulso di preoccuparsi per ciascun dettaglio, sapendo che i piccoli difetti possono essere corretti con qualche vite nascosta; lo scopo, anche nel suo caso, è quello di finire il pezzo perché possa essere usato. Per l'assolutista che c'è in ogni artigiano, ciascuna imperfezione è un fallimento; per il tipo pratico, l'ossessione per la perfezione è la ricetta sicura del fallimento.

Per fare emergere questo conflitto è necessaria una certa accuratezza filosofica. Il sostantivo "pratica" e l'aggettivo "pratico" hanno la medesima radice. A tutta prima, si potrebbe pensare che, nello sviluppare una abilità, quanto più una persona si esercita e fa pratica, tanto più acquisirà una mentalità pratica, cioè si concentrerà sul possibile e sul contingente. In realtà, la pratica prolungata di un'abilità tecnica può condurre nella direzione opposta. Una variante della "regola di Isaac Stern" recita: più la tecnica migliora, più i parametri diventano impossibilmente elevati. (A seconda dell'umore, Stern aveva elaborato una quantità di varianti della "regola di Isaac Stern" sulle virtù della ripetizione e della pratica.) Linux funziona un po' allo stesso modo: le persone più abili nell'usarlo sono di solito le stesse che hanno in mente le possibilità ideali e infinite di quel sistema operativo.

Il conflitto tra il fare una cosa nel modo corretto e il fare una cosa in modo che comunque funzioni emerge oggi in contesti istituzionali, come cercherò di spiegare parlando dell'erogazione dei servizi sanitari. I lettori che come me hanno una certa età sanno anche troppo bene di che cosa si tratta.

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L'ideale del lavoro dell'artigiano celebrato nell'inno omerico a Efesto congiungeva abilità tecnica e comunità. Tracce di quell'antico ideale sono visibili ancor oggi tra i programmatori di Linux. Se essi costituiscono un gruppo anomalo, marginale, ciò è dovuto al modo in cui è strutturato oggi il lavoro tecnico, in particolare a tre suoi aspetti problematici.

Il primo problema si evidenzia nel modo in cui le istituzioni cercano di motivare la persone a svolgere bene il proprio lavoro. In certi casi, il tentativo di usare come motivazione il bene collettivo si è dimostrato inefficace, come mostra il degrado dell'ideale marxista nella società civile sovietica. Altre motivazioni collettive, come quelle poste in atto nelle fabbriche giapponesi del dopoguerra, invece hanno funzionato. Il capitalismo occidentale ha in genere predicato che è la competizione individuale, piuttosto che la collaborazione, a motivare più efficacemente la gente a lavorare bene, ma nel campo dell'alta tecnologia si è visto che sono state le aziende che hanno promosso la cooperazione a raggiungere risultati di alta qualità.

Un secondo problema risiede nel processo di acquisizione delle abilità. L'abilità tecnica, abbiamo detto, è una capacità pratica ottenuta con l'esercizio; la tecnologia moderna è impiegata male quando priva i suoi utenti appunto di tale tirocinio ripetitivo, concreto, manuale. Quando la testa e la mano vengono separate, l'effetto che ne deriva è una mutilazione dell'intelligenza, un esito particolarmente evidente nel caso di una tecnologia come il CAD, quando la sua utilizzazione inibisce il tipo di apprendimento che avviene attraverso il disegno manuale.

Infine, c'è il problema causato da criteri di misura della qualità in conflitto tra loro, uno che si appella al modo corretto di fare le cose, l'altro al valore dell'esperienza pratica. Li vediamo in conflitto a livello istituzionale, per esempio nell'assistenza sanitaria, dove il desiderio dei riformatori di raddrizzare la situazione secondo un criterio di qualità assoluto non può essere riconciliato con criteri di qualità basati sull'esperienza pratica accumulata. Il filosofo riconosce in questo conflitto le pretese divergenti del sapere tacito e del sapere esplicito; l'artigiano, nel suo lavoro, si sente tirato in direzioni opposte.

Potremo comprendere meglio questi tre problemi analizzando più a fondo la loro storia. Nel prossimo capitolo, prenderemo in esame il laboratorio, inteso come istituzione sociale che motiva i vari tipi di "artigiani". Quindi esamineremo i primi tentativi del pensiero illuminista di venire a capo del problema delle macchine e delle abilità tecniche. Infine, dirigeremo l'attenzione alla coscienza tacita ed esplicita nella lunga storia dell'arte di trasformare un particolare materiale.

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I segreti nella tomba

Nella bottega di Stradivari

Scrive Cellini nella sua Vita che i segreti della sua arte sarebbero scesi nella tomba con lui. È evidente che le sue soluzioni ardite e le sue innovazioni non si prestavano a essere trasmesse attraverso le processioni cittadine, le feste e le cerimonie religiose del passato; il valore delle sue opere stava nella loro originalità. Dunque esisteva un limite concreto alla vitalità a lungo termine della bottega artigiana. La trasmissione delle conoscenze, in termini moderni, diventò difficoltosa; l'originalità del maestro inibiva tale trasmissione. Questa difficoltà perdura ancora, nei laboratori scientifici come negli atelier degli artisti. Nel laboratorio scientifico, mentre l'istruzione nei procedimenti da seguire non presenta problemi, più difficile è per lo scienziato trasmettere ai collaboratori alle prime armi quell'atteggiamento di dubbio vigile che porta a individuare nuovi problemi mentre se ne sta risolvendo uno o spiegare loro il tipo di intuizione fondata nell'esperienza che fa capire subito che una certa direzione porterà probabilmente a un vicolo cieco.

La difficoltà della trasmissione delle conoscenze ci induce a interrogarci sul perché essa sia così difficile, sul perché le conoscenze diventino un segreto personale. Il problema non riguarda, per esempio, l'insegnamento musicale; nelle lezioni individuali come nelle masterclasses e nei seminari, l'espressività è sempre incessantemente analizzata e affinata. Nella famosa masterclass 19, condotta da Mstislav Rostropovic al Conservatorio di Mosca negli anni 1950 e 1960, il grande violoncellista usava ogni sorta di mezzi (romanzi, barzellette e dosi di vodka, accanto a una rigorosa analisi musicale) per martellare nella testa dei suoi allievi l'importanza di trovare la propria individuale espressività. Invece, nella fabbricazione degli strumenti musicali, i segreti di maestri come Antonio Stradivari o Guarneri del Gesù sono effettivamente scesi nella tomba con loro. Montagne di denaro e una moltitudine di esperimenti non sono servite a riportare alla luce i segreti di quei maestri. Evidentemente, un qualche fattore insito nella natura delle loro botteghe ha inibito la trasmissione delle conoscenze.


Quando cominciò a fabbricare violini, Antonio Stradivari era inserito in una tradizione i cui parametri di qualità nel modo di scolpire la tavola armonica, il fondo e il cavigliere degli strumenti a corde erano stati stabiliti da Andrea Amati un secolo prima. I liutai (il termine indica i costruttori di varie famiglie di strumenti a corde) venuti dopo di lui rimasero fedeli ai maestri della scuola di Cremona e della scuola tirolese di Jacob Stainer. Furono molti i liutai formatisi nelle botteghe di loro allievi; altri cominciarono aggiustando strumenti che gli erano capitati per le mani. Esistevano bensì testi sulla lavorazione del legno per la liuteria, ma erano costosi e diffusi in poche copie; l'addestramento tecnico richiedeva la possibilità di maneggiare gli strumenti e si basava sulle spiegazioni dirette trasmesse di generazione in generazione. Ogni giovane liutaio aveva avuto tra le mani, aveva copiato o riparato un Amati originale o un suo modello diretto. Questo era il metodo di trasmissione delle conoscenze che Antonio Stradivari ereditò.

Anche all'interno, la bottega di Stradivari, come quella di altri liutai, si rifaceva al passato, in quanto, fisicamente, l'edificio era insieme luogo di lavoro e di residenza, abitato dalla famiglia e da molti giovani apprendisti e lavoranti a pensione. Il lavoro occupava tutte le ore di veglia. La bottega era attiva dall'alba al tramonto, con i lavoranti letteralmente inchiodati ai banchi di lavoro, visto che gli apprendisti scapoli ci dormivano sotto, su dei pagliericci. Come nelle botteghe medievali, i figli maschi di Stradivari che imparavano il mestiere dovevano sottostare alle medesime regole degli altri apprendisti.

I più giovani di solito si occupavano del lavoro preparatorio, come mettere a bagno il legno, sgrossarlo e tagliare i vari blocchi. I lavoranti più esperti sagomavano la tavola e il fondo e innestavano il manico; il maestro eseguiva personalmente le rifiniture e la verniciatura, giacché il rivestimento protettivo era determinante per il suono dello strumento. Il maestro, comunque, era presente a ogni fase della costruzione. Sappiamo, grazie alle ricerche di Tony Faber, che Stradivari interveniva personalmente nei più piccoli dettagli della costruzione dei suoi violini. Non amava viaggiare, ma a casa era sempre in movimento, non certo il tipo da starsene chiuso nello studio; era un maestro autoritario, spesso arrogante, che poteva fare scenate spettacolari, e distillava goccia a goccia istruzioni ed esortazioni.

Eppure, un artigiano come l'orafo medievale non si sarebbe sentito a suo agio nella bottega di Stradivari. Come in quella di Cellini, nella sua bottega tutto girava attorno agli straordinari talenti di un individuo. Ma perfino Cellini avrebbe avuto difficoltà a comprenderla: adesso il maestro si presentava a un mercato pubblico, non a questo o quel mecenate. Al tempo di Stradivari, inoltre, il numero dei liutai e il volume della produzione avevano conosciuto una enorme espansione e l'offerta cominciava a eccedere la domanda. Perfino Stradivari, famoso com'era, aveva motivi di preoccupazione, perché aveva da trattare con una pluralità di clienti privati e il mecenatismo di mercato si dimostrava incostante, specialmente verso la fine della sua lunga vita. Nel generale declino economico degli anni intorno al 1720, la sua bottega dovette ridurre le spese e gran parte della sua produzione finiva in magazzino. A causa dell'incertezza del mercato, la gerarchia all'interno della bottega cominciò a mostrare crepe sempre più ampie; gli apprendisti più ambiziosi, vedendo che perfino un maestro così famoso aveva un futuro incerto, cominciarono a riscattare o a eludere gli anni restanti del loro contratto. Ciò che al tempo del Livre des métiers era un'evenienza insolita, ora era diventata la norma: il mercato pubblico aveva provocato la contrazione della cornice temporale del dominio del maestro.

Inoltre, il mercato approfondì le disuguaglianze il cui seme era stato gettato con l'uso rinascimentale di attribuire un marchio di fabbrica ai prodotti. Già dal 1680, il successo di Stradivari aveva messo sotto pressione altre famiglie di liutai, come i Guarneri, la cui bottega era stata fondata da Andrea. Il nipote di questi, Bartolomeo Giuseppe, detto del Gesù, si trovò a operare all'ombra di Stradivari. "In contrasto con l'ampia clientela internazionale di Stradivari," si legge nella sua biografia, "i clienti di Guarneri erano perlopiù semplici violinisti cremonesi, che suonavano nei palazzi e nelle chiese di Cremona e dintorni." Di bravura pari a quella di Stradivari, Guarneri del Gesù riuscì a tenere in piedi la sua bottega soltanto per una quindicina di anni; ed ebbe difficoltà ancora maggiori nel trattenere presso di sé i migliori allievi.

Alla morte di Antonio, la bottega passò ai due figli, Omobono e Francesco, che non si erano mai sposati e avevano trascorso tutta la vita adulta alle dipendenze del padre. Per alcuni anni portarono avanti l'attività grazie al nome paterno, ma poi la bottega si estinse. Antonio Stradivari non aveva insegnato loro, né lo avrebbe potuto, la genialità. (Gli strumenti fabbricati dai figli di Stradivari che mi è capitato di avere tra le mani e di suonare sono ottimi, ma nulla di più.)

Quella che ho descritto è la morte di una bottega artigiana. Per quasi tre secoli, i liutai hanno cercato di resuscitarne il cadavere per recuperare i segreti che Stradivari e Guarneri del Gesù si erano portati nella tomba. La caccia ai segreti della originalità del maestro cominciò già mentre erano ancora in vita i figli di Stradivari. Gli imitatori di Guarneri si misero all'opera circa otto anni dopo la sua morte, istigati dalla falsa diceria secondo la quale egli avrebbe costruito i suoi violini più eccelsi mentre era in prigione. Oggi l'analisi dell'opera dei maestri procede su tre fronti: la costruzione di copie precise della forma dei loro strumenti; l'analisi chimica delle vernici usate; e una ricerca che procede a ritroso a partire dal suono (con l'idea che si possa copiare il suono con strumenti che non assomigliano a uno Stradivari o un Guarneri). Con tutto ciò, come ha osservato il violinista Arnold Steinhardt del Guarneri String Quartet, il musicista di professione è in grado di distinguere quasi immediatamente tra un originale e una qualsiasi copia.

Ciò che manca in queste analisi è la ricostruzione delle botteghe dei maestri, ovvero, più precisamente, manca l'unico elemento che è andato irrimediabilmente perduto. E cioè quell'inconscio assorbimento delle conoscenze a livello di sapere tacito, non detto e non codificato in parole, che aveva luogo nelle botteghe diventando una questione di abitudini, quei mille piccoli gesti quotidiani che si sommano fino a formare una pratica. Il dato più significativo che conosciamo sulla bottega di Stradivari è che il maestro era presente sempre e dovunque, a volte inaspettatamente, pronto a mettere insieme e a elaborare quelle migliaia di dati frammentari, che non potevano avere il medesimo significato per gli assistenti, occupati a lavorare su singole parti. La stessa cosa vale per i laboratori scientifici diretti da personalità geniali e autocratiche; la testa del maestro si riempie di dati di cui solo lui può capire il senso. Ecco perché il segreto della capacità di Enrico Fermi di inventare esperimenti di fisica non può essere penetrato neppure studiando per anni i più minuti particolari dei suoi procedimenti di laboratorio.

Per dare a quanto si è detto una formulazione più astratta: in un laboratorio dove domina l'individualità e l'originalità del maestro, tenderà a essere predominante anche il sapere tacito. Morto il maestro, non è più possibile ricostruire gli indizi, i gesti e le intuizioni che egli aveva raccolto e coordinato in quel tutto unico che è l'opera; non possiamo più chiedergli di rendere esplicito quel sapere tacito.

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Sommario della Parte prima

Può essere utile, a questo punto, dare uno sguardo al percorso compiuto fin qui.

In queste pagine abbiamo usato il termine "artigiano" nel senso più ampio di lavoratore tecnico; l'artigiano rappresenta in ciascuno di noi il desiderio di fare bene una cosa, concretamente, per se stessa. Gli attuali sviluppi dell'alta tecnologia rispecchiano un modello antico di lavoro tecnico, ma sul campo la realtà è che le persone che aspirano a essere bravi artigiani sono depresse e vengono ignorate o mal comprese dalle istituzioni sociali. Questo malessere è aggravato dal fatto che ben poche istituzioni si propongono come fine di produrre lavoratori felici. Quando l'impegno materiale si rivela svuotato di senso, le persone cercano rifugio nel privato e si ripiegano su se stesse; viene privilegiata la proiezione mentale sul futuro rispetto all'incontro concreto; i parametri qualitativi del lavoro scindono la progettazione dall'esecuzione.

La storia degli artigiani ha qualcosa da insegnare riguardo a questi malesseri generali. Abbiamo iniziato il nostro viaggio dalla bottega medievale, nella quale due figure di condizione ineguale, il maestro e l'apprendista, stabilivano uno stretto vincolo. La separazione dell'arte dall'artigianato avvenuta nel Rinascimento modificò quella relazione; la bottega stessa andò modificandosi nella misura in cui le abilità colà esercitate acquistarono un carattere sempre più individuale e irripetibile. Ma l'individuazione all'interno della bottega portò a una maggiore dipendenza dell'artigiano-artista nella società; in questo lungo e radicale cambiamento, la trasmissione delle abilità e il trasferimento delle tecnologie diventarono problematici. Di conseguenza, lo spazio sociale del laboratorio diventò uno spazio frammentato e il significato dell'autorità si fece conflittuale.

Alla metà del diciottesimo secolo, gli spiriti progressisti dell'Illuminismo vollero riparare queste fratture. Per farlo, dovettero rivolgersi a un utensile tipicamente moderno, la macchina industriale, che essi cercarono di comprendere da un punto di vista umano e da cui trassero una visione altrettanto illuministica sull'uomo nel confronto con le superiori capacità della macchina. Un secolo dopo, la macchina non parve più consentire questo approccio umanizzante e finì per amplificare il nudo dato della subordinazione dell'uomo; il modo più radicale di contestare il potere della macchina parve ad alcuni essere il rifiuto della modernità stessa. Questo gesto romantico ebbe la virtù dell'eroismo, ma segnò la condanna dell'artigiano, il quale non seppe escogitare modi per evitare di diventare vittima della macchina.

L'artigiano comincia a essere bistrattato e oppresso con l'inizio della civiltà classica. Ciò che gli ha permesso di resistere, mantenendo vivo il senso della propria dignità umana, è il fatto di credere nel proprio lavoro e lo speciale rapporto diretto con i suoi materiali. La coscienza materiale ha assunto nel tempo le tre forme analizzate in questo capitolo, e tale coscienza, se pure non ha arricchito economicamente il lavoratore, ha dato sostanza al suo lavoro.

Forse il percorso che siamo venuti tracciando trova la sua logica conclusione nelle parole del poeta William Carlos Williams, il quale negli anni trenta del secolo scorso espresse l'auspicio che non ci fossero "idee se non nelle cose". Era stufo del sentimentalismo languido delle parole: meglio stare presso "le cose toccate con le mani durante la giornata". Questo è sempre stato il credo dell'artigiano. Nella seconda parte del libro vedremo in che modo, per stare con le cose, egli acquisisce e perfeziona abilità fisiche specifiche.

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Attrezzi difficili

Telescopi, microscopi e bisturi

Agli albori della scienza moderna, tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo, per acquisire una nuova conoscenza del mondo naturale gli scienziati impiegarono sia nuovi strumenti sia vecchi strumenti usati in modo nuovo. Tre strumenti in particolare - il telescopio, il microscopio e il bisturi - misero in discussione la concezione medievale del posto dell'uomo nel mondo e la conoscenza del corpo. Il telescopio contribuì a detronizzare l'uomo dalla sua posizione al centro dell'universo; il microscopio rivelò una vita brulicante invisibile a occhio nudo; il bisturi assicurò agli anatomisti una nuova conoscenza della struttura organica. Questi strumenti stimolarono il pensiero scientifico grazie ai loro difetti e limiti non meno che per le loro capacità rivelatrici.

Già nell'undicesimo secolo, lo scienziato arabo Alhazen avrebbe voluto scrutare i cieli fin dove l'occhio umano non poteva spingersi. Il vetro allora disponibile vanificò i suoi sforzi. Come abbiamo visto, le antiche ricette per la pasta di vetro conferivano a esso una colorazione verdastra; per attenuare quella colorazione i vetrai medievali aggiungevano ceneri di felce, potassio, calcio e manganese, ma il vetro ottenuto rimaneva di scarsa qualità. Il sogno di Alhazen fu inoltre frustrato dalla foggiatura in stampi, perché la curvatura delle lenti dava luogo a una distorsione delle immagini.

Il problema della distorsione fu in parte attenuato all'inizio del sedicesimo secolo, quando furono perfezionate fornaci capaci di raggiungere temperature più elevate. Il primo microscopio ottico composto fu inventato, pare, nel 1590 da due molitori di lenti olandesi, Johann e Zacharias Janssen; esso constava di una lente convessa, l'obiettivo, e una concava, l'oculare, inserite alle due estremità di un tubo. Nel 1611 Keplero presentò uno strumento che impiegava due lenti convesse, aumentando così di molto il potere di ingrandimento. Galileo definì il nuovo strumento "un Telescopio accomodato per veder gli oggetti vicinissimi", in quanto la posizione delle lenti montate sul tubo era invertita rispetto al telescopio; il termine stesso di "microscopio" fu proposto e si affermò nel 1625.

Parlando della nuova cosmologia rivelata dal telescopio, Blaise Pascal ebbe ad affermare: "Il silenzio eterno di quegli infiniti spazi mi infonde paura". Invece il microscopio sulle prime generò un senso di meraviglia e non di minaccia. Nel Novum Organum, Bacone esprime la sua sorpresa per la precisione con cui la natura era rivelata all'esame del microscopio, che permetteva di osservare "i particolari più fini latenti e invisibili dei corpi [...] la forma precisa e i caratteri più minuti del corpo di una pulce". Bernard de Fontenelle intorno al 1680 esprime la sua meraviglia davanti alla profusione di vita che si rivelava sotto le lenti: "I nostri occhi possono vedere dall'elefante giù giù fino all'acaro; lì la nostra vista si arresta. Ma al di là dell'acaro inizia una moltitudine infinita di esseri viventi per i quali l'acaro è un elefante e che non possono essere percepiti con la normale vista". In riferimento al telescopio e al microscopio, lo storico Herbert Butterfield scrive che nel diciassettesimo secolo scienza volle dire "inforcare un nuovo paio di occhiali".

Tuttavia il vetro impiegato per telescopi e microscopi restituiva dati imprecisi, perché le lenti erano difficili da molare: il panno impregnato di granuli di feldspati dovrà attendere ancora un secolo prima di essere inventato. E benché aumentando il diametro e la lunghezza del tubo di supporto si potesse aumentare la potenza di ingrandimento, l'ingrandimento stesso esagerava anche le minuscole irregolarità della superficie delle lenti. Guardando attraverso i telescopi in uso al tempo di Galileo, non è facile distinguere una stella lontana da una piccola bolla del vetro.

Questi strumenti a lente esemplificano il problema generale dell'attrezzo difficile perché inadeguato. Un problema analogo è posto dall'attrezzo che funziona bene ma di cui non è facile immaginare come usarlo al meglio. Il bisturi del diciassettesimo secolo faceva sorgere questo secondo tipo di problema.

Per la dissezione anatomica, i medici medievali usavano coltelli da cucina. Come è noto, i comuni interventi di chirurgia erano affidati ai barbieri e ai loro rasoi, che essendo di ferro scadente perdevano facilmente il filo. Alla fine del 1400, apparvero coltelli fatti di ferro meglio temprato e contenente silice come il vetro; questi coltelli potevano essere mantenuti perfettamente affilati con la mola, un blocco di granuli abrasivi che sostituì la tradizionale coramella.

Il moderno bisturi nacque da quella tecnologia. La lama era più piccola e il gambo più corto che nei coltelli da cucina. Esistevano diverse varietà di bisturi a seconda delle specifiche finalità di dissezione o di chirurgia; alcuni erano affilati soltanto sulla punta, per incidere le membrane; altri avevano la punta a uncino, ma con la curva smussata, per estrarre i vasi sanguigni. All'inizio del sedicesimo secolo, diventarono strumenti chirurgici diffusi la sega e le cesoie da ossa; esistevano anche prima, ma essendo fatte di ferro temprato in modo rudimentale, la lama era così ottusa da maciullare, più che tagliare, le ossa.

Questi attrezzi più raffinati, tuttavia, si dimostrarono più difficili da usare; la precisione stessa del bisturi rappresentava una sfida per la mano del chirurgo o del dissettore. Nel 1543, un medico belga, Andrea Vesalío, pubblicò un trattato, De umani corporis fabrica, che segnò un momento fondamentale per la tecnica manuale oltre che per la conoscenza del corpo umano, in quanto Vesalio si basò su "ripetute osservazioni di cadaveri da lui dissezionati con le sue stesse mani". Prima di allora, il maestro, chino sul cadavere, descriveva agli astanti quello che vedeva mentre un cerusico o un allievo procedevano a squartare il corpo. Gli anatomisti rinascimentali seguivano ancora nella dissezione il principio dettato nell'antichità da Galeno, che consisteva nello staccare uno strato dopo l'altro la pelle e i muscoli, quindi nell'estrarre gli organi, per arrivare infine allo scheletro. Prendendo l'operazione letteralmente nelle proprie mani, Vesalio poté cercare dati più precisi, per esempio i percorsi dei vasi sanguigni nella trama dei muscoli e degli organi.

Per ottenere quei dati, occorreva una tecnica manuale virtuosistica nell'usare il bisturi. Essendo richiesto minore sforzo alla spalla e al braccio per penetrare all'interno del corpo, punto focale diventavano i polpastrelli. L'applicazione della forza minima, analizzata nel capitolo sulla mano, diventò una necessità pressante; l'affilatezza stessa del bisturi faceva sì che il minimo scarto della mano rovinasse la dissezione o avesse conseguenze drammatiche negli interventi in corpore vivo.

Le prime generazioni di chirurghi che usarono il bisturi moderno dovettero dedurre per prove ed errori quale fosse il modo migliore per maneggiarlo. La semplicità e la leggerezza dello strumento costituivano esse stesse la sfida da superare. Nell'usare il coltello a mannaia, il cuoco cinese si trovava tra le mani un utensile pesante, che per il suo stesso peso rendeva vistosamente presente il problema della forza bruta e della necessità di controllarla; alla stessa stregua, un martello pesante ci allerta al problema, mentre uno strumento semplice e leggero offre meno indizi su come chi lo usa possa esercitare l'autocontrollo necessario.

Succede spesso che siano gli attrezzi semplici a sollevare questo problema; la possibilità di usarli in più modi diversi, poi, non fa che acuire la difficoltà di scegliere il modo più consono a questa o quella circostanza particolare. Un'analogia moderna potrebbe essere quella del cacciavite a stella rispetto al cacciavite a taglio. Con il cacciavite a stella, che è un attrezzo ad hoc, il movimento della mano lo si deduce immediatamente; la rotazione del polso stringerà o allenterà la vite. Il cacciavite a taglio può essere usato anche come scalpello, come punteruolo e come arnese da taglio, ma le prese e i movimenti del polso atti a eseguire quelle azioni sono più difficili da dedurre dalla sua forma.

Il bisturi, per funzione e per forma, assomiglia al cacciavite a taglio. La perplessità su come usarlo al meglio si intreccia con il problema della riproduzione del gesto. Le dimostrazioni di Vesalio, più che fondate sulla conoscenza della fisiologia, erano essenzialmente visive. Veniva prelevato un tratto di vena dal suo letto di tessuto, dopo di che essa veniva analizzata e descritta come un oggetto a sé stante. Il difficile, dapprima, fu mostrare agli allievi come maneggiare il bisturi in modo da riprodurre il corretto movimento della mano. Nel 1543, la conoscenza della fisiologia muscolare era troppo rudimentale perché il maestro potesse spiegare che bisogna contrarre i muscoli che controllano il quarto e il quinto dito, in modo da rendere fermi il pollice e l'indice quando con la parte piatta del bisturi estraggono la vena; come in tutti i mestieri tecnici, la comprensione dei gesti che si fanno si è affacciata molto lentamente, e solo a forza di compierli. Passarono tre generazioni prima che il procedimento mettesse radici, per diventare sapere diffuso verso la fine del 1600. Come osserva lo storico della medicina Roy Porter, la presa immediata che ebbero gli strumenti da dissezione fu di tipo metafisico più che tecnico: affascinava l'idea della "dissezione dell'anima", quale era esposta per esempio in Anatomy of the Soul (1589) di Philip Stubbs. Di fronte all'incertezza su come maneggiare questo attrezzo polivalente, per trasmettere un mistero tecnico i nostri antenati medici ricorsero al linguaggio mistico.

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Attrezzi sublimi

I fili miracolosi di Luigi Galvani

Il termine "galvanismo" segnala il movimento e il momento nella storia della cultura materiale in cui lo studio dell'elettricità parve offrire presagi del sublime. Esso si fondava sia sulla scienza vera sia su suggestioni esoteriche, come nelle sedute in cui, in una stanza semibuia, le persone si tenevano per mano a contatto con misteriosi filamenti e contenitori, nella speranza di essere guarite o di riacquistare potenza sessuale mediante una scarica improvvisa di fluido elettrico attraverso il corpo. Il galvanismo come scienza vera aveva le sue origini nell'antichità.

Nel sesto secolo a.e.v., Talete di Mileto si era domandato come mai, strofinando con un panno di lana una bacchetta di ambra, i peli del tessuto si rizzavano attratti dall'ambra: doveva essere avvenuta una forma di trasferimento di energia. (Il termine elettricità viene dal nome greco dell'ambra, elektron.) Nella lingua inglese, il termine electricity compare per la prima volta nella Pseudodoxia Epidemica (1646) di Sir Thomas Browne; benché già Girolamo Cardano, Otto von Guericke e Robert Boyle avessero fornito importanti contributi allo studio dell'elettricità, essa si affermò come campo a sé stante nel diciottesimo secolo grazie all'invenzione di nuovi strumenti sperimentali.

Tra questi, quello che ebbe conseguenze di maggiore peso fu la bottiglia di Leida, ideata nel 1745 da Pieter van Musschenbroek. La bottiglia di Leida era una boccia di vetro contenente acqua, in cui era immerso un filo metallico. Quando veniva inviata attraverso il filo una carica elettrostatica, il dispositivo accumulava elettricità; l'accumulazione migliorava ricoprendo l'esterno del vetro con un foglio metallico. In che modo avvenisse l'accumulazione rimase all'epoca un mistero. Benjamin Franklin riteneva, erroneamente, che fosse il vetro a immagazzinare la carica elettrica. Oggi sappiamo che le superfici interna ed esterna della bottiglia di Leida accumulano cariche uguali e opposte, ma van Musschenbroek non lo sapeva. Né era chiaro ai suoi tempi perché l'energia accumulata nella bottiglia potesse provocare una scossa potente a un organismo vivente, specie se più bottiglie erano collegate in parallelo; ma questo fenomeno diventò la passione del fisico bolognese Luigi Galvani.

Galvani si mise a fare esperimenti sugli animali; notò allora che, facendo passare una scarica elettrica nel corpo di una rana, questa aveva una reazione convulsiva; le contrazioni osservate nelle zampe della rana a contatto con un conduttore elettrico gli fecero ipotizzare che a causare la contrazione muscolare fosse la presenza di un fluido elettrico animale, come se il corpo degli esseri viventi somigliasse in qualche maniera a una bottiglia di Leida. Il suo collega Alessandro Volta non accettò la spiegazione di Galvani, ritenendo invece che le contrazioni fossero causate dalla reazione chimica nei muscoli sottoposti alla scarica di due elementi metallici diversi. Ma per entrambi, le convulsioni muscolari della rana presagivano qualcosa di sublime: in quel fenomeno si celava la possibile spiegazione dell'energia di tutto il vivente, e dunque il segreto della vita.

Nel suo studio sul materialismo inglese del diciottesimo secolo, The Lunar Men, Jenny Uglow mostra come il galvanismo rappresentasse il sublime scientifico anche per gli studiosi dalla mentalità più pragmatica. Per il fisico Stephen Gray, era stupefacente già il fatto che il fluido elettrico potesse trasmettersi a lunga distanza attraverso un filo metallico. Verso la fine del secolo, il fisiologo Erasmus Darwin, nonno di Charles, contemplò un'ipotesi ancora più straordinaria: "Che il corpo stesso sia un circuito elettrico?" si chiedeva in The Temple of Nature. "Sarebbe troppo audace immaginare che tutti gli animali a sangue caldo siano discesi da un unico filamento vivente, che la grande Causa Prima aveva dotato di animalità, del potere di acquisire nuove parti, accompagnate da nuove propensioni [...] possedendo così la facoltà di continuare a perfezionarsi per sua stessa autonoma azione?" Jenny Uglow fa osservare come in queste parole sia adombrata già la teoria dell'evoluzione; noi vorremmo richiamare l'attenzione su una parola, "filamento": il filo elettrico, così prosaico per noi, così potente per gli scienziati di allora.

Il "sublime": per Hegel esso è proprio dell'arte simbolica "con il suo anelito, il suo fermento, il suo mistero, la sua sublimità". Sublime, appunto. Sono parole che possono essere tradotte nella pratica dei mestieri tecnici. La bottiglia di Leida e il filamento metallico furono assunti nel progetto di rianimare elettricamente i cadaveri. Questo aveva cercato di fare ai cadaveri di criminali appena giustiziati il nipote di Galvani, Giovanni Aldini, dandone una spettacolare dimostrazione nel 1803 di fronte a un folto e credulo pubblico inglese, convinto che le convulsioni muscolari di quei corpi elettrizzati fossero il segno, nelle parole di Aldini, di una risurrezione, sia pure imperfetta. Ciò nonostante, quel progetto prometteva di penetrare il mistero della vita.

Il "sublime": per Edmund Burke, il sublime è "fondato sul dolore" ed estraneo a qualsiasi forma di piacere derivante da cause positive. Tali sarebbero le conseguenze nel seguire rigorosamente le regole del mestiere: la ricerca del sublime scientifico provocherebbe sciagure luttuose come l'apertura del vaso di Pandora. Così almeno dovette pensare Mary Shelley nel contemplare gli strumenti del galvanismo: bottiglie e filamenti che scatenano l'immaginazione alla scoperta del mistero ultimo, la sofferenza causata dal tentativo di indurre la vita.

Il romanzo Frankenstein fu scritto nel 1816 quasi per gioco. Quell'estate, Mary e il marito Percy Shelley con l'amico Lord Byron fecero un viaggio insieme; per passare il tempo, Byron propose di scrivere ciascuno una storia di fantasmi. Mary, a diciannove anni e alla sua prima esperienza come autrice, finì per scrivere invece una storia dell'orrore. La storia è incentrata su una "creatura" (in tutto il libro non avrà mai un nome) fabbricata dal dottor Victor Frankenstein, più grande, più forte e più resistente di qualsiasi essere umano, la pelle gialla che copriva a malapena i muscoli possenti, gli occhi biancastri come se fossero solo cornea.

Quell'essere mostruoso vorrebbe essere amato dalle persone che incontra: è un robot che vorrebbe essere un replicante. Ma la gente lo sfugge in preda all'orrore ed esso, esasperato, si vendica diventando un assassino: uccide il fratellino, il migliore amico e infine la moglie del suo creatore. Durante una sorta di incubo prima di cominciare a scrivere il romanzo, Mary aveva avuto la visione di un mostro che, chino sul suo creatore dormiente, lo osserva con "occhi gialli, acquosi ma pieni di domande".

Quando era all'università, Percy Shelley si era occupato da dilettante di "elettricità vitale". Nel suo romanzo, Mary semina indizi che, data la popolarità del galvanismo, i suoi lettori erano in grado di cogliere e che risultavano loro perfettamente credibili; il dottor Frankenstein si avvale di quei procedimenti per fabbricare la sua creatura. Assembla pezzi di corpo tratti da cadaveri, distilla fluidi, usa fili metallici e macchinari per comporre ed elettrizzare il corpo. Da ragazzo, racconta Frankenstein, era rimasto colpito da una teoria sull'elettricità e il galvanismo per lui "nuova e sorprendente". Non viene spiegato come avviene l'assemblaggio o come le parti del corpo diventano più grosse e più forti. Nell'introduzione, l'autrice accenna soltanto a "un qualche potente macchinario" che rende possibile il lavoro di Frankenstein, probabilmente qualche tipo di batteria voltaica in uso all'epoca negli esperimenti galvanici.

I lettori del romanzo di Mary Shelley sono stati colpiti dall'ossessione che il dottor Frankenstein, così impegnato a studiare la vita, nutre in realtà per la morte: "Per esaminare le cause della vita, dobbiamo prima fare ricorso alla morte" dichiara succintamente, riecheggiando gli esperimenti spettacolari di Aldini. Quella zona di confine tra la vita e la morte è argomento di molta narrativa di fantascienza, da Le surmâle di Alfred Jarry, a fine secolo, a Isaac Asimov con i suoi robot abitanti dello spazio. Ma fu un preciso atto di immaginazione che consentì a Mary Shelley di aprire le porte al sublime scientifico.

La sua intuizione fu quella di immaginare che effetto fa essere lo strumento vivente di qualcuno: occorreva un salto intuitivo per visualizzare cosa vuol dire essere una macchina vivente. Galvani credeva di avere fornito il mezzo per compiere quel salto, quando parlava della bottiglia di Leida e del filamento elettrico come di "strumentazione per la vita", ma non seppe seguire l'intera traiettoria del salto. Si lasciò distrarre dalle fumisterie delle esibizioni pubbliche e delle sedute di elettroterapia, peraltro molto redditizie: che poi il paziente migliorasse oppure morisse, che il conteggio degli spermatozoi salisse oppure no, i partecipanti pagavano, e all'ingresso; Galvani divenne ricco grazie a esse. Pur non avendo laboratori a disposizione, Mary Shelley fu una scienziata più seria di Galvani; voleva scoprire le conseguenze di quella scienza. Voleva comprenderla meglio e il suo strumento fu l'immaginazione.

Oggi ci è richiesto di compiere quello stesso salto intuitivo, ma per necessità. Quanto più le macchine pensanti diventano una realtà, tanto più è urgente intuire che cosa "pensano". Prima dei recenti progressi della microelettronica, l'automazione intelligente sembrava una fantasia. Ma nel 2006, l'Ufficio per la scienza e l'innovazione del governo britannico redasse un documento sui "Diritti dei robot", in cui si dichiara: "Se l'intelligenza artificiale si realizzerà e avrà largo impiego, o se i robot saranno in grado di autoriprodursi e autoperfezionarsi, andrà messa in conto l'opportunità di estendere a essi i diritti umani". Qual è tuttavia il limite oltre il quale l'organizzazione di una macchina complessa può dirsi autosostentata? Noel Sharkey, commentando il documento sui diritti dei robot, trova allarmante, piuttosto, l'impiego di robot-soldati, che combattono con intelligenza, senza riferimento alla morte umana. Potrebbe essere che questi robot, come la creatura di Mary Shelley, siano dotati, se non di propri diritti, di una volontà propria.

Senza addentrarci nel terreno spinoso dell'intelligenza artificiale, a noi preme capire in che modo gli attrezzi possono in generale stimolarci a compiere il salto intuitivo nell'ignoto. E più specificamente, tanto per rendere le cose più complicate, ci interessa capire che relazione possono avere i salti intuitivi con l'attività della riparazione dinamica.

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