Autore Fredrik Sjöberg
Titolo L'arte di collezionare mosche
EdizioneIperborea, Milano, 2016 [2015], n. 242 , pag. 222, cop.fle., dim. 10x20x1,8 cm , Isbn 978-88-7091-542-6
OriginaleFlugfällan
EdizioneNya Doxa, Nora, 2004
PrefazioneFulvio Ferrari
TraduttoreFulvio Ferrari
LettoreLuca Vita, 2017
Classe narrativa svedese , natura , collezionismo , biologia , storia della scienza












 

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Indice


 1. La maledizione della classe affamata              9
 2. L'entrée nella società delle mosche              16
 3. Una trappola a Rangoon                           26
 4. L'uomo che amava le isole                        38
 5. L'arcipelago della bottonologia                  50

 6. René Malaise (1892-1978)                         62
 7. Narcissiana                                      74
 8. L'enigma Doros                                   88
 9. All'ombra di un vulcano                          99
10. La rete e la solitudine                         111

11. L'albero delle mosche                           120
12. L'anelito di un entomologo carrierista          131
13. La lentezza                                     142
14. L'isola che sprofondò nel mare                  156
15. La leggibilità del paesaggio                    169

16. Il dottor Orlík e io                            179
17. Il tempo contato                                188
18. Ritratto di vecchio                             197


Postfazione di Fulvio Ferrari                       215
Nota del traduttore                                 219


 

 

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Pagina 9

1. La maledizione della classe affamata


Erano i tempi in cui la sera giravo per le vie intorno a Nybroplan con un agnello in braccio. Me lo ricordo perfettamente. Era arrivata la primavera. L'aria era secca e come polverosa. La sera era fresca, ma conservava ancora il tiepido profumo del giorno: profumo di terra e delle foglie morte dell'autunno scaldate dal sole. L'agnello belava spaurito mentre attraversavo la Sybillegatan.

Di giorno alloggiava con i viziatissimi cavalli del re alle Scuderie reali, in fondo alla Strandvägen, e capivamo bene che si sentisse fuori posto anche la sera, a teatro. Io di agnelli non me ne intendo, ma vecchio non lo era di certo. Avrà avuto qualche settimana. Fare la metafora vivente in scena doveva essere una prova dura, tanto più che il dramma — Curse of the Starving Class dell'americano Sam Shepard – era a tratti violento, stridente e difficile da digerire anche per un essere umano adulto. Si può sperare che la povera bestia stringesse i denti e pensasse ad altro. Quel che è sicuro, comunque, è che continuava inesorabilmente a crescere, più di quanto non ci si fosse aspettato.

E il problema era solo ed esclusivamente mio. Una confusa miscela di ambizione e caso mi aveva procurato un lavoro al Kungliga Dramatiska Teatern, il Teatro Reale, dove da qualche anno facevo il trovarobe, cioè mi occupavo del materiale scenico, spesso piuttosto stravagante, dei vari spettacoli. Toccava quindi a me andare a prendere lo sventurato agnello, prima di ogni rappresentazione, alle Scuderie reali. Lo portavo in braccio. Dovevamo essere molto teneri da vedere così insieme, in quelle sere primaverili. Quando si alzava il sipario l'agnello (poi pecora) doveva entrare e uscire sul palco a più riprese, starsene zitto e cercare di non insudiciare le quinte, il tutto con la scrupolosa precisione che contraddistingue ogni cambio di scena. Nel buio più totale.

Prima del debutto, durante le prove, avevamo pensato a un agnello meccanico, una specie di ispido automa impagliato, con la testa mobile e dotata di un altoparlante che avrebbe emesso graziosi belati esattamente al momento giusto, grazie al semplice uso di un pulsante da parte del direttore di scena. Quando però alla fine il regista vide il costoso robot, non ci mise più di quattro secondi a scartare la soluzione. Via quella roba. Se c'è scritto «agnello vivo» nelle didascalie di scena, vuol dire che ci vuole un agnello vivo, non un giocattolo. La faccenda era chiusa. L'agnello diventò affar mio. E così accadde che quella primavera cominciai a chiedermi cosa ci facessi lì, in realtà, e perché.

Tanto per cominciare, ci si può domandare in generale cosa ci facesse un giovane entomologo in un teatro. In effetti è una questione imbarazzante che ritengo non sia ancora il momento di approfondire. E del resto è una storia vecchia. Supponiamo che volesse semplicemente far colpo sulle ragazze. Cosa che per gli entomologi non rientra nel pacchetto. Oppure diciamo che tutti quanti sentiamo il bisogno, di tanto in tanto, di lanciarci alla cieca in qualcosa per evitare di diventare una copia conforme alle aspettative del nostro ambiente, forse anche per trovare il coraggio di ricordare qualcuno di quei grandi pensieri arditi che spingono un bambino ad alzarsi in piena notte a scrivere con il batticuore una promessa segreta che riguarda la propria vita.

Sia come sia, era un lavoro appassionante. Pieno di interesse e fascino, per chi non è del mestiere. Niente può inghiottire di colpo un timore quanto un grande teatro in una città sconosciuta, niente dà più ebbrezza dei sogni che abitano quei muri. Certo c'erano un mucchio di cose dei trucchi del mestiere del drammaturgo o dei sottotesti dei copioni che non sono mai arrivato a capire. O le sfumature, le note a piè di pagina in caratteri microscopici. Ma non mi importava, almeno non all'inizio.

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Pagina 16

2. L'entrée nella società delle mosche


Il teatro era il mio secondo tentativo di fuga dall'entomologia. Il primo erano stati viaggi senza meta. E sono ovviamente, e tristemente, consapevole di quanto possa apparire povera una materia che si lascia abbordare solo dalla prospettiva della defezione. Ma così è. Non vedo alternativa.

Nessuna persona sensata si interessa alle mosche, in ogni caso nessuna donna. Non ancora, continuo a ripetermi, anche se in fondo sono abbastanza contento che nessuno se ne interessi. Non si può dire che ci sia una concorrenza spietata. E a ben vedere, io volevo diventare il migliore in qualcosa, non nell'urinare in faccia al pubblico – per questo non ho i nervi abbastanza saldi – ma in qualcos'altro, qualsiasi cosa, in realtà, e alla fine è risultato chiaro che il mio talento andava nella direzione delle mosche.

È un destino cui bisogna rassegnarsi, in un modo o nell'altro.

I sirfidi, del resto, sono solo accessori di scena. No, non solo, ma entro certi limiti. Il racconto tratta anche di altro, qua e là. Esattamente di cosa non saprei. Certi giorni mi persuado che il mio scopo sia dire qualcosa sull'arte di limitarsi e sulla sua eventuale felicità. E anche sulla leggibilità del paesaggio. Altri giorni sono più cupi. Specchi dappertutto. Come se me ne stessi in coda sotto la pioggia fuori dal campo nudisti intellettuali della letteratura autobiografica. Livido di freddo.

Ma siccome adesso vivo su un'isola e l'unica cosa di cui sono esperto sono i sirfidi, possiamo in tutta semplicità partire da qui. Chi lo desiderasse, o volesse anche solo mostrarsi gentile, potrà poi cercare di rimettere insieme tutto quanto nell'ambito del genere – pressoché ignoto nel panorama svedese – amorosamente coltivato dai coniugi Ken e Vera Smith nel magnifico libro A Bibliography of the Entomology of the Smaller British Offshore Islands. Sarà difficile, temo, ma in fondo è il pensiero quello che conta.

Nella mia biblioteca, abbastanza fornita da poter sostenere un assedio russo, questo libro occupa un posto a parte. È piuttosto piccolo, poco più di cento pagine, di colore azzurro chiaro, e forse non mi ha insegnato molto di più del fatto che gli inglesi sono matti, ma ogni volta che lo guardo, lo tengo tra le mani e ne leggo il titolo, provo una sensazione di beatitudine, come se bastasse quel libro a giustificare in qualche modo la mia esistenza. La quarta di copertina spiega come gli scrittori si erano incontrati e innamorati nel 1954, quando erano entrambi studenti all'Università di Keele, e come avevano poi iniziato a studiare insieme le mosche e a raccogliere la bibliografia sugli insetti delle isole minori. C'è anche la foto di entrambi, e posso garantire che hanno un'aria molto simpatica. Ken, i capelli radi, abito intero con gilet e cravatta, sembra nascondere un sorriso ironico sotto la barba ben curata, mentre Vera, con quelle sue guance rosee, pare appena svegliata, o persa nei suoi pensieri. Si capisce che lui la ami.

Il libro consiste unicamente in una lunga lista, nient'altro. Un elenco di tutti i libri e gli articoli conosciuti riguardanti gli insetti delle isole lungo le coste britanniche, da Jersey, a sud, alle Shetland, a nord. Più di mille titoli.

Cos'hanno cercato di afferrare questi due esseri umani? Di certo non solo insetti.

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Pagina 22

La grossa mosca nera diede qualche battito d'ali e poi morì rapidamente tra i fumi del veleno. Siccome era la prima estate in cui mi dedicavo alla caccia alle mosche (vivevamo allora sull'isola da dieci anni) non capii subito che specie fosse quella che avevo appena catturato. Che si trattasse di un sirfide era chiaro, ci si mette pochi giorni a imparare a riconoscerli, ma che si trattasse della rara Criorhina ranunculi lo capii più tardi quando, quello stesso giorno, lo esaminai al microscopio, circondato da traballanti cataste di libri dai titoli quali British Hoverflies, Danmarks svirrefluer e Biologie der Schwebfliegen Deutschlands.

Già il mattino dopo l'isola ricevette per la prima volta la visita del più grande esperto svedese vivente nel campo dei sirfidi.

Esaminò incredulo il mio trofeo, ma ben presto il suo volto si illuminò, mi domandò dove esattamente l'avessi trovato, si congratulò e bevendo il caffè mi raccontò quanto segue.

Di tutti i sirfidi della Svezia la Criorhina ranunculi non solo è il più grande e il più bello, ma è anche così raro che, all'inizio degli anni Novanta, si era deciso di classificarlo come estinto sul territorio nazionale. Non se ne avvistava uno da sessant'anni, e il totale degli avvistamenti ammontava a tre: due nell'Östergötland e uno nello Småland.

Il mio nuovo amico fece una pausa d'effetto e si versò una goccia di latte nel caffè. I rondoni garrivano, la strolaga pescava davanti al pontile e in lontananza si sentivano i taxi motoscafo correre nello stretto di mare che separa l'isola dalla terraferma. Era una calda giornata di luglio.

La prima volta che la specie fu individuata fu nel 1874, a Gusum. Chi teneva in mano il retino era niente di meno che Peter Wahlberg, l'uomo che nel movimentato anno 1848 era succeduto a Berzelius nell'incarico di segretario permanente all'Accademia Reale delle Scienze. Dopo una lunga vita al servizio della ricerca come botanico e come professore di materia medica al Karolinska Institutet era infine arrivato alle mosche, il che mi pare logico e ragionevole se si tiene conto del fatto che già nel 1833 era stato uno dei fondatori della Società per la Diffusione dei Saperi Utili, società in seguito abolita. Probabilmente era un uomo felice. Lo si direbbe, almeno, a giudicare dal ritratto sull'enciclopedia.

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Pagina 43

L'uomo che amava le isole è, naturalmente, lo stesso Lawrence , e il racconto è un'allegoria del suo continuo vagabondare tra diverse culture e concezioni del mondo. Quando riuscii finalmente a procurarmi il libro, sulle prime rimasi deluso. Tutto qui? Un uomo incline alla misantropia compra un'isola con l'idea di trasformarla a suo piacere, di farne il proprio mondo, ma l'agricoltura rende poco e la servitù lo imbroglia. Così rivende l'isola e si trasferisce su un'altra, più piccola, con meno servitù e meno illusioni. Sta lì su quell'isola spazzata dal vento e non prova più niente, né felicità né desideri, tuttavia ha un figlio dalla figlia della sua governante e ogni desiderio dentro di lui muore in modo così orribilmente definitivo che è costretto a fuggire di nuovo, su una terza isola, niente più di uno scoglio in mezzo al fragore delle onde, e lì, tra l'idiota belato delle pecore, perde la ragione e finisce per morire congelato nel suo rudimentale rifugio. Una delle ultime gioie dell'uomo è che il gatto se ne va per non tornare mai più.

Continuava a trarre la sua unica soddisfazione dal fatto di essere solo, assolutamente solo, a impregnarsi di spazio. Solo il mare grigio, e il sostegno della sua isola bagnata dal mare. Nessun altro contatto. Nulla di umano il cui orrore potesse giungere a sfiorarlo. Solo spazio, umidità, crepuscolo, spazio bagnato dal mare! Questo era il pane della sua anima.

Deluso, rimisi il libro sullo scaffale, dicendomi che quella storia non parlava né di isole né di amore.

Qualche anno dopo lo rilessi, e lo rilessi ancora, più volte a distanza di tempo, soprattutto quando la vita sulla mia isola si immobilizzava sotto la cappa dell'oscurità intorno e di una tragicità di cui i nuovi arrivati non si rendono conto. Non mi riconoscevo più nella prima impressione che quel testo mi aveva suscitato. Lawrence aveva capito qualcosa che in certi giorni ero tentato di chiamare una verità.

Perfino l'aria emanava una malevolenza greve e ostinata. L'isola stessa sembrava maligna. Era perversa e crudele per intere settimane. Poi, una mattina, all'improvviso, era di nuovo bella, attraente come una mattina in paradiso, ogni cosa era fluida e magnifica. E tutti iniziavano a provare un gran sollievo, e una speranza di felicità.

Nel racconto i genitori riconoscono che è scorretto nei confronti dei loro figli rimanere sull'isola. E quelli che non hanno figli riconoscono che è scorretto nei confronti di se stessi. Ed è vero, è proprio così.

Con le mosche tutto si è rimesso a posto. Esercitare il controllo su qualcosa, sia pure qualcosa di insignificante e apparentemente sconclusionato, dà un senso di serena euforia, per quanto effimero e sfuggente, come ben rivela Lawrence mostrando il suo alter ego che recupera un certo equilibrio dedicandosi a una più o meno rudimentale collezione botanica. Sulla prima isola cerca rifugio nella ricca biblioteca, lasciandosi assorbire da un interminabile lavoro a un libro che dovrebbe trattare di tutti i fiori che vengono nominati negli scrittori antichi, greci e latini. In seguito, sull'isola più piccola, riempie la propria prigionia con l'impegno, a volte piacevole, di stilare un catalogo completo di tutte le piante locali.

Solo sulla terza isola perde qualsiasi interesse per la botanica. «Era contento. Non desiderava né alberi né cespugli. Si ergevano come persone, si imponevano all'attenzione. Tutto ciò che voleva era la sua isola spoglia e bassa sopra il mare azzurro pallido.»

Bottonologia si chiama, la scienza del futile, un termine irriverente, ma corretto. L'uomo che amava le isole è essenzialmente, in quanto collezionista, un tipico bottonologo. Stila cataloghi. L'idea è che debbano essere completi. Dev'esserci tutto. In questo il bottonologo si distingue dal cartografo, cui per altri versi assomiglia e con cui può essere confuso. Chi disegna carte geografiche non potrà mai inserire tutto nella sua immagine della realtà, che rimane per forza una semplificazione, a prescindere dalla scala scelta. Entrambi cercano di catturare qualcosa e di conservarla. Ma la somiglianza finisce qui.

Quello che mi sconcerta è che a volte il bottonologo, come in Lawrence, sembra solo un ex cartografo sulla via della pazzia. Una fase transitoria.

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Pagina 46

Sulla terra esistono milioni e milioni di specie di insetti. Di queste, centinaia di migliaia appartengono al multiforme ordine delle mosche, i ditteri. Mosche domestiche, empididi, mosche predatrici, sirfidi, conopidi, mosche soldato, acroceridi, ulididae, moscerini della frutta, mosche della carne, calliforidi, mosche cavalline, foridi, efidridi, ippoboscidi, mosche gialle, cenomie... ecco, ditemi voi quali mosche non esistono. Solo nel nostro paese, secondo l'ultima rilevazione, ci sono 4424 specie di mosche. E se ne scoprono sempre di nuove.

Dunque, tra tutte queste famiglie di mosche, tra loro piuttosto diverse, io mi interesso esclusivamente ai sirfidi. Ma anche loro sono troppo numerosi per acquisirne una conoscenza che non sia solo superficiale nel corso di una vita. In totale gli scienziati conoscono un po' più di cinquemila specie di sirfidi in tutto il mondo, e indubbiamente ce ne sono migliaia non ancora scoperte, specie ancora senza nome, che vivono Dio sa dove. Le 368 finora scoperte in Svezia rappresentano innegabilmente un numero più ragionevole. Tuttavia il nostro paese è molto grande, coperto di vegetazione, e quest'epoca è così densa di impressioni e di informazioni stimolanti che sono costretto ogni volta a limitarmi per non perdere di vista l'oggetto della mia costante ricerca.

Per questo raccolgo mosche solo sull'isola. Mai sulla terraferma.

Finora sono riuscito a catturare 202 specie. Duecentodue.

Un grande trionfo, credetemi. Solo la difficoltà di spiegarlo è più grande.

Nemmeno a Öland o a Gotland – isole che al confronto appaiono immense, dove gli entomologi si sono impegnati fin dai tempi di Linneo a dare la caccia alle mosche – nemmeno là, in un quarto di millennio, si è riusciti a trovare tante specie quante ne ho trovate io. In sette anni. La cifra rivela qualcosa sull'isola, e forse anche qualcosa sulla profondità della trappola bottonologica, ma soprattutto rivela qualcosa sulle potenzialità della vita sedentaria. Forse, quando sarò vecchio, condurrò i miei studi sulle mosche esclusivamente in giardino, seduto al sole accanto alla spirea e alla buddleja come un califfo, con la canna dell'aspiratore in bocca come fosse una pipa d'oppio.

Non fraintendetemi, parliamo di caccia condotta per proprio piacere, nient'altro. Certo, potrei citare una quantità di ottime e sensate ragioni per cui è necessario collezionare mosche. Ragioni scientifiche e di politica ambientale. E forse in seguito lo farò anche, ma sarebbe ipocrita non cominciare dal puro piacere. D'altro canto non sono un missionario. I collezionisti, in genere, non lo sono.

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Pagina 74

7. Narcissiana


Lo psicoanalista americano Werner Muensterberger ha fatto notare come molte persone si dedichino al collezionismo per sfuggire alla terribile depressione che li minaccia costantemente. Tratta l'argomento nel suo studio sull'imperatore del Sacro Romano Impero Rodolfo II (1552-1612), uno dei più grandi collezionisti maniacali, e su questo punto sono pronto a dargli ragione, almeno finché parliamo di arte o di libri o di altri oggetti più o meno rari che cambiano di proprietario sul mercato. Soprattutto chi colleziona qualsiasi cosa, pur che sia abbastanza bizzarra, è spesso dedito a una forma di feticismo che effettivamente riduce l'ansia.

Lo so bene, perché una volta sono stato sul punto di comprare una casa a Ydre solo perché si diceva che il cadente gabinetto esterno fosse appartenuto al vescovo poeta Esaias Tegnér.

Le curiosità naturali, invece, non possono essere assimilate a questo genere di feticci, anche perché è raro che le si possa acquistare. Inoltre non hanno, normalmente, un'origine culturale. Un qualsiasi scarabeo, catturato, infilato su un ago e classificato da – diciamo – Charles Darwin sarebbe un feticcio meraviglioso per guarire dalla depressione, ma è pressoché impossibile trovarlo. È vero che io posseggo un pavone impagliato dell'Ottocento, di cui si conosce la storia, con tanto di proprietari e tutto il resto da quando era in vita, e a qualche disperato potrebbe anche venire in mente di comprarlo, ma di solito, al giorno d'oggi, il collezionista di curiosità naturali cattura da sé gli animali che colleziona. È diverso dal commercio di opere d'arte.

Ho la precisa sensazione che i freudiani, in genere, abbiano un'idea troppo vaga delle passioni che possono trovare espressione, per esempio, nella caccia alle mosche. Sono troppo prigionieri delle loro schematiche e sconce spiegazioni del comportamento umano. Così il già citato Muensterberger riesce a trarre la conclusione che il collezionista medio rappresenta un «tipo anale», il quale – se capisco bene – diventa collezionista perché nell'infanzia non l'hanno lasciato giocare abbastanza a lungo con i propri escrementi. C'è da restare esterrefatti. Nemmeno il mio amico poeta surrealista rientrerebbe nel pacco.

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Pagina 79

Ormai la mosca dei narcisi è comune sia in Inghilterra che da noi, anche se le specie del genere Merodon hanno il loro habitat naturale nei climi più caldi dell'area mediterranea. O forse l'avevano. Si sono ambientate anche qui. Arrivata dal Sud come straniera molto tempo fa, ha ormai lo stesso diritto di cittadinanza di tutti gli altri. Questa è la mia convinzione politica. Non particolarmente rischiosa, va riconosciuto, ma solo perché la politica sulle mosche non ha mai suscitato grandi passioni. Mi domando perché. Le lumache spagnole, i visoni, i cinghiali, i cormorani e un sacco di altri animali attirano di continuo l'attenzione di una schiera di populisti xenofobi e di cialtroni d'ogni tipo, ma non si trova nessuno che si interessi alle mosche. Nemmeno i paranoici mi tengono compagnia. Ma è pur sempre politica. Per quanto riguarda le mosche sono un liberale e sono contrario a qualsiasi disposizione che preveda un periodo di transizione prima che vengano integrate nella nostra fauna. Lasciate semplicemente che vengano. Di posto qui ce n'è in abbondanza.

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Pagina 114

Le notti d'estate sono una storia a sé. Si può catturare praticamente qualsiasi cosa, tranne le mosche. Vedere un sirfide di notte è impensabile come vedere una rondine.

L'unica cosa che posso raccogliere nelle notti d'estate sono i miei pensieri.

Una teoria. Parecchi dei tratti fondamentali della nostra personalità sono prosaicamente ereditati per via genetica: l'orecchio musicale, l'intelligenza, certe malattie, eccetera. Altre cose, però, non possono essere spiegate che come conseguenza dell'influenza di un determinato ambiente negli anni dell'infanzia. Non è il caso di approfondire qui la questione. Non c'è niente che sia o bianco o nero. I confini sono sfumati. Ma si può supporre che alcune caratteristiche di quella che diventerà poi una certa personalità siano più un prodotto culturale che non una colata di bronzo nel misero e ingiusto stampo della nostra biologia. Tra queste caratteristiche credo che rientri il temperamento spiccatamente romantico. Forse non del tutto, ma in buona parte sì.

L'osservazione successiva è altrettanto banale, e cioè che in Svezia abbiamo le più belle notti d'estate al mondo. Basta spingersi un po' più a sud, in Europa, e le notti diventano scialbi intervalli di buio pesto tra il crepuscolo e l'ora del risveglio. Le notti tropicali, dal canto loro, possono scatenarsi in un frastuono antidiluviano quando scoppia un temporale o le cicale celebrano le loro orge tra il fogliame degli alberi. Grandioso, ma niente di più, e anche se l'indescrivibile canto del succiacapre del Madagascar vale di per sé il viaggio, resta comunque solo interessante e affascinante, qualcosa da raccontare al ritorno, ma mai di una bellezza da mozzare il fiato come qui.

Ogni estate ci sono alcune notti – non molte, ma alcune – in cui tutto è perfetto. La luce, il caldo, i profumi, la foschia, il canto degli uccelli... le farfalle. Chi può dormire, allora? Chi vuole?

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Pagina 125

[...] E, come dice Ralph nel Signore delle mosche : «Questa è la nostra isola. È un'isola magnifica. Fino a quando i grandi non verranno a prenderci, ci divertiremo.»

Fin da quando esistono, i biologi sono andati sulle isole per non impazzire di sovrabbondanza. Le isole diventano delle specie di generalizzazioni. Modelli esplicativi. E dove non ci sono isole bisogna inventarsele. Se non altro per divertimento.




Una volta che ci hai fatto l'occhio le vedi dappertutto, le isole artificiali nell'Arcipelago della Bottonologia. Una delle più belle si trova a Roma, o forse si trovava, a metà dell'Ottocento. Un ben delimitato paradiso nella grande, brulicante, disorientante metropoli. L'uomo che la scoprì si chiamava Richard Deakin. Immaginiamoci che fosse un gran lavoratore, attento alla carriera. Possiamo anche supporre che, in quanto medico (questa era infatti la sua professione), sapesse molto bene che l'oppio alla lunga non paga. Ma di qualcosa aveva pur bisogno, forse come scialuppa di salvataggio. Non posso dirlo con certezza, ma penso che sia andata così.

Quel che so della vita di Deakin non è in realtà molto. Ho cercato un po' di informazioni, ma è del tutto dimenticato anche nel suo paese, solo qualche vecchissimo botanico e qualche polveroso collezionista di libri rari con tavole colorate a mano si ricordano di lui. In effetti so solo che era inglese e che nel tempo libero studiava la diffusione delle piante. Scriveva, oltre al resto, sulle felci delle isole britanniche. Non ho la minima idea del perché abbia trasferito il suo studio medico a Roma. Comunque così è stato, e la passione per la botanica lo seguì evidentemente nel trasloco.

Per caso in una libreria antiquaria mi è caduto l'occhio sul suo nome stampato a lettere d'oro – ormai un po' sbiadito – su un libriccino color vinaccia dall'insignificante titolo Flora of Rome. Ah, ho pensato, la descrizione della flora di una città. L'ecologia urbana è per molti versi una disciplina ricca di sorprese, stimolante nella sua imprevedibilità, così ho aperto il libro e con grande sorpresa ho scoperto che non era affatto il tipo di descrizione che mi aspettavo, era piuttosto un racconto su un'isola deserta, ecco, una specie di robinsonade in ambiente urbano. Pubblicata nel 1855. Il titolo completo è Flora of the Colosseum of Rome; or, Illustrations and Descriptions of Four Hundred and Twenty Plants Growing Spontaneously Upon the Ruins of the Colosseum of Rome.

Come si è detto, non abbiamo informazioni precise, possiamo però supporre che il dottor Deakin fosse molto occupato dal suo lavoro. Forse doveva mantenere una famiglia numerosa. Che fare? Le lunghe passeggiate domenicali godendosi il panorama non facevano per lui. Lui voleva dedicarsi alla botanica, saltare di pietra in pietra intorno a un'isola, raccogliere, stilare cataloghi.

La soluzione del problema è geniale: la catalogazione di una rovina.

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Pagina 146

Il ballerino l'ho preso da Milan Kundera. Fa uso di questa immagine in un'elegante commedia sulla vanità, l'ambizione e la sete di potere: è solo un breve dialogo, piuttosto semplice, che compare qua e là in un piccolo romanzo che si intitola per l'appunto La lentezza. Be', definirlo romanzo non è forse del tutto corretto, ma indubbiamente è incantevole, e a doppio fondo come una petroliera. A essere sincero non ho mai capito bene di cosa tratti il libro ma, come nel caso dell' Uomo che amava le isole, ne sono rimasto affascinato fin da quando ne conoscevo a stento l'esistenza.

Esattamente come mi era accaduto con Lawrence, per anni mi è bastato sapere che un argomento che mi interessava tanto venisse affrontato da un uomo del calibro di Kundera. Inoltre, come al solito, avevo le mie teorie.

La lentezza era un tema che semplicemente mi doveva interessare per natura.

No, ecco, non è del tutto vero. Sono stati i turisti estivi che, con le loro domande, hanno reso la lentezza un tema che mi deve interessare per natura. In un momento di ispirazione mi capitò di dire, in tutta semplicità, che la caccia alle mosche era un modo per esercitare la lentezza. E poiché in quell'occasione incontrai una comprensione cui non sono affatto abituato, continuai con quella risposta e piano piano, a posteriori, elaborai una specie di teoria. Le reazioni erano sempre entusiastiche: bastava tirare fuori la lentezza ed era come se tutti quanti al mondo fossero nel loro intimo collezionisti di mosche, anche se prima non se ne erano accorti. Parecchi avevano letto interi volumi sulla lentezza ed erano in grado di tenere lunghi monologhi su quanto fosse bello e buono tutto ciò che andava piano.

Questa grande bellezza, da parte mia, non l'avevo ancora scoperta, forse perché sono abbastanza lento di natura e ho sempre desiderato essere un po' più veloce. Ora, inaspettatamente, ero diventato un pioniere. Non era male, come sensazione. Mi piaceva ascoltare i discorsi quasi febbrili di quei vacanzieri fuggitivi dalla vita familiare che mi spiegavano come tutta la nostra epoca fosse come infettata dalla velocità: le comunicazioni sono più rapide di prima, e così il flusso di notizie; le persone parlano più in fretta, mangiano più in fretta, cambiano opinione più spesso e si stressano di più, mentre il mondo si trasforma a un ritmo vertiginoso. La rapidità dello sviluppo tecnologico è assolutamente sensazionale, nuovi modelli di innumerevoli prodotti invadono letteralmente il mercato e sono tutti più veloci di quelli che l'hanno invaso l'anno scorso, o solo sei mesi fa. Al primo posto vengono naturalmente i computer e i telefoni, ma perfino i tostapane sono ormai così veloci che si sta per arrivare al punto critico in cui il pane sarà bruciato in superficie prima che abbia fatto in tempo a intiepidirsi in mezzo. Per non parlare delle operazioni finanziarie e della Borsa.

«Sì, sì, tremendo», dicevo agitando un po' il retino.

Questa accelerazione apparentemente universale e autoriproducentesi creava evidentemente disagio e preoccupazioni di vario genere, e io mi univo con gioia alla loro opinione.

Ma, a essere sincero, continuo a credere che l'opposto sarebbe peggio. Se tutto non facesse che andare sempre più lentamente diventeremmo più o meno pazzi e invocheremmo la velocità con una sincerità cui i predicatori della pacatezza non potranno mai neanche avvicinarsi. La tendenza «sempre di più e sempre più in fretta» è preferibile al suo opposto, se non altro perché si può scendere da un treno ad alta velocità, ma non si può far correre una carovana di asini. Inoltre ognuno è libero di non viaggiare e difendersi così da tutte le impressioni non smaltibili e dalle lingue barbariche. Su questo punto l'opposto sarebbe assolutamente spaventoso, per quanto sopravvalutati siano í viaggi. Se si ritiene che il flusso – di immagini, messaggi, persone, di qualsiasi cosa – sia troppo veloce, si può, in nove casi su dieci, fermarlo, o semplicemente chiudere gli occhi e riprendere fiato. La maggior parte delle cose la si fa di propria volontà. Questa è la ricchezza svedese. Anche se non usavo dirlo.

Alcuni di noi non riescono a tenere il passo, forse è tutto qui. È semplicemente troppo. Ce ne accorgiamo già a scuola. E siccome i pifferi alla cui musica balliamo sono intagliati da persone che amano la velocità e che sono capaci di tenere sotto controllo la sovrabbondanza, noi perdiamo il nostro equilibrio e sprofondiamo in una cupa sensazione di inadeguatezza. In parte è colpa di un meschino spirito mercantile, ma sicuramente non è l'unico responsabile. Anche la vita culturale è un centro commerciale, e così la scienza, intravista da lontano. Genialità e rapidità alla rinfusa.

La lentezza non è un fine in sé. Non è né una virtù né una sconfitta.

L'estate prossima dirò che la caccia alle mosche è per me un modo di esercitare la concentrazione. Un affinamento dello sguardo tale da dimenticare me stesso. Il che non è sempre così facile sulla pista da ballo che è il nostro tempo. Kundera affronta la questione. È da questo che parte.

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16. Il dottor Orlík e io


Per sicurezza mi sono procurato un santo protettore: il dottor Orlík. Siccome è immortale ed è solo un personaggio secondario, ritengo che se c'è qualcuno che ha il tempo di vegliare sul mio destino, quello è lui. Lui sa di cosa stiamo parlando.


«Libellule?» si accigliò Orlík. «Non mi interessano. Mi interessa soltanto la Musca domestica.»

«Soltanto?»

«Proprio così.»

«Rispondimi», lo interruppe nuovamente Utz.

«In che giorno Dio creò la mosca? Il quinto? O il sesto?»

«Quante volte devo dirtelo?» strepitò Orlík.

«Abbiamo centonovanta milioni di anni di mosche, e tu continui a parlare di giorni!»

«Parole dure», disse Utz, con filosofia.


Ecco, è qui che si trova: in Utz, il romanzo breve di Bruce Chatwin , il suo libro migliore e l'ultimo che scrisse prima che la morte se lo portasse via nel gennaio del 1989. L'autore ricorda un viaggio a Praga nell'estate del 1967, l'anno prima dei carri armati: il direttore di una rivista gli aveva commissionato un articolo sul tentativo di Rodolfo II di guarire dalla sua depressione dedicandosi alla raccolta di oggetti esotici. L'idea era quella di inserire l'articolo in uno studio di più ampio respiro sulla psicopatologia del collezionista coatto, ma un po' per la sua ignoranza delle lingue e un po' per pigrizia – racconta Chatwin – la spedizione in Cecoslovacchia finì nel nulla e si ridusse a una vacanza molto piacevole a spese altrui.

Sarà solo più di vent'anni dopo, quasi alla fine della vita, che darà i suoi frutti.

Dunque: torniamo a Praga.

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