Autore Rebecca Solnit
CoautoreAna Teresa Fernández [immagini]
Titolo Gli uomini mi spiegano le cose
EdizionePonte alle Grazie, Milano, 2017, Saggi , pag. 170, ill., cop.fle., dim. 14x20,5x1,5 cm , Isbn 978-88-6833-694-3
OriginaleMen Explain Things to Me [2014]
TraduttoreSabrina Placidi
LettoreGiorgia Pezzali, 2017
Classe femminismo , sociologia , storia criminale












 

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Indice


Capitolo 1. Gli uomini mi spiegano le cose                        7

Capitolo 2. La guerra più lunga                                  23

Capitolo 3. Scontro di mondi in una suite di lusso               45

Capitolo 4. Una minaccia di cui rallegrarsi                      61

Capitolo 5. La nonna ragno                                       69

Capitolo 6. L'oscurità in Virginia Woolf                         83

Capitolo 7. La sindrome di Cassandra                            105

Capitolo 8. #YesAllWomen                                        123

Capitolo 9. Il vaso di Pandora e la forza di polizia volontaria 141

Illustrazioni                                                   159

Ringraziamenti                                                  161

Note                                                            165


 

 

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Pagina 9

Gli uomini mi spiegano le cose

2008


Ancora oggi non so perché io e Sallie ci prendemmo il disturbo di andare a quella festa sui pendii boscosi sopra Aspen. Erano tutti più anziani di noi, di una raffinatezza tediosa, abbastanza attempati da far passare noi due, donne sulla quarantina, per le ragazze della situazione. La casa era favolosa, se vi piacciono gli chalet in stile Ralph Lauren: una robusta baita di lusso a oltre 2700 metri di altitudine con tanto di palchi d'alce, kilim in quantità e una stufa a legna. Ci stavamo preparando per andarcene, quando il nostro ospite ci fermò: «No, restate un altro po', così facciamo due chiacchiere». Era un uomo imponente, che aveva fatto un sacco di soldi.

Ci fece aspettare mentre gli altri ospiti si allontanavano nella notte estiva, quindi ci fece sedere al suo tavolo di vero legno massello e mi disse: «Dunque. Ho sentito dire che lei ha scritto un paio di libri».

«A dire il vero, ne ho scritti diversi» risposi.

E lui, nel modo in cui si esorta un'amichetta di sette anni a raccontare delle sue lezioni di flauto, aggiunse: «E di che cosa parlano?»

In realtà, i sei o sette libri pubblicati fino a quel momento trattavano di vari argomenti, ma io iniziai a parlargli solo di quello che allora, in quella estate del 2003, era il più recente: River of Shadows: Eadweard Muybridge and the Technological Wild West, il mio saggio sull'annientamento del tempo e dello spazio e l'industrializzazione della vita quotidiana.

Lui mi interruppe non appena menzionai Muybridge. «Ha sentito parlare dell' importantissimo libro su Muybridge che è uscito quest'anno?»

Ero così compresa nel ruolo di ingenua assegnatomi da prendere tranquillamente in considerazione la possibilità che un altro libro sullo stesso argomento fosse uscito in contemporanea con il mio ma che, non so come, mi fosse sfuggito. Lui aveva già cominciato a parlarmi dell'importantissimo libro, con quello sguardo compiaciuto che conosco bene in un uomo intento a pontificare, gli occhi fissi sul lontano e indistinto orizzonte della propria autorità.

Qui, lasciatemi dire che la mia vita è piena di uomini adorabili, dalla lunga serie di direttori e editori che, fin dagli anni della mia gioventù, mi hanno ascoltata, incoraggiata e pubblicata, a mio fratello minore, persona di una generosità infinita, ai miei splendidi amici di cui si potrebbe dire, come del chierico dei Racconti di Canterbury che ancora ricordo dalle lezioni di Mister Pelen su Chaucer, «con ugual piacere era sempre disposto a imparare e ad insegnare». Ma ci sono anche questi altri uomini. E così, questo signor Importantissimo continuò compiaciuto a parlare del libro che avrei dovuto conoscere, finché Sallie lo interruppe, dicendo: «Lo ha scritto lei». O, comunque, tentò di interromperlo.

Ma lui continuò per la sua strada. Sallie dovette ripetere tre o quattro volte «Lo ha scritto lei» prima che lui, infine, recepisse il concetto. E a quel punto, come in un romanzo ottocentesco, si fece livido in volto. Che fossi io l'autrice dell'importantissimo libro che, come venne fuori, non aveva letto ma di cui aveva soltanto letto sulla Book Review del New York Times qualche mese prima, confuse a tal punto le nette categorie in cui era ordinato il suo universo da farlo restare di pietra, senza parole... Per un attimo, poi riprese il suo sproloquio. Essendo donne, educatamente aspettammo di non essere più a portata d'orecchio prima di scoppiare a ridere. E da allora non abbiamo più smesso.

Adoro questo genere di episodi, quando forze solitamente elusive e difficili da rilevare sgusciano fuori dall'erba e si mostrano in tutta la loro ovvietà, come – per dire – un anaconda che si è ingoiato una mucca o uno stronzo d'elefante sul tappeto.




RIDURRE AL SILENZIO PER ANNIENTARE


Sì, nelle varie situazioni saltano fuori persone di entrambi i sessi che si mettono a dissertare su cose irrilevanti o di teorie del complotto, ma l'assoluta e polemica sicurezza di sé del perfetto ignorante ha, nella mia esperienza, una connotazione di genere. Gli uomini (alcuni uomini) spiegano le cose, a me come ad altre donne, indipendentemente dal fatto che sappiano o no di cosa stanno parlando.

[...]

La violenza è un modo per azzittire le persone, per negargli voce e credibilità, per affermare il proprio diritto di controllare il diritto altrui di esistere. Negli Stati Uniti ogni giorno all'incirca tre donne vengono assassinate dal proprio compagno o da un ex: per le donne incinte di questo Paese rappresenta una delle principali cause di morte. Al cuore della lotta femminista affinché lo stupro, il date rape, la violenza sessuale coniugale, la violenza domestica e le molestie sessuali sul luogo di lavoro assumessero lo statuto giuridico di reati c'è stata la necessità di assicurare credibilità e ascolto alle donne.

Sono propensa a credere che le donne abbiano acquisito lo status di esseri umani quando si è cominciato a prendere sul serio questo genere di atti, quando i gravi problemi che ci frenano e ci uccidono sono stati perseguiti penalmente, dalla metà degli anni Settanta in poi: ossia, molto tempo dopo la mia nascita. E a chiunque stia per sostenere che le intimidazioni sessuali in ambito lavorativo non sono una questione di vita o di morte, voglio ricordare che a quanto pare il caporale di Marina Maria Lauterbach, vent'anni, è stata uccisa una sera d'inverno da un suo collega di grado superiore mentre era in attesa di testimoniare contro di lui perché l'aveva stuprata. I resti carbonizzati della ragazza, che era incinta, sono stati ritrovati nel braciere in muratura nel giardino dell'uomo.

Sentirsi dire, in maniera categorica, che lui sa di cosa sta parlando mentre lei non lo sa, anche quando è un elemento di poco conto all'interno di una conversazione, perpetua la bruttezza di questo mondo e ne soffoca la luce. Dopo la pubblicazione del mio libro Wanderlust nel 2000, mi sono scoperta più capace di resistere alla prepotenza che mi vorrebbe dissuadere dal mio personale modo di percepire e interpretare le cose. Più o meno in quel periodò, in un paio di occasioni ebbi da obiettare sul comportamento di un uomo, con l'unico risultato di sentirmi dire che le cose non erano andate affatto come dicevo io, che era la mia opinione soggettiva, che le cose me le immaginavo, che ero nervosa e in mala fede: insomma, mi comportavo da femmina.

Per buona parte della mia vita avrei dubitato di me e avrei fatto marcia indietro. Possedere una reputazione pubblica come saggista storica mi aiutò a restare salda nella mia posizione, ma una tale iniezione di fiducia è privilegio di poche donne, e in questo pianeta di sette miliardi di individui miliardi di donne si sentiranno dire che non sono testimoni attendibili della loro stessa vita, che la verità non gli appartiene, né ora né mai. Ciò va ben oltre gli uomini che spiegano le cose, e appartiene allo stesso arcipelago di arroganza.

Gli uomini mi spiegano le cose, tuttora. E nessun uomo si è mai scusato per avermi spiegato, a torto, cose che io so e che loro non sanno. Non è ancora successo, ma potrebbe, visto che secondo le tavole attuariali forse mi restano più o meno altri quarant'anni di vita. Anche se di certo non mi faccio illusioni.

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Pagina 35

UN ABISSO TRA DUE MONDI


Lo stupro e altri atti di violenza, fino all'assassinio, così come le minacce di violenza, costituiscono lo sbarramento eretto da alcuni uomini per cercare di controllare le donne, e per la maggior parte delle donne la paura di quella violenza è così limitante da farci l'abitudine e a malapena rendersene conto – e noi a malapena ce ne occupiamo. Esistono delle eccezioni: la scorsa estate una persona mi ha scritto descrivendomi una lezione svoltasi al college in cui alle studentesse era stato chiesto che cosa facessero per evitare di essere stuprate. Le ragazze descrissero una complicata serie di strategie per stare sempre all'erta, limitandosi l'accesso al mondo e prendendo precauzioni, ammettendo in sostanza che il pensiero dello stupro non le abbandonava mai (mentre i giovani uomini presenti alla lezione, aggiungeva colui che mi scriveva, ascoltavano attoniti a bocca spalancata). Per pochi minuti l'abisso che divideva i loro mondi era diventato improvvisamente visibile.

Del resto, questo è un argomento di cui non si parla, anche se su Internet circola una tabella dal titolo «Dieci consigli per evitare uno stupro». Di vademecum così le giovani donne se ne sentono presentare anche troppo spesso; quello, però, aveva una variante sovversiva. Forniva consigli come il seguente: «Portati dietro un fischietto! Se hai paura di aggredire 'accidentalmente' qualcuno, puoi darlo alla persona che è con te, così potrà chiamare aiuto». Anche se fa ridere, questo elenco di consigli evidenzia qualcosa di terribile: di solito le regole da applicare in questo genere di situazioni scaricano l'intero onere della prevenzione addosso alle potenziali vittime, considerando la violenza come un dato certo. Non esiste una ragione valida (ma esistono molte cattive ragioni) perché nei college si passi più tempo a spiegare alle donne come salvarsi dai predatori invece di raccomandare all'altra metà degli studenti di non comportarsi da predatori.

Ormai le minacce di aggressione sessuale sembrano essere una consuetudine sul web. Alla fine del 2011 la giornalista britannica Laurie Penny scriveva:

A quanto pare, su Internet un'opinione è come una minigonna. Avere un'opinione e sfoggiarla è in un certo senso come chiedere a una massa amorfa di frustrati da tastiera, quasi tutti maschi, di dirti come vorrebbero stuprarti, ucciderti o pisciarti addosso. Questa settimana, dopo una marea di minacce particolarmente pesanti, ho deciso di pubblicare alcuni di quei messaggi su Twitter e sono stata sommersa di risposte. In tanti erano increduli che fossi oggetto di un simile odio, e ancora di più le persone che hanno cominciato a raccontare le loro esperienze di molestie, intimidazioni e abusi.

Nelle community di giochi online le donne sono molestate, minacciate, costrette ad abbandonare. Anita Sarkeesian, analista femminista dei media che ha documentato episodi simili, ha ricevuto sostegno al proprio lavoro ma anche, come ha scritto un giornalista, «un'altra ondata di violente minacce personali di tono veramente aggressivo, con tentativi di hackeraggio ai danni dei suoi account. E c'è stato un uomo in Ontario che ha deciso di creare un videogioco online in cui si può prendere a pugni l'immagine di Anita: se la colpisci ripetutamente, ecco che su di lei compaiono lividi e tagli». La differenza fra questi giocatori online e gli uomini talebani che lo scorso ottobre hanno tentato di assassinare la quattordicenne Malala Yousafzai per aver parlato a favore del diritto all'istruzione per le donne pakistane è solo una differenza di grado. Gli uni e gli altri cercano di mettere a tacere le donne e di punirle perché pretendono voce, potere e il diritto di partecipare. Benvenute nel Maschistan.

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Pagina 47

Scontro di mondi in una suite di lusso

RIFLESSIONI SULL'FMI, SULL'INGIUSTIZIA GLOBALE E SU UNO SCONOSCIUTO IN UN VAGONE DI METROPOLITANA

2011


Come posso raccontare una storia che conosciamo già anche troppo bene? Lei si chiamava Africa. Lui Francia. Lui ha colonizzato lei, l'ha sfruttata, l'ha ridotta al silenzio, e persino quando tutto avrebbe dovuto essere finito da qualche decennio, lui ha continuato a trattare gli affari di lei con arroganza in luoghi come la Costa d'Avorio, un nome impostole per i suoi prodotti di esportazione, non per la sua identità.

Lei si chiamava Asia. Lui si chiamava Europa. Il nome di lei era silenzio. Quello di lui era potere. Il nome di lei era povertà. Quello di lui ricchezza. Lei si chiamava Ciò che appartiene a lei, ma che cosa possedeva? Lui si chiamava Ciò che appartiene a lui, e presupponeva che tutto fosse suo, compresa lei, e pensava di potersela prendere senza dover chiedere e senza pagarne le conseguenze. Era una storia molto vecchia, anche se i suoi effetti erano un po' mutati negli ultimi decenni. Ma questa volta le conseguenze stanno scuotendo parecchie fondamenta — e di una bella scrollata, evidentemente, quella fondamenta avevano proprio bisogno.

Chi potrebbe mai scrivere una favola tanto scontata e tanto indelicata come quella che ci è appena stata raccontata? A quanto riportato, il potentissimo direttore del Fondo Monetario Internazionale, organizzazione mondiale che ha prodotto la povertà di massa e l'ingiustizia economica, ha aggredito una cameriera d'albergo, una donna africana immigrata, nella suite di lusso di un hotel newyorchese.

[...]




IL RUFFIANO CHE SOSTIENE IL NORD DEL MONDO


C'è un assioma che un tempo era caro ai biologi evoluzionisti: «l'ontogenesi ricapitola la filogenesi», ossia lo sviluppo embrionale dell'individuo ripete quello dell'evoluzione della specie di appartenenza. L'ontogenesi di questa presunta aggressione riproduce la filogenesi del Fondo Monetario Internazionale? Dopo tutto, l'organizzazione fu fondata verso la fine della Seconda guerra mondiale nell'ambito della famigerata conferenza di Bretton Woods che avrebbe imposto le visioni economiche dell'America a tutto il resto del mondo.

Nelle intenzioni l'FMI doveva essere un istituto di credito per favorire lo sviluppo dei Paesi, ma negli anni Ottanta era ormai un'organizzazione guidata da un'ideologia: il libero scambio e il fondamentalismo del libero mercato. Utilizzava i suoi prestiti per conquistare un potere immenso sulle economie e le politiche dei Paesi del Sud del mondo.

Se continuò ad accrescere il proprio potere per tutti gli anni Novanta, nel XXI secolo l'FMI ha cominciato a perderlo, grazie all'efficacia dell'opposizione popolare verso le sue politiche economiche e al collasso economico che queste ultime avevano prodotto. Strauss-Kahn era stato chiamato a salvare dalla rovina un'organizzazione che nel 2008 aveva dovuto vendere le sue riserve auree e reinventarsi una missione.

Lei si chiamava Africa. Lui si chiamava Fondo Monetario Internazionale. Lui la mise nella condizione di essere depredata, di restare senza assistenza sanitaria, di fare la fame. Ne fece terra bruciata per arricchire i suoi amici. Lei si chiamava Sud del mondo. Lui si chiamava Washington Consensus. Ma la serie di successi di lui stava per esaurirsi e la stella di lei stava sorgendo.

È stato l'FMI a creare le condizioni economiche che hanno annientato l'economia argentina nel 2001, ed è stata la rivolta contro l'FMI (e altre forze neoliberiste) che nel decennio scorso ha ispirato la rinascita dell'America Latina. Qualunque sia la vostra opinione su Hugo Chávez, sono stati i prestiti del Venezuela, Paese ricco di petrolio, che hanno permesso all'Argentina di estinguere rapidamente i propri debiti con l'FMI così da poter stabilire una politica economica autonoma e più sana.

L'FMI era una potenza rapace, che ha aperto i Paesi in via di sviluppo all'aggressione economica del Nord opulento e delle potenti multinazionali. Ha ricoperto il ruolo del ruffiano. Forse lo ricopre ancora. Ma dopo le manifestazioni antiglobalizzazione di Seattle che nel 1999 hanno avviato un movimento mondiale è iniziata la rivolta contro l'FMI. Le nuove forze hanno vinto in America Latina, mutando il quadro di ogni dibattito economico successivo e arricchendo la nostra immaginazione in termini di economie e possibilità.

Oggi l'FMI è allo sbando, l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ha un ruolo per lo più marginale, il NAFTA (Accordo Nordamericano per il Libero Scambio) è oggetto quasi universale di vituperio, la Zona di Libero Scambio delle Americhe (FTAA) cancellata (anche se gli accordi bilaterali per il libero commercio vanno avanti), e tanta parte del mondo ha imparato parecchio dal corso accelerato di politica economica dell'ultimo decennio.

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Pagina 85

L'oscurità in Virginia Woolf

ABBRACCIARE L'INESPLICABILE

2009


«Il futuro è oscuro, il che tutto sommato è la cosa migliore che possa essere il futuro, credo» scriveva Virginia Woolf sul suo diario il 18 gennaio 1915, quando aveva quasi trentatré anni e la Prima guerra mondiale stava incominciando a trasformarsi in una disastrosa carneficina di dimensioni mai viste destinata a durare anni. Il Belgio era sotto occupazione, il continente era in guerra, e molte nazioni europee stavano invadendo anche altre regioni del globo; era stato appena aperto il canale di Panama, l'economia statunitense era in pessima forma, in Italia un terremoto aveva appena ucciso ventinovemila persone, gli Zeppelin stavano per attaccare Yarmouth, inaugurando l'era dei bombardamenti aerei contro i civili, e di lì a poche settimane sul fronte occidentale i tedeschi avrebbero usato per la prima volta i gas velenosi. Tuttavia, può darsi che Woolf stesse scrivendo del suo futuro piuttosto che di quello del mondo.

Non erano trascorsi ancora sei mesi dall'attacco di follia o depressione che l'aveva spinta a tentare il suicidio, ed era sotto cura o sorveglianza infermieristica. Fino a quel momento, in effetti, la sua follia e la guerra avevano seguito un calendario analogo, ma Woolf si riprese mentre la guerra proseguì la sua discesa per quasi altri quattro sanguinosi anni. Il futuro è oscuro, il che tutto sommato è la cosa migliore che possa essere il futuro, credo: una dichiarazione straordinaria, la quale afferma che l'ignoto non va trasformato in noto con false predizioni o con la proiezione di fosche narrazioni politiche o ideologiche: è una celebrazione dell'oscurità, ma che conserva un margine di dubbio – come indica quel credo – su ciò che afferma.

La maggior parte delle persone ha paura del buio. In senso letterale quando si tratta di bambini, mentre molti adulti temono soprattutto l'oscurità rappresentata dall'ignoto, dall'invisibile, dall'indistinto. Eppure, la notte in cui è impossibile distinguere e definire rapidamente è la stessa notte in cui si fa l'amore, in cui le cose si mescolano, cambiano, diventano incantate, si risvegliano, si impregnano, diventano possedute, sprigionate, rinnovate.

Quando ho iniziato a scrivere questo saggio mi sono procurata un libro di Laurence Gonzales sulla sopravvivenza negli ambienti naturali e vi ho scovato questo passaggio significativo: «Il progetto, un ricordo del futuro, incontra la realtà per vedere se tutto funziona». L'autore intende dire che quando l'uno e l'altra sembrano incompatibili spesso ci aggrappiamo al progetto, ignorando i segnali che la realtà ci invia, e così ci mettiamo nei guai. Spaventati dall'oscurità dell'ignoto, dagli spazi in cui la visione può essere solo indistinta, spesso scegliamo il buio degli occhi chiusi, dell'ignoranza. «Secondo gli studiosi, gli individui tendono ad assorbire le informazioni come conferma dei propri modelli mentali» prosegue Gonzales. «Siamo ottimisti di natura, se l'ottimismo significa che crediamo di vedere il mondo com'è. E sotto l'influsso di un progetto è molto facile vedere quello che vogliamo vedere». È compito degli scrittori e degli esploratori vedere di più, viaggiare leggeri in quanto a preconcetti, entrare nel buio con gli occhi aperti.

[...]




GUARDARE, DISTOGLIERE LO SGUARDO, GUARDARE DI NUOVO


Ho iniziato il mio libro con quella frase sull'oscurità. La saggista e critica culturale Susan Sontag , la cui Woolf non è decisamente la mia Woolf, nel 2003 aprì il suo libro sull'empatia e la fotografia, Davanti al dolore degli altri , citando una Woolf più tarda. Iniziava in questo modo: «Nel giugno del 1938 Virginia Woolf pubblicò Le tre ghinee, riflessioni coraggiose e poco apprezzate sulle radici della guerra». Sontag proseguiva analizzando il rifiuto del «noi» da parte di Woolf nella domanda che inaugurava il libro: «Cosa, secondo lei, noi dobbiamo fare per prevenire la guerra?» — alla quale lei invece rispondeva affermando: «Io in quanto donna non ho patria». Dopo di che Sontag discute con Woolf su quel «noi», sulla fotografia, sulla possibilità di prevenire la guerra. Lo fa in maniera rispettosa, con la consapevolezza che la situazione storica era mutata radicalmente (inclusa la condizione di outsider delle donne), con quell'idealismo utopico dell'epoca di Woolf che immaginava la fine assoluta della guerra. E non discute solo con Woolf. Discute con se stessa, rigettando l'affermazione fatta in precedenza nel suo fondamentale libro Sulla fotografia, ossia che si diventa insensibili alle immagini delle atrocità, e meditando su come si debba continuare a guardare. Perché le atrocità non hanno fine e in un modo o nell'altro dobbiamo affrontarle.

Sontag chiude il suo libro dedicando le sue riflessioni a coloro che sono in mezzo a conflitti come quelli che hanno sconvolto l'Iraq e l'Afghanistan. Delle persone coinvolte nella guerra scrive: «'Noi' — e questo 'noi' include tutti quelli che non hanno mai vissuto nulla di simile a ciò che loro hanno affrontato — non capiamo. Non ce la facciamo. Non riusciamo a immaginare quanto è terribile e terrificante la guerra; e quanto normale diventa. Non capiamo, non immaginiamo». Anche Sontag ci invita ad abbracciare l'oscurità, l'ignoto, l'imperscrutabile, a non lasciare che il fiume di immagini che si riversa su di noi ci convinca che siamo in grado di capire, oppure ci renda insensibili alla sofferenza. Secondo Sontag la conoscenza ha la capacità sia di anestetizzare che di destare le emozioni. Non crede, tuttavia, che sia possibile appianare le contraddizioni; ci concede di continuare a guardare le foto; e concede ai soggetti di quelle foto il diritto di avere riconosciuta l'inconoscibilità della loro esperienza. E lei stessa ammette che, anche se non possiamo capire fino in fondo, magari non resteremo indifferenti.

Sontag non affronta la nostra incapacità di reagire al dolore quando è del tutto invisibile, poiché anche in questa era di quotidiane sollecitazioni via mail che parlano di perdite e orrori e di documenti amatoriali o professionali su guerre e crisi tante cose restano invisibili. I regimi, poi, fanno di tutto per nascondere i cadaveri, i prigionieri, i crimini e la corruzione: eppure, persino oggi, forse a qualcuno importerà.

La Sontag che inaugurò la sua carriera pubblica con un saggio intitolato Contro l'interpretazione era lei stessa una sostenitrice dell'indeterminato. Scriveva nell'incipit: «La prima 'esperienza' dell'arte fu probabilmente quella di trovarsi di fronte un fenomeno d'incantesimo, di magia». E più oltre aggiungeva: «La nostra è una delle epoche in cui l'idea dell'interpretazione è generalmente reazionaria e soffocante. [...] L'interpretazione è la vendetta dell'intelletto sull'arte. [...] Interpretare è impoverire». Dopo di che, naturalmente, ha proseguito con una lunga serie di interpretazioni che, nei loro momenti migliori, si sono unite a Woolf nell'opporsi agli incasellamenti, alle ipersemplificazioni e alle facili conclusioni.

[...]




PASSEGGIATE D'INVERNO


Secondo me le basi della speranza sono, semplicemente: ignorare cosa succederà e sapere che l'improbabile e l'inimmaginabile accadranno con una certa regolarità. E che la storia non ufficiale del mondo mostra come l'impegno degli individui e i movimenti popolari possano influenzarla e ottenere qualcosa, anche se non si può prevedere come e se ce la faremo, né quanto tempo ci vorrà.

La disperazione è una forma di certezza, la certezza che il futuro assomiglierà molto al presente o che rispetto al presente andrà peggiorando; la disperazione è un ricordo certo del futuro, per dirla con le riecheggianti parole di Gonzales. Altrettanto sicuro di ciò che succederà è l'ottimismo. L'una e l'altro sono la base per la non azione. La speranza può essere la consapevolezza che non possediamo quel ricordo e che la realtà non combacia necessariamente con i nostri piani; la speranza come capacità creativa può derivare da quella che il poeta romantico John Keats chiamava «Capacità Negativa».

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Pagina 98

PRINCIPI DI INDETERMINAZIONE


Ciò che Woolf auspica è una versione più introspettiva dell'«io contengo moltitudini» del poeta Walt Whitman , una versione più velata dell'«io è un altro» del poeta Arthur Rimbaud. Auspica una situazione che non costringa a un'identità unitaria, la quale costituisce una limitazione o addirittura una forma di repressione. Spesso si è rilevato come Woolf faccia questo per i personaggi nei suoi romanzi, ma meno spesso come, nei saggi, ne fornisca un esempio con la voce critica, investigativa che celebra ed espande, e lo esige con il suo insistere sulla molteplicità, sull'irriducibilità, e forse sul mistero, se il mistero è la facoltà che una cosa possiede di continuare a divenire, di andare oltre, di essere incircoscrivibile, di contenere altro.

I saggi di Virginia Woolf sono spesso sia manifesti sia esempi o investigazioni di questa coscienza sconfinata, di questo principio di indeterminazione. Sono inoltre dei modelli di controcritica, dato il pensiero diffuso che la critica abbia come scopo quello di definire con esattezza le cose. Quando ero una critica d'arte, scherzando dicevo che i musei amano gli artisti come i tassidermisti amano i cervi, e una traccia di quel desiderio di fissare, di rendere stabile, certa e definita l'indeterminata, nebulosa e audace opera degli artisti è presente in molti di coloro che lavorano in quel reclusorio talvolta chiamato «mondo dell'arte».

Un'analoga aggressività verso la natura sfuggente del lavoro e le ambiguità dell'intenzione e del significato dell'artista esiste anche nella critica letteraria e nel sapere accademico: un desiderio di rendere certo ciò che è incerto, di conoscere ciò che è inconoscibile, di trasformare il volo nel cielo in un arrosto nel piatto, di classificare e contenere. Ciò che sfugge alla categorizzazione può sfuggire del tutto all'osservazione.

Esiste un genere di controcritica che cerca di ampliare l'opera d'arte, creando legami, spalancandone i significati, aprendo alle possibilità. Una bella critica può liberare un'opera d'arte che così potrà essere vista nella sua interezza, restare viva, intrattenere un dialogo senza fine che continui a nutrire l'immaginazione. Non contro l'interpretazione, ma contro le delimitazioni, contro l'uccisione dello spirito. Una critica così è già di per sé grande arte.

Questo è un genere di critica che non mette in competizione il critico con il testo, che non mira a essere autorevole. Ciò che tenta di fare è piuttosto viaggiare insieme all'opera e alle sue idee, stimolarla a sbocciare, e invitare gli altri a una conversazione che forse sembrava inaccessibile, far nascere relazioni di cui probabilmente non ci si era accorti e aprire porte che magari erano chiuse a chiave. Questo è un genere di critica che rispetta il fondamentale mistero di un'opera d'arte, il quale ne costituisce in parte la bellezza e la godibilità, caratteristiche entrambe irriducibili e soggettive. La critica della peggior specie cerca di avere l'ultima parola e di farci restare tutti in silenzio; la grande critica apre uno scambio che non ha più fine.

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Pagina 102

Il mio intento in questa ventina d'anni vissuti grazie alle parole è stato cercare di scoprire o di inventare un linguaggio per descrivere i lati inafferrabili, incalcolabili, i piaceri e i significati (impossibili da classificare) che stanno al cuore delle cose. Il mio amico Chip Ward parla di «tirannia del quantificabile», di come ciò che può essere misurato abbia quasi sempre la priorità su ciò che non può esserlo: il profitto privato sul bene pubblico, rapidità ed efficienza sul piacere e sulla qualità, la funzionalità sui misteri e i significati, che servono molto di più alla nostra sopravvivenza e a cose che vanno oltre la sopravvivenza, a esistenze con un valore e un senso che ci sopravvivono, per fondare una civiltà in cui valga la pena vivere.

La tirannia del quantificabile è in parte l'incapacità da parte del linguaggio e del discorso di descrivere fenomeni più complessi, sottili e fluidi, ma anche il fallimento di coloro che formulano opinioni e prendono decisioni per comprendere e valutare questi aspetti più sfuggenti. È difficile, talvolta persino impossibile valutare ciò che non può essere nominato o descritto, e dunque il compito di nominare e descrivere è fondamentale in qualsiasi ribellione contro lo status quo del capitalismo e del consumismo. In definitiva, la distruzione della Terra è dovuta in parte, forse in larga parte, al fallimento dell'immaginazione o al fatto che quest'ultima è messa in ombra da sistemi di contabilità incapaci di tenere conto di ciò che conta. La rivolta contro questa distruzione è una rivolta dell'immaginazione a favore delle sottigliezze, dei piaceri che il denaro non può comprare e che le grandi aziende non possono imporre, dell'essere fabbricatori piuttosto che consumatori di senso, di ciò che è lento, del tortuoso, delle digressioni, delle esplorazioni, dell'arcano, dell'incerto.

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Pagina 130

LE NOSTRE ARMI SONO LE PAROLE


Nel 1963 Betty Friedan pubblicò un libro che rappresenta una pietra miliare, The Feminine Mystique , in cui scriveva: «Il problema senza nome – il quale è semplicemente il fatto che si impedisce alle donne americane di sviluppare pienamente le loro capacità umane – incide sulla salute fisica e mentale del Paese più di ogni altra malattia conosciuta». Negli anni successivi quel problema assunse vari nomi: sciovinismo maschile, poi sessismo, misoginia, disparità, oppressione. La cura sarebbe stata la «liberazione della donna», la «liberazione femminile», o «femminismo». Queste parole, che forse oggi appaiono logorate dall'uso, allora erano una novità.

A partire dal manifesto di Friedan, il femminismo ha in parte continuato a dare un nome alle cose. L'espressione sexual harassment («molestie sessuali»), per esempio, fu coniata negli anni Settanta, usata per la prima volta nel sistema giuridico negli anni Ottanta, ottenendo status giuridico da parte della Corte Suprema nel 1986 e vasta diffusione mediatica dopo la bufera suscitata dalla testimonianza di Anita Hill contro il suo ex capo Clarence Thomas, nell'audizione del 1991 di fronte al Senato riguardo alla nomina di Thomas a giudice della Corte Suprema. La squadra degli interroganti, tutti maschi, trattò Hill con sufficienza e arroganza, mentre molti uomini nel Senato e altrove non riuscivano a capire che problema ci fosse nel fatto che un superiore rivolgesse parole oscene a una sottoposta o che pretendesse da lei prestazioni sessuali. Oppure negavano che questo genere di cose potesse accadere.

Molte donne si indignarono. Quel momento, come nel weekend successivo alla strage di Isla Vista, fu lo spartiacque che segnò un cambiamento nel dibattito, il momento in cui chi capiva quale fosse il problema fece pressioni su chi non lo capiva, illuminando qualche testa e modernizzando un po' le idee. Per qualche tempo sulle auto si videro gli adesivi con la scritta «I believe you, Anita»: io ti credo, Anita. Oggi le molestie sessuali sul luogo di lavoro e nelle università sono molto meno frequenti e chi ne è vittima denuncia molto più spesso, anche grazie alla coraggiosa testimonianza di Hill e al terremoto che ne seguì.

Parecchi termini utilizzati per decidere sul diritto di esistenza di una donna sono un'invenzione recente: domestic violence («violenza domestica»), per esempio, ha sostituito wife-beating («percosse alla moglie») quando la legge ha cominciato a dimostrare un (piccolo) interesse per la questione. Negli Stati Uniti ancora oggi viene picchiata una donna ogni nove secondi, ma grazie alle eroiche campagne femministe degli anni Settanta e Ottanta adesso le donne hanno accesso a provvedimenti giudiziari che ogni tanto funzionano, che ogni tanto riescono a proteggerle e che – ancora più sporadicamente – fanno finire in galera i loro persecutori. Così riportava nel 1990 il Journal of the American Medical Association: «Studi condotti dall'ufficio del Surgeon General rivelano che la violenza domestica è la principale causa di lesioni per le donne di età compresa tra i 15 e i 44 anni, più degli incidenti stradali, delle aggressioni a scopo di rapina e delle morti per cancro considerati complessivamente».

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Sei anni fa, quando mi misi a scrivere il saggio Gli uomini mi spiegano le cose, a sorprendermi fu che pur avendo iniziato con un ridicolo episodio di saccenteria paternalista da parte di un uomo, ho finito parlando di stupri e di assassini. Abbiamo la tendenza a trattare la violenza e l'abuso di potere come se potessero essere suddivisi con esattezza in categorie distinte: molestie, intimidazioni, minacce, percosse, stupro, omicidio. Adesso, però, mi rendo conto di che cosa stavo dicendo: che si tratta di una china pericolosa. Ecco perché bisogna affrontare questa china, invece di dividere in compartimenti le varie forme di misoginia e affrontarle una alla volta. Facendo questo abbiamo frammentato il quadro, abbiamo visto le singole parti ma non l'insieme.

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Di recente il grande pensatore anarchico David Graeber ha scritto:

Che cos'è una rivoluzione? Pensavamo di saperlo. La rivoluzione era la presa del potere da parte di una certa forza popolare che mirava a trasformare la natura stessa del sistema politico, sociale ed economico del Paese in cui si era verificata, in genere sulla base di un dato sogno di una società giusta. Oggi viviamo in un'epoca in cui, se le armate ribelli entrano in una città e la mettono sottosopra, o un'insurrezione di massa rovescia un dittatore, è raro che vi siano tali implicazioni; quando avviene una profonda trasformazione sociale, come, per esempio, la nascita del femminismo, questa assume in genere una forma del tutto diversa. Non è che non esistano anche i sogni rivoluzionari, ma è raro che i rivoluzionari di oggi pensino di poterli mettere in pratica con l'equivalente moderno della presa della Bastiglia. In momenti simili, in genere la cosa migliore da fare è tornare alla storia che già si conosce e chiedersi: «Ma le rivoluzioni sono mai state davvero come pensavamo?»

Secondo Graeber non lo sono mai state: non sono state principalmente prese di potere in un determinato regime, ma rotture dal vasto impatto dalle quali si sono generate nuove idee e nuove istituzioni. Come scrive ancora Graeber, «la Rivoluzione russa del 1917 fu un evento mondiale che di fatto causò l'avvento del comunismo sovietico, tanto quanto il New Deal e la nascita dello stato sociale in molti Paesi europei», che poi significa che il comune assunto secondo cui la Rivoluzione russa ha avuto esiti meramente catastrofici può essere capovolto. «L'ultima della serie» prosegue Graeber, «è stata la rivoluzione globale del 1968 che, in modo simile a quella del 1848, si scatenò quasi ovunque, dalla Cina al Messico, non conquistò il potere da nessuna parte, ma riuscì comunque a cambiare tutto. Si era trattato di una rivolta contro le istituzioni statali e a favore dell'inseparabilità di liberazione personale e liberazione politica, la cui eredità più duratura è con ogni probabilità la nascita del femminismo moderno».

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