Autore Fredrik Sjöberg
Titolo Perché ci ostiniamo
EdizioneIperborea, Milano, 2018, n. 298 , pag. 188, ill., cop.fle., dim. 10x20x1,5 cm , Isbn 978-88-7091-498-6
OriginaleVarför håller man på?
EdizioneAlbert Bonniers Förlag, Stoccolma, 2012
TraduttoreAndrea Berardini, Fulvio Ferrari
LettoreRenato di Stefano, 2018
Classe narrativa svedese , collezionismo , natura , paesi: Svezia












 

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Indice



Eat your stamps or I'll leave you!               7


Bing!                                           17

Perché ci ostiniamo?                            35

Sull'arte di scrivere saggi                     53

Sulla tomba di Thomas de Quincey                75

Anna e Rutger                                   89

Sulla bellezza                                 107

Storia dell'idea di Sclerophora pallida        133

Papà                                           159


Ringraziamenti                                 177

Indice dei nomi                                181



 

 

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Pagina 7

Tra collezionisti gira la storia di un filatelico talmente attaccato ai propri francobolli che la fidanzata, una fanciulla deliziosa sotto ogni aspetto, un giorno ne ebbe abbastanza e di punto in bianco rivelò un lato meno incantevole della sua personalità, pronunciando le poi celebri parole: «Eat your stamps or I'll leave you!» E dato che si trattava di un'epoca in cui i francobolli erano ancora fatti di carta, e non come oggi parzialmente in lamina di alluminio, plastica e altri materiali innominabili, il giovanotto trovò ragionevole accogliere la richiesta. Mangiò la sua collezione. Era vasta. Quindi ci volle tempo. Ma lui sapeva cosa voleva, e cosa voleva lei. La mandò giù un po' per volta. E poi vissero felici e contenti.

Che la storia di questo piccolo dramma abbia messo le ali e ormai viva di vita propria ovviamente non è affatto strano, perché non riguarda solo la questione del prezzo dell'amore, ma anche un altro intramontabile argomento: la persona del collezionista e la sua passione. La prima volta che l'ho sentita mi è subito venuta in mente una sua variante più antica ma abbastanza simile. La storia di Betulander e della sua caustica sposa, che compare in un'ormai dimenticata raccolta di novelle di Gustaf Janson, dell'inizio del secolo scorso. Il libro si chiama Ön (L'isola) e si svolge a Runmarö, nell'arcipelago di Stoccolma, dove Janson trascorreva le estati, e il vecchio Betulander un tempo è esistito davvero, anche se con altro nome.

Cari Gustaf Hoffstein (1850-1916) era un falegname alcolizzato che a un certo punto degli anni Ottanta dell'Ottocento si stabilì a Runmarö, un tragico sbandato che di certo sarebbe stato inghiottito dalle tenebre della Storia se non fosse per le sue collezioni e per il ritratto, crudo ma al tempo stesso schiettamente caloroso, che ne fece Gustaf Janson. È una delle rappresentazioni di collezionista appassionato più belle, e a mio parere più vere, della letteratura svedese.

Era un collezionista di reperti naturalistici, Hoffstein, alias Betulander, e si era lanciato nella carriera, cosa alquanto insolita, in età adulta, quando già stava scivolando lungo la ripida china dell'alcolismo. Caso volle che un'estate ottenesse un impiego sull'isola come assistente di campo di un professore di Stoccolma, un grande botanico, che aveva bisogno di aiuto per le sue collezioni. «Quell'estate fu la più felice nella vita di Betulander. [...] Portava il vascolo, il retino per insetti e il pranzo al sacco, si immergeva nelle paludi per raccogliere ninfee e trifogli d'acqua e restava fradicio per giorni interi, felice di sentire riecheggiare nell'aria tutte quelle parole latine.» Fu così che Hoffstein trovò la propria strada nell'esistenza. «Ora Betulander sapeva cosa voleva, e quell'autunno cominciò un erbario e una raccolta di insetti, entrambi poi diventati il suo orgoglio e la sua consolazione.»

Negli ultimi trent'anni della sua vita, Carl Gustaf Hoffstein mise insieme una collezione naturalistica impressionante sotto ogni punto di vista, composta da tracheofite e muschi in erbari strapieni, ma soprattutto da insetti, in quantità infinite, scrupolosamente spillati e catalogati in vetrine che costruiva da sé nel suo capanno. Certo, continuava anche a bere, ma chiunque legga Janson o veda le sue collezioni sopravvissute avrà l'impressione che questa passione abbia dato uno scopo e un senso alla sua vita. Quest'esile felicità sembra gettare luce attorno alla sua figura, per quel poco che se ne sa. Orgoglio e consolazione. E il fatto, forse inevitabile, che sua moglie si lamentasse con le altre donne dell'isola e commentasse acidamente che tutti quegli insetti non portavano molto cibo in tavola, be', evidentemente poteva tollerarlo. Chissà, forse anche lei strinse i denti. Mi piace credere che, malgrado tutte le privazioni, anche lei vedesse i vantaggi della situazione.

In ogni caso le collezioni esistono ancora, per quanto in parte in pessime condizioni, per la gioia di tutti noi, specialmente la mia, perché anch'io vivo su quell'isola e raccolgo reperti naturalistici. Mosche, per essere più precisi. Sirfidi. È una storia lunga, che non racconterò qui. Né dirò cosa ne pensa mia moglie. Al momento la mia ambizione è più grande, ovvero portare un minimo contributo alla discussione sulla psicologia del collezionista. Perché lo fa? Ed è proprio vero, come si dice, che i collezionisti sono pazzi? Il Nordiska Museet nell'isola di Djurgården a Stoccolma è da considerarsi - per quanto magnifico - comunque un manicomio?

No. Il collezionismo non è un inizio di follia. È esattamente il contrario. Cosa che non si arriva a capire senza tornare un bel po' indietro nel tempo, ben prima del nazional-romanticismo e della bottonologia di fine Ottocento, prima ancora perfino della zelante smania collezionistica dei linneani. No, bisogna partire dall'inizio - dalla preistoria - e da un'invenzione geniale nella sua semplicità. La borsa.

É stato lo scrittore Lasse Berg a mettermi l'anno scorso su questa pista. Certo, anche a me era già capitato di pensare che le risposte andassero cercate nello studio della cultura di cacciatori e raccoglitori agli albori dell'umanità, ma la cosa mi è parsa davvero lampante solo alla lettura dello straordinario libro Gryning över Kalahari (Alba sul Kalahari) di Berg, in cui l'autore, dopo lunghi viaggi in compagnia delle popolazioni khoisan nelle vaste aree desertiche dell'Africa meridionale, ha avanzato l'ipotesi che proprio la borsa sia stata una delle invenzioni più rivoluzionarie dell'umanità. Arriva addirittura a scrivere: «È stata la borsa a renderci umani.» Cosa forse contestabile, ma il punto è comunque chiarissimo: la borsa è fondamentale in quanto prerequisito necessario per una raccolta efficace di radici, frutta, bacche e altro cibo. Come l'invenzione della ruota, ma meglio.

Forse è per questo, mi venne da pensare, che una borsa è un omaggio così imbattibile quando si tratta di indurre la gente a comprare cose di cui non ha bisogno. Sempre borse: borsette, valigie con le rotelle, zaini, necessaire, tutto quel che si vuole, basta che sia una borsa. Non esiste offerta più attraente. E noi ci caschiamo, sempre. Non sarà forse, penso con un brivido, perché la borsa risponde a uno dei più fondamentali bisogni umani? Respirare, mangiare, dormire, riprodursi... e avere una borsa in cui raccogliere cose. Be', perché no? È chiaro, comunque, che molti dei bisogni e dei comportamenti degli uomini primitivi sono giunti pressoché inalterati fino ai giorni nostri. E uno di questi è indubbiamente il bisogno di spostarsi liberamente, cercare e raccogliere, e poi mostrare quel che si è trovato. In questo senso i mercati delle pulci sono una specie di savana, al contrario dei supermarket, hangar del consumismo privi di anima in cui si sa già in anticipo più o meno cosa si trova. Certo, da parecchie migliaia di anni gli esseri umani vivono come coltivatori stanziali, ma le nostre passioni più intime sono state plasmate da un'esistenza ben più lontana, quando eravamo cacciatori e raccoglitori.

Per questo è singolare che il collezionista, nella cultura popolare, venga rappresentato non di rado come uno svitato, un pazzo che non va preso sul serio, o un bambinone cresciuto, quando non addirittura un criminale o un pervertito, o entrambe le cose, come il protagonista dell'ambiguo romanzo giallo di John Fowles, Il collezionista. Non so dire di preciso perché sia diventato così. Forse ha a che fare con gli orizzonti tanto allargati della modernità, nel senso che la bottonologia, il termine denigratorio coniato da Strindberg, dovette sembrare di vista troppo corta quando l'umanità si trovò il mondo intero ai propri piedi. Centrata in se stessa e polverosa. I contesti globali e le grandi sintesi erano lo spirito del tempo, la sua filosofia, non i dettagli, tanto meno se messi in fila in un museo o in un gabinetto delle curiosità.

Può essere. Come ho detto, non lo so. Ma per quanto riguarda la pazzia, sono sicuro di quel che dico: collezionare per il proprio piacere è un modo di evitarla. È raro che il collezionista vada in tilt, rischia meno facilmente di altri la depressione. Insomma, se la passa meglio proprio chi è animato da una tale voglia di andare in cerca di dio sa cosa da filarsela continuamente con la sua borsa nella savana, anche se solo in Internet, che è la più grande giungla che ci sia. Cosa si raccoglie non ha grande importanza. Insetti, arte o cavatappi, fa lo stesso. La gioia della scoperta è uguale, magari con una certa riserva per la collezione di cose che costano molto e che proprio per questo causano più facilmente disagio esistenziale rispetto alla ricerca di quello che è gratis, o almeno a buon mercato.

E per quanto riguarda l'utilità possiamo fermarci qui. È evidente e non ha nulla di complicato. Inoltre l'aspetto utilitaristico è normalmente secondario, non è la vera forza motrice. Nessuno mi convincerà che un uomo come Artur Hazelius abbia accumulato le sue sconfinate collezioni solo per ragioni cultural-patriottiche, che oggi chiameremmo storico-scientifiche. Nient'affatto. Quel che lo spingeva era certo una gioia primitiva, nel senso più positivo del termine, che ha radici nella preistoria. Che il valore della sua impresa sia rimasto inalterato nel tempo dipende soprattutto dal fatto che era riuscito come pochi a fondere la sua più intima cultura di cacciatore-raccoglitore con le forme più recenti e stanziali che si esprimono nella spinta a stipare i granai. Si può senza dubbio scrivere la storia dell'idea di cavatappi, e magari ottenerci perfino una docenza, ma sono cose arrivate dopo.

In particolare i collezionisti naturalistici, in modo imbarazzante, hanno la tendenza a nascondersi dietro l'utilità e la scienza della classificazione non appena entra in gioco la questione del motivo della loro raccolta. Come se la gioia fosse qualcosa di cui vergognarsi. Non fanno che ribadire di essere spronati dal desiderio di contribuire alla scienza, cosa buona e giusta, ma che dà l'impressione che sia tutto lì, o che sia quello l'essenziale. La mia buona educazione mi impedisce di chiamarla ipocrisia, anche se ogni volta che sento mettere l'utile davanti al dilettevole mi vengono in mente quei cacciatori che si ostinano a definire la loro passione come essenziale cura della fauna selvatica e non come il riflesso del radicato bisogno umano di eccitazione e trionfo. Onore alla scienza, ma è la savana che affascina e attrae.

Una scoperta a un mercato delle pulci, o un'inattesa preda di caccia, anche se solo sotto forma di una mosca rara, scatena una peculiare euforia che, ne sono convinto, è rimasta pressoché identica per milioni di anni semplicemente perché la biochimica di quell'esaltazione una volta serviva all'umanità per sopravvivere. Molto è cambiato, ma non questo. Poi, che i freudiani dicano quel che vogliono. Anzi, di certo potrebbero contribuire con riflessioni interessanti - per esempio sul bisogno di controllo del collezionista, o sul suo desiderio di proteggersi da un mondo caotico e brulicante in cui tutto corre un po' troppo in fretta. Nulla è davvero rilassante quanto andare a caccia di qualcosa e poi catalogare quel che si è trovato. In questo senso il collezionismo, in qualunque campo, somiglia al benedetto lavoro manuale, o a quelle attività che possono sembrare inutili, ma rasserenano e ritemprano chi vi si dedica, facendogli dimenticare per un po' tutto il resto. Se stessi, per esempio, cosa che nella nostra epoca narcisistica è più che riposante.

Lo ripeto: il collezionismo rinforza gli argini quando la follia minaccia di far saltare le dighe dell'anima. Non è così raro perdere sia la giusta prospettiva che i propri appigli, per come è fatto il mondo, ma il collezionista ha perlomeno il totale controllo su qualcosa, e di conseguenza un punto fermo nella vita. Piccolo, magari, ma fermo. Provate a far uscire di senno un abitudinario collezionista di - mettiamo - scatole di fiammiferi. Ci si riesce, ma è difficile. Mandare al tappeto un normale spettatore televisivo o un patito di ipermercati è ben più facile.

Ovviamente si può e si deve considerare il collezionismo anche da una prospettiva di genere. Esistono infatti alcune differenze, da un punto di vista statistico, intendo. Distinzioni assolute tra uomini e donne in questo senso sono impossibili da riscontrare, ma in media - faccio notare - mi pare che gli uomini abbiano un maggior bisogno di mettersi in mostra, esibendo la propria collezione come il pavone la coda, mentre le donne spesso tengono un profilo un po' più basso. Anche questo può essere spiegato sulla base dell'evoluzione umana a partire dall'età della pietra, ma ogni tentativo in tal senso rischia di essere inutile e di non portare a nulla, non da ultimo perché millenni di condizionamenti culturali nascondono le tracce della savana. Tutto si dissolve in vaghe speculazioni. Che le donne tendano a collezionare oggetti utili, cose pratiche e belle, mentre gli uomini sono più facilmente attratti da oggetti rari, per quanto inutili e brutti siano, non ha bisogno di significare altro del fatto che, nel corso della storia, non è mai stato del tutto socialmente accettabile che una donna si riempisse il cortile di auto arrugginite. Per esempio.

Tra l'altro, proprio il collezionista di carcasse di macchine è un caso interessante. L'opposto del collezionista di mosche, si può dire. Lo si ritrova sostanzialmente dappertutto, in ogni villaggio e paese, quello che non sa dire di no a nessun tipo di catorcio - auto defunte e attrezzi agricoli dismessi, motociclette, trattori, roulotte e macchinari fuori uso di origine sconosciuta, più grandi sono meglio è. Cosa se ne faccia non è facile dirlo, e ogni volta che ci si passa davanti, con le mani dietro la schiena, tutte le teorie sul collezionismo come modo per sfogare il desiderio di ordine e di un sistema ben organizzato vanno a farsi benedire. A malincuore si è costretti ad accettare il fatto che i collezionisti non si lasciano definire, non come gruppo. L'unica cosa che hanno in comune è la gioia di cercare e trovare e sognare il non plus ultra dei reperti.

Come poi venga gestita questa passione ha infinite variazioni. Per certi collezionisti diventa una trappola. Sono innumerevoli le storie di persone che si riempiono la casa o l'appartamento di un oggetto dopo l'altro, finché quasi non c'è più posto per loro. A quel punto, la loro dolce metà se l'è in genere già filata da un pezzo. I collezionisti compulsivi di libri appartengono a questa categoria, così come quelli che non sanno resistere alla tentazione di accogliere l'ennesimo gatto randagio. Mentre scrivo, i tabloid si stanno scatenando sul caso di una signora scoperta con una dozzina di cigni reali vivi nel suo monolocale all'ottavo piano, nel centro di Stoccolma. Anche questo può capitare a chi colleziona in grande.

Ovviamente sono eccezioni.

È ben più comune che il collezionista viva avvolto da un invidiabile benessere, circondato dalla tenera, a tratti ironica comprensione di chi gli sta vicino, o in compagnia dei propri simili con cui a volte, ma non sempre, va in spedizione con la borsa in spalla. A caccia. La collezione in sé può assumere qualunque forma. E la cosa migliore - ultima consolazione ed estrema sicurezza - è che ci si può liberare della paccottiglia donando la propria collezione, vendendola, gettandola via, nascondendola in soffitta o, come si è detto, mangiandola. Be', forse non vale per chi colleziona trattori, ma molte raccolte si prestano di certo a essere consumate, il giorno in cui sull'altro piatto della bilancia ci sarà l'amore, quello vero.

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Anna e Rutger


In una fredda ma bella mattina di primavera dell'aprile 1917, Vladimir Il'ič Ul'janov, detto Lenin, arrivò alla Stazione centrale di Stoccolma. Finalmente tornava a casa. L'esilio in Svizzera era finito, la rivoluzione russa lo attendeva. Il futuro!

Era un variopinto gruppo di bolscevichi, quello che si riversò fuori dal treno e venne calorosamente accolto al binario da una delegazione dei circoli radicali della capitale. Colazione, compagni! La colazione era già pronta e li aspettava nella sala da pranzo dell'Hotel Regina, in fondo alla Drottninggatan. Avevano fretta. Quella sera stessa tutta la compagnia avrebbe ripreso il viaggio verso Haparanda, Helsinki e la Storia mondiale. Un solo giorno a Stoccolma, nient'altro. Eppure le leggende su quella breve visita sono più di quante ne possa contenere un grosso libro.

Un misto di aneddoti, mezze verità e bugie propagandistiche. Cosa sia esattamente accaduto è impossibile dirlo. Chi c'era davvero al seguito di Lenin? Di cosa si è parlato in quelle conversazioni segrete all'hotel? Ed è vero che si comprò un vestito marrone ai grandi magazzini PUB, in Hötorget? Anche quest'ultima domanda ha appassionato i socialisti di sinistra svedesi, come se quel vestito (qualcuno sostiene che fosse un soprabito) avesse qualche significato per la rivoluzione - almeno inizialmente - riuscita.

Quanto a me, sono rimasto affascinato dalla storia di Anna Lindhagen. Quella che racconta di come, in quel magico giorno, riuscì a sequestrare Lenin e a convincerlo, in un attimo di distrazione, ad accompagnarla a Södermalm, dove poté mostrargli con fierezza gli appezzamenti di Barnängen, coltivati a giardino. Ecco, gli disse Anna, di questo hanno bisogno i proletari. A ognuno il suo pezzetto di terra, per quanto piccolo, e una vanga. L'uomo vestito di marrone si mostrò perplesso, scettico.

Purtroppo non si conoscono dettagli di questo avvenimento, per cui per ora dobbiamo supporre che sia tutta un'invenzione, disinformazione finalizzata a qualche obiettivo ormai dimenticato della grande politica. Ma anche il verosimile, come si sa, è degno di rispetto. A volte è addirittura più rivelatore della verità stessa. E del tutto inverosimile non lo è affatto, questo incontro tra la scilla e il croco sotto il sole di Södermalm.

Anna Lindhagen (1870-1941) fu tra i fondatori della Svenska Naturskyddsförening (Associazione svedese per la protezione della natura). Partecipò alla riunione costituente all'Accademia delle scienze nel maggio 1909, e già in quell'occasione fece sentire la sua voce. Come quasi tutti gli altri presenti in sala, non era una persona qualunque, ma una figura ben nota nei circoli intellettuali dove la questione della protezione e della conservazione della natura trovò, per la prima volta, ascolto. Ma a differenza della maggior parte dei fondatori, che si erano distinti in ambito accademico, lei si era fatta un nome in politica.

Era figlia del potente giurista e deputato Albert Lindhagen, l'uomo che più di ogni altro legò il suo nome alla trasformazione di Stoccolma da un ammasso disordinato di vicoli e case in una moderna città di pietra, con larghi viali e isolati ad angoli retti. Seguendo l'esempio della trasformazione di Parigi operata da Haussmann, si demolì e si spianò in misura tale da far apparire tutto sommato modesti gli eccessi compiuti nel quartiere di Klara negli anni Sessanta. Aria e luce erano le parole d'ordine del momento e l'atmosfera era piena della stessa speranza della prima strofa della poesia di Strindberg Esplanadsystemet:

    Dove vecchie baracche stavano addossate
    negandosi l'un l'altra la luce
    si vide un giorno giungere gagliarda
    una schiera di giovani con pertiche e leve.

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Pagina 115

Sono passati quasi cinquant'anni da quando il fisico e romanziere britannico C.P. Snow scrisse il suo celebre saggio Le due culture - che in origine non era affatto un saggio ma una lezione tenuta a Cambridge il 7 maggio 1959. Le due culture diventarono poi un concetto quasi universale che vive in parte di vita propria, a volte a grande distanza dal suo contesto originario. Il saggio di Snow è in realtà un intervento sulla politica dell'istruzione che rivela come gli accademici, specialmente in Inghilterra, non parlino tra loro ma si limitino al massimo a farsi boccacce sull'orlo dell'abisso che separa le scienze naturali dalle discipline umanistiche. In particolare quest'ultima fazione - Snow usa la definizione the literary intellectuals - non ha, secondo l'autore, il minimo interesse a comprendere di cosa si occupino gli scienziati, il che a sua volta mette a rischio la crescita dell'intero paese, soprattutto in concorrenza con gli USA e l'Unione Sovietica. Luddisti! Così li chiama, i suoi oppositori.

Snow mise il dito nella piaga, non c'è dubbio; all'epoca, nei giorni di gloria dell'industrializzazione, quando proprio i fisici stavano cambiando il mondo, era preoccupante che gran parte dell'intellighenzia del paese avesse un'idea vaghissima di quel che stava succedendo e una comprensione alquanto superficiale dei metodi delle scienze naturali. D'altra parte gli scienziati non erano neanche loro senza macchia, e i tempi, come si è detto, sono cambiati. Oggi il ruolo della fisica nella costruzione della società è meno evidente, e nel corso degli ultimi cinquant'anni almeno la fisica quantistica si è avvicinata alla filosofia, con la conseguenza che l'abisso non è più così profondo, neanche in Inghilterra. Ma il concetto - le due culture - sopravvive, ed è dolorosamente attuale nel rapporto tra le discipline umanistiche e quel ramo della scienza che al momento sta cambiando il mondo, e cioè la biologia. Non mi riferisco alle nozioni ornitologiche, ma piuttosto alla genetica molecolare e ad altri tipi di ingegneria biologica.

Il problema è reale, tutti lo riconoscono e molti nutrono la speranza di un dialogo tra il mondo della ricerca e la vita culturale. Il teatro-scienza e altri progetti simili sono sempre più di frequente all'ordine del giorno, e anche se certi tentativi possono rivelarsi piuttosto forzati, come capita spesso all'arte pubblica su commissione, tuttavia rivelano un desiderio diffuso di maggiore comprensione. Ricercatori e artisti sono dopo tutto abbastanza simili, in quanto a creatività. E quando i due tipi si incontrano nella stessa persona capita qualcosa di speciale, che nessun contributo statale al mondo può ottenere. In questo senso, Lars Jonssoti è la risposta in carne e ossa alla domanda retorica formulata a suo tempo sulla New York Times Book Review dallo scrittore Vladimir Nabokov , egli stesso eminente entomologo, oltre che controverso romanziere. La domanda era questa: «Non esiste un crinale dove il versante del sapere scientifico si congiunge al fianco opposto dell'immaginazione artistica?»

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Pagina 137

Già, ho un amore sviscerato per i corsi d'acqua con bacini artificiali. Raramente vivo così intensamente la natura come quando posso starmene seduto al tavolino di un caffè a contemplare acque scintillanti e mormoranti, ricche di trote, mentre la ballerina gialla saltella su sassi coperti di muschio d'acqua e le libellule volano e si posano sulla carice e l'iris, sotto gli alti ontani, sulla riva. A Mörtfors, oltretutto, volava il cervo volante proprio mentre io ero lì, come a certificare che natura e cultura, in quel posto, avevano raggiunto una felice unione. Ma soprattutto c'era bellezza, come spesso accade nelle valli scoscese dove fiumi e ruscelli si sono lasciati incanalare per secoli da mugnai, fabbri e altri. I villaggi sorti in posti come questo sono spesso idilliaci e, ecco, autenticamente belli in un modo che ben pochi, se mai qualcuno, potrebbero contestare. Perfino in inverno, quando nessun'altra creatura che il merlo acquaiolo dà segno di vita, hanno il loro fascino speciale, la loro bellezza.

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Pagina 169

Gli piaceva raccontare che a New York aveva conosciuto Ernest Hemingway. Ovviamente non era vero, ma era un dettaglio che non guastava la storia, e a Västervik c'era sempre qualcuno che credeva a tutto quello che lui diceva. Più avanti rielaborò il racconto per includere anche Jack Kerouac. Per il resto, leggeva per lo più Harry Martinson, tutto quanto, più volte. E Axel Munthe , naturalmente.

Si erano incontrati un giorno nel cortile esterno del castello di Stoccolma. Nell'ultima fase della sua vita, Munthe abitava al castello, e papà era entrato nella guardia reale durante la guerra. Così, Capri diventò uno dei posti dove tornava regolarmente. Voleva fare un fotoreportage basato sulla Storia di San Michele di Munthe, e riuscì effettivamente ad accaparrarsi il copyright dei passi del libro che voleva illustrare. Ci lavorò per più di metà della sua vita, ma il progetto non fu mai portato a termine. L'ultima volta ci andammo insieme, come ospiti residenti grazie a un finanziamento, passando alcune settimane d'autunno a Villa San Michele. Era l'anno in cui aveva il doppio della mia età, 76 anni. A me restavano da scrivere un paio di capitoli di un libro che mi stava dando parecchie grane, e lui doveva scattare le ultime foto. Eravamo diventati buoni amici, a quel punto. Finché vivevo in casa, per i miei primi vent'anni, per lo più ci ignoravamo. Allora era solo mio padre, un po' distante, in genere tutto preso dalle sue cose.

Un paio di episodi di quel soggiorno a San Michele dicono qualcosa di lui, di com'era. Io restavo alla villa a scrivere per tutto il giorno, mentre lui scorrazzava per l'intera Anacapri come un ragazzino, con dei pantaloni corti un po' troppo larghi e la sua Hasselblad a tracolla, ma la sera mi trascinava nelle sue disparate avventure. Ormai conosceva parecchie persone del posto, tra cui Gunnar Adler-Karlsson e sua moglie Marianne, ma anche normalissimi italiani. Come ho detto, papà piaceva a tutti, e una sera che in paese c'era una specie di carnevale decise di partecipare. Io ero in dubbio. Non mi piacciono le feste di carnevale: una folla di gente travestita e ubriaca è una delle cose peggiori che io conosca. Ma papà riuscì ugualmente a convincermi.

Il problema era che praticamente tutti, nella parte settentrionale di Capri, avevano avuto la stessa idea. All'entrata dell'area della festa trovammo una fila in attesa lunga almeno cento metri. Io me ne torno a casa, dissi. Dai, aspetta un attimo, protestò lui, e mí trascinò lungo tutta la coda fino all'ingresso dove, nel suo italiano maccheronico, inventò un'impagabile storia su come lui, celebre fotografo svedese, facesse parte della giuria che doveva giudicare non so che tipo di esibizione. Da quel punto di vista - l'impudenza - era esattamente il mio contrario. Io provo quasi sempre imbarazzo, tanto più in quel momento, perciò mi rifiutai di entrare, anche se mi aveva presentato come il suo assistente, o forse proprio per quello. Lo vidi svanire tra la folla. Tornò a casa a notte fonda, allegro come un fringuello.

Il secondo episodio accadde l'ultimo giorno, prima che tornassimo a Roma. Mancava una foto, una panoramica presa dal vecchio covo di briganti sul Monte Barbarossa, dove attualmente l'Associazione ornitologica svedese ha una sua stazione di inanellamento. Salimmo insieme. I passeri solitari cantavano tra i ruderi. E ci ritrovammo lassù con il golfo di Napoli ai nostri piedi. Probabilmente non ci tornerò mai più, disse papà, e così in effetti è poi stato. Mancava una foto, una soltanto, e lui si sedette ad aspettare la luce giusta. Le nuvole attraversavano il cielo, il sole sbucava fuori ogni tanto. Una situazione particolare, non facile, ma lui era disposto ad aspettare. È così con la luce, disse. Bisogna aspettare il momento giusto. L'aveva imparato da Ansel Adams.

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